Allamano, un carisma per essere sempre “di moda”


Sono arrivati, come frutto del Capitolo da poco celebrato, gli «Atti», un modesto fascicoletto i cui semi, macinati e impastati, dovranno diventare il pane buono che alimenterà la futura attività missionaria, «rivitalizzata e ristrutturata». Tra le varie indicazioni, non poteva sfuggirci un’annotazione, che così suona: «Al Consiglio Continentale spetta mantenere vivo nel Continente l’approfondimento, lo studio, l’inculturazione e la trasmissione del carisma… promuovendo momenti di spiritualità centrati sul carisma (esercizi spirituali allamaniani, pedagogia allamaniana, ecc.)» (cfr. nn. 30 e 169). Poche e timide righe per ricordare a tutti i missionari l’importanza di rivitalizzare il nostro carisma (cioè la nostra stessa vocazione) che ha come sua limpida sorgente Giuseppe Allamano. Il suddetto suggerimento non sarebbe tanto originale, se non fosse per due paroline decisamente interessanti e cioè che, oltre allo studio e approfondimento del carisma, bisognerebbe curarne anche «l’inculturazione e la trasmissione». Per questo, l’invito viene rivolto non tanto all’Istituto nella sua totalità (come avveniva nel passato), ma ai singoli Continenti dove sono presenti i missionari e che, dal Capitolo, sono usciti come i veri protagonisti della missione Imc. Queste parole allargano il cuore perché, anche se appena sussurrate, ci confermano che l’Allamano non è un dono solo per noi, italiani o europei, ma può esserlo anche per altri popoli, altre culture, altri mondi diversi dal nostro (Allamano, missionario doc!). In più, questo dono non è relegato in un museo o in un santuario, ma è vivo e deve essere accolto da quelli che amano e invocano il Fondatore dei missionari della Consolata; occorre, perciò, «trasmettere e far conoscere» ciò che lui è stato per la Chiesa e il mondo. Proprio come avevano scritto i missionari, preparandosi al Capitolo: «Tra le ricchezze del passato che ci appartengono, c’è anche Giuseppe Allamano, un gioiello prezioso che non può rimanere chiuso in un forziere per paura di perderlo, ma deve tornare ad essere indossato, perché è soltanto esibendolo che potremo far vedere a chi ci incontra come il suo stile possa adattarsi anche alla moda del tempo presente. Uno dei nostri obiettivi consiste nel far nuovamente “indossare” il Fondatore. Non è parlando di lui che se ne mostra la bellezza spirituale, è “vivendone il carisma” che il suo pensiero, la sua dimensione spirituale, la sua ricchezza e profondità possono tornarci a dire qualcosa, anche oggi».

Giacomo Mazzotti

 

«Voi badate ai miei comandi, alle mie esortazioni e anche ai semplici desideri, che ben conoscete. Ecco ciò che vorrei da voi: la buona volontà, lo sforzo generoso e costante di assimilare lo spirito dell’Istituto». (Giuseppe Allamano)


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Tratta e sfruttamento nel 21° secolo


Negli ultimi 5 anni 89 milioni di persone nel mondo hanno subito una qualche forma di schiavitù. Nel solo 2016 sono stati 40 milioni: 25 per lavoro forzato, 15 per matrimoni forzati. Una persona ogni 185. Il 51% donne, il 20% bambine il 21% uomini, l’8% bambini. Il solo lavoro forzato genera un giro di denaro di 150 miliardi di dollari l’anno. E il contrasto non sembra efficace.

La tratta di esseri umani (in inglese trafficking in human beings) è stata definita nel 2000 dalle Nazioni Unite come «reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere […] a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi. […] Il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere un bambino ai fini di sfruttamento sono considerati “tratta di persone” anche se non comportano l’utilizzo di nessuno dei mezzi [descritti sopra]»1.

Leggere dietro i dati

Secondo le ultime stime dell’Oil2 (Organizzazione internazionale del lavoro), nel 2016 circa 40,3 milioni di uomini, donne e bambini di ogni parte del globo sono stati vittime di una qualche forma di schiavitù: sfruttati o costretti a sposarsi sotto minacce, violenze, coercizioni, inganni, abusi di potere. Di essi, erano 15,4 milioni le vittime di matrimoni forzati (il 37% minorenni), e 24,9 milioni le vittime di lavoro forzato (il 71% di sesso femminile, vedi box per maggiori dettagli). Nel mondo, nel 2016, erano 151,6 milioni i minori lavoratori (tra i 5 e i 17 anni).

Le cifre sono grosse, ma lette in un report dell’Oil rischiano di rimanere inerti. Diventa un esercizio assai utile allora provare a guardare dietro e dentro i dati per comprendere l’urgenza con cui l’umanità deve prendersi carico della situazione per tentare una risoluzione.

Il libro di Anna Pozzi, Mercanti di Schiavi, cerca di farlo. Snocciolando una quantità enorme di altri dati e informazioni, presenta situazioni di paesi concreti, racconta storie di persone, vittime o attiviste, e l’operato di gruppi e associazioni che in tutto il mondo lottano perché la schiavitù venga affrontata e debellata.

Dal mondo all’Italia

Diviso in tre parti, il volume accompagna il lettore in un itinerario che inizia da uno sguardo generale sul fenomeno, prosegue con l’approfondimento delle diverse forme di schiavismo presenti nel mondo e si conclude con un approfondimento sulla situazione italiana.

Nella prima parte, infatti, Anna Pozzi, offre al lettore uno sguardo complessimo con una rassegna globale delle forme dello schiavismo contemporaneo, i numeri del fenomeno, le sue cause e le azioni – spesso fallimentari – che, a livello di istituzioni internazionali, si sta cercando di sviluppare per contrastarlo. Nella seconda ci presenta alcuni approfondimenti tematici: la schiavitù come sfruttamento sessuale, la piaga del lavoro minorile, le spose bambine, la tratta e il traffico di persone legati alle migrazioni, il mercato delle gravidanze; ma anche alcuni approfondimenti legati a specifiche aree del pianeta: il Brasile, il Medio Oriente, l’Africa, l’Asia. La terza parte punta l’obiettivo sulla nostra Italia, a dimostrazione del fatto che «praticamente nessun paese è immune da questo fenomeno». La produzione dei pomodori, ma anche quella di frutta e di uva da vino, lo sfruttamento della prostituzione, il lavoro schiavo nel campo del tessile, il caso delle nigeriane e quello dei minori stranieri non accompagnati che «spariscono».

Far crescere la consapevolezza

Anna Pozzi affronta il vasto mondo della tratta e dello sfruttamento con lo stile giornalistico che la contraddistingue3. Descrive il fenomeno, lo racconta attraverso i dati, la narrazione di singoli casi, ma anche attraverso il racconto di quali sono le strategie, purtroppo spesso inefficaci, di istituzioni come l’Onu, l’Ue, la Corte penale internazionale, gli organi dei singoli paesi. Tra le pagine più belle ci sono quelle in cui l’autrice presenta le azioni concrete messe in campo da alcuni dei tanti uomini e donne che si battono in tutto il mondo su questo tema. Ecco allora emergere alcune figure come padre Mussie Zerai, la suora comboniana Azezet in Israele, il premio Nobel per la pace Kailash Satyarthi che ha liberato 80mila piccoli schiavi in India e in altri paesi. Nel libro si parla anche dell’impegno di papa Francesco, ad esempio istituendo la prima giornata mondiale ecclesiale contro la tratta di persone l’8 febbraio 2015.

Il bilancio che viene fuori dal libro non sembra essere molto positivo, nonostante le molte iniziative dal basso e le dichiarazioni di leader mondiali. Più volte Anna Pozzi afferma, infatti, che sembra non esserci ancora una reale presa di coscienza della gravità di questa piaga. Tra i molti dati che offre c’è, ad esempio, quello che parla di un altissimo livello d’impunità, anche in Italia, quello che indica un aumento del numero di minori coinvolti, quello che ci parla di una grande adattabilità delle organizzazioni criminali al mutamento delle situazioni, oppure quello che dà a noi italiani il primato nel turismo sessuale.

Immaginiamo che sia proprio da questo quadro poco positivo che ha preso le mosse il lavoro di approfondimento e denuncia di Anna Pozzi, allo scopo di costruire una maggiore consapevolezza da parte di tutti su una problematica solo apparentemente lontana.

Luca Lorusso

Note:

  1. Dall’articolo 3 del Protocollo addizionale sulla tratta del 2000, uno dei tre Protocolli addizionali alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale organizzato.

  2. Il rapporto Global estimates of modern slavery. Forced labour and forced marriage (Stime globali della schiavitù moderna: lavoro forzato e matrimonio forzato) pubblicato a settembre 2017 dall’Oil e da Walk Free Foundation in collaborazione con l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). Una bella presentazione si trova su http://www.alliance87.org/2017ge
  3. È giornalista e scrittrice, lavora per «Mondo e Missione», la rivista del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere), ha realizzato diverse iniziative per parlare del problema della schiavitù, anche in collaborazione con suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata molto attiva su questo fronte, e tra le altre cose ha anche fondato un’associazione dal nome «Slaves no more».

Il libro

Anna Pozzi, Mercanti di schiavi. Tratta e sfruttamento nel XXI secolo,
San Paolo, Milano 2016, 215 pagine, 14,50 Euro.


Dati su
Matrimoni e lavoro forzato

  • 15,4 milioni di vittime di matrimoni forzati
    Il 63% ha contratto il matrimonio in età adulta (tra essi, il 77% è donna). Il 37% ha subito il matrimonio da minorenne (tra loro è femmina il 96% e il 44% aveva meno di 15 anni). La più giovane vittima registrata dall’Oil aveva 9 anni al momento del matrimonio. In totale, l’84% delle vittime è di sesso femminile.
  • 24,9 milioni di vittime di lavoro forzato
    Il 71% è donna o bambina. In totale, una vittima su quattro è minorenne (il 25%).
    Il lavoro forzato viene distinto in tre tipologie:

    • 1- Il lavoro forzato presso privati che conta 16 milioni di vittime nel 2016. Di questi, il 59% sono di sesso femminile, l’81% adulti, il 19% minorenni.
    • Le vittime di questa forma di schiavitù ritrovano la libertà in media dopo 20,5 mesi. Sul totale, il 24,3% è impiegata in lavori domestici, il 18,2% nell’edilizia, il 15,1% nell’industria; l’11,3% nell’agricoltura e nella pesca, il 9,5% in alberghi e ristorazione, il 9,2% nel commercio all’ingrosso, il 6,8% nei servizi personali, il 4% nelle miniere, l’1,6% nell’accattonaggio e in altro.
    • 2- Il lavoro forzato imposto dalle autorità statali che conta 4,1 milioni di persone. Di queste, alcune lavorano per anni, molte per poche settimane.
    • 3- Lo sfruttamento sessuale forzato che coinvolge 4,8 milioni di vittime. Tenute, in media, per 23,4 mesi nella loro situazione, la stragrande maggioranza (99,4%) sono donne e ragazze. I minori rappresentano il 21,3% del totale.
  • Il tasso di schiavitù per area del mondo
    Altro dato interessante e il tasso di schiavitù per aree geografiche: il più alto è in Africa, con 7,6 vittime ogni 1.000 persone. Il secondo nell’area Asia meridionale e Pacifico, con il 6,1 per mille, il terzo in Europa e Asia centrale, con il 3,9 per mille, il quarto negli stati arabi, con il 3,3 per mille e infine nelle Americhe con 1,9 vittime ogni mille persone.

L.L.

 


     

 

 

 

La collana «#VoltiDiSperanza»
delle edizioni Velar / Marna

Diari dal Sud

Piccoli libri dai quali emergono volti e storie di persone incontrate dall’autore in diversi luoghi del mondo. Racconti di viaggio per ricordare situazioni drammatiche su cui porre attenzione: dalle violenze dell’Isis in Iraq a quelle di Al-Shabaab a Garissa, in Kenya del Nord, dalla guerra silenziosa nel cuore del Messico, alla violazione dei diritti umani nel carcere di Challapalca in Perù.
È la voce di don Luigi Ginami quella che attraversa le pagine dei volumetti editi a partire da dicembre 2016 dalle edizioni Velar Marna. Una voce che racconta, nello stile semplice e diretto dei diari di viaggio, paesi e situazioni di cui è bene non perdere il ricordo.

Sacerdote della diocesi di Bergamo e presidente della Fondazione Santina Onlus, don Luigi parte almeno due volte all’anno per un luogo diverso allo scopo di incontrare le comunità aiutate dalla sua associazione. Da ogni racconto di viaggio emergono volti e storie di persone. E sono proprio alcune di queste a dare il titolo a ciascuno dei volumetti: Nasren, ad esempio, è una ragazzina yazida conosciuta nel campo profughi Dawidiya, a 70 km da Mosul, in Iraq, affetta da «Disturbo post traumatico da stress» causato dall’incontro con gli uomini del Califfato nero nell’agosto del 2014, quando aveva 11 anni. Janet Akinyi, giovane donna di 22 anni, che don Luigi non ha incontrato perché assassinata il 2 aprile 2015 nell’università di Garissa, in Kenya, assieme ad altri 147 studenti, da un commando di al-Shabaab. Padre Dominic, sacerdote vietnamita che ha subito la prigionia durante il regime comunista nel suo paese.

 

 

 

 

Il ricavato della vendita dei volumi andrà ai progetti della Fondazione Santina, in favore delle realtà raccontate.




Sommario MC Novembre 2017

In questo numero il dossier è dedicato alla realtà, problemi sociali, politici e religiosi e opportunità dell’immigrazione in Germania. Tre articoli affrontano il problema della terra e dell’ambiente: la deforestazione del Borneo, i conflitti per la terra in Brasile e l’esperienza alternativa della «Permacultura». C’è poi una condivisione di vita missionaria dalla Corea del Sud, più le nostre caratteristiche rubriche. Buona lettura

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???  03  ???   Editoriale: Lacrime nascoste di missionari

Dossier

???  35 ???  Germania:  Essere tedeschi di Simone Zoppellaro

Articoli

??? 10  ???   Malaysia: Borneo: giungla addio di Marco Bello
??? 15  ???   Corea del Sud: L’ospite d’onore di Gian Paolo Lamberto
??? 43  ???  Brasile: Una pallottola non manca mai di Paolo Moiola
??? 53  ???  Italia: Una prospettiva per guardare il futuro di Silvia C. Turrin

Rubriche

??? 05  ???   Cari Missionari
??? 08             Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto
??? 23  ???   Pregare 9. Pregare, un collirio per la vista del cuore di Paolo Farinella
??? 19  ???   Cooperando: Come sta la sanità in Costa d’Avorio di Chiara Giovetti
??? 50  ???   I Perdenti /29 Don Giuseppe Rossi di Mario Bandera
??? 58  ???   Librarsi: Mercanti di schiavi di Luca Lorusso
??? 61  ???  ALLAMANO a cura di Sergio Frassetto


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Sommario MC ottobre 2017

Sommario di questo numero di ottobre, il mese missionario. Si conclude la fotostoria sul capitolo generale dei missionari della Consolata che diventano anche responsabili di una parrocchia a Taiwan; poi c’è spazio per la Malaysia, per l’esperienza di Nawal che salva i migranti nel Mediterraneo e di padre Solalinde che da lo stesso in Messico; da leggere è il dossier che ci fa conoscere Kim, il giovane dittatore della Corea del Nord, che sembra in rotta di collisione col mondo. E poi le rubriche di Farinella, Bandera, Chiara Giovetti; e le lettere; e per concludere le belle pagine di AMICO. Buona lettura.

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???  03  ???   Editoriale: Missione … e Malaria

Dossier

???  35 ???    Kim, il dittatore incompreso di Piergiorgio Pescali

Articoli

??? 10  ???   Malaysia: Allah, ma non per tutti di Marco Bello
??? 15  ???   Italia: Ogni Continente la «sua» Missione di Gigi Anataloni
??? 21  ???   Taiwan: Nell’isola «bella» un parroco africano di Eugenio Boatella
??? 26  ???  Italia-Mediterraneo: È il cuore che mi paga di Luca Lorusso
??? 51  ???  Messico: Un salto nel buio di Paolo Moiola
??? 58  ???  Islam: Finché il jihadismo rimane «halal» di Angela Lano

Rubriche

??? 05  ???   Cari Missionari
??? 08             Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto
??? 31  ???   Insegnaci a pregare 8. Pregare nel cuore della lotta di Paolo Farinella
??? 62  ???   Nostra Madre Terra: Zanzare e plasmodium, una coppia pericolosa di Angelo Dutto
??? 66  ???   Cooperando: La Cina in Africa: che cosa è cambiato /1 di Chiara Giovetti
??? 70  ???   I Perdenti /28 Admira Ismic e Bosko Brkic di Mario Bandera
??? 73  ???  AMICO a cura di Luca Lorusso


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Cari Missionari: di Rohingya, Trasparenza e preghiera e missione


Rohingya

Preg. P. Gigi,
vorrei condividere alcune riflessioni sul dossier sui Rohingya che mi aveva gentilmente mandato. Il testo è buono anche se non aggiornato, per questioni di tempo, alla seduta del Tribunale dei Popoli che ha avuto luogo il 6-7 marzo 2017 a Londra. C’è però un punto su cui ho avuto qualche perplessità. L’articolista sembra essere incorso in un’ingenuità quando riferisce un’opinione secondo cui la situazione di questa popolazione sembra più difficile ora che non sotto la dittatura. Ma è chiaro che sotto la dittatura tutti erano compressi e bloccati e nessuno poteva fare ascoltare le proprie ragioni, né questo popolo né nessun altro gruppo o persona perseguitati, ma questo non vuol dire che «si stava meglio quando si stava peggio», facile slogan qualunquista e filofascista. Io sono sempre convinta che Aung San Suu Kyi sia una persona straordinaria e piena di buoni propositi, ma questioni così antiche e complesse hanno bisogno comunque di un tempo un po’ disteso per la loro risoluzione. Quindi segnalare e sollecitare va bene, ma condannare no. Forse l’autore non voleva dire questo, ma la forma usata induce un po’ a pensarlo e mi sembra perlomeno un’ingenuità. Cordiali saluti. Grazie,

Maria Rosaria Salvini
26/07/2017

Abbiamo passato la email a Piergiorgio Pescali per un suo commento.

Nel mio lungo dossier (e soprattutto nei documenti, interviste, libri elencati come riferimenti alla fine del dossier e che ne sono l’ossatura) delle mancanze di Aung San Suu Kyi (Assk) si è parlato ben poco. Anzi, direi quasi nulla rispetto a quello che avrei dovuto fare. E volutamente, proprio perché si è voluto lasciare spazio alla comprensione della complicata vicenda dei Rohingya che ha le sue radici nella colonizzazione britannica, è scoppiata durante la Seconda Guerra Mondiale con la lotta tra britannici (appoggiati dalle etnie non bamar) e giapponesi (appoggiati dal governo di Aung San e dai Bamar [Birmani]), per divampare negli anni Settanta, durante la giunta militare.

Se c’è stata «ingenuità», allora sono in buona compagnia, perché della stessa ingenuità si sono «macchiati» Muhammad Yunus, Josè Ramos Horta, Shirin Ebadi, Desmund Tutu, Malala Yousafzai, Emma Bonino, Oscar Arias, lo stesso Ufficio di Diritti Umani delle Nazioni Unite, l’Ufficio di Coordinamento degli Affari Umanitari (Unocha), l’Unicef e molte altre singole persone e agenzie umanitarie che hanno chiesto (inutilmente) ad Assk di condannare «senza se e senza ma» le violenze di cui sono vittime i Rohingya e di mostrare (inutilmente) la volontà del governo di risolvere il problema non solo dei musulmani, ma delle decine di etnie che costellano il paese. Hanno peccato di ingenuità anche quelle persone che per anni hanno sostenuto Aung San Suu Kyi ed oggi si ritrovano inevitabilmente delusi a criticare il suo operato. Famosa l’intervista (proprio sui Rohingya) della Bbc (una delle emittenti che più hanno appoggiato la Lady durante il periodo di prigionia) in cui la stessa Assk ad un certo punto è sbottata dicendo che nessuno l’aveva avvisata che l’intervistatrice, troppo precisa nell’elencare le mancanze del governo, era musulmana. Già, perché la signora Assk, dopo aver tanto predicato contro il regime militare, oggi si trova a giocare dalla stessa parte del Tatmadaw (l’esercito birmano), negando i diritti ai lavoratori, negando le terre ai contadini di Monywa, negando ai Kachin il diritto all’autodeterminazione e giustificando le rappresaglie dell’esercito. Tutto in nome di una identità unitaria del paese.

Ho iniziato a frequentare il Myanmar nel 1988, quando ancora si chiamava Birmania. Ero presente al primo comizio pubblico di Assk e ho incontrato la Lady diverse volte prima, durante e dopo gli arresti domiciliari, quando in Occidente era una perfetta sconosciuta. Ho incontrato Michel Aris, il marito, il primo figlio Alexander e i numerosi professori con cui Assk ha lavorato ad Oxford. La figura che ne ho tratto è molto diversa dall’ Assk edulcorata e iconica propinata dal film agiografico di Luc Besson, forse per via degli astii e dei rancori che si erano instaurati tra queste figure e Assk. La sua miopia politica è sempre stata evidente, ma è stata celata da validi collaboratori (oggi purtroppo morti o troppo anziani) e dal fatto che, dalla sua casa – in cui era agli arresti domiciliari -, poteva criticare (anzi, per usare un termine più adatto, «condannare») senza dover dimostrare le sue capacità di governo. Ma quando si è trovata a dover affrontare i problemi che lei stessa, con ingenuità, denunciando, aveva detto che avrebbe risolto, ecco che è crollata perdendo consensi.

Assk ha accentrato su di sé tutte le cariche più importanti del governo, anche quelle che permettono di interloquire direttamente sul problema dei Rohingya (Assk è ministro degli Esteri, primo ministro, Consigliere di Stato, presidente del Comitato Centrale di pace nel Rakine, presidente del Comitato Unione e Dialogo, ministro dell’Ufficio del Presidente).

Sono stato espulso dal Myanmar di Than Shwe; diverse volte mi sono stati sequestrati appunti, fotografie, macchine fotografiche, registrazioni. Non sarò certo io, quindi, a chiedere il ritorno al regime militare, ma di fronte a quanto sta avvenendo non basta «segnalare», occorre anche «condannare» quello che è contro giustizia e democrazia.

Piergiorgio Pescali
09/08/2017


Trasparenza

Gentile direttore,
la lettera «Sorpresa e tristezza» (MC 7/2017 p.7) merita qualche ulteriore riflessione. Nessuno nega la possibilità, anche all’interno di una stimata congregazione come quella dei MC, che esistano mele marce. Succede nelle migliori famiglie […]. L’interesse delle rimanenti mele buone dovrebbe però essere quello di evitare che in futuro possano accadere fenomeni fraudolenti, e questo solitamente nelle diocesi e negli ordini religiosi non accade. Una gestione più trasparente dei beni mobili e immobili di proprietà sarebbe un valido antidoto. Se per esempio venisse rispettata la legge che impone di pubblicare i bilanci, e quindi rendere conto di come vengono amministrati i beni e quale provenienza abbiano, sarebbe sicuramente più difficile per i malintenzionati, interni ed esterni agli enti, agire in modo fraudolento.

La fondazione Missioni Consolata Onlus pubblica già da anni i bilanci, ma non evidenzia le proprietà e nulla viene riportato riguardo il loro utilizzo, anche se nella stragrande maggioranza dei casi queste informazioni non farebbero che aumentare il grado di soddisfazione in chi, riponendo in voi fiducia, vi affida donazioni e lasciti. L’ente cui lei appartiene è già innovativo: è abitudine infatti della maggior parte degli enti religiosi cattolici di nascondere ogni dato relativo, nonostante la Cei imponga da anni di redigere un bilancio anche alla più sperduta parrocchia, fino a quando l’ennesimo scandalo li obbliga a difendersi da accuse fondate urlando al complotto.

Gli amici protestanti su questo argomento sono avanti anni luce e vengono ripagati dall’opinione pubblica con un 8 per mille decuplicato rispetto al numero di fedeli. MC dovrebbe farsi promotore all’interno del mondo cattolico torinese, magari in compagnia dei Camilliani che hanno recentemente subito analoghe vicissitudini, di una campagna perlomeno torinese che invochi più trasparenza nelle gestioni economiche. Sono sicuro che troverebbe numerosi compagni di viaggio. Con sincero affetto,

Paolo Macina, Torino
04/07/2017

Caro Sig. Paolo,
concordo pienamente con lei sulla necessità della trasparenza, anche se ritengo che per essere davvero tale debba essere molto di più che un fatto legale o di pubbliche relazioni. Trasparenza si sposa anzitutto con giustizia, con onestà, con gratuità, con servizio e, per noi missionari e religiosi, con povertà. Per una vera trasparenza non basta certo aumentare o inasprire le leggi (dello stato, con 75mila leggi e 160mila norme varie), i canoni (del diritto Canonico, 1.752) o le normative (delle Costituzioni e Direttori di Diocesi e Istituti religiosi).

È una realtà che abbiamo sperimentato anche durante il nostro recente Capitolo generale: abbiamo una caterva di normative, documenti, direttorii, regolamenti, ma senza una profonda conversione personale, una vera passione per Gesù Cristo che diventa imitazione del suo stile di vita, tutto rischia di restare lettera morta. Grazie quindi della sua email, che esprime una preoccupazione che va ben oltre la nostra piccola realtà e coinvolge tutta la Chiesa.

Avevo preparato una lunga e articolata risposta, poi l’ho messa da parte perché troppo lunga per queste pagine. Ho fatto qualche ricerca e non mi risulta che esista una normativa precisa che impone agli enti religiosi di pubblicare i bilanci. Ci sono però tre punti chiave che tutti i documenti della Chiesa sottolineano: trasparenza, legalità e chiarezza. Fossero sempre applicati, avremmo risolto molti problemi.

Concludo con una mia considerazione. Gesù dice che dobbiamo valutare «dai frutti». Noi missionari della Consolata, e tutti gli altri missionari, non siamo un’organizzazione segreta di stampo mafioso o massonico, agiamo (e facciamo anche sbagli) alla luce del sole. Giudicateci dalle nostre opere.

In questi giorni di ferragosto abbiamo appena sepolto un missionario che in vita sua (50 anni di messa celebrati lo scorso anno) ha perso il conto di quanti milioni di lire (e forse di euro) ha maneggiato per aiutare i poveri e dare la possibilità a tantissimi bambini (quanti? non credo abbia mai tenuto il conto) di andare a scuola in Kenya, in Colombia e in Ecuador e costruirsi così un futuro diverso. Padre Giuseppe Ramponi è uno dei tanti Missionari della Consolata, l’810°, che ha dato tutto per amore, anche se ha fatto i suoi sbagli. La sua ricchezza e la sua debolezza? L’amore per i bambini poveri dell’Ecuador per i quali «rompeva» tutti, affidati ora al buon cuore dei suoi tanti amici.


Preghiera per ringraziare

Egregio sacerdote don Paolo Farinella,
sono particolarmente interessato alla sua rubrica «Non sappiamo pregare». Ogni sera dedico ore cercando di interpretare per un rinnovo della mia coscienza, un modo nuovo per ringraziare il Signore per quanto mi ha concesso nell’arco della mia vita: 83 anni. Purtroppo debbo rinunciare a malincuore, causa la mia scarsa preparazione teologica. Sono credente e praticante, apro e chiudo la giornata ringraziando il Signore, come mi ha insegnato la mia cara mamma. Le chiedo umilmente scusa per quanto espresso.

Domenico Musso
Rivoli, 20/07/2017

Risponde don Paolo.

Carissimo Domenico, il suo modo di pregare altro non è che l’Eucaristia: ringraziare. È il vertice della preghiera cristiana. È vero che noi non sappiamo pregare (lo dice san Paolo!), ma è anche vero che lo Spirito Santo agisce in noi «sia che dormiamo sia che vegliamo» (sempre lo stesso san Paolo!). Mi permetta un piccolo suggerimento: non si accanisca più nel dedicare ore nell’interpretazione, si abbandoni soltanto, chiuda gli occhi e dica con san Tommaso, l’apostolo birichino: «Mio Signore e mio Dio». Il resto è in più. Pregare non è consumarsi nella ricerca, ma nell’imparare a «vedere Dio» con gli occhi del cuore. Lei è figlio, Dio Padre l’ama come è e non pretende nulla di più, perché lui è abituato a prendersi tutto con dolcezza e tenerezza: «Signore, non ho niente da darti, solo me stesso, prendimi così perché ti cerco con la stessa sete della cerva. Mi basta sapere che tu ci sei. Grazie e buon giorno… buona notte, Signore!». Un caro saluto affettuoso e grazie per la sua bella lettera.

Don Paolo Farinella
11/08/2017


Di pecorelle «buone» e altro ancora

Cari missionari,
ho ricevuto il numero di giugno [di MC, ed è] stata una gradita sorpresa, [vedere che] avete preso sul serio certe argomentazioni che non sono solo mie. Vorrei fare però delle precisazioni, [cominciando dal] titolo [perché] non intendevo discutere se siate o no ancora cattolici. Un giudizio temerario.

Titolo. Io intendevo enfatizzare che la rivista si occupa sempre più di cose collaterali. Le pagine più direttamente di formazione sono quelle di don Farinella che io poi ho criticato e ora aggiungo anche che non possono essere rivolte a tutti. Anzi lo sono, ma spesso sono o troppo difficili, o troppo provocatorie o troppo e solo per le pecorelle smarrite, troppo poco per quelle che non vorrebbero smarrirsi e per le quali ci sono sempre e solo rimproveri. Se però la scelta editoriale è questa lo si può dire, così si fa meno confusione. Però mi chiedo «chi si occupa delle pecorelle non smarrite?». In teoria sono 99 su 100, sappiamo che ora sono molte meno. Fa bene il pastore a inseguire quelle smarrite ma a me sembra che tanti pastori più che altro si occupino di rompere la staccionata e poi dicono, essendo noi ormai adulti, che non c’è né dentro né fuori (anzi guai a parlare di dentro e fuori, si è divisivi, scandalo) e le pecorelle «buone» devono con il dialogo convincere quelle altre. Anzi ormai siamo andati oltre e il dialogo non è più un mezzo ma il fine. Bisogna rimanere in dialogo, una sorta di stallo e se uno si convince, indurlo al dubbio che magari è meglio non convertirsi. Gesù però parlava di dentro e fuori, non è venuto a portare la pace, anzi la spada, era divisivo e ci ha indicato come esempio i bambini che credono con fiducia perché ha parlato la mamma e non gli adulti che discutono sempre tutto per partito preso. Mi scusi ma anche questa cosa dei cristiani adulti non mi va bene. Faccio un discorso fondamentalmente logico. Io credo che quelli che si definiscono come cristiani adulti intendano dire che hanno prima, diciamo, sentito il messaggio cristiano, l’hanno sottoposto a critica, girato e rigirato, hanno voluto fare come Tommaso e mettere il dito nella piaga, e poi e solo poi hanno accolto il messaggio. Ed è una cosa meritevole ma rimane il fatto che Gesù ama Tommaso ma «consiglia» di non fare come lui. L’esempio che indica è quello dei bambini e di quelli che credono senza mettere il dito nella piaga.

Fintanto che non si spiega in modo convincente quanto tutta questa pastorale creativa di questi cristiani adulti si accorda con gli insegnamenti di Gesù si fa una gran confusione, anzi purtroppo è già stata fatta, e quindi si fa un danno alla Chiesa. Io credo che faccia cosa buona il cristiano che non dice di essere adulto così si evita almeno la confusione. Di tutto c’è bisogno tranne che di ulteriore confusione.

[…] Ribadisco i complimenti per l’ottimo articolo riguardo alla Siria e tutta l’informazione che fate riguardo il Medio Oriente che dovrebbe passare sui telegiornali e senza la quale si ha una immagine distorta della situazione. Cordiali saluti

Andrea Sari
10/07/2017

Caro Sig. Andrea,
come le ho scritto personalmente, ho tagliato la sua email che avrebbe occupato da sola non tre, ma ben quattro pagine. Cercherò di pubblicarne altre parti nei prossimi numeri. Per quanto riguarda il titolo, ha ragione. Sono caduto nella trappola di voler attirare l’attenzione a tutti i costi. Come quel titolo di prima pagina letto in questi giorni su un quotidiano: «Sala giochi in chiesa». Che? Hanno messo i videogames o le slot machine? No, solo un angolo dove i bambini possono giocare in pace.
A risentirci. Intanto lascio ai nostri amici lettori dire la loro sulle pecorelle non smarrite. Ogni bene a lei.


Preghiera e missione

Caro Direttore,
allego una preghiera ispirata dal Messaggio di Papa Francesco per la prossima 91a Giornata Missionaria Mondiale.

La missione al cuore della fede cristiana.

O Signore nostro Gesù Cristo crocifisso e glorioso,
Radunati attorno a Te, apostolo del Padre, continuamente ci riscopriamo Tuoi discepoli-missionari, accogliendo con intima gioia il Tuo invito ad annunciare il Vangelo dell’amore. Il fondamento della missione della Tua Chiesa, di cui siamo membra vive, è la forza trasformatrice del Tuo Vangelo, che è la Tua stessa Persona. Nutrendoci con la Tua Parola, che è Spirito e vita, riceviamo luce per seguirti con fiducia e coraggio, riconoscendoti nostra Via e indicandoti ai nostri fratelli.

Alla Tua scuola sperimentiamo che sei la Verità che ci rende liberi da ogni egoismo, ricevendo la Tua Vita. In ubbidienza al Padre Tuo e nostro, desideriamo imitarti, lasciandoci trasformare dallo Spirito Santo perché la nostra vita sia culto, proclamazione e irradiazione di Te, che continuamente ti fai carne in ogni situazione umana.

Tu mediante la missione della Tua Chiesa – tempo provvidenziale della salvezza nella storia – continui a evangelizzare e agire, diventando nostro contemporaneo, affinché chi ti accoglie con fede umile e carità operosa sperimenti il potere trasformante del Tuo Spirito vivificante, che rende fecondo il cuore e il creato, come fa la pioggia con la terra.

La Tua Pasqua è energia vitale che rinnova il mondo, facendo germogliare la risurrezione dove tutto sembra che sia morto. Chi si apre al Tuo Vangelo, si scopre gioiosamente chiamato a partecipare al mistero della Tua passione, morte e risurrezione.

Mediante il Battesimo liberi gli uomini dal dominio del peccato e della morte, facendoli rinascere come nuove creature dall’acqua e dallo Spirito. Mediante la Cresima effondi il sigillo del Tuo Santo Spirito, che fortifica i battezzati indicando loro itinerari e metodi nuovi di testimonianza e di vicinanza al prossimo. Mediante l’Eucaristia, farmaco d’immortalità, Ti fai Pane del cammino per continuare attraverso di noi, Tuo Corpo e Tua Sposa, la Tua missione di Buon Samaritano, curando le ferite dell’umanità dolorante, e di Buon Pastore, cercando appassionatamente chi si è smarrito per sentieri contorti e senza meta.

Divino Maestro, benedici in particolare i giovani perché siano viandanti della fede, felici di portarti in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra, vivendo la loro responsabilità missionaria con immaginazione e creatività.

Signore della Chiesa, suscita in ogni comunità cristiana il desiderio di uscire dai propri confini e dalle proprie sicurezze per raggiungere le periferie esistenziali e geografiche bisognose del Tuo Vangelo. Fa’ crescere in tutti noi un cuore missionario, perché rispondiamo alle vaste necessità dell’evangelizzazione con la preghiera, con la testimonianza della vita e con la comunione dei beni.

Maria, Madre dell’evangelizzazione, che – mossa dallo Spirito – hai accolto il Verbo della vita con umile fede, aiutaci a dire il nostro «eccomi» per collaborare a far risuonare nel nostro tempo il Vangelo della vita che vince la morte, perché a tutti giunga il dono della salvezza.

Lode, onore e gloria Te, Gesù Signore, il primo e il più grande evangelizzatore. Amen. Alleluia!

Don Francesco Dell’Orco
Bisceglie, 06/06/2017

 

 




Insegnaci a pregare 8:

Pregare nel cuore della lotta


Nella puntata precedente avevamo citato due esempi di preghiera, Mosè, il patriarca e profeta che con le mani alzate sconfigge Amalèk (cf Es 17,9-13) e la vedova del Vangelo di Luca che pretende giustizia da un giudice «che non temeva Dio» (Lc 18,1-8). Abbiamo esaminato per sommi capi la preghiera del gigante dell’AT, ora ci apprestiamo a considerare la vedova protagonista della «parabola sulla necessità di pregare sempre, senza mai stancarsi» (Lc 18,1). Due figure, un uomo e una donna, il più grande profeta della storia della salvezza, e una popolana, per giunta anonima, ma qualificata come «vedova», cioè un’emarginata della società.

Preghiera innocente o colpevole

La parabola della vedova e del «giudice che non temeva Dio» si trova in Lc 18,1-8 ed è esclusiva del terzo Vangelo dal momento che è assente negli altri. Il capitolo precedente, Lc 17, si chiude con la descrizione della fine del mondo e l’irruzione di Dio Giudice: la vedova e l’invito alla preghiera, quindi, devono essere letti in questo orizzonte escatologico che ruota attorno al tema della «Giustizia». Non si tratta di giustizia giuridica, da tribunale, ma di quell’attitudine radicale, interiore che, sola, può provocare lo svelamento delle ragioni e delle motivazioni che stanno al fondo delle scelte di ciascuno.

Nelle parole di Gesù si staglia potente la figura di una povera vedova che, forte del suo diritto, sta ritta davanti al giudice, forse corrotto. Nel rileggere la parabola, occorre superare un equivoco generato dalla traduzione italiana. L’ultima versione della Bibbia Cei-2008 parla di «parabola…sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). Nella precedente edizione del 1974, la stessa Bibbia-Cei ometteva l’avverbio di tempo «mai». Il testo greco dice «to dêin pàntote prosèuchesthai autoùs kài mê enkakêin», che tradotto alla lettera può essere reso così, sapendo che ogni traduttore è sempre un po’ traditore: «Sull’essere necessario sempre che essi preghino e non disertino/vengano meno/depongano le armi». L’espressione «non vengano meno» ha quindi il senso di «non si ritirino», cioè «non si rassegnino». Il verbo «enkakè? / ekka kè?» ha il significato di «agire male / stancarsi / venire meno / scoraggiarsi / perdersi d’animo». L’espressione si riferisce al militare che abbandona la lotta perché non gli importa più nulla di niente, quasi che, di fronte al pericolo, dicesse: ma chi me lo fa fare? A quale scopo? A riguardo scrive il biblista Giovanni Vannucci:

«“Senza stancarsi” è la debole e vaga traduzione di un’espressione greca che significa l’abbandono delle armi fatto da un soldato ignavo durante il combattimento; potremmo rendere meglio il testo originale traducendo “senza abbandonare le armi”, “senza disertare”; l’esaudimento della preghiera dipende dalla difficoltà inerente al cammino della preghiera» (Giovanni Vannucci, La vita senza fine; Servitium editrice, Milano 2012, 205).

In questo senso l’espressione evangelica di Luca dice che bisogna pregare «mentre» si lotta. Durante la lotta bisogna intensificare la preghiera per avere la forza di continuare a lottare e non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento depressivo fino al punto di disertare dalla vita, dall’impegno, dalla fatica di affrontare le difficoltà. Pregare, allora, significa immergersi nella vita con tutte le sue contraddizioni, sapendo che non siamo soli. Ci è vietata solo la diserzione, che può essere proprio il rifugiarsi nella preghiera parolaia, una macina a vuoto di vuote parole che ci illudono. In questo senso Lc è in sintonia con Mt quando nel «Padre nostro», invoca «non abbandonarci alla tentazione» (Mt 6,13), cioè nel cuore della lotta.

«Alla» o «nella» tentazione?
In greco c’è la preposizione «eis» che non indica solo direzione (verso la – alla) ma con-penetrazione/con-toccamento (dentro – nella) che esige un contatto. Forse non esiste una traduzione corretta in assoluto: non abbandonarci «alla tentazione» può significare ogni volta che si presenta la tentazione; «nella tentazione» può indicare una forma permanente di tentazione (vedi l’esigenza di «pregare per non cadere in tentazione» – Mt 26.41). Che si usi una traduzione o l’altra, il significato potrebbe essere parafrasato con «non abbandonarci “mai” perché viviamo in uno stato permanente di tentazione».

Qui trova anche fondamento cristiano la tradizione rabbinica che esige l’amore di Dio «anche con la tendenza al male» (v. puntata 6a commento allo Shemà’ Israel), invocando il dono della fortezza per reggere gli assalti del male che come grossi «tori di Basan [ci] circondano… ci accerchiano» (Sal 22/21,13) per farci venire meno e disertare dall’impegno dell’alleanza.

A Giovanni Vannucci (1913-1984), biblista profeta dell’Ordine dei Servi di Maria del secolo XX, fa eco un grande teologo e filosofo suo contemporaneo, padre Ernesto Balducci (1922-1992) dell’Ordine degli Scolopi, che commentando il brano lucano afferma lucidamente:

«A chi vive, come noi viviamo, ad un certo livello di cultura, non è più lecito pregare con innocenza. Che voglio dire? Voglio dire che la preghiera, come invocazione a Dio, come appello a Dio, e di questo ci parla la Scrittura di oggi, per essere autentica, presuppone che si sia messo in opera tutto quello che è nelle nostre possibilità per realizzare l’obiettivo che riteniamo buono e necessario. Se noi preghiamo invece che operare, se noi preghiamo invece che cercare l’efficacia del nostro operare, non c’è dubbio che la preghiera va incontro alle nostre accidie e alle nostre inadempienze, presume di riempire i vuoti della nostra umanità. E siccome in un mondo qual è il nostro, generalmente colto, la consapevolezza delle ragioni delle ingiustizie, dei soggetti storici che ne portano la responsabilità, è viva e presente, pregare perché avvenga la giustizia nel mondo è atto ambiguo o, a volte, addirittura iniquo se si accompagna al disimpegno. Ecco perché è difficile che la nostra preghiera sia innocente. Essa porta su di sé i riflessi oscuri delle nostre complicità con le cause di quel male che vorremmo eliminato da questo mondo. È come quando, in certe comunità che io ho frequentato, si faceva la preghiera per i poveri. Si trattava di comunità strutturalmente solidali con il mondo dei ricchi e quindi impegnate a mantenere le condizioni che favoriscono la divisione del mondo fra ricchi e poveri e che poi si costruivano per l’occasione una buona coscienza con la preghiera periodica per i poveri» (Ernesto Balducci, Il Mandorlo e il Fuoco, Borla, Roma 1979, 344).

Nel cuore della lotta

Pregare nel cuore della lotta, dunque, senza diserzione! Quanta distanza dalle preghiere meccaniche macina-vuote-parole, ripetitive e distratte, staccate dal corpo, dall’anima e dalla stessa realtà. Dice padre Balducci che è difficile che la «nostra preghiera sia innocente» perché per essere tale deve essere la coscienza della «sapienza» della nostra identità: chi sono io che in questo momento «presumo» di pregare? «Dove» sto per essere certo di pregare? Qual è il mio rapporto con il dramma della fame, della morte di gran parte dell’umanità, cioè di carne di Dio perché suoi figli e mia perché fratelli e sorelle? Qual è il grado di complicità mio nel sostenere la struttura dell’ingiustizia di questo mondo che trangugia i deboli e osanna i potenti? Quale consapevolezza ne ho, mentre dico di pregare? Sono sicuro che quel Dio che io penso di pregare non sia lo stesso che parlò agli Ebrei del secolo VIII a.C. per mezzo del profeta Isaia? Che disse:

«11Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. 12Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? 13Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. 14Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. 15Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. 16Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, 17imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,11-17).

C’è, dunque, fin dai tempi remoti, una preghiera che può non essere esaudita e non lo dice solo il profeta Isaia, ma lo conferma anche Gesù: «Dai loro frutti dunque li riconoscerete. Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,20-21). Da ciò è chiaro che pregare è direttamente proporzionale alla volontà di Dio. Quando mai, pregando, ci siamo chiesti in che rapporto fossimo con la volontà di Dio su di noi o in che modo la nostra vita esprimesse il rapporto con essa? La preghiera ha regole serie che non possono essere espunte o disattese, come lo stesso Gesù afferma nel discorso della montagna, cioè nel programma costituzionale del suo regno:

«5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. 7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,5-8).

Per il Vangelo, la preghiera non ama l’ostentazione, la finzione e lo spreco di parole, tre tentazioni che oggi abbondano e circondano peggio dei «grossi tori di Basan». Il modello mediatico impone di portare sempre e comunque una maschera per esporsi al pubblico nelle vesti di qualcuno che non si è, in quanto vale solo ciò che appare, come in certi candelieri di legno liguri che, per risparmiare, erano dipinti in oro solo dalla metà che era esposta al pubblico – la parte in vista – mentre la parte rivolta all’altare era lasciata grezza.

Il modello scandaloso

Il modello di preghiera che presenta Gesù è scandaloso e irritante per la cultura e la religione del suo tempo: una donna, per giunta vedova, quanto di più insignificante e inconsistente si potesse immaginare. Essa è l’emblema della emarginazione assoluta, insieme agli orfani e ai menomati (ciechi, zoppi, storpi, lebbrosi), in una parola «poveri». Eppure la fortezza della «nullità» della vedova è la consapevolezza del suo diritto. Ella non si rassegna e non fugge, deve lottare e quindi non depone le armi, perché, decisa, si attesta nel cuore della battaglia, alle falde della verità e inchioda il giudice a compiere il suo dovere. È qui l’attuazione concreta del principio paolino:

«Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-28).

Alla luce di questo contesto, pregare vuol dire entrare nella logica del regno di Dio e capovolgere le prospettive del mondo perché tutto e ogni singola persona o avvenimento abbia un senso e lo abbia pieno. Se ognuno di noi è parte essenziale del regno di Dio, vuol dire che ne è anche responsabile e co-artefice. Nella prospettiva del regno, il nuovo modo di vivere le relazioni umane, instaurato da Gesù, pregare è riconoscere la signoria di Dio sulla propria vita e quindi affermare la propria dignità di liberi figli del Creatore e riconoscere a tutti gli altri la stessa dignità.

La preghiera, perciò, diventa un processo di crescita, un percorso di armonia che conduce alla maturità e quindi a una relazione affettiva con Dio, dove non conta più la modalità tecnica, ma unicamente la qualità del rapporto che si esprime in tutta l’ampiezza della gamma di una relazione d’amore, perché coinvolge i sensi, l’immaginazione, i sentimenti, la paura, i dubbi, la fatica, la tensione, la stanchezza, il bisogno di solitudine, la parola, il silenzio, il grido, l’angoscia, la gioia, l’abbandono, l’evasione e tutti gli sbalzi umorali a cui può essere assoggettato l’animo di una persona normale.

Pregare: imparare a sposare la mentalità di Dio

Se prendiamo il libro dei Salmi, che racchiude la preghiera secolare d’Israele e della Chiesa, vi scorgiamo tutta la gamma della dimensione psicologica della persona umana: dolore e gioia, angoscia e speranza, terrore e lode, richiesta di aiuto e ringraziamento, malattia e gioia di vivere, richiesta e abbandono, estasi e disperazione. Nulla di ciò che forma la vita umana vi è estraneo, perché pregare è vivere con Dio. La stessa Eucaristia, che è la preghiera per eccellenza della Chiesa, contiene i medesimi elementi: la richiesta di perdono, la parola, l’ascolto, l’anelito, la lode, la richiesta di aiuto, la professione di fede, la memoria storica, l’abbraccio, il silenzio, i sentimenti di fraternità e di gratuità, il dono, la pace e la missione come testimonianza.

Infine, pregare è l’urlo di disperazione e di amore con cui «pretendiamo» da Dio che sia al nostro fianco, cireneo perenne, nella nostra lotta, vero combattimento con il quale c’impegniamo a:

  • Non alimentare la guerra che impedisce alla pace di avere cittadinanza sulla terra.
  • Non tollerare la povertà ignobile che rende schiava la maggioranza dell’umanità.
  • Non partecipare al gioco di una società che vive di parole morte.
  • Non essere mai complici di manipolazioni di qualsiasi genere.
  • Non inquinare il mondo, causa del sovvertimento dell’ecosistema (pioggia e clima).
  • Condannare la ricchezza di pochi come atto fondativo di ingiustizia.
  • Contestare la struttura di un mondo che affoga nell’idolatria del superfluo e dello «scarto».
  • Creare ponti di congiunzione e non abissi di separazione e rifiuti.
  • Essere pazienti con chi sbaglia non una, ma «fino a settanta volte sette».
  • Esporre nella propria vita la misericordia che ciascuno di noi sperimenta per sé.
  • Usare sempre la parola per creare la comunicazione e non per la finzione esteriore.
  • Essere sempre noi stessi «immagine e somiglianza di Dio, tempio dello Spirito del Risorto.

La preghiera cristiana c’immerge nello sposalizio con la mentalità di Dio, perché più preghiamo più ci avviciniamo al modo di pensare di Dio e ne acquisiamo il metodo, che è sempre un metodo di misericordia e di pazienza, di possibilità e di riserva d’amore. La perseveranza nella preghiera ha solo questo obiettivo primario: educarci attraverso gli esercizi oranti ad imparare a vivere, ad agire e a pensare come vive, pensa e agisce Dio.

Paolo Farinella, prete
[8 – continua].


Segnaliamo alcuni dei libri su argomento biblico e liturgico pubblicati da Paolo Farinella con Gabrielli Editori (www.gabriellieditori.it).

? Il padre che fu madre. Rilettura moderna della parabola del “figliol prodigo” (2010)

? Bibbia, Parole Segreti Misteri (2008), [Pagine di esegesi di passi o termini difficili]

? Ritorno all’antica Messa. Nuovi problemi e interrogativi (2007) con prefazione di Padre Rinaldo Falsini, segretario della commissione conciliare per la Liturgia.
Il giorno 14 settembre 2007 entrò in vigore il motu proprio papale «Summorum Pontificum» con cui papa Benedetto XVI autorizzò tutti i preti che lo vogliono a celebrare senza alcuna riserva la Messa preconciliare, dando così forza e vigore ai traditori del concilio Vaticano II, i lefebvriani & C. che giudicavano e giudicano eretici non solo il concilio che è il magistero più alto nella Chiesa cattolica, ma anche i Papi Giovanni XXIII e Paolo VI.

? Crocifisso tra potere e grazia. Dio e la civiltà occidentale (2006), sull’orrendo tentativo di trasformare il Crocifisso, Gesù l’ebreo-palestinese-semita, in «valore occidentale», cioè religione civile.

? Nel sito dell’autore, www.paolofarinella.eu, si trovano la liturgia di ogni domenica nel ciclo degli anni A-B-C sia come testo stampabile che audio.




Malaria: Zanzare e plasmodium, una coppia pericolosa


Prevenibile, curabile ma mai debellata. È la malaria, una patologia che riguarda il 40% della popolazione mondiale. Si calcola che i morti da essa provocati, pur in diminuzione, siano ancora quasi 500 mila all’anno, la maggior parte in Africa e per due terzi bambini. In questi ultimi mesi di malaria si è tornato a parlare perché ha ucciso anche in Italia. Considerato il rapido cambio climatico e la crescente mobilità delle persone, il pericolo malaria (e non solo) ci accompagnerà a lungo.

Malaria, il nemico che abbiamo sempre avuto vicino ma non abbiamo mai voluto conoscere veramente, perché non ci riguardava. Interessava solo il 40% della popolazione mondiale, qualche miliardo di persone: «gli altri», tutti abbastanza lontani da noi. Sì, vedevamo tutte queste persone sofferenti ma erano solo foto su riviste missionarie o parole nei racconti dei missionari. Ci davano un po’ fastidio e, quindi, erano da rimuovere dal nostro orizzonte. Ma eccola qui – addirittura nella nordica Trento (settembre 2017) -, la malaria prepotentemente sulle prime pagine dei giornali nostrani, il nemico da distruggere senza sentire il bisogno di capire e scacciando l’idea che ormai c’è e la terremo a bada, ma non la elimineremo più con facilità. Chi scrive è un missionario portatore sano del plasmodium della malaria con cui convive da 42 anni.

La malaria (anche) in Italia

L’origine della parola «mal aria» lascia facilmente capire da dove deriva: la credenza che questa malattia fosse causata dai miasmi delle paludi. Col tempo tutto è stato provato ed il ciclo della malaria col suo agente patogeno – il plasmodium –  è stato ben compreso. Le tonnellate di Ddt sparse dagli americani con il piano della fondazione Rockefeller (1925-1950, in particolare in Sardegna, ndr) hanno effettivamente debellato la malaria ma certo non ha sterminato tutte le zanzare Anopheles che possono portare nuovamente la malattia.

Già nell’anno 1970 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva dichiarato l’Italia «libera da malaria» di origine autoctona. Ecco perché – oggi – ci sono così tanti sforzi nel provare che l’origine di questi casi è esterna all’Italia. Tenendo conto che il periodo di incubazione è da una a due settimane, si può risalire facilmente al luogo di infezione senza doversi arrampicare sui vetri alla ricerca di ragioni fantascientifiche. Se viene appurato che l’origine è autoctona, perderemo lo stato di Malaria free zone. Il metodo del «rasoio di Occam» ci può aiutare anche qui: la spiegazione più semplice è quella vera.

Cosa ci portano le zanzare (le Anopheles e le altre)

Ma che cosa è la malaria? Su qualunque motore di ricerca di internet si trovano valanghe di informazioni, anche contrastanti, ma la realtà è molto semplice. La colpevole è sempre lei, la zanzara femmina del genere Anopheles, di cui esistono almeno 82 specie nel mondo. Se infettata dal plasmodium può procurare la malaria i cui segni clinici sono molto diversi a seconda degli individui, ma a tutti causa febbri alte a intermittenza, sudorazione, vomito, diarrea, tosse etc. Intanto, altre zanzare ci portano altri parassiti: la zanzara tigre ci porta la chikungunya, un virus abbastanza debilitante (che molti missionari già conoscono per esperienza diretta); la culex ci regala la filaria; la aedes porta la febbre gialla.

Cosa succede quando una zanzara infetta ci punge? Intanto la zanzara ci punge per succhiare il nostro sangue così ricco di elementi essenziali utili al suo organismo che deve produrre uova per continuare la propria specie, e non per darci la malaria di cui soffre comunque anch’essa.

La prima fase dell’operazione avviene così e spiega perché non ci accorgiamo della sua puntura fin dopo che abbia fatto il suo lavoro ed è proprio in questa fase che ci passa il plasmodio. Ecco il contatto zanzara-uomo in 4 fasi:

Fase 1: la zanzara non ci vede ma segue la traccia di anidride carbonica che ci lasciamo dietro.

Fase 2: la zanzara si posa sulla pelle e attraverso due palpi laterali allo stiletto sente la presenza dei vasi sanguigni.

Fase 3: la zanzara rigurgita un liquido anestetico che le permette di introdurre il suo stilo senza che sentiamo dolore fino ad operazione fatta.

Fase 4: lo stilo è in posizione e l’operazione pompaggio del sangue comincia fino a sazietà.

Una profilassi alla puntura sta nel- l’ingoiare vitamine del gruppo B6 che impartirebbe al corpo un odore che dispiace alla zanzara. Non si sa se funzioni o meno ma certamente questa idea non spiace all’industria farmaceutica.

Le fasi del plasmodio sono tre: fase schizogonica, gametogonica e sporogonica. A ognuna di queste fasi corrispondono delle caratteristiche che aiutano gli specialisti a diagnosticare quale sia il problema.

Il plasmodium in azione

Il plasmodium iniettato dalla zanzara entra nei globuli rossi e comincia a crescere e dividersi aumentando in numero e volume finché non causa la rottura della membrana del globulo rosso infestando il sangue, lo stesso sangue che sarà risucchiato da altre zanzare e verrà rimesso nel sangue di qualche altra persona (grafico a pag. 64).

Questa perdita di globuli rossi, portatori dell’ossigeno indispensabile a ogni cellula, causa una sua mancanza e quindi limita la produzione di energia, determinando un calo delle prestazioni fisiche. La presenza di globuli rossi deformati per la presenza del plasmodio (foto), causa anche un blocco della circolazione capillare, a volte nel cervello, causando il coma cerebrale. Inoltre la rottura della membrana dei globuli rossi ed il riversamento del plasmodio causa una reazione del corpo che produce febbre alta e altri sintomi. In una persona sana e senza problemi, qualche iniezione di norma non provocherà una malaria conclamata, ma molte infezioni successive su un soggetto debole, bambini o malati, può portare a malarie serie.

Le specie di plasmodium

Anche nel genere plasmodium vi sono diverse specie, se così si può dire, che vengono diagnosticate in laboratorio con metodologie differenti. Il falciparum è la specie più pericolosa e procura la malaria maligna o terzana maligna, seguito dalla specie vivax della terzana benigna, che è più clemente. Altre due specie sono la malariae e l’ovale.

Se non bastasse, a volte vi sono infezioni miste con i vari tipi. Le diverse specie sono poi individuate con strumenti di vario genere: alcuni noti da molto tempo come la colorazione a base di eosina e metilene, altri con le tecniche più evolute basate sulla immunologia e biologia molecolare.

In pratica, la diagnosi con coloranti viene fatta leggendo uno striscio di sangue del paziente a cui sono aggiunti i reagenti sotto un microscopio con illuminazione naturale o attinica.

Per le diagnosi rapide si usano strisce immunologiche di riconoscimento rapido, utilizzabili sul campo e senza microscopio, usabili da chiunque, anche dal paziente stesso.

Ultimamente si procede alla tipizzazione del ceppo di plasmodio con l’uso del Pcr (Polymerase chain reaction) che però richiede tempo, personale specializzato e ingenti risorse economiche.

Negli screening di massa si vogliono esaminare molti esemplari in poco tempo ed allora l’uso dell’acridina arancio con il microscopio a luce ultravioletta rende l’esame molto semplice anche se non molto accurato. L’acridina arancio è un colorante che si fissa agli acidi nucleici facendoli brillare di arancio sotto il microscopio come se si guardasse a un cielo stellato. La presenza di acidi nucleici nell’emoglobina è la spia che fa capire che qualcosa non funziona dal momento che l’emoglobina matura e funzionante è priva di nucleo e quindi di acidi nucleici. Se c’è del Dna o Rna appartiene a qualcun altro, ad esempio al plasmodio.

Altri strumenti di diagnosi

Nella diagnostica si è aggiunta un’altra tipologia di strumenti, gli immunoreagenti (Malaria Antigen Detection), una paletta intrisa di reagenti i quali, se c’è o c’è stata recentemente malaria, cambiano colore dopo una reazione col plasma del paziente. Il beneficio sta nel vedere subito il risultato senza bisogno di un microscopio ma il lato negativo sta nel fatto che anche una malaria già superata viene interpretata come malaria in atto.

Altro beneficio nei paesi malarici è che le strisce sono liberamente reperibili nelle farmacie o parafarmacie a basso prezzo e si possono usare da chi non ha alcuna preparazione, basta una goccia di sangue periferico posta in un pozzetto e – voilà – una riga rossa appare in caso di risultato positivo di malaria, o non cambia niente se non c’è malaria. Esame indiretto perché non cerca il parassita ma la sua reazione biochimica nel plasma, ma è parzialmente specie-specifico distinguendo tra falciparum e le altre.

Ultimo sistema che discrimina le varie forme specifiche, è il Pcr o «Reazione a catena della polimerase». Dopo avere ben frantumato in laboratorio una porzione di sangue del paziente, si aggiunge un «primer» con la sequenza del codice genetico proprio dell’organismo che si vuole rilevare, se c’è, allora le porzioni vengono moltiplicate all’inverosimile fino a fare diventare rilevabile da macchine la presenza del Dna del plasmodio. Procedura molto sofisticata e sicura ma non veloce ed ancora molto dispendiosa.

Riscaldamento globale e mobilità umana

In ogni caso, meglio evitare la malaria che curarla. Come fare? Mentre ai tropici politiche sanitarie stanno abbassando il numero di infezioni, nel nostro mondo appaiono le prime forme autoctone. Come è capitato? Ancora non si sa bene, ma tante sono le cause di questo fenomeno – ad esempio, il riscaldamento globale e la mobilità delle persone -, che ci metteranno davanti al fatto compiuto e cioè che abbiamo in casa la malaria, la chikungunya (tre casi ad Anzio a settembre, ndr), la filaria e magari la febbre gialla etc. e dovremo prendercene cura.

Nei paesi tropicali si sono avuti risultati immediati e incontestabili attraverso l’uso di zanzariere poste sui letti. Con meno punture ci sono meno infezioni della zanzara e quindi meno zanzare infette. L’eliminazione di pozze di acqua stagnante è di aiuto. La Anopheles, a differenza della Culex, depone solo in pozze di acqua pulita per cui è tassativo eliminare i terreni di deposizione delle loro uova. La lotta biologica è promettente. Questi insetti sono divorati da diversi volatili e chirotteri per cui eliminando uccelli insettivori, come le rondini e i pipistrelli, aumenterà la popolazione delle zanzare.

Dal chinino ad oggi: i farmaci in commercio

La cura della malaria ha avuto vicende alterne con un inizio in cui si usava il chinino, molto efficace ma molto tossico per gli effetti collaterali sulla vista e l’udito etc. I nostri vecchi ancora ricordano le insegne sulle tabaccherie ove si leggeva «Sale e Tabacchi e Chinino di Stato». Quelle pillole rosa che anche i nostri vecchi missionari si portavano dietro in caso di attacchi di malaria e quando questo finiva, c’era sempre un fusto di acqua in cui immergersi per abbassare la temperatura corporea. Favola? No. Questo me lo ha certificato il compianto padre Giovanni Borra, uno dei nostri primi missionari in Tanganyika (l’odierno Tanzania).

Dopo il chinino è arrivata la Clorochina che prendevamo in quantità industriale e che ci faceva diventare temporaneamente strabici o peggio. La clorochina per lo meno era un cloridrato, cioè solubile e fosfato, quindi passava la barriera intestinale per andare là dove ce ne era bisogno.

Ancora non avevamo tenuto conto dell’evoluzione del plasmodio che divenne immune alla clorochina. Vennero quindi usate le pirimetamine, Metakelfin e famiglia, a cui il plasmodio era suscettibile. Ma anche qui la festa non è durata molto perché la pirimetamina è tossica sul fegato dove per forza doveva agire per debellare anche le spore del plasmodio. Che fare?

Ora le Asl propongono il Malarone, un estratto purificato della pianta Artemisia annua coltivata anche nelle nostre missioni. Abbastanza efficace ma costosa e deve essere assunta ogni giorno senza peraltro continuare dopo i trenta giorni, data la lieve tossicità. In sostanza, una medicina per turisti. Altra molecola proposta è la Meflochina o Lariam. Usata in ragione di una pillola settimanale durante la permanenza in zone malariche. La si trova a costi mantenuti ed a quel dosaggio non dà molti effetti collaterali, ma in dosi terapeutiche … meglio la malaria, parola mia.

Nonostante tutto, le Asl si premurano di dire: «Non esiste un farmaco antimalarico che possa dare la certezza assoluta di non venire contagiati, ma un’assunzione regolare permette nella peggiore delle ipotesi di prevenire almeno gravi complicazioni». Alla luce di questa considerazione, oltre a usare i farmaci, occorre quindi prendere misure precauzionali personali (ad esempio: spray repellenti, maniche lunghe, pantaloni lunghi, dormire in un luogo protetto dagli insetti oppure usare una zanzariera trattata con insetticida).

No isterismi, sì prevenzione

Nella nostra esperienza abbiamo visto malarie contratte da ospiti e turisti che hanno seguito alla lettera le norme di prevenzione, ma al loro ritorno in patria hanno manifestato la malaria. La prima prevenzione è essere attenti senza giungere all’isterismo su cui le compagnie farmaceutiche fanno molto affidamento.

Altro consiglio ai nostri governanti: perché non possiamo fornire a tutti i centri di salute in Italia l’umile striscia per la ricerca veloce della malaria? Un piccolo passo non eccessivamente costoso che, oltre a portarci avanti sulla strada della prevenzione, ci darebbe anche un certo senso di sicurezza in più.

Spero che queste note, frutto dell’esperienza di 40 anni di continua permanenza in Africa, di cui 13 come direttore di una scuola di diagnostica e come insegnante di biologia molecolare, possano aiutare a dipanare questa matassa così confusa.

Se può essere di consolazione, è esperienza comune che, dopo 5 anni di permanenza e contatto con la malaria, si diventa quasi immuni e le ricadute malariche si manifestano come una fastidiosa influenza con caduta di tono e stanchezza da curarsi con il riposo. I fatti di queste settimane dimostrano quanto la mala informazione o la disinformazione siano pericolosi.

Angelo Dutto




La Cina in Africa: che cosa è cambiato /1


Colonizzatrice, sfruttatrice e insaziabile divoratrice di risorse del sottosuolo o amica degli africani, partner alla pari e addirittura benefattrice? La presenza della Cina in Africa è complessa e sfaccettata.

Negli ultimi quindici anni le relazioni fra la Cina e l’Africa hanno avuto una decisa impennata. A testimoniarlo sono i dati sia sul commercio sino-africano che sugli investimenti di Pechino in Africa. Secondo uno studio di McKinsey pubblicato nel giugno scorso, Dance of the lions and dragons@, il commercio fra il continente africano e il colosso asiatico è aumentato a ritmo del 21% annuo dai 13 miliardi del 2001 ai 188 del 2015, facendo della Cina il primo partner commerciale dell’Africa. Il commercio con l’India, che dell’Africa è il secondo partner, arriva a 59 miliardi, un terzo. Quanto all’investimento diretto all’estero (Ide) dalla Cina all’Africa, esso è passato dal miliardo del 2004 ai 35 del 2015, aumentando del 40% annuo.

Ma la presenza cinese in Africa ha molto più di quindici anni. Senza scomodare l’ammiraglio Zheng He e le imprese della flotta imperiale cinese che raggiunse le coste del Kenya, della Tanzania e della Somalia nel quindicesimo secolo, le relazioni sino-africane nell’epoca contemporanea sono vecchie di oltre mezzo secolo. Secondo Liu Youfa, ex vicepresidente del China Institute of International Studies, tre sono gli eventi che aiutano a sintetizzarne l’evoluzione@.

  • In primo luogo, la costruzione nel 1970 della ferrovia TanZam che collega il porto di Dar Es-Salaam in Tanzania alla cintura del rame in Zambia. Le negoziazioni per la costruzione della TanZam cominciarono nel 1966, dopo che i due paesi africani avevano chiesto il sostegno di Banca mondiale, Stati Uniti e altri paesi occidentali, rimanendo però inascoltati.
  • Il secondo evento – chiave, continua Liu Youfa, è l’approvazione, il 25 ottobre 1971, della risoluzione 2758 dell’Assemblea generale Onu, che riconosceva la Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong – e non i rappresentanti di Chiang Kai-shek e di Taiwan – come governo legittimo della Cina e membro del Consiglio di Sicurezza. In quell’occasione, dei 76 voti a favore della Cina popolare 26 erano africani e Mao ebbe modo di commentare: «Sono i nostri amici africani che ci hanno portato all’Onu».
  • Il terzo e ultimo passaggio fondamentale è la creazione del Forum sulla cooperazione sino-africana (Focac) nel 2000, nell’ambito del quale i rapporti politici ed economici fra il regno di mezzo e il continente nero hanno preso una forma via via più strutturata.

Quella dell’ultimo ventennio, dunque, è un’esplosione economica che affonda le sue radici in un lungo lavoro diplomatico e strategico e che oggi sembra alle soglie di un ulteriore cambiamento.

La base militare a Gibuti e le infrastrutture

Il più recente e macroscopico segno di questo cambiamento è probabilmente l’apertura, lo scorso luglio, della prima base militare della Cina al di fuori del proprio territorio. Per lo storico passo il gigante orientale ha scelto Gibuti, piccolo paese del Corno d’Africa affacciato sullo stretto che collega il Mar Rosso con il golfo di Aden e che già ospita le basi militari di Italia, Stati Uniti, Francia e Giappone. È una base navale il cui scopo, a detta di Pechino, è quello di fornire supporto alle missioni umanitarie e di peacekeeping e di contribuire agli sforzi internazionali di lotta alla pirateria nella zona. Ospiterà, certo, dei militari e sarà utile per attività di cooperazione militare, esercitazioni congiunte, evacuazione e protezione di Cinesi all’estero. Ma, hanno insistito i media cinesi, la Cina non persegue espansionismo militare né si impegnerà in corse agli armamenti. Lo sviluppo militare della Cina, taglia corto il Pla Daily, quotidiano delle forze armate cinesi, mira a proteggerne la sicurezza, non a controllare il mondo.

Le precisazioni sono una risposta agli altri attori internazionali come gli Stati Uniti – che hanno espresso preoccupazione per la mossa cinese – e l’India, altro gigante asiatico che rivaleggia con la Cina e che teme di esserne pian piano accerchiata. È, questa, la teoria del «filo di perle» che attribuisce alla Cina la volontà di creare una serie di presenze nei punti chiave del percorso marittimo immaginario che va dal territorio cinese alla città sudanese di Port Sudan, sul Mar Rosso, circondando, appunto, l’India.

Ma anche prima di questo passo, il quale, al netto delle preoccupazioni di Usa e India, resta comunque epocale, che la Cina avesse cambiato marcia era piuttosto chiaro. Lo scorso maggio c’è stato a Pechino il primo incontro di presentazione dell’iniziativa Una cintura, Una strada (One Belt, One Road, Obor), che prevede la ricostituzione della via della seta. Anzi, delle vie della seta: quella terrestre, che interessa principalmente Asia ed Europa, e quella marittima, che tocca anche l’Africa orientale. Le manifestazioni di interesse da parte dei paesi potenzialmente coinvolti sono state tante, e tanti sono anche i dubbi sulla praticabilità e sostenibilità di un’opera così mastodontica.

Nuovo treno merci sulla nuova ferrovia costruita dai cinesi in partenza da Mombasa

Intanto, però il lancio esplorativo del programma mette in una diversa prospettiva due infrastrutture che in Africa sono state già realizzate. Se n’è parlato molto nell’ultimo anno: sono la ferrovia che collega il porto kenyano di Mombasa con la capitale Nairobi e quella che connette Gibuti alla capitale etiope Addis Abeba.

La linea ferroviaria kenyana, riporta la Bbc, è stata inaugurata lo scorso maggio con diciotto mesi di anticipo, è lunga 470 chilometri ed è la prima fase di un più ampio progetto che prevede in Kenya un totale di 840 chilometri sino alla città frontaliera occidentale di Malaba. Costruita dall’azienda cinese China Road and Bridge Corporation (Crbc), ha avuto un costo di 3,8 miliardi di dollari finanziati all’85 per cento dalla Banca per l’import export cinese (China Exim Bank) con un prestito agevolato che concede al Kenya di cominciare a ripagare il debito fra dieci anni con i proventi generati dalla ferrovia. Il tratto kenyano dovrebbe essere il primo di un complessivo progetto regionale che collegherebbe l’oceano Indiano con il Sud Sudan.

Quanto alla linea Gibuti-Addis, è la prima ferrovia elettrica del continente e permetterà di impiegare dieci ore invece che tre giorni per trasportare merci sui 756 chilometri che separano le due città. Anche in questo caso, finanziatori e costruttori sono cinesi: l’Exim Bank ha concesso i prestiti e due costruttori – diversi da quelli della Mombasa-Nairobi – hanno realizzato la ferrovia, che dovrebbe cominciare le operazioni questo mese dopo un anno di test e verifiche.

Ma le due strade ferrate non sono certo le sole opere a cui la Cina è o è stata alacremente intenta negli ultimi anni. Sempre cinese è il ponte che collegherà la capitale mozambicana di Maputo al distretto di Catembe e che, con i suoi oltre tre chilometri, sarà il ponte sospeso più lungo del continente. Il costo sarà di circa 750 milioni di dollari e il progetto comprende anche la costruzione di due strade per migliorare i collegamenti del Mozambico con lo Swaziland e il Sudafrica, incentivando così turismo e commercio. I nomi del finanziatore e del costruttore? Sempre gli stessi: Exim Bank e Crbc.

Vale la pena di citare poi la cittadella di Kilamba, a trenta chilometri dalla capitale dell’Angola, Luanda, un complesso abitativo composto da 710 edifici di diverse altezze e con più di ventimila appartamenti, oltre ai servizi come asili, scuole, negozi. Costruita con fondi e da aziende cinesi e inaugurata nel 2011, è stata oggetto di alcuni reportage che la descrivevano come una città fantasma, almeno fino all’anno scorso. Oggi fonti ufficiali quantificano in ottantamila gli angolani residenti nella cittadella; la lentezza con cui le case vengono vendute pare dipendere più che altro dai prezzi – fino a qualche mese fa decisamente troppo alti anche per i luandesi di classe media -, dalle difficoltà nell’ottenere un mutuo e dalla inefficienza e disorganizzazione con cui l’assegnazione delle case viene gestita dagli enti angolani.

Ma andiamo oltre le singole opere. Nel 2016, si legge nel rapporto di Fdi Intelligence, la sezione del Financial Times che si occupa di investimenti diretti all’estero@, la Cina è stata il primo paese per capitali investiti in Africa: oltre 36 miliardi di dollari e quasi 40 mila posti di lavoro creati. Ha così soffiato il primato all’Italia che l’anno precedente, soprattutto grazie al progetto Eni per l’estrazione di gas dal giacimento di Zohr, al largo dell’Egitto, faceva da capofila con 7,4 miliardi di dollari.

Per numero di progetti, restano in testa gli Stati Uniti: 83 progetti (dieci in meno dell’anno precedente), contro i 71 della Francia e i 62 della Cina, che li ha però raddoppiati rispetto al 2015. Considerando i paesi come aggregati, è l’Europa occidentale a posizionarsi al primo posto, con 224 progetti, pur registrando un calo rispetto ai 282 del 2015.

Invasione cinese? Non proprio.

La base di Gibuti, le grandi opere e numerosi articoli e reportage hanno contribuito a creare la sensazione di un’invasione dell’Africa da parte della Cina. I volumi sono certo impressionanti, ma vanno contestualizzati. Anche perché l’analisi dei numeri sulla Cina si scontra con due difficoltà: la prima è che i dati forniti da Pechino non sono né chiari né trasparenti. Ad esempio, osserva David Dollar della Brookings Institution di Washington, metà del complessivo investimento cinese all’estero risulta diretto a Hong Kong e, a seguire, alle isole Cayman e Virgin. Nessuno dei tre luoghi è probabilmente la destinazione finale degli investimenti@. Inoltre, diverse ricerche prendono in considerazione gli impegni annunciati dalla Cina, che non sempre però si trasformano in effettivi flussi di denaro. La seconda difficoltà è che l’elaborazione di questi dati da parte dei media non sempre sfugge al sensazionalismo.

La Cina ha certamente fatto un balzo notevole nell’ultimo decennio. Come sottolinea a pagina 20 lo studio McKinsey sopra citato, Pechino è già il maggior partner economico dell’Africa: si trova nelle prime quattro posizioni in cinque ambiti fondamentali: commercio, investimenti, progressione degli investimenti, aiuto allo sviluppo e finanziamento di infrastrutture. Sempre David Dollar nel 2016 proponeva tuttavia una lettura cauta: l’investimento della Cina in Africa è sia grande che piccolo. È piccolo, scrive lo studioso, nel senso che la Cina è arrivata più tardi in Africa e rappresenta solo una piccola parte dello stock totale degli investimenti stranieri nel continente. Alla fine del 2011, questo totale era di 629 miliardi, del quale la quota cinese era pari al 3,2%. I paesi europei, guidati da Francia e Regno Unito, sono di gran lunga i maggiori investitori nel continente. L’investimento della Cina in Africa è tuttavia anche grande in senso relativo. A fine 2013, la Cina aveva un investimento diretto estero in Africa (32 miliardi di dollari) comparabile a quello che aveva negli Stati Uniti (38 miliardi). Pertanto, dal momento che l’investimento diretto tende di norma ad andare verso le economie più avanzate, l’attenzione relativa della Cina all’Africa è grande@.

Lo stock di investimenti diretti esteri in Africa l’anno scorso si aggirava intorno agli 836 di cui 49 miliardi dalla Cina secondo le stime di McKinsey. Se la stima fosse confermata, la quota cinese di investimenti in Africa salirebbe a poco meno del 6%. L’ultimo dato disponibile per gli Stati Uniti è quello del 2015, pari a 64 miliardi di investimenti in Africa: l’8,3% del totale.

La China Africa Research Initiative (Cari) della Jonhs Hopkins University è un’altra delle fonti che tende a ridimensionare i dati. Un esempio? Il fact checking della Cari su un articolo apparso lo scorso maggio sul New York Times dal titolo «La Cina è la nuova potenza coloniale mondiale?», nel quale il quotidiano statunitense sosteneva che nel 2016 la Cina avrebbe riservato un fondo di sessanta miliardi di dollari per finanziare infrastrutture in Africa principalmente attraverso prestiti cinesi. «Non esiste nulla del genere», puntualizza Cari. «L’articolo potrebbe riferirsi agli impegni presi dalla Cina nell’incontro del Forum Africa Cina del 2015» e – a leggere i documenti ufficiali del Forum – è chiaro come i sessanta miliardi non costituiscano un unico fondo ma comprendano prestiti, donazioni e investimenti e, soprattutto, non sono concentrati sulle infrastrutture.

Chiara Giovetti
(continua in gennaio 2018)

Archivio MC:

Di relazioni Cina Africa abbiamo parlato nel dossier MC dicembre 2007 e nel numero monografico MC ottobre 2010.




I Perdenti 28:

Sarajevo: Admira e Bosko

Admira Ismic e Bosko Brkic entrarono per caso nella cronaca di quella sporca guerra che sconvolse l’ex Jugoslavia negli anni Novanta del secolo scorso per divenire i «Giulietta e Romeo di Sarajevo». Essi furono uccisi, mano nella mano, dai cecchini serbi nella «terra di nessuno» che separava la zona musulmana da quella serba nella capitale bosniaca. Era il 19 maggio 1993, la violenza durava già da un anno. Admira era musulmana, Bosko cristiano ortodosso. Entrambi venticinquenni, erano legati da un amore intenso e sincero da quando ne avevano diciassette, nonostante l’odio etnico e confessionale presente in città.

Dopo aver resistito diverso tempo, alla fine Admira e Bosko, che abitavano nella zona musulmana insieme ai genitori di lei, avevano deciso di fuggire trasferendosi provvisoriamente nel sobborgo serbo di Grbavica, per salutare i genitori di Bosko e con l’intento di abbandonare poi la Bosnia.

I loro corpi abbracciati nei pressi del ponte di Vrbanja che unisce le sponde del torrente Miljacka, abbandonati al sole per otto giorni, perché non si riusciva a ottenere l’assenso dei belligeranti a un cessate il fuoco che ne consentisse il recupero, divennero il simbolo della tragedia bosniaca.

Una volta recuperati dai serbi, i loro corpi furono seppelliti sbrigativamente sulle colline. Soltanto tre anni dopo trovarono riposo fianco a fianco nel cimitero di Sarajevo.

Proprio di fronte alle loro tombe, al di là del muro di cinta del camposanto, c’è il caffè dove i due si erano incontrati e avevano trascorso ore sognando un amore lontano dalle bombe e dall’odio.

La loro storia continua a ricordarci come l’amore sia più forte della morte.

Bosko, come mai, mentre tutti scappavano, tu hai deciso di andare a vivere nella parte musulmana di quella città dilaniata dall’odio?

Bosko: lo decisi per stare accanto a lei, la ragazza che amavo più della mia vita. Se me ne fossi andato anche io, non so se l’avrei ritrovata al mio ritorno, e chissà quando sarebbe avvenuto un ritorno.

Tu serbo-bosniaco, tu bosniaca. Tu cristiano ortodosso, tu musulmana. Come vi siete conosciuti?

Bosko e Admira: nella maniera più semplice, comune a tanti giovani del mondo, ovvero incontrandoci in un bar della nostra città. Tra una bibita e una chiacchierata avevano cominciato una relazione d’amore molto bella benché impossibile in un paese che cominciava ad essere percorso dall’odio etnico.

E pensare che Sarajevo, comunità cosmopolita da secoli, era famosa per la sua capacità di integrare le varie componenti etniche creando le condizioni per una tolleranza che era d’esempio a molte altre città…

Bosko e Admira: fino all’inizio dei conflitti che hanno messo una contro l’altra le varie nazionalità che componevano l’ex Jugoslavia, le diverse comunità etniche erano abituate da tempo a vivere una acconto all’altra. Forse la forte personalità, anche in campo internazionale, del maresciallo Tito aveva contribuito a fare da collante in un paese sorto dalle ceneri della guerra, assemblando popoli di lingua, religione e cultura diverse.

Difatti i guai cominciarono dopo la sua morte…

Bosko e Admira: proprio così, la nostra società incubava da tempo i germi del nazionalismo e del razzismo, basati su una presunta superiorità culturale di una sola componente etnica a scapito delle altre. In un paese attraversato da una crisi economica che si trascinava da tempo, con la morte del maresciallo Tito, venuto meno l’uomo che con mano ferma aveva guidato la lotta di resistenza al nazifascismo e garantito il distacco dall’Unione Sovietica, questi germi attecchirono fra la gente, specialmente negli strati più emarginati della popolazione.

E così da modello di convivenza fra popoli diversi, la vostra terra divenne un campo di battaglia.

Bosko e Admira: la cosa che più fece impressione, fu che dall’oggi al domani nessuno più si fidava dell’altro, meno che meno se apparteneva a un gruppo etnico-religioso diverso dal proprio, cominciò a serpeggiare fra la gente una specie di ostilità verso coloro che non appartenevano al proprio «clan», e ben presto gli eserciti dei vari stati cominciarono a spararsi contro per delimitare i «propri» confini e proibire così ad altri di entrare.

Per voi una cosa del genere era inaccettabile, vero?

Bosko: sì, e per uscire da quella situazione avevo preparato tutte le carte necessarie a partire. Insieme ad Admira avevamo deciso di lasciare Sarajevo.

Vivevamo nella casa dei genitori di Admira, nel settore musulmano. Il progetto era di andare dai miei, nel quartiere serbo, stare un po’ con loro e poi finalmente partire. Ma bisognava passare il torrente Miljackail, che divide la città, passando sul ponte Vrbanja, una vera strozzatura e passaggio obbligatorio. Decidemmo di tentare il tutto per tutto, il 18 maggio 1993. Ma un cecchino mi colpì con una pallottola alla testa, ponendo fine alla mia vita. Anche Admira fu colpita, ma non morì subito. Con le ultime forze, Admira si trascinò fino a me e mi abbracciò. Restammo otto lunghi giorni in quel tragico abbraccio d’amore.

Un abbraccio pieno d’amore scambiato sulla soglia dell’eternità…

Bosko e Admira: colpiti dalla violenza cieca dei nostri compatrioti, ce ne andammo da questo mondo pieno di odio e, abbracciati come due semplici innamorati, entrammo insieme nel Regno della Pace.

Ci piace immaginare che gli Angeli e i Santi vi abbiano accolto in Paradiso con le parole conclusive del Cantico dei Cantici, dove l’amata dice all’amato: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore».

Bosko e Admira: proprio così, il Dio della tenerezza e dell’amore ci accolse fra le sue braccia e ci coprì con il mantello della sua misericordia.

 I corpi esanimi dei due moderni Giulietta e Romeo rimasero sotto il sole di maggio per otto lunghi giorni prima che una tregua concordata tra le parti belligeranti ne potesse consentire il recupero e dare loro una degna sepoltura. Alla cerimonia funebre di tre anni dopo erano presenti i membri delle due comunità, musulmani e serbo-bosniaci uniti dalla testimonianza d’amore dei loro figli.

«Se avessero avuto una visione fanatica della religione, non si sarebbero mai messi insieme», disse in quell’occasione il padre di Admira. Il loro resta un prezioso messaggio della religione dell’amore che quando è vissuta coerentemente fino in fondo sconfigge l’odio e fa trionfare sempre la pace. L’immagine dei due corpi abbracciati a terra fece il giro del mondo, e ancora oggi rappresenta un’icona dell’amore che va oltre alle differenze di razza e di religione. Un insegnamento per tutte le nazioni del mondo sempre più vittime di nazionalismi emergenti ed egoismi locali, che poi sono le stesse ragioni che hanno disintegrato lo stato jugoslavo.

La guerra è terminata da tempo e l’autodeterminazione dei popoli balcanici ha favorito la nascita di ben sei nuovi stati sovrani sul territorio della ex Jugoslavia. L’insegnamento e la testimonianza dei due giovani innamorati di Sarajevo appare oggi più significativa ed attuale che mai.

Don Mario Bandera




Amico: capire col cuore


Sentivi ancora le sue dita sui tuoi piedi. Quelle dita che avevano scacciato demoni, risuscitato morti, moltiplicato pani. Eri confuso e frastornato. La giornata densa di eventi, gesti e parole annunciava qualcosa che non capivi e che temevi.

Lui parlava al vostro cuore con il tono del congedo, e quando ha detto «dove vado io voi non potete venire» – dopo tre anni che lo seguivate ovunque -, siete rimasti senza parole. Persino Pietro, forse ferito, rapito dall’immagine di un gallo che canta.

«Non sia turbato il vostro cuore – ha poi aggiunto Gesù -. Vado a prepararvi un posto nella casa del Padre» (Gv 14).

Tu ascoltavi senza comprendere. Le sue parole erano chiare, ma anche cariche di un mistero che le rendeva oscure alla tua mente e al tuo cuore. Tre giorni più tardi avresti scoperto che solo i tuoi piedi avevano capito: dopo essere stati lavati da Lui, come un bimbo dalla sua mamma, erano essi a ricevere la sua Parola più delle orecchie. A volte il corpo – e la vita che in esso scorre scambiando con lo Spirito mezze frasi bisbigliate – conosce e comprende prima dell’intelletto.

«Mostraci il Padre», hai detto, tralasciando la vertigine che si spandeva in te e liberando la tua ansia di toccare e soppesare.

Della sua risposta, in seguito, avresti ricordato per lungo tempo solo il suono della sua voce che pronunciava il tuo nome: «Filippo». Il suo invito a credergli, quasi una supplica, lo hai raccolto quando quello stesso suono, la sera del primo giorno dopo il sabato, ha fatto vibrare di nuovo la membrana dei tuoi timpani: «Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».

Ecco. Ciò che i tuoi piedi avevano già conosciuto, ora scoprivi che si era diffuso alla tua intera persona. La Via, la Verità e la Vita abitavano in te e te in loro e loro nel Padre.

E da te si comunicano al mondo.

Buon ottobre missionario da amico,

Luca Lorusso

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