Binomio impossibile: fondamentalismo e religione

Riflessioni e fatti sulla Libertà Religiosa nel mondo – 20
La violenza dettata dall’intolleranza sembra essere una realtà
molto diffusa nel mondo. Spesso associata alla religione, o meglio ai
fondamentalismi religiosi. Ma è lecito accostare il termine «fondamentalismo»
al termine «religione»?

Accade di frequente oggi che si
confonda il fondamentalismo con la religione. È così che conflitti nati da
questioni economiche o politiche o etniche vengono descritti come di natura
religiosa. Con questo criterio si contrappongono facilmente cristiani e
musulmani, buddisti e induisti, e altri ancora, come nei casi in cui i
cristiani divengono vittime di intolleranza e di persecuzione, ad esempio in
Nigeria, in India e in altre nazioni dell’Africa e del continente asiatico.

La violenza fa purtroppo parte di
quel fondamentalismo religioso che oggi sembra nascere soprattutto in seno
all’Islam, ma che è stato usato in passato anche nel mondo cristiano, e ancora
oggi in certi movimenti cristiani integralisti.

Il medioevo cristiano

La concezione che nel medioevo si
aveva della Chiesa e dello stato può, per esempio, spiegare la guerra scatenata
dal mondo cattolico contro i Catari, o più comunemente Albigesi, nella Francia
meridionale. Una guerra durata vent’anni, dal 1209 al 1229, che qualcuno definì
la prima crociata di cristiani contro altri cristiani, nella quale caddero
vittime non solo gli eretici, ma a volte l’intera popolazione di una città,
come avvenne a Bézier nel 1209. Il legato pontificio, alla domanda di un capo
della spedizione, pare abbia pronunciato questa orribile frase: «Uccidete,
uccidete! Dio saprà riconoscere i suoi». Il risultato di simile concezione fu
un massacro generalizzato, che si estese poi alle città di Carcassone, Pamiers
e Albi. Nel 1244 i Catari furono massacrati senza pietà anche a Montségur e
continuarono a essere messi al rogo fino alla metà del Trecento.

Ma oltre alla tragedia subita dai
Catari, possiamo citare anche le dolorose persecuzioni che colpirono il
movimento pauperistico dei Valdesi, fondato da un commerciante di Lione, Pietro
Valdo, o Valdesio, e diffuso ancora oggi nelle valli del Pinerolese e
nell’Italia meridionale.

In quel periodo storico, a causa
dell’intima compenetrazione tra l’elemento politico e quello religioso,
l’eresia non veniva considerata solo un peccato di coscienza o di fede, ma un
attentato contro la sicurezza della società. La difesa della verità sembrava
dovesse essere attuata con la violenza.

Soltanto poche persone in quel
periodo compresero il vero senso dell’insegnamento evangelico di non uccidere e
di essere invece disposti a subire la croce per testimoniare la propria fede.
Un vescovo, Vado di Liegi (980-1048), biasimò le brutali misure contro eretici
veri o presunti adottate in Francia. San Beardo di Chiaravalle, anche se
arrivò ad affermare che agli eretici spettava il rogo, condannò le persecuzioni
degli ebrei e l’uccisione di eretici a Colonia nel 1144, asserendo che la fede
deve nascere dentro il cuore dell’uomo e non mediante la costrizione.


Violenza: segno del «fallimento» della religione

Questo insegnamento fu preceduto
molto prima da alcuni cristiani delle prime generazioni. Tutti sappiamo che i
cristiani dei primi secoli furono oggetto di ostilità sanguinose. Contro quella
che oggi possiamo definire intolleranza religiosa dei primi secoli, gli
apologisti come Giustino (+165 d.C.), Tertulliano (+220 circa) e Lattanzio
(+320 circa) rivendicarono la libertà e il diritto naturale che ciascuna
persona ha di adorare le proprie divinità. La violenza è il peggior strumento
di diffusione della religione e un segno evidente del suo fallimento. Nessuna
religione infatti si difende e si propaga con la violenza.

Il Mahatma Gandhi soleva dire che «la
violenza è l’arma più debole, la nonviolenza quella più forte».

Nella premessa della sua prima
apologia in difesa dei cristiani Giustino partì dalla considerazione che lo
stato non deve lasciarsi guidare dalla violenza e dalla tirannia, ma ispirarsi
a saggezza, pietà e rispetto delle persone. Tertulliano nell’Apologetico
(n. 24) sostenne che una religione coatta e imposta è una strada aperta verso
l’irreligiosità, e aggiunse che nessuno vuole essere adorato per forza, neppure
un uomo. Infine, Lattanzio nel De divinis institutionibus (V, 20), di
fronte alla persecuzione di Diocleziano, la più cruenta di tutte, dettò un
celebre passo che non si può ignorare: «La religione si difende non uccidendo,
ma morendo; non con la crudeltà, ma con la fede… Se tu vorrai difendere la
religione con il sangue, i tormenti, il male, non la difenderai, ma la
contaminerai e la violerai».

«Perché non era uno di noi»

Il tema del fondamentalismo che usa
la violenza nel nome dell’appartenenza religiosa non può quindi essere
applicato solo al mondo musulmano o induista. Nessuna religione è immune dalla
violenza, così come dalla superstizione. La storia ci insegna che il
fondamentalismo può riferirsi a qualsiasi religione. È troppo facile dire che «il
mio Dio non è il tuo Dio, il mio è vero e il tuo no!». Sotto queste frasi si
nascondono spesso altre idee e altri interessi, etnici, economici, politici.
Oppure, più semplicemente, si nasconde una strana gelosia religiosa, cioè il
bisogno di appartenere alla religione migliore, più buona e più vera delle
altre.

Un giorno Gesù rimproverò i suoi
discepoli perché avevano visto un tale che scacciava i demoni nel suo nome e
glielo avevano proibito, «perché non era uno di noi». E Gesù disse loro: «Non
glielo proibite… Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9, 38-40).

Lo spirito di Assisi

Il pericolo dell’esistenza di una
religione non autentica è comunque sempre presente. Per questo la Parola di Dio
chiede una quotidiana conversione, di passare cioè dagli idoli vuoti e vani
all’unico vero Dio. La Chiesa del Concilio Vaticano II si è soffermata più
volte sul valore delle religioni storiche, di qualsiasi religione. Nella
Dichiarazione sulla Chiesa e le Religioni non cristiane ha sottolineato come «la
Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni.
Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei
precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da
quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio
di quelle verità che illuminano tutti gli uomini» (n. 2).

In altre parole tutte le religioni
contengono cose vere e buone; esse sono la presenza e il riflesso di quella «luce
che illumina ogni uomo» (Gv 1, 2), mediante cui Dio chiama alla salvezza.
Questa visione teologica ha conosciuto una sua meravigliosa attuazione nel 1989
ad Assisi quando, in uno straordinario incontro tra le religioni, Giovanni
Paolo II lanciò «lo spirito di Assisi»: non più le religioni una contro le altre,
ma una accanto alle altre, anzi le une che pregano Dio accanto e insieme alle
altre.

La lista dei martiri

Rimane comunque il fatto che il
fondamentalismo detto religioso produce ancora oggi violenza. I cristiani, ma
anche i musulmani, i buddhisti, e gli altri, soffrono persecuzioni a causa
della loro testimonianza di fede e di carità.

In base ai dati raccolti e pubblicati
dall’Agenzia Fides, nel 2013 sono stati uccisi nel mondo 22 cristiani,
per la maggior parte sacerdoti in cura d’anime, insieme a una religiosa e a due
laici. Il doppio rispetto al 2012 in cui ne furono uccisi 13 (e comunque un
numero che si riferisce solo a quei «martiri» che avevano incarichi ecclesiali,
e non ai molti «cristiani comuni» vessati anch’essi per la loro fede, ndr).
Scorrendo le poche notizie che si hanno di questi sacerdoti, si osserva che non
tutti possono essere definiti martiri nel senso tradizionale del termine, perché
quasi tutti sono stati uccisi in seguito a tentativi di rapina o di furto,
aggrediti in alcuni casi con efferatezza e ferocia, segno del clima di
decadimento morale, di povertà economica e culturale, che genera violenza e
disprezzo della vita umana, tutti però vivevano la loro testimonianza di fede
in un contesto di degrado umano e sociale, annunciando il messaggio evangelico
senza gesti eclatanti, ma con le opere e la loro presenza nell’umiltà della
vita quotidiana.

Il dialogo possibile

La Chiesa del Concilio condanna ogni
violenza nel nome dell’appartenenza religiosa, e non manca di continuare a
proclamare e a vivere il proprio impegno per la riconciliazione e la pace
attraverso il dialogo interreligioso e le molteplici opere di carità
evangelica, che foiscono aiuto e conforto a gente di qualsiasi religione. Lo
ha sottolineato l’appello lanciato dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma nel
febbraio 2014 in un convegno internazionale dal titolo «La religione e la
violenza», che ha visto la partecipazione di personalità delle religioni, della
diplomazia e della politica, provenienti da Europa, Asia, Africa e Medio
Oriente.

In un mondo infetto da un’epidemia di
violenza – ha sottolineato Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di
Sant’Egidio – «la diplomazia tradizionale ha bisogno di nuovi strumenti: in
primo luogo la religione, poi la politica, la cultura, la lotta al
sottosviluppo. L’intera società civile deve essere impegnata in uno sforzo di
superamento di antiche diffidenze, quando non di veri e propri conflitti, che
sono all’origine delle esplosioni di violenze e terrorismo che hanno
insanguinato il mondo all’inizio del Terzo Millennio».

Il convegno è partito da una
considerazione poco ottimista: «Negli ultimi anni la violenza religiosa è aumentata
in maniera sconvolgente» – ha detto il cardinale Walter Kasper, presidente
emerito del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani – e ciò è avvenuto
perché «gli appartenenti a tutte le religioni, compresi i cristiani, vale a
dire persone o gruppi che pretendono di agire in nome di una religione, o del
cristianesimo, sono stati o sono fautori di violenza». Dunque la religione è
insieme autrice e vittima di violenza. Eppure «la pace nel mondo non è
possibile senza pace tra le religioni» e senza che le fedi promuovano i loro
tratti comuni circa i diritti umani, la libertà religiosa, la tolleranza e il
dialogo, spezzando «il circolo vizioso della violenza che genera violenza».

A sua volta Benjamin Kwashi, vescovo
di Jos in Nigeria, ha dato una valida testimonianza dell’importanza che il
dialogo interreligioso ha nelle diverse articolazioni della società, e in
particolare tra la sua gente che vive da anni una situazione di drammatica
violenza tra musulmani e cristiani.

Ha sottolineato l’importanza del
dialogo anche Abdelfattah Mouron, vincitore delle elezioni in Tunisia e
artefice della nuova Costituzione, uno dei frutti più maturi delle primavere
arabe. «La violenza – ha affermato – normalmente precede la religione». Compito
della religione «è di recuperare la propria autonomia e di costruire la pace
alimentando cultura, valori ed educazione».

Allo stesso modo, Muhammad Khalid
Masud, membro della corte suprema del Pakistan, ha sostenuto che la religione
non fa «parte della violenza», anche se ha riconosciuto che «possa essere usata
per giustificare la violenza».

La verità aperta

Ecco quindi che il rapporto tra
religioni e violenza, tra religioni e fondamentalismo, va posto in maniera
radicalmente diversa. In un contesto di assuefazione all’uso della violenza, le
religioni hanno il dovere di purificarsi e di assumersi le proprie
responsabilità, altrimenti il fondamentalismo verrà sempre più definito
religioso, fino a qualificare qualsiasi religione come generatrice di
vessazioni e di violenza e non invece di pace.

«Chi si rifugia nel fondamentalismo è
una persona che ha paura di mettersi in cammino per cercare la verità». Lo
scrive papa Francesco in un testo tratto da La bellezza educherà il mondo,
pubblicato dalla Editrice Missionaria Italiana a un anno dalla sua elezione in
Conclave (13 marzo 2013). «La nostra verità – afferma – non sia
fondamentalista, ma aperta al dialogo».

Giampietro Casiraghi


Tags
: libertà religiosa, dialogo, fondamentalismo, religione

Giampietro Casiraghi




Libertà in affanno 

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 19


La libertà di religione si conferma un diritto a rischio per
la maggioranza della popolazione mondiale. La regione più restrittiva è quella
del Medio Oriente-Nord Africa, seguita da quella dell’Asia-Pacifico. In Europa,
al terzo posto, a una crescente ostilità sociale corrisponde una crescente
pressione governativa.

Il 14 gennaio scorso è uscito il
quinto rapporto annuale del Pew Research Center1 sulle restrizioni alla libertà
religiosa nel mondo, Religious hostilities reach six-year high. I dati
riferiti riguardano l’anno 2012, che è stato il peggiore per la libertà
religiosa da quando l’organizzazione con sede in Washington DC ha iniziato a
monitorare la situazione, nel 2006-2007.

Libia post Gheddafi

È sufficiente fare attenzione alle
agenzie d’informazione riguardanti un paese come la Libia – scelto a esempio –
per trovarsi concordi con l’analisi del Pew Center che indica un
incremento molto forte delle restrizioni alla libertà religiosa in quelle terre
nel 2012, e per immaginare che, dopo quell’anno, non è probabilmente seguita
una sostanziale diminuzione.

Era il 25 febbraio quando l’agenzia Fides
pubblicava sul suo sito le dichiarazioni del Vicario apostolico di Tripoli
riguardanti il massacro di sette copti a Bengasi: «“Non si capisce bene cosa
vogliano questi fondamentalisti. Sicuramente vogliono mettersi in evidenza
spargendo il sangue di vittime innocenti. I copti ortodossi sono da tempo il
loro bersaglio, soprattutto in Cirenaica” dice […] mons. Giovanni Innocenzo
Martinelli […], commentando l’uccisione di sette lavoratori egiziani di
confessione copto ortodossa […]. Secondo fonti di agenzia, domenica 23 febbraio
i sette egiziani erano stati prelevati nelle loro abitazioni da uomini armati.
I loro corpi sono stati ritrovati il giorno successivo in una località alla
periferia della città. Le vittime sono state uccise da colpi d’arma da fuoco al
petto e alla testa. “Non sappiamo altro […]” dice mons. Martinelli. […] “Siamo
nelle mani di Dio, in queste situazioni incerte e insicure”». Agenzie
precedenti parlano di aggressioni a sacerdoti cattolici o copti ortodossi da
parte di milizie armate, di arresti ed espulsioni di decine di egiziani copti,
o di membri di comunità protestanti, in seguito ad accuse di «proselitismo», di
chiese prese d’assalto.

«In Libia due fedeli sono stati
uccisi in un attacco contro una chiesa copta ortodossa nella città di Misurata
nel mese di dicembre 2012. Questo è stato il “primo attacco [in Libia]
destinato a una chiesa dopo la rivoluzione del 2011”», scrive il Pew Center
nel suo rapporto, illustrando la crescita dell’ostilità sociale nel paese.

L’ostilità sociale nei confronti delle religioni

Per quantificare gli ostacoli
all’espressione e alla pratica religiosa nei singoli paesi, il Pew Center
usa due indicatori: l’indice delle ostilità sociali (Shi: social hostilities
index
), il quale misura gli atti contrari alla libertà di credo verso
determinati gruppi religiosi da parte della società civile, di gruppi o di
singoli; e l’indice delle restrizioni governative (Gri: govement
restrictions index
), il quale misura le azioni delle istituzioni nazionali
o locali che contrastano la religione. Lo studio statistico, avverte il Pew
Center
, tiene conto di alcuni dati e non di altri: misura gli impedimenti
alla libertà religiosa, ma non misura, ad esempio, la quantità di attività
libere e senza ostacoli, non giudica se le restrizioni siano giustificate o
meno, non valuta i processi storici, culturali, sociali che portano alle
restrizioni.

Attraverso una panoramica sul primo
dei due indici, veniamo informati del fatto che l’anno esaminato nel rapporto,
il 2012, è stato quello con i livelli più alti di ostilità sociale nei
confronti della religione mai registrato dall’inizio delle indagini nel
2006-2007. Se nel 2007 si era verificato un livello alto o molto alto nel 20%
dei 198 paesi presi in esame, nel 2011 tali livelli si erano attestati nel 29%
dei paesi, e nel 2012 nel 33%. L’aumento dell’ostilità sociale tra il 2011 e il
2012 è stato constatato in 4 delle 5 aree in cui il Pew Center suddivide
il mondo: l’unica area in cui c’è stata una lieve diminuzione è quella delle
Americhe, mentre l’incremento maggiore è stato rilevato nell’area del Medio
Oriente-Nord Africa. Quest’ultima regione, che è quella con livello medio
dell’indice di ostilità sociale più alto, nel 2012, su una scala di 10 punti,
ha fatto registrare un valore di 6,4 (nel 2011 era 5,4). In alcuni paesi della
zona l’aumento è stato molto vistoso: nella Libia di cui abbiamo già parlato
(da 1,9 nel 2011 a 5,4 nel 2012), in Tunisia (da 3,5 a 6,8), in Siria (da 5,8 a
8,8) e in Libano (da 5,6 a 7,9).

Prendendo in considerazione il mondo
intero, oltre ai quattro paesi dell’area Medio Oriente-Nord Africa, altri sette
hanno fatto registrare un aumento di due punti e più tra il 2011 e il 2012:
Mali, Messico, Guinea, Olanda, Madagascar, Afghanistan e Malawi. Nessun paese
al mondo ha avuto una diminuzione altrettanto cospicua.

L’incremento generale dell’indice è
stato dato dall’aumento molto forte di alcune forme di ostilità sociale: ad
esempio casi di individui aggrediti o sfollati dalle loro case per le loro
attività religiose (questo tipo di vessazione nel 2007 era stato registrato nel
24% dei paesi del mondo, nel 2011 nel 38%, e nel 2012 nel 47%). Il Pew
Center
riporta alcuni episodi emblematici avvenuti in diversi paesi: nel
Nord del Mali, per esempio, gruppi di estremisti islamici hanno condotto
esecuzioni, amputazioni, fustigazioni, distrutto chiese, vietato battesimi,
provocando la fuga di centinaia di cristiani verso la parte Sud del paese; «nello
Sri Lanka a maggioranza buddista alcuni monaci hanno attaccato luoghi di culto
musulmani e cristiani nella città di Dambulla nell’aprile 2012 ed è avvenuta
un’occupazione forzata di una chiesa degli Avventisti del settimo giorno nella
città di Deniyaya nell’agosto dello stesso anno per trasformarlo in un tempio
buddista».

Le restrizioni governative

Per quanto riguarda l’indice relativo
alle restrizioni governative della libertà di credo, il Pew Research Center
informa che non si sono registrati nel 2012 aumenti significativi. Restrizioni
elevate o molto elevate da parte delle istituzioni nazionali o locali si sono
verificate nel 29% dei 198 paesi presi in esame (28% nel 2011; 20% nel 2007).

Nell’ambito delle restrizioni
governative, nel 2012 rispetto all’anno precedente, i cambiamenti significativi
(almeno 2 punti su una scala di 10) sono avvenuti in due soli paesi: un grande
aumento di restrizioni in Rwanda, dove una legge di regolazione delle
organizzazioni religiose ha introdotto requisiti di registrazione molto
stringenti; e una grande diminuzione in Costa d’Avorio dove nel 2012 si sono
placate le violenze etnico-religiose postelettorali del 2011.

Il livello medio delle restrizioni
governative è aumentato in due delle cinque aree: in Medio Oriente-Nord Africa
e in Europa, mentre nelle Americhe è rimasto inalterato, e nelle altre due
regioni (Africa subsahariana e Asia-Pacifico) è diminuito. In particolare
l’Europa è stato il continente in cui le restrizioni governative sono aumentate
di più. L’area in cui invece sono diminuite di più è stata l’Asia-Pacifico.

Anche per le restrizioni governative
il Pew Center riporta alcuni episodi: parla ad esempio del caso di
Tuvalu, il cui governo centrale nel 2012 ha iniziato ad applicare una legge che
impedisce ai fedeli di religioni non riconosciute di riunirsi; della Tunisia,
in cui sono stati fatti dalle autorità pubbliche molti sforzi per rimuovere
alcuni imam che predicavano il salafismo.

I governi hanno usato atti di forza
contro gruppi religiosi o singoli fedeli in quasi la metà (il 48%) dei paesi
del mondo. Altro esempio è quello della Mauritania, il cui governo nell’aprile
2012 ha arrestato 12 attivisti anti-schiavitù con l’accusa di sacrilegio e
blasfemia per aver pubblicamente bruciato alcuni testi sacri considerati dagli
attivisti ispiratori dello schiavismo.

Uno sguardo d’insieme

Mettendo insieme i rilevamenti relativi
ai due indici, il Pew Center afferma che nel 2012 ci sono state
restrizioni elevate o molto elevate (sia sociali che governative) nel 43% dei
paesi (la percentuale più alta registrata dall’organizzazione in 6 anni). Data
la particolare popolosità di alcuni di questi paesi (Nigeria, India, Pakistan,
Egitto, Indonesia e così via) la porzione di popolazione mondiale che ha
vissuto il 2012 in un paese con livelli di restrizione della libertà religiosa
elevati o molto elevati è stata pari al 76% (5,3 miliardi di persone). Nel 2011
la percentuale era del 74%, nel 2007 del 68%.

Tra i 34 paesi con restrizioni molto
elevate (sociali o governative o entrambe) l’unico paese europeo presente era
la Russia (con entrambi gli indici al livello molto elevato). Tra quelli con
restrizioni elevate, i paesi europei erano 17, di cui tre – Bulgaria, Grecia e
Moldova – avevano entrambi gli indici al livello elevato, due avevano al
livello elevato solo l’indice di restrizioni governative, dodici avevano un
elevato indice di ostilità sociale (tra questi ultimi anche l’Italia).

Nel complesso le restrizioni, sia
sociali che governative, alla libertà religiosa nel mondo sono aumentate tra il
2011 e il 2012 almeno un po’ nel 61% dei paesi, e sono diminuite almeno un po’
nel 29%.

Vessazioni nei confronti di gruppi specifici

Un ultimo approfondimento cui vale la
pena accennare, è quello riguardante le vessazioni rivolte a specifici gruppi
religiosi.

I maltrattamenti nei confronti di
gruppi specifici possono avere una matrice sia sociale che istituzionale:
aggressioni fisiche, arresti e detenzioni, profanazione di luoghi sacri,
discriminazioni nel mondo del lavoro, dell’istruzione, delle possibilità di
accesso a un alloggio, aggressioni verbali, intimidazioni. Questo genere di
molestie si sono verificate, nel 2012, in 166 paesi su 198 studiati. Prendendo
in considerazione solo le tre religioni monoteiste, vessazioni nei confronti di
gruppi di musulmani sono state registrate in 109 paesi, nei confronti di gruppi
di ebrei in 71 paesi, verso i cristiani in 110 paesi.

Nel 2012, alcuni gruppi religiosi
avevano più probabilità di essere molestati dai governi che da gruppi sociali o
da privati cittadini, mentre altri avevano più probabilità di essere oggetto di
vessazioni da parte di individui o gruppi sociali che da parte di politiche
governative. Gli ebrei, per esempio hanno subito maltrattamenti sociali in 66
paesi, mentre hanno affrontato vessazioni governative in 28 paesi. Al
contrario, i membri di altre religioni del mondo, come i sikh e i baha’i, sono
stati molestati più volte dai governi (in 35 paesi) di quanto non lo siano
stati da gruppi o individui nella società (21 paesi).

Luca Lorusso
Note

1. Il Pew Forum (pewforum.org) è
un progetto del Pew Research Center, con base a Washington, finanziato
dalla Pew Charitable Trusts: un’organizzazione indipendente non-profit,
non governativa (Ong), fondata negli Usa nel 1948. Tutte le relazioni del
centro sono disponibili su www.pewresearch.org

Tags: libertà religiosa

Luca Lorusso




«Più stato!», «meno stato!» Fedi e laicità

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 18

Vignette satiriche in
Inghilterra e pillola del giorno dopo negli Usa. Due casi recenti che mettono
al centro il tema della laicità delle istituzioni. Da un lato c’è chi, per
difendere la fede, chiede una maggiore presenza dello stato. Dall’altro c’è
chi, sempre per garantire la libertà di credo, ne chiede una presenza minore. Come
sciogliere un nodo così centrale nella vita delle democrazie costituzionali?

Fino a che punto può spingersi la
libertà di critica e di satira nei confronti della religione? Nella società
secolarizzata esiste infatti anche questo problema che, tra gli altri, riguarda
la laicità dello stato. Lo stato laico non può avere una propria confessione
religiosa, né creare condizioni favorevoli per una a dispetto delle altre. Esso
deve garantire la libertà religiosa e di coscienza a tutti: credenti e non
credenti.

Per assicurare il rispetto di questi
principi ci sono le costituzioni, le leggi e le apposite istituzioni (come, in
Europa, la Cedu, di cui abbiamo scritto nei numeri scorsi). Rimangono tuttavia
aperti diversi problemi, tra i quali quello cui abbiamo accennato all’inizio:
la libertà, in questo caso di coscienza e di espressione, trova un limite nella
libertà degli altri? Se uno non è credente, fino a che punto può criticare la
religione senza offendere la coscienza dei credenti? È una questione emersa in
questi ultimi anni proprio nel campo dell’umorismo e della satira.

I due grandi amici «Jesus and Mo»

Tutti ricordiamo il caso delle
caricature di Maometto pubblicate il 30 settembre 2005 sul quotidiano danese Jyllands-Posten,
considerate blasfeme dai musulmani, che avevano prodotto reazioni molto
violente, morti e feriti.

Un episodio analogo ma, per fortuna,
del tutto pacifico, è accaduto qualche mese fa in Inghilterra. La mattina del 3
ottobre scorso Chris Moos e Abhishek Phadnis, studenti della London School
of Economics
, famosa università privata di Londra, si sono presentati in
aula con una maglietta che riproduceva un’immagine di «Jesus and Mo», un
fumetto umoristico celebre nel paese d’oltremanica. I due giovani, che si
dichiaravano atei, l’hanno indossata per scherzo. Il fumetto rappresenta Gesù e
Maometto come due grandi amici che si parlano dandosi del tu, e prendono in giro
in modo sarcastico il mondo religioso rappresentato da ciascuno dei due. C’è
addirittura un sito internet molto seguito che riporta tutte le vignette via
via prodotte dagli autori (jesusandmo.net *).

Lo scherzo dei due non è stato preso
bene da altri studenti, rappresentanti di associazioni e forze politiche
studentesche, che lo hanno considerato «non politicamente corretto». Hanno
ritenuto, infatti, che la vignetta fosse offensiva per cristiani e musulmani.
Cris Moos e Abhishek Phadnis sono stati quindi costretti a nascondere le loro
magliette sotto una giacca.

Censurare la censura

Il giornalista del quotidiano
londinese The Guardian, che ha raccontato l’episodio, ha criticato
pesantemente il comportamento degli studenti contrari alle magliette,
considerandolo «un altro esempio di repressione nelle nostre università». Egli
infatti lamenta che quanto accaduto nella London School non sia un fatto
isolato e che, quindi, il problema stia diventando preoccupante in Inghilterra.
Le università, sostiene, sono l’ultimo posto dove la censura dovrebbe essere
ammessa. Egli non difende i due studenti per principio, ma perché la vignetta
riprodotta sulle loro magliette non era, a suo avviso, affatto offensiva.
Questo è l’aspetto che suscita la sua preoccupazione. Per il giornalista,
infatti, non è la «provocazione» dei due amici a essere stata sproporzionata,
ma la reazione inaccettabile degli altri giovani.

Usa: assicurazione sanitaria e pillola del giorno dopo

Dall’altra parte dell’oceano, negli
Usa, si manifesta un problema che non riguarda la libertà di espressione e di
satira, ma in modo direttamente più esplicito la libertà religiosa e la laicità
dello stato. In questo caso la domanda potrebbe essere: fino a che punto le
comunità religiose possono ritenere che alcune leggi dello stato non siano
valide al loro interno?

Ne ha parlato il primo novembre
scorso il quotidiano francese Le Monde in un articolo dal titolo
emblematico: Le ambiguità della libertà religiosa americana. Vi si
racconta che il 24 ottobre Richard Mourdock, candidato repubblicano al senato
nell’Indiana, ha affermato che «la vita è un dono di Dio anche quando inizia in
una terribile condizione di violenza». Si riferiva a una questione molto
dibattuta, legata alla riforma sanitaria del presidente Barak Obama.
Quest’ultima infatti prevede l’obbligo per i datori di lavoro di offrire ai
propri dipendenti assicurazioni mediche che coprano anche le spese per la
contraccezione. E le parole di Mourdock erano indirizzate alla cosiddetta «pillola
del giorno dopo», la quale sarebbe compresa nell’assicurazione sanitaria
offerta obbligatoriamente ai propri dipendenti anche dalle università e
istituzioni religiose contrarie all’uso della pillola stessa.

Può essere certamente, come sostiene
l’autrice dell’articolo, che ci si trovi di fronte a una forzatura polemica che
trasferisce sul piano della libertà religiosa un problema, in realtà, politico.
La riforma sanitaria ha infatti scatenato negli Usa forti contrapposizioni tra
repubblicani e democratici, facendo muovere numerose associazioni, consistenti
forze economiche e sociali, e istituzioni religiose. Resta il fatto che negli
Stati Uniti, dall’11 settembre 2001 in poi, nella «destra religiosa» si sono
rafforzate le paure nei confronti di una perdita dell’«identità cristiana»
americana, minacciata, da una parte, dagli islamici e, dall’altra, dalla
secolarizzazione. Questi pericoli, da quando siede alla Casa Bianca, vengono
ricondotti al presidente Obama e alle sue politiche.

Fuori dalla vita pubblica

Nel numero di marzo 2012 del mensile
conservatore First Things era stata pubblicata una dichiarazione
congiunta di esponenti religiosi protestanti e cattolici in cui si afferma che «i
difensori dei diritti dell’uomo, ivi compresi i governanti, hanno cominciato a
definire la libertà religiosa in un modo sempre più riduttivo, riconducendola a
una semplice libertà di culto». La religione biblica, invece, secondo la
dichiarazione, ha un carattere essenzialmente pubblico e non può essere ridotta
a un fatto privato. «Non è affatto esagerato» prosegue il documento «vedere in
questi sviluppi un movimento che cerca di spingere la fede religiosa, e
soprattutto le convinzioni religiose e morali cristiane ortodosse, fuori dalla
vita pubblica». Dentro questo quadro espresso sul periodico conservatore, il
fatto che lo stato renda obbligatoria, anche da parte delle istituzioni
religiose, l’offerta gratuita di contraccezione, diventa un attentato alla
costituzione e ai diritti che essa riconosce. In particolare alla libertà
religiosa, dato che tali imposizioni entrano nel campo della liceità della
contraccezione rispetto alla quale cattolici e protestanti, pur non
condividendo la stessa valutazione generale, concordano quando ci sia da
ritenere abortivo, e quindi moralmente inaccettabile, il ricorso alla «pillola
del giorno dopo».

Ingerenze confessionali, ingerenze laiche

Cosa lega tra loro il dibattito
statunitense appena riferito e l’episodio della London School of Economics?

Apparentemente nulla. In realtà
entrambi riguardano la concezione di laicità dello stato e la libertà di
espressione. Nel caso londinese viene stigmatizzata una ingerenza «confessionale»
nella libertà di espressione personale. Nel secondo una ingerenza «laica» dello
stato nella libertà di adesione alle convinzioni religiose di alcune
istituzioni private. In tutti e due i casi è in gioco anche un altro aspetto:
quello del cosiddetto «spazio pubblico».

In esso si devono poter manifestare
liberamente le proprie convinzioni. Nessuno, ovviamente, mette in discussione
la libertà di farlo in privato. Ciò che costituisce problema è, invece, la
dimensione pubblica della propria fede religiosa o della propria valutazione,
anche critica, della fede stessa.

Non c’è dubbio, inoltre, che la fede
biblica abbia un carattere pubblico, come sostiene la dichiarazione pubblicata
dal First Things. Lo stesso vale anche, e forse ancora di più, per
l’islam. Ma tale «carattere pubblico» della fede può spingere una religione a
pretendere che la propria concezione morale entri tout court nello «spazio
pubblico» rappresentato dalle norme dello stato?

Probabilmente no. Si violerebbe,
altrimenti, la sua laicità. Ma si violerebbe la laicità dello stato anche se,
al contrario, lo «spazio pubblico» diventasse un luogo in cui la «religione non
c’è», uno spazio religiosamente vuoto (cosa che occorrerebbe verificare se
possibile, oltreché giusta), o un luogo in cui fosse possibile realizzare un’«etica
irreligiosa»: sia sotto forma di satira irrispettosa, sia sotto forma di norme
contrarie alle convinzioni religiose.

Laicità piegata ai propri fini

Non si tratta di un nodo semplice da
sciogliere.

Ci sono casi in cui le norme
contrarie alle convinzioni religiose vengono considerate legittime anche dalla «destra
religiosa», quando queste concordano con i suoi obiettivi.

Per rimanere negli Usa, dove i
problemi si presentano spesso in modo più evidente e, a volte, anche più acuto
che in Europa, dal 2010 alcuni stati come il Tennessee, la Louisiana, l’Arizona
– ma in molti altri si sta procedendo nella stessa direzione -, hanno
introdotto norme che pongono restrizioni significative alla libertà religiosa
delle comunità musulmane ed ebraiche. In queste comunità infatti operano «tribunali»
che applicano ai propri fedeli le leggi religiose, la sharia islamica e
la halakhah ebraica. Quando tali «tribunali» non garantiscono gli stessi
diritti previsti dalla Costituzione, le parti interessate possono ricorrere a
un tribunale laico. Perché in questi casi è considerata legittima l’«ingerenza»
dello stato e la restrizione della libertà religiosa?

La bussola dei diritti costituzionali

La risposta è chiara: la restrizione
del diritto alla libertà religiosa è possibile quando questa eviti la
violazione di altri diritti costituzionali.

Sono le norme costituzionali, dunque
– naturalmente delle costituzioni democratiche che riconoscono e proteggono
tutti i diritti civili e di libertà -, che debbono prevalere, perché
garantiscono a tutti i cittadini pari diritti e pari libertà. Questo deve
valere anche quando si invoca uno «spazio pubblico» in cui esprimere la propria
fede religiosa. Tale spazio dev’essere regolato dalle norme costituzionali che
valgono per tutti. È questo, propriamente, che caratterizza lo stato laico e
non confessionale.

E dell’obiezione di coscienza

Se dalle istituzioni
e dalle comunità si passa a considerare la persona, per difenderla
dall’ingerenza dello stato nelle sue convinzioni religiose e nella sua
coscienza, rimane fondamentale il diritto all’obiezione di coscienza. Ha
costituito un grande progresso civile il suo ingresso da qualche decennio tra
le leggi degli stati. Uno stato laico deve sempre prevederla quando sono in
gioco norme che possono contrastare le convinzioni morali e religiose di una
persona.

In Italia non è
stato facile raggiungere questo risultato. Molti hanno pagato prezzi elevati
perché tale diritto fosse riconosciuto. Ricordiamo il caso degli obiettori di
coscienza al servizio militare, esploso negli anni ‘70, costretti in carcere
perché non volevano indossare la divisa. La loro scelta ha reso possibile la
legalizzazione di quella forma di obiezione di coscienza. In seguito, come
noto, in Italia ne sono state riconosciute altre: ad esempio l’obiezione dei
medici alla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.

Per quanto
riguarda la riforma di Obama, alla fine di giugno 2012, la Corte suprema
americana l’ha dichiarata costituzionale, in particolare dove prevede l’obbligo
per tutti i cittadini di dotarsi di un’assicurazione sanitaria. Rimane però
aperta la questione che contrappone il presidente e le istituzioni religiose.
Obama ha fatto un passo indietro, cercando un accordo: «Le organizzazioni
religiose non dovranno pagare per questi servizi o provvedervi direttamente»,
ha affermato ancora nel febbraio del 2012, precisando che le istituzioni
affiliate a organizzazioni religiose non avrebbero più avuto l’obbligo di
coprire la spesa sanitaria dei dipendenti per gli anticoncezionali. Questo non
ha impedito che le arcidiocesi di New York e Washington, insieme a una
quarantina di altre istituzioni e gruppi cattolici, avviassero alcuni mesi dopo
una causa contro la riforma, sostenendo che «i progressi nella modifica della
norma non erano stati incoraggianti».

Paolo Bertezzolo

* Per correttezza abbiamo
riportato questo sito, ma se la sua qualità è rappresentata da alcune delle
vignette che abbiamo visto, non vale davvero il nostro tempo; è più frutto di
goliardia e d’ignoranza in malafede che d’intelligenza; il fatto che se la
prenda sia con Islam e Cristianesimo non contribuisce certo a renderlo almeno
dignitoso, ndr.

Paolo Bertezzolo




Francia. Il velo e gli altri simboli

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 17


Belgin Dogru, 11 anni, musulmana, viene esclusa dalla scuola per
il suo rifiuto di partecipare alle lezioni di ginnastica in cui è obbligatorio
togliere il velo. Dal suo caso nasce un forte dibattito che porta alla nota
legge francese sul divieto di esporre simboli religiosi nei luoghi pubblici. I
numerosi ricorsi presentati dalla famiglia di Belgin vengono respinti. L’ultima
opzione è quella di rivolgersi alla Corte europea per i diritti umani che
vigila sulla libertà religiosa, la cui sentenza finale, emessa nel dicembre
2008, non è per nulla scontata.

Molti ricorderanno la questione del
velo islamico scoppiata anni addietro in Francia. In una città del Nord, un
giorno del 1989, due ragazze di origine marocchina si erano presentate nel loro
liceo con un foulard in testa. La cosa forse non avrebbe destato alcun problema
se il preside non avesse impedito loro di seguire le lezioni finché non se lo
fossero tolte. I mezzi di informazione fecero il resto e la notizia si diffuse
rapidamente un po’ in tutta Europa.

Una dozzina di anni dopo, altri casi
del genere hanno scatenato accese discussioni nel paese transalpino. Indossare
il velo si è trasformato da questione privata in fatto politico. Per molti
islamici, infatti, è diventato un simbolo di resistenza contro la cultura
occidentale. Sempre più frequentemente giovani figlie di immigrati maghrebini,
di nazionalità francese, hanno inteso affermare la loro appartenenza all’Islam
indossando un foulard che ne nascondesse la capigliatura.

Il caso di Belgin Dogru: a scuola senza velo

Il caso di Belgin Dogru, di cui si è
occupata la Cedu (la Corte europea dei diritti umani), è sorto in questo
contesto. Dogru, nata nel 1987 e residente a Flers, un centro di circa 16.000
abitanti della Bassa Normandia, al tempo dei fatti aveva 11 anni. Musulmana,
frequentava una scuola pubblica del paese. A partire dal gennaio 1999 ha
iniziato a presentarsi alle lezioni con i capelli coperti da un velo.
L’insegnante di educazione fisica l’ha ripetutamente richiamata, invitandola a
toglierselo perché quella tenuta era incompatibile con la pratica della sua
disciplina. La ragazza ha sempre rifiutato di obbedirgli ed è stata ogni volta
esclusa dalle lezioni. Il docente, alla fine, si è rivolto all’autorità
scolastica che, alcuni giorni dopo, ha escluso dalla scuola l’alunna per non
aver rispettato l’obbligo della frequenza.

Ricorsi respinti fino all’ultima opzione: la Cedu

Il ricorso dei genitori contro questa
decisione è stato respinto dalla commissione accademica d’appello e la ragazza
ha dovuto proseguire i suoi studi frequentando corsi per corrispondenza. Nel
frattempo, però, i genitori hanno presentato ricorso anche al tribunale
amministrativo di Caen e, dopo il rigetto di questo, alla corte d’appello di
Nantes, che lo ha respinto a sua volta. In entrambi i casi il tribunale ha
ritenuto che il comportamento di Belgin Dogru avesse creato un clima di
tensione all’interno dell’istituto e che, nonostante la ragazza avesse a suo
tempo proposto di sostituire il velo con una cuffia, l’insieme delle
circostanze avesse giustificato la sua esclusione definitiva dalla scuola. La
giovane, è stato affermato, ha oltrepassato i limiti del diritto di esprimere e
manifestare il suo credo religioso all’interno dell’istituto. Il Consiglio di
Stato, cui i genitori di Belgin hanno presentato alla fine ricorso, ha dato
loro definitivamente torto, dichiarandolo inammissibile.

A questo punto essi si sono rivolti
alla Cedu, ritenendo violata la propria libertà religiosa.

La questione, come appare chiaro,
riveste una notevole importanza. Chiama in causa infatti il valore della laicità
dello stato e quindi il rapporto tra questo e le confessioni religiose presenti
sul suo territorio. Tale questione, di primaria portata in Europa, assume un
valore tutto particolare in Francia.

Per imparare, non per fare proselitismo

Il paese transalpino, infatti, è
l’unico ad avere realizzato fin dal 1905 una piena separazione tra Chiesa e
stato. La questione del velo è stata presa come una minaccia contro tale
separazione e una negazione della laicità.

Di fronte all’estendersi delle
polemiche nel paese, e prima che il caso Dogru arrivasse alla Cedu, il
parlamento nel 2004 ha approvato una legge che bandisce i simboli religiosi
dalle scuole statali francesi. La decisione è stata presa a larghissima
maggioranza, perché hanno votato a favore sia la maggioranza (allora di
centrodestra) sia l’opposizione socialista. Il governo ha più volte
sottolineato che essa non mirava a colpire alcuna religione, ma intendeva
difendere, appunto, la laicità dello stato. «Si tratta di affermare con
chiarezza che la scuola pubblica è un luogo dove si va per imparare e non per
fare attività militante o proselitismo», ha proclamato il presidente
dell’Assemblea legislativa in occasione dell’approvazione della legge.

Dalla rivoluzione del 1789 al 1905 a oggi

Occorre tener presente che la
repubblica francese è stata costruita attorno al principio di laicità, derivato
da una lunga tradizione. È nato infatti dalla Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789, in piena rivoluzione. In seguito è stato
richiamato nelle leggi di riforma della scuola del 1882 e del 1886, che hanno
istituito la scuola primaria obbligatoria, pubblica e, appunto, laica. Ma la
vera chiave di volta della laicità francese è stata, come accennato, la legge
del 9 dicembre 1905, che ha separato in modo netto la Chiesa e lo stato.
Nell’articolo 1 vi si afferma: «La repubblica assicura la libertà di coscienza.
Essa garantisce il libero esercizio del culto sotto le sole restrizioni di seguito
decretate nell’interesse dell’ordine pubblico». E nell’articolo 2 la
separazione è definita in modo preciso: «La repubblica – vi si legge – non
riconosce, né stipendia, né sovvenziona alcun culto».

Una legge, in sostanza, che ha
stabilito un vero e proprio «patto di laicità», da cui sono derivate e derivano
varie conseguenze sia per i servizi pubblici sia per i cittadini che ne
usufruiscono. Lo stato, da una parte, riconosce il pluralismo religioso e la
propria neutralità nei confronti dei culti. I cittadini, dall’altra, come
contropartita di tale «protezione» della loro libertà religiosa, devono
rispettare i luoghi pubblici condivisi da tutti. La laicità dello stato è stata
poi consacrata dall’articolo 1 della Costituzione del 4 ottobre 1958, che dispone:
«La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa
assicura l’uguaglianza dinanzi alla legge di ogni cittadino senza distinzione
di origine, razza o religione. Essa rispetta ogni credo». Non c’è chi non veda
l’affinità di tale formulazione, fin nell’uso delle stesse espressioni, con
quella dell’articolo 3 della Costituzione italiana. In Italia, tuttavia, dagli
stessi principi non sono seguiti gli stessi comportamenti legislativi. Non c’è
mai stato, in particolare, un problema di uso del velo nelle scuole statali. Lo
stesso è accaduto nel resto d’Europa. Là dove la questione si è posta, come in
Germania, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Spagna, Svezia e Danimarca, è stata
risolta in modi diversi, ma senza particolari conflitti. Problemi invece si
sono avuti – e ci sono ancora – in Turchia, dopo l’avvento al governo di
Erdogan che ha rimesso in discussione quanto stabilito agli inizi del ’900 dal
regime laico di Ataturk, il primo a impedire alle donne di portare il velo
nelle istituzioni pubbliche.

Uno scontro ideologico

In Francia, invece, l’uso del velo ha
suscitato un vero scontro ideologico. Indossarlo ha assunto per i musulmani –
non per tutti, in verità: vi sono state infatti associazioni islamiche che
hanno appoggiato la legge – un significato preciso: rifiutare la laicità,
rifiutando la scuola pubblica, di seguire le lezioni di ginnastica, le lezioni
di biologia, le lezioni di musica, le lezioni di disegno e così via.

Le ragazze che vogliono indossare il
velo partono dal principio che la donna occidentale non è rispettata dall’uomo
e che loro stesse parteciperebbero a questa mancanza di rispetto se
accettassero appunto di non metterlo.

La polemica è cresciuta ancor più
dopo l’approvazione della legge. La maggioranza dei musulmani in Francia e
quelli all’estero, infatti, l’hanno intesa come un’aggressione e un rifiuto
dell’Islam, anche se la legge in realtà tratta dei simboli di ogni religione,
compresi il crocefisso e la kippah ebraica.

Si sono accese discussioni violente e
confuse. Per gli estremisti musulmani è stata l’occasione per designare la
Francia e l’Occidente come «nemici dell’Islam».

Insomma: il caso è diventato
l’emblema del confronto/scontro del modello francese di laicità con
l’integrazione dei musulmani negli spazi pubblici e, in primis, nella scuola.
Per molti cittadini francesi, l’aumento della presenza islamica minaccia i
valori dello stato, per cui occorre restaurare l’autorità repubblicana. La
scuola è diventata il terreno privilegiato di tale «risposta». La presenza
visibile in essa di segni religiosi è avvertita da molti come contraria alla
sua missione (di essere cioè uno spazio di neutralità e un luogo di risveglio
della coscienza critica), nonché una minaccia ai valori che deve insegnare, a
partire dall’uguaglianza tra uomini e donne.


Condizioni di coabitazione

Con il caso di Belgin Dogru la Cedu
si è dunque trovata a risolvere un problema giuridico, sconfinato però nel
campo politico e ideologico e gravato da implicazioni di grandissimo rilievo.
In ballo c’è la convivenza in Europa con una popolazione musulmana ormai
quantitativamente consistente. L’Islam costituisce la seconda religione del
vecchio continente. È importante rendersi conto di questo e ammettere che
l’Europa vive e continuerà a vivere con una parte della propria popolazione di
religione musulmana. Solo così si potranno definire sempre meglio l’ambito e le
condizioni di tale coabitazione.

La legge francese contro
l’ostentazione dei simboli religiosi nelle scuole, concepita con questo
spirito, è stata tuttavia raffazzonata e votata in un clima di forte tensione e
contrapposizione sociale. Così non si è riusciti a portare il confronto sui
problemi veri che si volevano affrontare: la laicità dello stato, appunto, e la
condizione della donna, la libertà della quale è tutelata e promossa
dall’ordinamento europeo. Questo secondo aspetto è a sua volta di primaria
importanza. Alcuni immigrati infatti vorrebbero che le loro donne, le loro
figlie e le loro sorelle vivessero nelle medesime condizioni dei loro
concittadini rimasti in patria, rifiutando i diritti di cui godono le donne
occidentali.

I rischi dei simboli

Di fronte alla Cedu il governo
francese ha ammesso che le restrizioni imposte alla giovane Dogru
nell’indossare il velo islamico all’interno della scuola costituivano una
limitazione del suo diritto di manifestare la propria religione. Tuttavia, ha
sostenuto, tale limitazione rispettava quanto previsto dall’articolo 9 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Essa infatti, oltre a rispondere a
necessità pratiche, come quella di dotarsi di un abbigliamento adatto
all’esercizio dell’educazione fisica a scuola, era necessaria per rispettare i
principi costituzionali di laicità e di uguaglianza tra i sessi.

Il governo tuttavia si è spinto più
in là, proprio per la forte concezione di laicità che viene sostenuta dalle
leggi francesi. Occorre anche tener conto – ha infatti osservato – delle
ripercussioni del comportamento di Belgin Dogru sugli altri alunni della sua
classe, che al tempo dei fatti avevano, come lei, undici anni, e valutare
l’impatto che un simbolo esteriore, quale il portare un velo, poteva avere
sulla libertà di coscienza e di religione di alunni in giovane età, facilmente
influenzabili. Si sarebbe potuto avere, in altri termini, un effetto di
proselitismo. Insomma, e questo è il senso della posizione del governo francese
nel dibattito di fronte alla Corte, lo stato, e le sue istituzioni come la
scuola, devono rimanere rigidamente neutrali in fatto di religione e dei suoi simboli.

La sentenza della Corte europea

La Corte, con la sentenza del 4
dicembre 2008 ha dato all’unanimità ragione al governo, condividendone le
ragioni. In più ha ricordato che la giovane Dogru e i suoi genitori, all’atto
dell’iscrizione alla scuola, avevano sottoscritto il regolamento interno
dell’istituto, impegnandosi così a rispettarlo. Esso vietava espressamente
l’uso di «simboli ostentatori che costituiscono in se stessi elemento di
proselitismo e di discriminazione». La giovane e i suoi genitori, dunque,
potevano ragionevolmente prevedere che il rifiuto di togliere il velo durante
il corso di educazione fisica e sportiva avrebbe potuto portare alla esclusione
dall’istituto per il mancato rispetto dell’obbligo di frequenza. In questo
caso, dunque, non è stata violata la Convenzione europea, e la restrizione alla
manifestazione della libertà religiosa, nei termini in cui è avvenuta, è stata
legittima, proprio perché ha avuto la finalità di preservare gli imperativi
della laicità negli spazi pubblici scolastici.

Al di là della sentenza, una questione aperta

La Francia, dove secondo le stime
ufficiali, su una popolazione di religione musulmana stimata tra i 4 e i 6
milioni, le donne che indossano il velo sono circa 2000, ha approvato nel 2011
un’altra legge che vieta l’uso del velo islamico in pubblico. Anche questa ha
suscitato la reazione della comunità islamica. La Cedu è stata nuovamente
interpellata da donne condannate in base alla nuova legge, perché ritengono che
violi la loro libertà religiosa. Entro quest’anno la Corte europea dovrebbe
esprimersi in merito. Ma al di là di questo rimane aperto il problema, che è
politico, culturale e sociale, del rapporto degli stati democratici europei con
le nuove religioni presenti oggi nel vecchio continente e, in particolare con
l’Islam. Quale sia la strada migliore per realizzare convivenza, integrazione,
dialogo, rispetto reciproco, non è certamente facile stabilirlo. L’Europa
dispone di un patrimonio preziosissimo di valori sociali, civili, liberali e
democratici, in base ai quali il problema di cui si è detto deve essere gestito
e risolto. Non si tratta di una questione solo «formale», né si può affrontarla
in termini ideologici o manichei. La laicità appartiene a tutti, «vecchi» e «nuovi»
europei, e permette a tutti di esercitare la libertà di religione. È
importante, tuttavia, rendere il più possibile omogenea, nei vari paesi, la sua
traduzione nella vita concreta delle istituzioni e della società. Quanto sarà
possibile, infatti, il perdurare di una situazione che vede il medesimo
principio di separazione tra stato, Chiesa e religioni affermato nell’Unione
europea, tradursi nelle istituzioni dei vari paesi in livelli diversi di
tolleranza nei confronti del crescente pluralismo della società contemporanea? È
una situazione in cui la Cedu ha un compito notevole da svolgere. Ma certo non
può risolverlo da sola.

Paolo Bertezzolo

Paolo Bertezzolo




Quando l’islamofobia è buddhista

Riflessioni e fatti sulla libertà
religiosa nel mondo – 11
In Myanmar si registrano centinaia di musulmani uccisi e decine
di migliaia sfollati. Recenti episodi di vessazioni anti islam si sono
verificati in Sri Lanka. Anche la voce autorevole del Dalai Lama si è alzata
per condannare le violenze e implorare i monaci buddhisti dei due paesi, benché
non appartenenti al buddhismo tibetano: «Uccidere le persone in nome della
religione è davvero molto triste, impensabile». E il rischio di una reazione uguale e opposta in
altri paesi a maggioranza islamica cresce.

Da un anno, la violenza ha
sostituito un difficile «status quo» nei rapporti tra maggioranza buddhista e
minoranza musulmana in Myanmar. Prima ha colpito i Rohingya, minoranza etnica
che abita prevalentemente nello stato Rakhine, al confine con il Bangladesh, a
cui il governo birmano non riconosce alcuna cittadinanza, e poi le sparse ma
attive comunità islamiche di antica presenza e di piena cittadinanza. I
Rohingya, circa 800mila in Myanmar e 300mila nei campi profughi in Bangladesh,
rappresentano una delle tante «questioni» irrisolte di un paese sottoposto fino
a due anni fa a un regime militare autoreferenziale e intransigente che pare
oggi avviato verso una concreta apertura alle istanze di libertà, benessere e
diritti. I musulmani locali, in parte arrivati in Myanmar con l’esperienza
coloniale britannica, in parte convertiti dal buddhismo nei secoli scorsi, sono
oggetto di una campagna di odio che fa leva sull’islamofobia ma anche sulla
rivalità economica tra le comunità.

In modo inatteso – e nel sorprendente silenzio dei personaggi e
movimenti che stanno guidando la nazione fuori da una delle più gravi
repressioni della storia modea – la nuova realtà politica e istituzionale del
paese ha portato immediatamente in superficie tensioni latenti, ma anche un impensato
nazionalismo e la xenofobia di una parte della comunità buddhista e della
stessa leadership monastica.

Anche in Sri Lanka

Dalla parte opposta del golfo del Bengala, una situazione meno
radicale ma simile nei presupposti sta interessando lo Sri Lanka. Qui, la fine
della guerra civile nel maggio 2009, con la sconfitta della guerriglia espressa
dalla minoranza tamil, ha di fatto costretto al silenzio le voci di dialogo. Il
governo e il presidente Mahinda Rajapakse hanno, senza ormai ostacoli, perseguito
la politica del pieno potere dei singalesi buddhisti, non solo rifiutando gli
interventi estei volti ad accertare, ad esempio, gli abusi compiuti dalle
forze governative su ribelli e civili Tamil, ma anche stringendo la morsa della
censura e della «sicurezza pubblica», e allentando il controllo sul
nazionalismo estremista, il quale ha nell’identità religiosa il suo caposaldo.
Atti di intimidazione e violenze vere e proprie sono stati commessi negli
ultimi mesi soprattutto contro la consistente comunità islamica dell’isola (il
10% su 20 milioni di abitanti), ma non solo.

Buddhismo nonviolento?

Colpisce che nei due casi birmano e singalese sembri mancare un
elemento «scatenante», come sarebbe potuta essere l’infiltrazione nelle comunità
musulmane di membri militanti. Stupisce anche la partecipazione di esponenti
religiosi buddhisti, in molti casi addirittura direttamente coinvolti nelle
violenze.

Da qui nascono domande legittime sulla validità della tradizionale
opinione – diffusa soprattutto in Occidente – per cui la pratica della dottrina
buddhista, nelle sue varie forme storiche, sarebbe di per sé pacifista.

A maggior ragione impressiona l’emergere di un movimento violento
in paesi dove il buddhismo giocò in passato un ruolo essenziale nel processo
indipendentista anti britannico. E se per lo Sri Lanka si può sostenere che la
leadership
religiosa è stata imbavagliata e, soprattutto, tenuta
strettamente legata alle esigenze del potere politico e dei militari, in
Myanmar invece il clero buddhista ha cercato di essere attivo agente di
cambiamento e di democrazia, anche pagando duramente per le sue convinzioni, e
sempre mantenendo un atteggiamento nonviolento.

Vero è che l’identità nazionale in entrambi i paesi è strettamente
legata al buddhismo, e che questo ha spesso messo le minoranze, nella storia
post indipendenza, in condizioni difficili.

Gli eventi violenti degli ultimi tempi, tra l’altro, rischiano di
avere ripercussioni altrove: già oggi si registrano segnali di reazione alle
notizie che arrivano da Myanmar e Sri Lanka in paesi musulmani come Indonesia e
Malaysia.

Il Silenzio di San Suu Kyi

Uno studio sui rapporti tra organizzazione monastica, comunità
buddhista e leadership politica dei due paesi potrebbe spiegare con maggiore
chiarezza la situazione attuale, anche se comunque con ampie aree grigie.

Le recenti dichiarazioni del governo birmano di volere garantire i
diritti alla sicurezza e alla pratica religiosa della comunità musulmana (il 5%
dei 58 milioni di abitanti) contrastano con l’allargarsi delle aree di tensione
anche in regioni (come lo stato Kachin) che sfuggono in parte al controllo
diretto delle autorità centrali. Suscita meraviglia e attira critiche anche il
silenzio di Aung San Suu Kyi, spiegabile forse con la sua candidatura alle
elezioni presidenziali del 2015, o con la coerenza verso il suo impegno a
lavorare per la riconciliazione piuttosto che per la sottolineatura di fratture
già presenti nella composita società birmana. In ogni caso, pochi sembrano gli
spazi per una soluzione pacifica e duratura. Anzi, il rischio è che le violenze
si allarghino, anche davanti all’evidente impotenza della comunità
internazionale che ha – significativamente – lasciato cadere buona parte delle
sanzioni verso il governo erede del regime che per oltre 50 anni ha fatto
affondare il paese nella violenza e nella povertà.

Come sia possibile che il monaco Ashin Wirathu sia emerso come
referente del buddhismo violento e xenofobo in Myanmar, pochi lo spiegano, ma
colui che nel 2012, appena rilasciato dopo nove anni di carcere per incitamento
all’odio religioso, si era dichiarato «il Bin Laden birmano», da un anno spinge
il suo «Gruppo 969» a propagandare l’intolleranza nel paese.

La sua «campagna», orchestrata con ogni probabilità assieme ad
alcuni settori della politica e delle forze armate, cade in un vuoto di moralità
e di legittimazione dell’organizzazione monastica buddhista. Tra i 500mila
monaci ci sono infatti molti che nei monasteri hanno trovato un rifugio da
povertà, violenza, emarginazione. Giovani uomini con un’infarinatura di fede e
uno scarso bagaglio dottrinale pronti a scaricare rabbia e frustrazioni sui
bersagli loro indicati.

Rischi di contagi

Per Shwe Nya Wa, abate buddhista a Mandalay, un moderato, la
situazione segnala come qualcuno voglia accendere seri problemi nel paese per
spingere il governo a intervenire con durezza, come un tempo, e per confermare
la «debolezza» della democrazia e delle sue istituzioni già insinuata dagli
abusi di vario tenore verificatisi grazie all’eliminazione del blocco degli
investimenti stranieri che ha portato nel paese investitori istituzionali e
occasionali, pubblici e privati.

Davanti a oltre 300 morti e 140mila profughi dal giugno 2012,
appare chiaro che non solo la situazione è fuori controllo, ma è anche forte il
rischio di un «contagio» alla vicina Thailandia, anch’essa in maggioranza
buddhista, dove il conflitto in corso da tempo nel Sud tra forze di sicurezza e
ribelli indipendentisti musulmani potrebbe incentivare – se intervenisse una
spinta di carattere religioso-istituzionale – l’ostilità generale verso i
seguaci di Allah, il 4% della popolazione.

Tamil sotto torchio

In Sri Lanka nessun musulmano risulta finora vittima dell’ostilità
dei conterranei buddhisti che comunque fa sorgere preoccupazioni nella società,
oltre a reazioni nel mondo islamico. Durante la devastante guerra civile che ha
interessato il paese dal 1983, i musulmani locali hanno pagato un caro prezzo
per la loro neutralità. Soprattutto ai guerriglieri tamil. Oggi, con i Tamil
totalmente sottomessi al dominio dell’etnia singalese, i musulmani si ritrovano
sotto il giogo dei vincitori.

Vittima, in parte dei sospetti che risalgono ai tempi della
dominazione britannica, in parte degli effetti del radicalismo musulmano di
molte aree del mondo, in parte – ancora – della recente opposizione alla
macellazione secondo i dettami di purità musulmana (halal) o di piccole
rivalità locali, oggi la comunità islamica, pacifica e laboriosa, certamente
lontana delle suggestioni jihadiste, si trova sotto il tiro degli
estremisti del Bodu Sena (la Brigata buddhista), che contro i seguaci di
Maometto tiene comizi, proclama azioni di boicottaggio, condanna la prolificità
delle famiglie devote di Allah o chiama più chiaramente all’espulsione.

Il fatto che alti esponenti del governo di Colombo, e tra questi
il potente ministro della Difesa Gotabhaya Rajapaksa (fratello del presidente)
partecipino a iniziative della Brigata, come l’apertura di centri di
addestramento, e definiscano i monaci nazionalisti come destinati a «proteggere
il paese, la religione e la razza», chiarisce come il rischio di un nuovo
conflitto interno sia reale e le motivazioni del tutto pretestuose, utili solo
al nazionalismo e a chi se ne avvantaggia. Mostra inoltre la debolezza
identitaria, e la scarsa conoscenza del mondo, frutto anche di un’informazione
censurata e parziale.

Il senso di unità nazionale, incentivato da decenni di regimi
oppressivi, la dominanza storica su altre fedi, la preoccupazione per un «contagio
islamista», sia attraverso il potere dei petrodollari, sia attraverso una
volontà dell’Islam di convertire i buddhisti, contribuisce a una reazione che
non ha nelle istituzioni un freno, ma piuttosto un garante.

Stefano Vecchia
 


«Buddhismo e pacifismo»

Il principio della nonviolenza è intrinseco alla pratica
buddhista, come indicato nel Dhammapada, la raccolta di scritti che
raccoglierebbe, secondo la tradizione, l’originaria dottrina del Buddha. Il
primo sutra (aforisma) indica che «se
un uomo parla o agisce secondo un pensiero malvagio, il dolore lo segue come la
ruota segue lo zoccolo del bue che tira il carro».

Dei cinque precetti morali obbligatori per il monaco, il
primo è l’astenersi dall’uccidere esseri viventi. Strumento per raggiungere
pace interiore ed equilibrio, anche la meditazione è indicata negli antichi
testi come idonea a produrre uno stato di «consapevolezza amorevole» verso
tutti.  Storicamente, però, la religione
buddhista, che pure non si riferisce a un Dio onnipotente, a un popolo eletto e
nemmeno ha un carattere prettamente proselitistico e universalistico, ha
dimostrato di essere militante quanto l’Islam e il Cristianesimo. Le cronache
srilankesi ricordano come la dottrina del Buddha si sia affermata sull’isola
nel II secolo a.C., quando re Dutugemunu infilò sulla punta di una lancia una
reliquia del Buddha e guidò alla vittoria contro il rivale induista le sue
truppe che includevano 500 monaci. Fu un massacro, ma le cronache ricordano
come il sangue sparso sia andato a beneficio della fede oggi dominante.
Similmente sovrani indiani, khmer, birmani, thai e indonesiani giustificarono
le loro campagne belliche con la «necessità» di diffondere il buddhismo e
innalzare reliquiari in aree sempre più vaste.

In sostanza, da lungo tempo l’intransigenza dottrinale e il
rigore morale sono stati sovente espropriati nell’ecumene buddhista da
interessi diversi. Oggi fede minoritaria, posta sulla difensiva per ragioni
storiche e demografiche, il buddhismo rischia derive integraliste contrarie non
solo alle sue origini che stanno nel Buddha storico, ma anche ai suoi stessi
principi tramandati.  (S.V.)

Stefano Vecchia




Lo Yom Kippur alla corte di Strasburgo

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 15
Un avvocato napoletano di religione ebraica vede rifiutata
la sua richiesta di rinvio di un’udienza per partecipare alla festa del Yom
Kippur. E ricorre alla Corte di Strasburgo (Cedu) per il mancato rispetto del
suo diritto di culto. Un caso emblematico della difficile ricerca di equilibrio
tra diritti in conflitto. E del ruolo fondamentale che la Corte svolge nella
costruzione di una comune coscienza civile in Europa, anche sul tema della
libertà di religione. Prendendo in esame le sentenze della Cedu, possiamo
comprendere se in Europa esiste un problema di libertà religiosa e di pensiero
e, quindi, di laicità dello stato.

La Corte europea dei diritti
dell’uomo (Cedu) ha il compito di decidere se nei paesi che fanno parte del
Consiglio d’Europa e dell’Unione europea viene violata la libertà religiosa,
oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il pluralismo
religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i principi
costitutivi dell’Europa. La Cedu è sorta nel 1959 sulla base della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
.
Chiunque ritenga che tali diritti non siano stati rispettati, si può appellare
a essa. Per i casi riguardanti la libertà religiosa l’articolo della
Convenzione europea a cui fare riferimento è il numero 9 sulla libertà di
pensiero, di coscienza, di religione e di manifestare la propria fede o le
proprie convinzioni.

Costruire una comune coscienza civile europea

A livello europeo le sentenze della Cedu sono molto importanti, al
di là di quanto affermano le singole Costituzioni nazionali (le quali, essendo
tutte democratiche, riconoscono esse stesse in linea di principio le medesime
libertà). Se infatti, all’interno di un singolo paese europeo i diritti e le
libertà fondamentali venissero, per qualsiasi motivo, violati, la Cedu può
riconoscerlo grazie al suo ruolo di giudice di ultima istanza.

È per questo che la Corte svolge il fondamentale compito di
contribuire alla costruzione in Europa di una comune coscienza civile, quindi
anche riguardo alla libertà di religione.

Tra Yom Kippur e lavoro

Analizzando le sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo ci
troviamo di fronte a casi emblematici che mostrano, spesso, quanto sia
difficile trovare l’equilibrio giusto tra diversi diritti: ad esempio il
diritto di culto di un avvocato e il diritto di altre persone alla durata
ragionevole di un processo.

È il caso della sentenza emessa dalla Corte il 3 aprile 2012 che
vedeva l’avvocato napoletano di religione ebraica Francesco Sessa in
contrapposizione al governo italiano per la presunta violazione del suo diritto
di culto.

Il 7 giugno 2005 l’avvocato Sessa si presenta al giudice delle
indagini preliminari (Gip) di Forlì in rappresentanza di uno dei due querelanti
in una causa penale contro diverse banche. Il Gip titolare non può presenziare
all’udienza, e il suo sostituto, per fissare l’udienza successiva, propone due
possibili date: il 13 o il 18 ottobre. Entrambe, tuttavia coincidono con feste
ebraiche: rispettivamente lo Yom Kippur e il Succot. L’avvocato di Napoli lo fà
presente. Osservante, membro della comunità ebraica della sua città, non potrà
partecipare all’udienza di rinvio. E chiede che venga indicata una data
diversa, appellandosi alla legge del 1989 che regola i rapporti tra lo stato
italiano e l’Unione delle comunità ebraiche. Ma il giudice non tiene conto
della richiesta, e fissa l’udienza per il 13 ottobre. Anche il Gip titolare
della causa, cui l’avvocato napoletano si rivolge immediatamente, respinge la
sua richiesta di rinviare la nuova udienza. L’interessato, allora, sporge
querela contro entrambi i giudici.

Diritti o «ragioni personali»?

Arriva frattanto l’udienza del 13 ottobre e l’avvocato non si
presenta. Il Gip lo dichiara assente per «ragioni personali» e, raccolto il
parere delle parti, rigetta la sua richiesta di rinvio perché non aveva motivi
legittimi per ottenerlo. L’avvocato napoletano fa ricorso contro tale
decisione. La causa, attraversati tutti i gradi di giudizio, termina il 15
febbraio del 2008, quando il Gip di Ancona, cui era alla fine pervenuta,
l’annulla sostenendo che nessun elemento dimostrava una violazione del diritto
dell’avvocato di esercitare liberamente il culto ebraico o un attentato alla
sua dignità in ragione della sua fede religiosa.

Cedu: ultima istanza

Sessa decide quindi di fare ricorso alla Cedu. Appellandosi all’art.
9 della Convenzione per i diritti dell’uomo, sostiene che l’aver fissato
l’udienza nel giorno di una festa ebraica gli ha impedito di partecipare
all’udienza attentando al suo diritto di manifestare liberamente la propria
religione. La legge del 1989, secondo lui, l’autorizzava ad assentarsi dal
lavoro in occasione di feste ebraiche, per poter esercitare il proprio culto.

Il governo italiano, contro cui l’appello alla Cedu è rivolto,
naturalmente è di parere contrario. E sostiene che il diritto invocato dall’avvocato
di Napoli non riveste carattere assoluto. Infatti la stessa legge che regola i
rapporti dello stato con l’Unione delle comunità ebraiche prevede espressamente
che le esigenze legate a servizi essenziali dello stato prevalgano sul diritto
dell’individuo a esercitare liberamente il proprio culto. E l’amministrazione
della giustizia costituisce certamente un servizio essenziale. Inoltre
l’avvocato avrebbe potuto farsi sostituire per quella particolare giornata da
un collega, e non l’ha fatto. Egli dunque ha rinunciato a conciliare gli
obblighi religiosi legati al suo culto con le esigenze della buona
amministrazione della giustizia.

Ribadire il diritto alla libertà religiosa…

Questa causa riveste un interesse particolare per il tema della
libertà religiosa nel nostro continente, perché la Corte europea dei diritti
umani deve confrontare il caso specifico dell’avvocato napoletano con i
principi fondamentali espressi nell’articolo 9 della Convenzione: la libertà
religiosa riguarda prima di tutto il «foro interiore» delle persone, ma implica
egualmente il diritto di manifestare la propria religione sia in modo
collettivo, in pubblico e assieme a chi condivide la stessa fede, sia
individualmente e in privato. La Corte sottolinea quindi che la libertà
religiosa non è una questione solo «interiore», soggettiva e individuale. Essa
non è un fatto «privato», come un certo «laicismo» di carattere «radicale»
pretende. Ha invece anche dimensione e rilievo pubblici. E solo tutelando
entrambe queste dimensioni si può parlare di libertà religiosa.

La Corte, da un lato, sostiene, in base a queste valutazioni, che
l’avvocato di Napoli aveva tutto il diritto di partecipare alle feste della sua
religione.

…puntualizzandone i limiti

Dall’altro lato, la stessa Corte afferma che tale diritto non è
assoluto. L’articolo 9, infatti non protegge qualsiasi atto ispirato a una
religione. E per chiarirlo ricorda altri due casi emblematici, su cui si era
espressa in precedenza. Il primo riguardava un agente di servizio pubblico,
Tuomo Konttinen, Finlandese, licenziato perché non aveva rispettato i suoi
orari di lavoro per la ragione che la Chiesa avventista del settimo giorno, a
cui egli apparteneva, vieta ai suoi fedeli di lavorare il venerdì dopo il
tramonto del sole. Il secondo si riferiva a un militare turco di nome Kalac
collocato d’ufficio in pensione per motivi disciplinari, perché manifestava
idee integraliste. In questi casi la Corte aveva ritenuto che non valesse
l’art. 9 perché le misure prese non erano motivate dalle idee religiose degli
interessati ma dagli obblighi contrattuali specifici che li legavano ai loro
datori di lavoro.

Anche nel caso dell’avvocato napoletano secondo la Corte non si è
verificata alcuna restrizione del suo diritto di esercitare liberamente il suo
culto. Infatti l’interessato aveva potuto svolgere i propri doveri religiosi.
Egli avrebbe dovuto invece soddisfare comunque i suoi doveri professionali
facendosi sostituire nell’udienza da un collega.

4 a 3: la delicatezza dell’equilibrio

La sostanza della sentenza della Corte va quindi contro Francesco
Sessa: non è stato un caso di violazione del suo diritto di religione.

All’interno della Corte la decisione non è stata facile da
prendere. Dei sette membri che la costituivano, tre hanno sostenuto che si era
verificata comunque una ingerenza nei diritti dell’interessato.

In una società democratica la possibilità di ingerenza è ammessa
dalla legge quando si tratta di proteggere i diritti e le libertà altrui. In
questo caso il diritto dell’avvocato napoletano era in conflitto con il diritto
delle persone coinvolte nel processo al quale Sessa avrebbe dovuto prender
parte a godere di una buona amministrazione della giustizia e a vedere
rispettato il principio della durata ragionevole del processo. Secondo i tre
membri della corte che davano «ragione» all’avvocato, tuttavia, l’ingerenza non
aveva risposto al criterio della proporzionalità, secondo cui tra i vari mezzi
che permettono di raggiungere lo scopo legittimo perseguito, le autorità devono
scegliere quello che lede meno i diritti e le libertà. Si doveva infatti
scegliere una soluzione che permettesse di conciliare sia i diritti di libertà
religiosa dell’avvocato di Napoli sia quello di buona amministrazione della
giustizia delle parti in causa, ad esempio organizzando in modo diverso il
calendario delle udienze. In quel caso, i disagi e i problemi provocati da tale
scelta avrebbero rappresentato un modico prezzo da pagare per il rispetto della
libertà di religione in una società multiculturale. In più, secondo loro, non
esisteva alcun motivo di urgenza, dato che non erano previste misure che
privassero qualcuno della libertà. Per questo, tre giudici su sette erano del
parere che fosse stata violata la libertà religiosa di Francesco Sessa.

Fatto sta che alla fine, nonostante i tre pareri a favore
dell’avvocato di fede ebraica, la sentenza della Corte gli ha invece dato
torto. Si può non essere d’accordo. Occorre tuttavia sottolineare l’importanza
dei principi affermati dalla Corte nella sua sentenza. Il fatto stesso che essa
abbia deciso a stretta maggioranza, dimostra quanto delicata sia la questione
del rispetto del diritto alla libertà religiosa, sia nella sfera privata sia in
quella collettiva e pubblica. Esso non è, come detto, un diritto assoluto, e la
sua limitazione – possibile esclusivamente per tutelare i diritti altrui – va
considerata con grande attenzione e prudenza. La libertà religiosa, come quella
di pensiero e di coscienza, è uno dei cardini fondamentali su cui si basa una
società autenticamente laica e pluralista.

Paolo Bertezzolo

Paolo Bertezzolo




Egitto: Prima e dopo la primavera araba

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 11

Secondo le ricerche del Pew Forum è uno dei paesi al mondo in
cui maggiormente viene violata la libertà religiosa. L’Egitto ha fin dalle sue
origini modee una grande difficoltà a risolvere il conflitto tra potere
statale e potere religioso. La cosiddetta primavera araba ha sparigliato le
carte sul tavolo dando maggiore peso alle autorità religiose e alla sharia. Ma
tutto è in movimento. 

Chiunque voglia iniziare a
occuparsi di Egitto si renderà immediatamente conto che non potrà non
considerare il fattore religioso. La società egiziana in patria e in
emigrazione (ad esempio la comunità egiziana in Italia) ne è profondamente
intrisa, e questo non riguarda solo i musulmani.

In Egitto circa il 90% della popolazione è costituito da musulmani
sunniti, l’1% da musulmani shiiti, l’8-12% da cristiani, in maggioranza della
Chiesa ortodossa copta, e il restante da altre minoranze, tra le quali i
baha’i  e gli ebrei (questi ultimi
stimati dall’Inteational Religious Freedom Report stilato dal
Dipartimento di Stato degli Usa in meno di 200 individui nel 2008, e in circa
100 nel 2012).

Per quanto riguarda la comunità cristiana, nonostante la Chiesa
copta ortodossa ne rappresenti la maggioranza, è importante considerare la
presenza di altre chiese: quella cattolica (con le sue sette denominazioni:
copto-cattolica, greco-melchita, maronita, siriaca, caldea, armena e latina),
quella greco-ortodossa, e quelle anglicana ed evangelica. Uno dei problemi
posti dalla predominanza della Chiesa copta ortodossa, messo in evidenza da
Michael Fitzgerald, ex presidente del Pontificio consiglio per il dialogo
interreligioso, oggi nunzio apostolico al Cairo, è il fatto che le autorità,
sia quelle del precedente regime che quelle dell’odierno governo, tendono a
vedere tutti i cristiani come copti e a considerare il loro papa Tawadros II
come loro unico rappresentante.

Altra questione posta dalle minoranze religiose riguarda la
presenza di comunità non riconosciute che si trovano private della maggioranza
dei diritti. Il caso più eclatante è quello della comunità baha’i, che a
partire dagli anni Sessanta è stata disconosciuta e interdetta, le sono stati
confiscati tutti i beni, con l’ovvia conseguenza dell’impossibilità di
costruire o mantenere propri luoghi di culto.

Secondo Elisa Ferrero, giornalista freelance, profonda
conoscitrice del contesto religioso egiziano, che abbiamo sentito proprio sul
tema della libertà di religione in Egitto, «la nuova costituzione ha radicato
l’esclusione di altre religioni. Paradossalmente ha riconosciuto maggiormente i
cristiani, dando alla Chiesa ortodossa copta la prerogativa di decidere su
alcune questioni come la famiglia, i matrimoni, l’eredità. Questo non è
piaciuto a molti cristiani che preferiscono invece uno stato laico in cui sia
effettivamente garantita la libertà di credo di tutti».

La libertà
religiosa prima della primavera araba

Gianluca Parolin, costituzionalista italiano e professore di
diritto comparato presso l’Università Americana del Cairo ci offre
un’interessante analisi della libertà religiosa in Egitto dal punto di vista
giuridico. Nel suo articolo La libertà religiosa nell’Egitto post coloniale
descrive la relazione tra politica e religione in Egitto dalle sue origini
modee a oggi, e le principali questioni (nella maggior parte dei casi ancora
aperte) relative alla libertà religiosa. Lo studioso sostiene che la stessa
creazione dell’Egitto moderno – la quale coincide con l’affermazione di
un’autorità politica il cui controllo si estende al di là dell’ambito
precedentemente ricoperto, e che «progressivamente circoscrive, assedia,
penetra ed espugna il dominio dell’autorità religiosa, incidendo in tal modo
assai profondamente sul fenomeno religioso stesso» – potrebbe essere
ricostruita seguendo la ri-articolazione dello snodo tra fenomeno religioso e
autorità politica nei decenni.

Da Muhammad ’Ali (1769-1849), colui che è ritenuto il fondatore
dell’Egitto moderno, fino alla rivoluzione del 1952, infatti, sono stati erosi
gli spazi di autonomia della religione, ed è stato delineato un sistema
giuridico con aspirazioni esclusive, ma dalla natura plurale.

Tra l’inizio dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, in
particolare, la relazione tra autorità politica e fenomeno religioso in Egitto
ha subito, secondo lo studioso, tre ri-articolazioni fondamentali. La prima ha
riguardato l’introduzione della gestione centralizzata delle fondazioni pie (waqf)
che ha sottratto alle autorità religiose l’indipendenza economica
trasformandole in «salariate» dello Stato. La seconda ha colpito la giurisdizione
dell’autorità religiosa con la creazione di giurisdizioni concorrenti che hanno
limitato l’area d’influenza del diritto confessionale. La terza ha coinvolto il
contenuto del diritto confessionale attraverso forti incursioni dell’autorità
politica, primo tra tutti nel diritto di famiglia.

La rivoluzione del 1952 ha infine portato a compimento il processo
cominciato nell’Ottocento.

Nella sua analisi Parolin evidenzia come nella seconda metà del
Novecento «l’autorità politica estende significativamente il suo controllo sul
fenomeno religioso con due operazioni di grande impatto»:

1) la giurisdizione dei giudici religiosi viene accorpata nel
sistema di tribunali statali, diventando una sezione specializzata dei
tribunali civili dello stato (pur mantenendo invariato il personale e il
diritto sostanziale applicato);

2) lo stato nazionalizza l’università al-Azhar, la maggiore
istituzione di formazione religiosa, disponendo che lo shaykh al-Azhar,
il suo vertice, venga nominato con decreto presidenziale e ridisegnando
l’impianto stesso della formazione offerta.

Primavera
Araba, trasformazioni religiose?

La situazione descritta è rimasta più o meno stabile fino agli
eventi del gennaio 2011 e alle dimissioni di Mubarak.

Diverse fonti sono concordi nell’affermare che la «rivoluzione»
egiziana sia stata portata avanti da forze diverse e che nelle proteste di
piazza Tahrir si respirasse un generale senso di unità e di orgoglio di essere
egiziani, prima che cristiani o musulmani, moderati o fondamentalisti.
Cristiani e musulmani erano insieme, «una sola mano», come titola Elisa Ferrero
il suo bel libro che descrive i giorni caldi della rivolta.

La «rivoluzione» del 25 gennaio non ha però assunto tra i suoi
temi la questione della libertà religiosa, e molti dei nodi irrisolti si sono
riproposti nei mesi successivi, soprattutto con la polarizzazione elettorale
(sia per le elezioni parlamentari sia per quelle presidenziali).

Sono due in particolare – riprendendo ancora Gianluca Parolin – le
questioni ancora aperte che continuano a generare tensioni interconfessionali:
la disciplina delle conversioni e quella degli edifici di culto non musulmani.
Per quanto riguarda il primo punto, la questione riguarda, ad esempio, i copti
ortodossi che si convertono all’islam per aggirare la severità del diritto di
famiglia copto ortodosso. Papa Shenouda, nel 2008, aveva infatti ridotto le
nove condizioni per divorziare, previste dalla legge del 1938, al solo
adulterio, spingendo molti copti alla conversione (a volte temporanea)
all’islam, per essere così in grado di annullare il proprio matrimonio. Tale
pratica ha causato spesso tensioni settarie anche gravi. Per quanto riguarda i
luoghi di culto non musulmani, da una parte l’art. 46 della Costituzione
egiziana impone «dieci condizioni» difficilmente rispettabili per la
costruzione, dall’altra la riluttanza e la discrezionalità delle autorità a
concedere l’autorizzazione, anche in presenza delle condizioni, rende il
rispetto della normativa rarissimo: la creatività dimostrata nell’aggirarla
pone, secondo Parolin, le comunità non musulmane nell’illegalità, e le espone a
rappresaglie che ciclicamente culminano in scontri con vittime e luoghi di
culto incendiati.

Oltre alle questioni legate ai «due nervi scoperti del sistema»
appena analizzati, nel dibattito pubblico dopo il 25 gennaio 2011 sono state
costanti le discussioni sul ruolo dell’islam nella vita pubblica egiziana e sul
ruolo dello stato nel fenomeno religioso. La prima delle due ha fortemente
polarizzato i processi referendari ed elettorali e si è riproposta anche in
occasione della stesura della «nuova» Costituzione. L’accesa campagna
referendaria, infatti – sempre riprendendo le analisi di Parolin – «non è stata
condotta se non sul rapporto tra islam e stato», con particolare riferimento all’art.
2 della Costituzione del 1971: «L’islam è la religione dello stato, l’arabo la
sua lingua ufficiale e i principi del diritto musulmano la fonte principale
della legislazione», anche se il pacchetto di emendamenti sottoposto a
referendum verteva su altro. Dopo il voto referendario pare che l’art. 2 sia
scomparso dal dibattito pubblico e tutte le successive bozze di Costituzione lo
hanno mantenuto fondamentalmente invariato. Questo anche perché l’art. 2 «gode
– secondo Parolin – di quella caratteristica ambiguità che fornisce alle
previsioni costituzionali di compromesso una lunga tenuta» avendo in sé diverse
possibili interpretazioni.

La polarizzazione ideologica riscontrata nella campagna per il
referendum pare essere stata presente anche nel lungo processo di elezione dei
due rami del parlamento e nelle elezioni presidenziali.

Per quanto riguarda il ruolo dello stato nel fenomeno religioso
significativo è stato il dibattito sulla riforma dell’università al-Azhar. La
sua nazionalizzazione aveva segnato l’apice della penetrazione del potere
politico nel campo religioso, oggi la Costituzione stabilisce l’indipendenza di
al-Azhar e prevede che essa revisioni tutte le leggi prima della loro
promulgazione, per controllare che non siano in contrasto con la sharia.

Il Dialogo
Interreligioso

Il 18 novembre 2012, la Chiesa copta ortodossa egiziana ha
ufficialmente insediato il suo nuovo pontefice, Tawadros II, che si trova ad
affrontare come prima sfida il confronto con l’islam politico al governo.
Proprio per questo, poco dopo la sua elezione, papa Tawadros ha dichiarato di
voler servire l’interesse del paese intero ponendo l’accento sul dialogo e
l’unità nazionale, considerando se stesso, innanzitutto, un cittadino egiziano.
Egli ha inoltre espressamente affermato di voler privilegiare il ruolo
spirituale della sua Chiesa, con particolare attenzione all’educazione dei
giovani. Così facendo è parso abbracciare la posizione di chi vuole il ritiro
della Chiesa dalla politica. Al tempo stesso, però, ha anche ribadito che i
cristiani si aspettano il pieno rispetto dei loro diritti.

Per quanto riguarda le altre Chiese cristiane, poi, proprio
quest’anno, al termine della Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani a
gennaio, è nato il Consiglio nazionale delle Chiese di cui fanno parte tutte le
cinque confessioni dell’Egitto. L’idea è che il consiglio possa contribuire a
rafforzare l’unità tra i cristiani, a lottare su alcuni temi comuni, e ad
affrontare discriminazioni e violazioni di diritti.

In conclusione possiamo dire che, se da un lato la situazione
della libertà religiosa in Egitto non ha subito grosse trasformazioni a livello
legislativo con il nuovo governo e la nuova Costituzione, dall’altro è vero che
a livello di società civile qualcosa si sta muovendo. Elisa Ferrero riconosce
infatti come «sia un po’ caduto il tabù della religione, e ci siano maggiori
confronti aperti sul tema delle minoranze (riconosciute e non) e dell’ateismo».

Viviana Premazzi
 
«Centro Culturale Tawasul»

«Il Centro culturale Tawasul è una piccola associazione nata
al Cairo nel 2006, su iniziativa di un gruppo di musulmani laici
(intellettuali, professori universitari, artisti, giudici, giornalisti, ecc.),
con lo scopo di creare uno spazio di incontro per la conoscenza reciproca fra
Europa e mondo arabo, musulmani e cristiani, che privilegiasse la relazione
diretta tra individui, piuttosto che quella tra istituzioni. Il termine arabo
Tawasul, impossibile da tradurre in italiano con una parola sola, ben esprime
l’idea ispiratrice del Centro. Esso riassume in sé, infatti, il significato di
una «continua comunicazione attraverso una relazione di amore».

Il 28 e 29 ottobre 2010, Tawasul ha ospitato il Meeting del
Cairo, un’edizione egiziana del Meeting di Rimini. Il risultato più importante
dell’incontro è stato il coinvolgimento di centinaia di giovani volontari
egiziani, musulmani e cristiani di ogni denominazione, che hanno lavorato
insieme per giorni. L’esperienza di dialogo e condivisione non si è fermata con
la fine del Meeting, ma è proseguita fino agli eventi del gennaio 2011, poiché
gli organizzatori e i volontari avevano deciso di continuare a incontrarsi
regolarmente per discutere insieme dei problemi della società egiziana e
sviluppare iniziative per contribuire alla loro risoluzione.

In seguito agli attentati contro le chiese copte di
Alessandria d’Egitto del Capodanno 2011 il Centro ha chiesto ai suoi membri e
ai volontari del Meeting del Cairo di indossare qualcosa di nero in segno di
lutto, quindi ha domandato a ciascun volontario musulmano di visitare una
chiesa del proprio quartiere per porgere le proprie condoglianze, come gesto
visibile di solidarietà. Pochi giorni dopo l’attentato, è stato poi organizzato
un concerto di musica sacra, musulmana e cristiana insieme, in segno di
riconciliazione, e alcuni suoi membri hanno partecipato alla messa di Natale
del 6 gennaio. Infine, il giorno 7 gennaio, subito dopo la preghiera del venerdì,
Tawasul ha organizzato una breve dimostrazione sul piazzale della moschea della
Luce del Cairo, occupando quel luogo in silenzio, per breve tempo, per impedire
le consuete arringhe contro i cristiani, tenute da fanatici che spesso prendono
la parola dopo la funzione.

I responsabili del Centro sono convinti che la lotta contro
il terrorismo e il fanatismo religioso non si gioca soltanto sul piano politico
e della sicurezza, ma soprattutto e fondamentalmente sul piano culturale. Molti
in Egitto l’hanno capito e stanno agendo in tal senso, meritando tutto il
nostro appoggio e la nostra collaborazione. Queste persone hanno principalmente
bisogno di visibilità e occasioni per far sentire la propria voce, poiché
troppo spesso le società civili dei paesi arabi vengono fatte scomparire dai
mezzi di informazione che prediligono la cronaca degli eventi che dividono,
nonostante siano proprio le società civili a lottare quotidianamente contro i
profeti dello scontro di civiltà». 

Tratto da Qualcosa di nero in segno di lutto di Elisa
Ferrero.

 

Viviana Premazzi




Celle senza finestre

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 09
Il tema della libertà religiosa è al centro delle preoccupazioni
della Chiesa. Lo ha ribadito mons. Mamberti, segretario vaticano per i Rapporti
con gli Stati, alla XXII Sessione del Consiglio dei Diritti dell’Uomo delle
Nazioni Unite. E intanto in diverse zone del mondo le violazioni di questo
diritto fondamentale proseguono con medesima se non aumentata forza, come
testimoniano le situazioni di alcuni paesi asiatici tra cui India, Pakistan,
Vietnam e Cina.



La situazione della libertà religiosa nel mondo è un fenomeno da
monitorare costantemente. Il quadro descritto dagli ultimi rapporti delle
organizzazioni che si dedicano allo studio delle violazioni delle libertà dei
credenti in tutto il pianeta è a tratti sconfortante, anche se non mancano
segnali di speranza.

È passato inosservato, in questo tempo eccezionale di cambiamenti
pontifici, un intervento della diplomazia della Santa Sede in seno alle Nazioni
Unite. «La Santa Sede continuerà a dare il suo contributo ai dibattiti in sede
internazionale, per proporre una riflessione essenzialmente etica ai processi
decisionali, e per aiutare a tutelare la dignità della persona umana». È quanto
affermato a Ginevra da monsignor Dominique Mamberti, segretario vaticano per i
Rapporti con gli Stati, alla XXII Sessione del Consiglio dei Diritti dell’Uomo
delle Nazioni Unite. Mamberti ha citato le parole della Caritas in veritate
(n. 43) di Benedetto XVI riguardo ai diritti individuali: «Si è spesso notata
una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura alla
trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di
acqua potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe
regioni del mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli»,
e ha esortato gli Stati a lavorare insieme, in uno spirito di dialogo e
apertura, per adottare le risoluzioni in modo consensuale, auspicando che «l’imposizione
di nuovi diritti e principi [venga] rimpiazzata dal rispetto e dal
rafforzamento di quelli già approvati». Tra le preoccupazioni della Santa Sede
al primo posto si colloca il destino delle minoranze religiose e in generale la
libertà di credo. «Il diritto internazionale – ha detto Mamberti – è piuttosto
sostanzioso a questo riguardo. Allora perché continua a essere uno dei diritti
più frequentemente e più diffusamente negati, limitati nel mondo?». Tra le
cause delle violazioni Mamberti elenca «una legislazione statale carente, la
mancanza di volontà politica, il pregiudizio culturale, l’odio e l’intolleranza»,
e infine sostiene che la chiave fondamentale per promuovere la libertà di
religione è riconoscerla come radicata nella dimensione trascendente della
dignità umana: la libertà di religione promuove l’idea di una libertà che non
si riduce all’esclusiva dimensione politica o civile, ma si pone al di là di
essa, in quanto mette un limite allo stesso stato e costituisce una protezione
della coscienza dell’individuo dal potere statale. «Quando uno stato la tutela
in modo adeguato, la libertà di religione diventa una delle fonti della sua
legittimità, e un indicatore primario di democrazia».

Pakistan: leggi blasfeme

Pakistan, India e Cina, ma anche paesi meno rappresentati sui
media inteazionali come Birmania, Myanmar, Vietnam e Cambogia, presentano
limitazioni molto pesanti alla libertà di religione.

Alessandro Speciale di vaticaninsider.lastampa.it ci
informa che «in India, continuano a crescere le leggi anticonversione, con una
lunghissima lista di attacchi alle minoranze, spesso perpetrati da gruppi
appartenenti al movimento nazionalista indù del Sangh Parivar», mentre
leggendo il rapporto 2012 di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) constata che «per
il Pakistan, il 2011 è stato un “anno terribile”, cominciato con l’omicidio a
gennaio del governatore del Punjab, Salman Taseer, proseguito il 2 marzo con
l’uccisione del ministro federale per le Minoranze, il cattolico Shahbaz
Bhatti, e passato per l’incriminazione di 160 persone in base alla famigerata
legge antiblasfemia, con casi antichi come quello di Asia Bibi […], e nuovi
come quello di Rimsha Masih che sono saliti tristemente all’onore delle
cronache mondiali».

«Prega il Signore e scrivi al presidente del Pakistan per
chiedergli che mi faccia ritornare dai miei familiari»: Asia Bibi, detenuta da
oltre mille giorni nel carcere pakistano di Sheikhupura perché cristiana, ha
scritto una lunga lettera dalla sua cella «senza finestre». Pubblicata
integralmente da «Avvenire» nel dicembre scorso, essa ha dato il via a una
campagna di raccolta firme per chiedere al presidente del Pakistan, Asif Ali
Zardari, la liberazione della donna. «Un appello – ci informa Ilaria Sesana di “Avvenire”
– cui, in queste settimane, hanno aderito più di 30mila persone. Un risultato
straordinario – prosegue Ilaria Sesana -, che ha visto coinvolti uomini e donne
di ogni età e di ogni ceto sociale. Dal Nord al Sud dell’Italia (e persino
dall’estero) sono arrivati migliaia e migliaia di messaggi per chiedere al
presidente Zardari di intervenire in favore di Asia Bibi […]. Intere famiglie
si sono mobilitate per questa iniziativa, con raccolte di firme tra amici,
familiari, nelle scuole e sul luogo di lavoro. Un grande contributo è stato
dato da decine di parroci che, oltre a impegnarsi nella raccolta di firme al
termine delle funzioni religiose, hanno portato avanti un’attenta opera di
sensibilizzazione tra i fedeli».

VIETNAM: CONTRO LE «CHIESE IN CASA»

Raccogliendo testimonianze tra la folla di piazza San Pietro il
giorno prima delle dimissioni di papa Ratzinger Asianews ha riportato le
parole di alcuni sacerdoti asiatici, tra cui quelle di p. Giuseppe, originario
di Hue, nel Vietnam centrale: «”La Chiesa del Vietnam ha bisogno di
testimonianze di vita e di fede” e Benedetto XVI è stato “un modello
e una guida” in una nazione governata da un “regime comunista che
ancora oggi limita la libertà religiosa”. È questo il primo pensiero di un
sacerdote vietnamita, confuso fra la folla che gremisce piazza San Pietro in
attesa di salutare per l’ultima volta il suo “amato Papa” che da
domani lascerà il soglio pontificio. […] “Nella nostra società –
aggiunge il sacerdote – la fede non è ancora così radicata e sviluppata, per
questo è importante promuoverla e diffonderla con l’opera di annuncio”. Il
sacerdote ricorda inoltre il notevole contributo fornito dal papa per la
ripresa dei rapporti diplomatici fra Santa Sede e Hanoi, ma resta ancora molto
da fare e “guardiamo al futuro speranzosi, mettendoci nelle mani di
Dio”».

Da un focus di Porte Aperte sul paese indocinese apprendiamo che «dal
gennaio 2013 il Vietnam ha aggiornato la propria legislazione in materia di
libertà religiosa attraverso il Decreto sulla Religione ND-92 lanciando un
messaggio molto chiaro: lo Stato ha intenzione di controllare da vicino la
diffusione della religione, in particolare del cristianesimo. Questo decreto di
fatto completa quello emesso nel 2005 e – sostiene Porte Aperte – […] se
applicato interamente […] potrebbe criminalizzare il movimento di comunità
cristiane familiari (o chiese in casa, house church), una rete di chiese
che esiste da oltre 25 anni. Anche se venisse applicato irregolarmente comunque
potrebbe rappresentare una minaccia per l’esistenza di questa importante rete
di cristiani vietnamiti». Inoltre «il decreto giustifica la pesante burocrazia
relativa alle pratiche religiose, che di fatto dimostra di considerare la
religione come una minaccia alla sicurezza nazionale e culturale».

Cina: il bastone e la carota

«ChinaAid, una grande organizzazione statunitense di
sostegno ai cristiani perseguitati – ci informa Marco Tosatti di vaticaninsider.lastampa.it
-, ha reso noto [di recente] il suo rapporto annuale sulla situazione della
libertà religiosa nelle terre governate da Pechino. E la conclusione è che la
situazione si sta deteriorando per il settimo anno di seguito. Il rapporto [sul
2012] si basa su 132 casi di persecuzione, cha hanno coinvolto 4.919 persone.
Il numero degli individui giudicati in tribunale è cresciuto del 125 per cento,
rispetto all’anno precedente; e il “tasso” di persecuzione, secondo quanto
sostengono a ChinaAid è cresciuto del 41.9 per cento se paragonato al
2011. Come è ormai triste tradizione, sono soprattutto le “chiese domestiche”,
meno controllabili, a essere nel mirino delle autorità cinesi. Ma c’è anche un
fattore congiunturale, che ha reso più dura la situazione, e cioè una volontà
precisa da parte del governo e del Partito».

«ChinaAid – prosegue Marco Tosatti – prende in esame sei
elementi: il totale delle cifre sulla persecuzione, il numero delle persone
colpite, il numero degli arrestati, il numero dei condannati, il numero dei
casi di violazioni dei diritti e il numero delle vittime di questi abusi.
Rispetto al 2011, il totale delle cifre relative alle sei categorie è cresciuto
del 13.1 per cento. E se si considerano i sette anni precedenti, si osserva che
il trend di peggioramento persiste, sulla base di un incremento annuale del
24.5 per cento per tutte e sei le categorie considerate. Secondo gli analisti
di ChinaAid, la persecuzione del 2012 non è stata solo una prosecuzione
della pratica, presente nel 2008 e nel 2009 di “prendere a bersaglio le chiese
domestiche e i loro leaders nelle aree urbane”, o di quella del 2010 di “attaccare
i gruppi di legali difensori dei diritti umani cristiani, e di usare
maltrattamenti, tortura e tattiche mafiose”, e neanche della strategia del 2011
di aumentare di intensità gli attacchi contro i cristiani e le chiese
domestiche che hanno un impatto sulla società. C’è stato un cambiamento di
strategia, e la sua ragione può essere trovata in un documento emanato dai
Ministeri della Sicurezza Pubblica e degli Affari Civili, che affrontava il
tema del completo sradicamento delle Chiese domestiche. Il documento, curato
dall’amministrazione statale per gli Affari Religiosi, indica grosso modo tre
fasi dell’operazione. La prima, dal gennaio al giugno del 2012, prevedeva
intense, complete e segrete indagini sulle chiese domestiche, in tutto il
paese, e la creazione di archivi su di esse. La seconda fase dovrebbe durare
dai due ai tre anni, e basarsi sull’eliminazione graduale delle Chiese
domestiche che sono state schedate, per giungere, in un periodo decennale, alla
completa cancellazione del fenomeno. E in effetti a questo scopo sono stati
usati vari sistemi di bastone e carota; chiusura delle chiese, invio nei campi
di lavoro dei leaders, e nello stesso tempo tentativo di convincerli a
entrare nel sistema di chiese controllato dallo Stato e dal Partito».

«Il rapporto – conclude Tosatti – si chiude però su toni
lievemente ottimistici. Il 18mo Congresso nazionale avrebbe chiuso un’epoca di
ideologia di estrema sinistra. “ChinaAid è prudentemente ottimista,
scrive il Rapporto, perché a dispetto della crescente persecuzione e dei
cambiamenti politici del 2012, la Chiesa rimane ferma, e fiorente come i cedri
del Libano e gli alberi piantati vicini alle correnti, che al tempo stabilito
danno frutti abbondanti”».

Non a caso uno degli ultimi appelli di Benedetto XVI prima della
sua rinuncia è stato in favore della Chiesa cattolica in Cina: «Raccomando alle
preghiere vostre e dei cattolici di tutto il mondo la Chiesa in Cina, che come
sapete, sta vivendo momenti particolarmente difficili».

Luca Rolandi
Gioalista di Vatican Insider

Luca Rolandi




America, il continente aperto

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 08
Continente che ospita 948 milioni di persone, l’America è l’area
geografica che fa registrare i livelli più bassi di restrizioni governative e
di ostilità sociali riguardanti la religione. Ma, come il resto del mondo,
anch’essa vede un aumento di pressione sulla libertà religiosa. Tra gli esempi
più significativi di tale aumento c’è quello degli Usa, ma anche del Messico,
di Cuba e della Colombia.

Era il 6 agosto scorso quando
l’ennesima notizia di una strage avvenuta negli Usa per mano di un «folle»
girava il mondo: sette persone morte, tra cui lo stragista, tre ferite
gravemente, decine sotto shock. Quell’episodio ne seguiva di simili, avvenuti
nelle settimane anteriori, e ne precedeva altri che avrebbero riacceso il
dibattito statunitense sulla vendita di armi. Esso però aveva una sua
peculiarità: nell’assalto il killer aveva preso di mira un tempio sikh.
«È importante notare che questo è solo uno di un numero crescente di episodi di
violenza che i sikh hanno sperimentato negli ultimi anni», dichiarava alcuni
giorni dopo il direttore esecutivo della «Sikh coalition» Sapreet Kaur. «L’assassino
sarebbe un ex militare congedato dall’esercito nel 1998, per cattiva condotta
[…] – si affrettava a informare tra gli altri Radio Vaticana -. I sikh, noti
per la barba lunga e il turbante (stimati tra i 78mila e i 500mila negli Usa,
ndr.), sono scambiati spesso per musulmani e fatti oggetto di attacchi dopo
l’11 settembre 2001». La strage quindi aveva sullo sfondo, tra i moventi, un
problema di odio religioso. Secondo i rilievi dell’Fbi sulla criminalità,
citati dal rapporto 2011 del Pew Forum, gli Usa hanno avuto più di 1.300
crimini d’odio religioso nel 2009. La maggior parte dei quali anti-ebraici (931
dei 1.303 reati, il 71%; mentre l’8% era motivato da pregiudizi anti-islamici).

Gli Stati Uniti sono uno dei 16 paesi del mondo che hanno fatto
registrare un significativo incremento di entrambi gli indici (Restrizioni
Goveative e Ostilità Sociali) durante l’anno preso in esame dal Rising
tide of restrictions on religion
, l’ultimo studio del Pew Forum
sulla libertà di religione nel mondo con dati riguardanti il 2010. Durante
quell’anno c’è stato un «aumento del numero di incidenti a livello statale e
locale nei quali membri di diverse religioni hanno incontrato restrizioni nella
capacità di praticare la loro fede». Ad esempio «incidenti nei quali agli
individui è stato impedito d’indossare un certo abbigliamento o di portare
simboli religiosi, compresa la barba, in prigioni, penitenziari e altre
strutture correzionali». Alcuni gruppi religiosi hanno incontrato anche grandi
difficoltà nell’ottenere permessi per la costruzione o per l’ampliamento di
luoghi di culto.

Per quanto riguarda l’aumento di ostilità sociale, il Pew Forum
individua tra le sue cause «un picco di attacchi terroristici di matrice
religiosa» nell’anno preso in esame. «L’incremento di ostilità sociali negli
Stati Uniti si riflette anche nell’aumento del numero di denunce di
discriminazione sul posto di lavoro».

Il continente con minori limitazioni

L’America è l’unico continente in cui il livello più alto di restrizioni governative e di ostilità
sociali non viene registrato in nessuno dei paesi che lo compongono. In media
il grado di Gri è basso (1,1). Il solo paese ad everlo alto è Cuba; mentre
altri otto ce l’hanno moderato (si veda tabella). L’America è anche
l’unico continente a non aver fatto registrare un aumento di ostilità sociali,
il cui livello in media rimane molto basso (0,4): il solo paese ad averlo alto è
il Messico; mentre altri cinque paesi fanno registrare un livello moderato (si
veda tabella
).

Spiccano quindi nel continente americano Cuba e Messico, i due
paesi toccati lo scorso anno dalla visita pastorale di Benedetto XVI. E assieme
a essi, Usa e Colombia, per avere un livello moderato in ambedue gli indici.
Tutti gli altri paesi del continente hanno i due indici a un grado mediamente
basso, o al più uno solo dei due a livello moderato.

MESSICO

Il Messico è il secondo paese al mondo, dopo il Brasile, con più
alto numero di cattolici: circa 96,3 milioni, l’84,9% della sua popolazione (i
protestanti sono l’8,3%, gli altri cristiani l’1,7%, i non affiliati ad alcun
credo il 4,7%, i membri di altre religioni lo 0,3%); e il paese americano con
minore libertà religiosa a causa del livello alto di ostilità sociali e del
livello moderato di restrizioni governative.

«La Costituzione messicana e le altre leggi e politiche
generalmente proteggono la libertà religiosa – ci informa l’Inteational
Freedom Report for 2011
-, ma ci sono alcune limitazioni a livello statale
o locale. […] Alcuni capi e autorità delle comunità locali, in particolare
nel Sud, utilizzano la religione come pretesto per conflitti legati a
controversie politiche, etniche, o relative alla terra. […] Funzionari del
governo federale e locale, spesso non puniscono i responsabili di atti di
intolleranza religiosa».

Mentre a livello istituzionale nel 2011 non si sono registrati
cambiamenti, né in positivo, né in negativo (e nel 2012 una riforma
costituzionale che ha inserito un riferimento esplicito alla libertà religiosa è
stata vista con entusiasmo da alcuni e con criticismo da altri osservatori
della libertà religiosa), a livello sociale invece ci sono state numerose
segnalazioni di abusi e discriminazioni. Mormoni, membri delle comunità
ebraiche e buddiste affermano di non trovare particolari ostacoli alla pratica
della loro religione, mentre – afferma sempre l’Inteational Freedom Report
for 2011
– invece diversi gruppi evangelici sostengono di subire frequenti
molestie. Soprattutto nelle regioni centrali e meridionali essi lamentano
l’espulsione dai loro villaggi, la perdita dei diritti di comunità e del
possesso di beni personali, percosse, minacce di morte, l’incendio delle loro
chiese e case.

CUBA

Cuba, che registra un alto livello di restrizioni governative ma
uno basso di ostilità sociali, conta 5,82 milioni di cattolici, il 51,7% della
popolazione (i protestanti sono il 5,6%, gli ortodossi lo 0,4%, gli altri
cristiani l’1,5%, i non affiliati a nessun credo il 23%, i seguaci di religioni
tradizionali il 17,4%, gli hindu lo 0,2%, e i membri di altre religioni lo
0,2%). Dopo l’apertura registrata nel corso del 2011 che aveva indotto il
Dipartimento di Stato Usa a sottolineare nel suo rapporto annuale il
miglioramento del governo cubano nel rispetto per la libertà religiosa, «anche
se restrizioni significative sono rimaste inalterate, e il Partito Comunista di
Cuba, attraverso il suo Ufficio degli affari religiosi, ha continuato a
esercitare il controllo regolamentare su molti aspetti della vita religiosa»,
le notizie che arrivano dall’isola caraibica tra fine 2012 e inizio 2013 fanno
temere una nuova ondata di restrizioni.

«Drammatico aumento di violazioni della libertà religiosa nel 2012»
intitolava un suo comunicato stampa l’organizzazione Christian Solidarity
Worldwide
a inizio 2013: «Mentre la Chiesa Cattolica riporta il maggior
numero di violazioni, per lo più riguardanti l’arresto e la detenzione
arbitraria di parrocchiani che tentano di frequentare le attività della chiesa,
anche altre denominazioni e gruppi religiosi sono stati colpiti. Chiese
battiste, metodiste e pentecostali in diverse parti del paese hanno riportato
molestie costanti e pressioni da parte di agenti di sicurezza dello stato.
Inoltre, i funzionari del governo hanno continuato a rifiutare la registrazione
di alcuni gruppi, tra cui la rete protestante del “Movimento
Apostolico”, minacciando chiusure di chiese, e chiudendo un luogo di culto
mormone […]. Uno dei casi più gravi ha riguardato il violento pestaggio di un
pastore pentecostale [che] ha subito danni permanenti al cervello. Il pestaggio
sembra essere stato orchestrato da funzionari locali del Partito comunista. A
oggi nessuna indagine a riguardo è stata effettuata».

COLOMBIA

Tra i primi 50 paesi della World Watch List, la classifica
compilata dall’organizzazione cattolica Open Doors dei paesi in cui
maggiormente vengono perseguitati i cristiani, la Colombia è l’unico del
continente americano a essere presente, figurando al 46° posto: «La Colombia –
in cui i cristiani sono il 92,5% della popolazione (cattolici 82,3%,
protestanti 10%, altri cristiani 0,1%), i non affiliati il 6,6%, e i seguaci di
religioni tradizionali lo 0,8% – […] formalmente è una modea democrazia
dove la supremazia della legge è consolidata e la libertà religiosa garantita.
Tuttavia ampie zone del paese sono sotto il controllo di organizzazioni
criminali, cartelli della droga, rivoluzionari e gruppi paramilitari – scrive Porte
Aperte
nel suo profilo del paese -. Le ricerche di Open Doors hanno
evidenziato che le organizzazioni criminali prendono di mira in particolar modo
i cristiani […]. Il crimine organizzato percepisce come una minaccia quei
cristiani che si oppongono apertamente alle loro attività, soprattutto quando
essi sono attivi in politica o in programmi sociali. […] Teme che i cristiani
inducano i membri della comunità locale o persino gli aderenti alle sue
organizzazioni a opporsi alle loro attività criminali. Nel suo rapporto 2010
l’Ong cristiana Justapaz ha riportato 95 minacce di morte o tentati
omicidi, 71 sgombri forzati, 17 omicidi, 2 sparizioni e molti casi di
sequestri, torture, pestaggi e reclutamento forzato […]».

Il 5 febbraio l’Agenzia Fides annunciava il terzo omicidio
di un prete cattolico in Colombia dall’inizio dell’anno: «Secondo l’elenco
realizzato annualmente dall’Agenzia Fides, nel 2012, per la quarta volta
consecutiva, l’America ha registrato il numero più alto di operatori pastorali
uccisi rispetto agli altri continenti. In Colombia nel 2012 è stato ucciso un
sacerdote; nel 2011 sono stati uccisi 6 sacerdoti e 1 laico; nel 2010 […] 3
sacerdoti e un religioso; nel 2009 […] 5 sacerdoti ed 1 laico».

Una sintesi continentale

La sintesi continentale del rapporto Acs (Aiuto alla Chiesa che
Soffre) 2012 sulla libertà di religione offre una panoramica frastagliata: se
in generale la situazione della libertà religiosa nel continente non è grave,
si notano passi avanti di alcuni paesi controbilanciati da passi indietro. «Se
in Argentina il 25 novembre è stato proclamato “Giornata Nazionale della Libertà
Religiosa”, in Bolivia – dove la Costituzione del 2009 riconosce la libertà di
religione – si sono verificate tensioni tra il presidente Morales e la Chiesa
cattolica» che ha denunciato la tendenza del governo «a utilizzare l’esperienza
religiosa dei nostri popoli per creare riti paralleli ai sacramenti cristiani
cattolici o ad altre espressioni popolari della fede». Rapporti Stato-Chiesa
tesi anche in Venezuela. Mentre sembra non essere legata a motivi religiosi «l’uccisione
del sacerdote cattolico don Romeu Drago, avvenuta il 19 febbraio 2011 in
Brasile, dove la Costituzione tutela pienamente la libertà religiosa […]. In
Cile si notano dei positivi passi avanti, come le informative ministeriali
sull’assistenza religiosa nei luoghi di cura e nei penitenziari, e sul rispetto
dell’uguaglianza dei culti all’interno delle aule scolastiche. Avviate,
inoltre, iniziative legislative per riconoscere i giorni sacri ai musulmani e
ai Bahá’í».

«Atti di vandalismo e violenza contro edifici religiosi, immagini
sacre e sacerdoti sono stati compiuti in Nicaragua», unico paese americano ad
aver registrato un aumento delle ostilità sociali molto significativo. «Preoccupano
in Ecuador alcune proposte di legge orientate alla limitazione della libertà
religiosa (garantita a livello costituzionale). Tra questi un progetto di legge
circolato informalmente nell’agosto del 2011 che prevedeva anche la chiusura
delle scuole confessionali e proibiva ai sacerdoti di indossare l’abito al di
fuori dei luoghi di culto». Contesto positivo invece in Paraguay, in Perù,
nella Repubblica Dominicana e in Uruguay.

Luca Lorusso

Luca Lorusso




Europa, Libertà sotto stress

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 07

L’attacco dell’«Inteational
religious freedom report
2012» è chiaro: «In Europa sta aumentando la
diversità etnica, razziale e religiosa. Questi cambiamenti demografici sono
talvolta accompagnati da crescente xenofobia, anti semitismo, sentimento anti
musulmano, e intolleranza nei confronti delle persone considerate “l’altro”».

La libertà religiosa nel Vecchio Continente è sotto pressione, i
casi di Russia e Bielorussia ne sono l’emblema, anche per quanto riguarda il
fenomeno delle leggi contro blasfemia e diffamazione della religione.

L’allarme
è presente fin dal titolo: «Marea montante di restrizioni riguardanti la
religione». L’ultimo rapporto del Pew Forum sulla libertà religiosa nel
mondo, uscito nell’agosto scorso con dati risalenti al 2010 è netto nel parlare
di una situazione di preoccupante peggioramento della libertà religiosa nel
mondo intero, compresa l’Europa. Un incremento significativo nel Vecchio
Continente sia delle restrizioni governative (Gri) che dell’ostilità sociale
(Shi) si è registrato in 29 dei 45 paesi che lo compongono. Grecia, Macedonia,
Ucraina, ma anche Francia, Regno Unito, Germania.

C’è più libertà religiosa in Europa che in Asia e in Medio Oriente
(si veda MC ott. e nov. 2012), ma rispetto agli europei vivono in una
libertà di credo maggiore gli abitanti dell’Africa sub-sahariana (si veda MC
ago.-sett. 2012
) e delle Americhe.

È facile immaginare che negli ultimi due anni (2011 e 2012) di
crisi economica e sociale, non indagati dal rapporto del Pew Forum, le
condizioni della libertà di credo siano ulteriormente peggiorate. Lo confermano
studi più aggioati come il «Rapporto 2012» di Acs (Aiuto alla Chiesa che
Soffre), il già citato «Inteational religious freedom report for 2011» del
dipartimento di stato Usa, l’«Annual report 2012» dell’Uscirf (United States
Commission on Inteational Religious Freedom
), le copiose notizie di
violazioni di questo diritto fondamentale, e il numero crescente di analisi,
riflessioni, interventi di studiosi, esponenti religiosi e politici di tutto il
mondo.

RUSSIA

Se nello scenario europeo sono molti i paesi che destano
preoccupazione, ce ne sono due che spiccano in modo particolare: Russia e
Bielorussia hanno entrambe un elevatissimo livello di restrizioni governative,
mentre la Russia (secondo il Pew Forum) è uno dei sei paesi nel mondo
che fa registrare il livello più alto di entrambi gli indici (di Restrizioni
Goveative e di Ostilità Sociale), l’unico in Europa. Gli altri sono Egitto,
Indonesia, Arabia Saudita, Afghanistan e Yemen.

Secondo il rapporto annuale dell’Uscirf: «Le condizioni della
libertà religiosa in Russia continuano a deteriorarsi. Il governo usa
abitualmente la legge anti-estremismo contro pacifici gruppi religiosi e
individui […]. Queste azioni, insieme alla xenofobia, all’intolleranza crescente
e all’antisemitismo, sono legate a violenze e omicidi mossi da odio religioso.
[…] Il governo russo non affronta questi problemi in modo coerente ed efficace,
favorendo un clima di impunità».

In Russia vivono circa 140 milioni di persone su un territorio
ampio 57 volte l’Italia. Benché solo il 5% della popolazione dichiari di essere
«osservante», sono almeno 100 milioni quelli che si autodefiniscono cristiani
della Chiesa Ortodossa Russa. I musulmani costituiscono la più grande minoranza
religiosa con un numero di aderenti compreso tra 16,4 e 20 milioni, la maggior
parte dei quali vive nella regione Volga-Ural, nel Caucaso del Nord, a Mosca, a
San Pietroburgo e in alcune parti della Siberia. Tra le varie confessioni
cristiane, i protestanti costituiscono il secondo gruppo dopo gli ortodossi con
circa due milioni di persone, la Chiesa Cattolica Romana il terzo con circa
seicentomila fedeli. Gli ebrei, secondo alcune stime, sono un milione, quasi
tutti concentrati a Mosca e a San Pietroburgo. I buddisti (tra uno e due
milioni) vivono principalmente nelle regioni di Buryatiya, Tuva, e Kalmykiya.

Le notizie che le varie agenzie di stampa internazionale di tanto
in tanto lanciano riguardo al tema della libertà religiosa in Russia illustrano
una situazione difficile sotto molti punti di vista, soprattutto per le
minoranze. Uccisioni di personalità musulmane nelle zone calde del Caucaso,
impedimenti alla costruzione di luoghi di culto, difficoltà di registrazione di
gruppi religiosi, negazione dei visti per visitatori religiosi stranieri,
proibizione di testi, considerati estremisti, di diversi gruppi religiosi, tra
cui i Testimoni di Geova e gli affiliati a Falun Gong, multe, sequestri di
materiali proibiti, incarcerazione per chi ne viene trovato in possesso, violenze
e vessazioni, impunità.

È Asianews a informarci sul disegno di legge contro la
blasfemia che sarà probabilmente approvato in primavera: esso propone pene
pecuniarie fino a 500mila rubli (circa 16mila dollari), e lavori forzati fino a
400 ore o detenzione fino a cinque anni per insulti pubblici alla fede,
profanazione o distruzione di oggetti religiosi.

BIELORUSSIA

Definita come l’ultima dittatura europea, la Bielorussia, pur
registrando un livello moderato di Ostilità Sociale nei confronti della religione,
è il secondo paese europeo con più elevato livello di restrizioni governative:
segno della condizione generalmente difficile delle libertà e dei diritti umani
sotto il regime di Lukashenko.

Su un territorio pari a due terzi l’Italia vivono circa 10 milioni
di cittadini bielorussi. Di questi l’80% appartengono alla Chiesa Ortodossa
Bielorussa, il 10% alla Chiesa Cattolica Romana. I rimanenti si dividono tra
non religiosi, atei, e altri gruppi religiosi: protestanti, musulmani, ebrei,
Testimoni di Geova, Hare Krishna, Baha’i, Mormoni.

Il rapporto 2012 dell’Uscirf afferma che «il potere politico in
Bielorussia è concentrato nelle mani del presidente Aleksandr Lukashenko, il
cui regime continua a perpetrare violazioni dei diritti umani. Il governo vede
nei gruppi indipendenti, comprese le comunità religiose, le sfide potenziali
per il suo dominio». E, dopo aver aggiunto che «il governo viola la libertà di
pensiero, di coscienza e di religione o le convinzioni personali attraverso
leggi e politiche intrusive», denuncia l’uso di molestie, multe, e detenzioni
contro le comunità religiose e le singole persone e l’impunità per atti di
violenza e vandalismo nei confronti dei gruppi religiosi minoritari.

Benché la Costituzione tuteli la libertà religiosa, altre leggi e
politiche generalmente applicate dal potere la limitano ostacolando e impedendo
in modo selettivo e arbitrario le attività dei gruppi religiosi diversi dalla
Chiesa Ortodossa Bielorussa.

PANORAMICA SULL’EUROPA

Per una breve panoramica sul continente che
sia in grado di dare un’idea dell’ampiezza e varietà delle violazioni (sia «istituzionali»
che «sociali») del diritto alla libertà religiosa ci affidiamo al rapporto 2012
di Acs, il quale rileva innanzitutto il fatto che negli ultimi anni i
legislatori europei hanno elaborato numerose norme, esprimendo la
preoccupazione che esse possano peggiorare le condizioni della libertà di
credo: in Francia, nel 2011, «è stato presentato il cosiddetto “Codice della
laicità” volto a regolamentare il campo della libertà religiosa. Dall’11 aprile
2011 è entrata poi in vigore la legge che vieta d’indossare il velo integrale
in pubblico, divieto stabilito anche dal governo dei Paesi Bassi sui trasporti
pubblici, negli uffici e nelle strade. La possibilità di indossare il burqa
o il niqab è stata al centro di controversie in Belgio dove preoccupa il
disegno di legge che trasforma in reato la “destabilizzazione mentale” di terzi
che rischia di spianare la strada a discriminazioni nei confronti delle
minoranze religiose». Ha fatto discutere in Svizzera il referendum che ha
imposto a larga maggioranza il divieto di costruire minareti.

Oltre a esemplificare alcuni provvedimenti
legislativi, Acs accenna a episodi di vandalismo e atti d’intolleranza nei
confronti dei cristiani in diverse città della Germania e nel Regno Unito: «Secondo
un rapporto del governo scozzese sui delitti causati da odio a sfondo religioso
nel suo territorio, nel periodo 2010-2011 ci sono state 693 imputazioni “aggravate
da pregiudizio religioso”».

Altro problema, presente soprattutto nei paesi dell’Europa
orientale, è quello della mancata restituzione delle proprietà e dei beni
confiscati alle varie comunità religiose dopo la Seconda guerra mondiale. «Tra
questi Ucraina, Romania, Slovacchia, Slovenia, Montenegro e Repubblica Ceca.
Procede con disparità la restituzione alle diverse comunità in Croazia,
giudicata colpevole dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per non aver
concesso a tre comunità religiose cristiane di godere pienamente di tutti i diritti
connessi al proprio riconoscimento, tra cui l’educazione religiosa nelle scuole
statali e il riconoscimento dei matrimoni».

Anche la diffusione di una versione intollerante dell’Islam desta
preoccupazioni in alcune aree dell’Europa, come abbiamo già visto, ad esempio,
per la zona caucasica della Russia: in Albania intimorisce la presenza di «giovani
imam formati in Turchia e in Arabia Saudita, come preoccupa la
progressiva islamizzazione di alcune aree della Bosnia-Erzegovina, a seguito di
ingenti investimenti compiuti da Iran e Arabia Saudita. Nel paese balcanico
l’identificazione “etnia-religione” genera discriminazioni sociali e
amministrative verso le minoranze, e in particolare verso i cattolici che
vivono o in zone a forte presenza islamica, o a maggioranza serbo-ortodossa.
Anche in Serbia e Kosovo, i fattori etnico e religioso sono spesso inseparabili».

LEGGI SULLA BLASFEMIA

Come già accennato per il caso della Russia,
nell’area europea è forte la tentazione di emanare leggi che ufficialmente
vorrebbero garantire la libertà religiosa e che invece rischiano di rendere più
difficile il godimento di tale diritto, soprattutto da parte delle minoranze. A
riguardo il Pew Forum ha pubblicato nel novembre scorso un’analisi che
mostra il trend mondiale ed europeo: «Diverse notizie hanno riguardato
negli ultimi mesi casi di persone perseguitate dalla giustizia dei propri paesi
con l’accusa di blasfemia: ad esempio in Grecia, un uomo è stato arrestato dopo
aver pubblicato su Facebook un post satirico nei confronti di un
monaco cristiano ortodosso». Secondo lo studio del Pew Forum il 47% dei
paesi del mondo hanno leggi o politiche che penalizzano la blasfemia,
l’apostasia o la diffamazione (il disprezzo o la critica di religioni
particolari o della religione in generale). «Dei 198 paesi studiati, 32 hanno
leggi anti-blasfemia, 20 leggi che penalizzano l’apostasia, e 87 leggi contro
la diffamazione della religione».

L’analisi puntualizza: «Nei paesi che hanno
leggi contro blasfemia, apostasia o diffamazione ci sono maggiori probabilità
di avere alte restrizioni governative sulla religione o elevata ostilità
sociale rispetto ai paesi che non dispongono di tali leggi. Ciò non significa
che queste leggi causino necessariamente un aumento di restrizioni alla
religione, ma è evidente che i due fenomeni vanno spesso di pari passo».

Per quanto riguarda in particolare le leggi che penalizzano la
bestemmia, in Europa sono presenti in otto dei 45 paesi: Danimarca, Germania,
Grecia, Irlanda, Italia, Malta, Paesi Bassi, Polonia, mentre nessun paese
possiede leggi che sanzionino l’apostasia. Le leggi contro la diffamazione
della religione invece sono più comuni: in 36 paesi su 45.

Luca Lorusso

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Luca Lorusso