Europa: libertà contro laicità? Riflessioni e fatti sulla Libertà Religiosa nel mondo – 14

L’effigie
degli evangelizzatori Cirillo e Metodio sulle monete da due Euro slovacche
trova l’opposizione della Commissione Europea (Ue). C’è chi considera
quest’ultima come «l’anticristo». Ma il fatto che in alcune aree del vecchio
continente ci siano più persone che credono negli extraterrestri di quante
credano in Dio non sembra una conseguenza del laicismo delle istituzioni.
In merito al
rispetto dei diritti (tra cui la libertà religiosa) il punto di riferimento –
anche per la Ue – diventa sempre più la Corte europea dei diritti dell’uomo del
Consiglio d’Europa. È alle sue sentenze che bisogna guardare per capire in che
direzione va la libertà di credo nel Vecchio Continente.

Il 17 giugno scorso il New York
Times
ha pubblicato un articolo in cui raccontava di un contrasto tra la
Banca Nazionale Slovacca e la Commissione Europea. La cosa sorprendente è che
tale contrasto non riguardava temi finanziari, ma religiosi. L’istituto
bancario slovacco intendeva commemorare il 1150° anniversario della
cristianizzazione del paese emettendo una moneta Euro che riportasse l’immagine
dei santi Cirillo e Metodio coronati dall’aureola e con le vesti oate di ben
visibili croci. La Commissione Europea si è opposta, ordinando la rimozione dei
simboli religiosi.

L’articolo del prestigioso quotidiano statunitense, dal titolo a
effetto Un’Europa sempre più secolarizzata, divisa dalla Croce, è
interessante per diversi motivi: indica l’episodio come possibile «segno della
scomparsa della fede dall’Europa contemporanea», e come frutto di una
secolarizzazione molto spinta.

«In God we trust»

La tesi in un certo senso è condivisa da mons. Stanislav
Zvolensky, vescovo cattolico di Bratislava, che ha sostenuto: «C’è un movimento
all’interno dell’Unione Europea che vuole una neutralità religiosa totale e non
può accettare le nostre tradizioni cristiane».

In Europa è dunque in gioco la libertà religiosa e, in
particolare, la plurisecolare presenza cristiana? Il Nyt non giunge,
ovviamente, ad affermare questo. È significativo però che, mentre tale fatto
non ha avuto alcuna menzione sui mezzi di informazione europei, se ne sia occupata
la stampa degli Usa, paese che sulle proprie monete non ha problemi a scrivere:
«In God We Trust». Dall’altra parte dell’oceano non si vede in questo
riferimento a Dio alcun problema, dalla nostra invece si rischia addirittura di
non rispettare la storia, con effetti paradossali e anche un po’ comici: i due
evangelizzatori dell’Europa orientale, senza le loro croci, finirebbero col
trasformarsi in due «laici» del tutto irriconoscibili. Lo stesso evento che si
desidera commemorare, a quel punto diverrebbe esso stesso pressoché
incomprensibile.

Unione – o divisione – europea?

Nelle parole del vescovo Zvolensky si può anche cogliere un’eco
delle discussioni e delle polemiche che si ebbero nel momento in cui fu
definita la Costituzione dell’Unione Europea: ci si divise infatti tra chi
chiedeva che vi fosse inserito un riferimento alle radici ebraico-cristiane e
chi invece vi si opponeva. Come noto, prevalse questa seconda posizione.

Nella questione che stiamo affrontando, tuttavia, non è tanto
questo il tema in gioco. Il problema riguarda piuttosto la tutela della libertà
di credo in un’Europa che, come tutti gli stati occidentali, intende fondarsi
sulla laicità e sul rispetto del pluralismo religioso. Libertà di religione e
laicità sono due questioni strettamente collegate. Lo sono anche nell’Unione
Europea. Essa sta faticosamente costruendo una propria unità, capace di andare
oltre le profonde divisioni linguistiche, culturali ed economiche che la
caratterizzano. In questo processo le religioni, e soprattutto quella cristiana
per il fondamentale ruolo svolto nella storia del vecchio continente, possono
diventare un ulteriore elemento di divisione oppure una primaria forza di
coesione. Molto dipenderà proprio da come, nelle istituzioni europee e nelle
grandi religioni presenti nell’Unione, saranno intesi e interagiranno tra loro
laicità, pluralismo, libertà di credo – e quindi presenza e visibilità delle
fedi -, e quale equilibrio sarà raggiunto tra questi valori al termine del
processo di costruzione di un’Unione finalmente compiuta sul piano politico e
civile.

Parecchio resta da fare. Questi valori, infatti, appaiono
diversamente intesi nelle parti d’Europa – particolarmente quella occidentale –
in cui la laicità spesso si confonde con una secolarizzazione spinta, e in
quelle dove invece il cristianesimo è tuttora forza anche sociale e civile
molto viva, come avviene in prevalenza nei paesi dell’Europa orientale.

La commissione europea non è l’anticristo

In questa situazione la Commissione europea che, assieme al
parlamento, ha il compito non facile di governare le aspirazioni comuni
europee, finisce col diventare bersaglio delle critiche di tutti. C’è chi
l’accusa di essere troppo arrendevole nei confronti della religione e chi
invece l’accusa del contrario. «Posso assicurare che la Commissione non è
l’Anticristo», ha dichiarato Katharina von Schnurbein, funzionario della
Commissione responsabile dei rapporti con i gruppi religiosi e laici, a chi le
riportava le critiche di movimenti cristiani integralisti. Del resto lo stesso
mons. Stanislav Zvolensky si era dichiarato entusiasta della Commissione
quando, tre anni fa, era stato invitato a Bruxelles per discutere della lotta
contro la povertà nell’Unione. Nessuno, tra l’altro, si era sognato di
chiedergli di togliersi la croce episcopale dal petto. Ma poi, chi mai potrebbe
seriamente puntare a un «occultamento» dei simboli religiosi cristiani in un
continente disseminato di chiese e monasteri, dove nomi di città, paesi,
luoghi, strade e piazze, sono in gran parte riferiti a santi, tradizioni,
storie e fatti cristiani, le cui università più prestigiose sono nate per
volontà di papi e i cui stati spesso riportano la croce nelle loro stesse
bandiere nazionali?

Le dodici stelle della Vergine Maria

C’è un fatto curioso, a questo proposito. Pochissimi sanno che
anche la bandiera dell’Unione europea ha un’origine cristiana. Il cerchio di
dodici stelle su sfondo blu che la caratterizza fu disegnato nel 1955 dal
francese Arsène Heits. Era cattolico e volle ispirarsi all’iconografia della
Vergine Maria. Le stesse dodici stelle, va ricordato, compaiono sulle monete
dell’euro. Anche i tre grandi padri fondatori della Comunità europea erano
cattolici praticanti: il francese Schumann, il tedesco Adenauer e l’italiano De
Gasperi.

«C’è una generale diffidenza verso tutto ciò che è religioso,
un’idea che la fede debba essere tenuta fuori dalla sfera pubblica» sostiene
tuttavia Gudrun Kugles, direttore dell’Osservatorio sulla intolleranza e la
discriminazione contro i cristiani che ha sede a Vienna. «C’è una fortissima
corrente di secolarismo radicale» aggiunge, «che interessa tutte le religioni
ma in particolare quella cristiana».

Sono affermazioni che Katharina von Schnurbein non condivide.
L’Unione europea non segue affatto una «linea» anticristiana, afferma. Non
cerca di eliminare la religione. La Commissione, al contrario, come è detto nel
Trattato, attribuisce moltissima importanza al dialogo con i credenti e i non
credenti.

Dio vs extraterrestri

In questo momento, tuttavia, non pare proprio il frutto di un
comportamento anticristiano delle istituzioni il fatto che le chiese si
svuotino, nuove religioni crescano in Europa, come l’Islam, e un fideismo
sconcertante si diffonda un po’ dovunque.

Secondo un’indagine compiuta lo scorso anno, in Gran Bretagna le
persone che credono negli extraterrestri sono più numerose di quelle che
credono in Dio. D’altro canto un sondaggio del 2010 ha rivelato che nell’intera
Unione europea solo circa metà della popolazione crede in Dio, mentre negli Stati
Uniti il 90%.

Sono problemi che interpellano pastorale, catechesi e formazione
di laici e sacerdoti nelle Chiese, prima ancora che il rapporto tra religione e
istituzioni «statali», o l’influenza delle fedi nella definizione delle norme
pubbliche.

Il ruolo della Corte Europea dei diritti umani

Per le questioni affrontate fin qua, riveste un’importanza
primaria la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). È tale Corte, infatti,
che ha il compito di decidere i casi in cui possa essere violata la libertà
religiosa, oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il
pluralismo religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i
principi costitutivi dell’Europa. È un compito estremamente importante, che va
oltre la particolarità dei casi trattati. Infatti, con le proprie sentenze la
Corte sta contribuendo a costruire una coscienza civile comune dell’Europa
stessa.

La Cedu ha sede a Strasburgo e non è da confondere con la Corte di
giustizia dell’Unione europea, organismo della Ue con sede invece in
Lussemburgo. È sorta nel 1959 per assicurare il rispetto della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Vi aderiscono i 47 stati che fanno parte del Consiglio d’Europa, compresi
quelli dell’Unione europea. Dunque la Cedu vale sia per il Consiglio d’Europa
sia per l’Unione europea: situazione che può creare problemi, perché possono
verificarsi casi di sentenze contraddittorie delle due Corti. Tuttavia in base
al trattato di Maastricht tutte le istituzioni dell’Unione sono tenute a
rispettare la Convenzione europea sui diritti dell’uomo. La Corte di giustizia
dell’Ue dunque fa riferimento nelle proprie sentenze a quelle della Cedu che
della Convenzione stessa è l’interprete. Il potenziale conflitto tra le due
Corti, che permane in linea di principio, sarebbe definitivamente eliminato se
l’Unione europea aderisse come tale alla Convenzione, cosa che non poteva fare
in passato ma che le è possibile ora, in base al Trattato di Lisbona del 2009.
Nel momento in cui questo avvenisse, la Corte di giustizia dell’Unione europea
sarebbe obbligata a rispettare le sentenze della Cedu.

Quale laicità?

La Cedu, dunque, si avvia ormai a essere
l’organo di suprema istanza anche dell’Ue in merito al rispetto dei diritti e
delle libertà civili. Per capire quindi quale concezione di laicità si stia
affermando in Europa, cosa si intenda per libertà religiosa e come essa venga
tutelata, è molto importante esaminare le sue sentenze che riguardano questi
temi. Esse fanno riferimento in particolare all’articolo 9 della Convenzione,
che tratta appunto dei diritti di libertà. È interessante notare che la libertà
di religione, come quella di pensiero e di coscienza, in quell’articolo viene
riconosciuta non solo come diritto «privato» ma, come non può che essere, anche
«pubblico». Nessuna restrizione può esservi al diritto di manifestare
pubblicamente la religione, tranne ovviamente il caso in cui possano nascere
problemi di ordine, salute e morale pubblici, o di protezione dei diritti
altrui.

Cirillo e Metodio «a spasso» per l’Europa

La vicenda della moneta slovacca da cui siamo
partiti non ha nulla a che fare con casi in cui l’ordine, la salute o la morale
pubblici vengono messi in pericolo. Riguarda, invece, proprio la laicità. È
stata la Francia a spingere la Commissione europea ad opporsi al progetto della
Banca Nazionale Slovacca, in nome di una concezione della laicità che prevede
una rigida separazione tra lo stato e la religione, e che non permette quindi
la presenza di simboli religiosi in tutto ciò che riguarda l’ambito statale.
Con buona pace dei Transalpini (e della Grecia che si opponeva alla moneta
commemorativa slovacca per ragioni «nazionali») la Banca Nazionale Slovacca ha
tenuto fermo il proprio progetto. La Commissione non se l’è sentita di
insistere nella sua posizione e, quindi, la moneta sarà prossimamente coniata.
Come ogni altra, circolerà liberamente in tutta l’Unione europea: anche in
Francia.

Paolo Bertezzolo

Convenzione per la salvaguardia dei
Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali

ARTICOLO 9: Libertà di pensiero, di
coscienza e di religione

1. Ogni persona ha diritto alla libertà
di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di
cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria
religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o
in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei
riti.

2. La
libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere
oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che
costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica
sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o
alla protezione dei diritti e della libertà altrui.

Paolo Bertezzoro




Per «tutelare Dio»

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 13

Bestemmiare, cambiare credo e diffamare fede, persone o gruppi
religiosi è reato in diversi paesi. Le leggi «antiblasfemia» nascono con
l’intento di difendere la religione, ma nei fatti soffocano la libertà
religiosa. Mentre l’apostasia viene punita in 20 paesi, tutti a maggioranza
musulmana, la blasfemia è punita anche in paesi «insospettabili» come Grecia,
Germania, Danimarca, Italia.

Dal Pakistan all’India alla Turchia alcuni episodi sono saliti
alla ribalta dell’attenzione internazionale. In anni recenti, un gran numero di fatti di cronaca hanno
accentuato l’attenzione dei mass media sulle cosiddette «leggi antiblasfemia»
che in diversi paesi del mondo hanno portato, e portano, alla violazione del
diritto di libertà religiosa. Tali leggi e politiche governative, infatti,
nonostante siano giustificate per lo più dalla volontà di tutelare le fedi
della popolazione, sono invece spesso lo strumento per reprimere i gruppi
religiosi di minoranza, o espressioni «non ortodosse» del credo di maggioranza.
Sono il 47% del totale gli stati e i territori che nel mondo
applicano legislazioni contro la blasfemia1, l’apostasia2 o le varie forme di
diffamazione della religione3 secondo una recente analisi del Pew Research Center’s Forum on
Religion & Public Life
(centro di ricerca statunitense indipendente,
specializzato in tematiche religiose e sociali). Dei 198 paesi presi in esame
durante l’anno 2011 dal Pew forum, 32 avevano specifiche leggi
antiblasfemia, 20 provvedimenti che colpivano l’apostasia e 87 avevano leggi per
contrastare offese verso una religione, inclusi parole o atteggiamenti di
incitamento all’odio contro un gruppo religioso. Per raccogiere i dati e
attuare le analisi, la ricerca ha utilizzato, oltre al lavoro diretto sul
campo, ben 19 fonti facilmente accessibili: dal dipartimento di Stato Usa alle
Nazioni Unite, da Human Rights Watch ad Amnesty Inteational e Inteational Crisis Group.

Le indagini precedenti avevano sottolineato un elemento importante
per quanto riguarda la libertà di credo nei diversi paesi, confermato
nell’ultimo studio: i paesi che hanno nel loro ordinamento leggi contro la
bestemmia, l’apostasia o la diffamazione della religione tendono ad avere
maggiori restrizioni governative e tensioni sociali più forti riguardo al
fenomeno religioso.

Bestemmia
e diffamazione

Lo scorso anno ha fatto scalpore il caso di Rimsha Masih, una
14enne pachistana di religione cristiana arrestata e incarcerata perché
accusata di aver bruciato pagine di un libro propedeutico allo studio del
Corano. Dopo alcuni mesi di prigionia la ragazza è stata liberata perché le
prove erano state costruite dal suo accusatore, il quale, a sua volta
incolpato, è stato recentemente assolto (si veda pag. 8 di questo numero di
Mc
).

Da tempo l’uso strumentale della legge antiblasfemia è diventato
in Pakistan un ostacolo alla convivenza delle comunità religiose. Dal musulmano
Pakistan passiamo all’India, dove Sanal Edamaruku, presidente della Indian
Rationalist Association
, è stato incriminato, sempre nel 2012, per avere
dichiarato che una statua di Gesù particolarmente venerata a Mumbai per le sue
caratteristiche miracolose sarebbe stata un falso.

I due casi, pur essendo di natura simile, sono stati trattati in
modo diverso sul piano giuridico: il primo, infatti, è rientrato nell’ambito
della blasfemia, il secondo in quello della diffamazione della religione. I
casi che riguardano la blasfemia sono presenti soprattutto in paesi musulmani,
quelli riguardanti la diffamazione sono assai più diffusi. In ogni caso, sono
coinvolti in queste politiche di «protezione» della religione anche paesi «insospettabili».
La Grecia, ad esempio, ha una delle legislazioni più rigide, certamente la più
severa in Europa, riguardo la blasfemia. La Cina, paese formalmente guidato da
un’ideologia atea, il comunismo, che controlla in modo pesante le attività
religiose autorizzate, con la versione più aggiornata del Regolamento degli
Affari religiosi del marzo 2005 persegue la discriminazione e l’offesa
religiosa.

Nel 2011, sul totale già citato di 32 paesi che penalizzavano la
blasfemia, la maggior parte si trovava in Medio Oriente e nell’Africa
settentrionale. In 13 dei 20 paesi di quell’area la blasfemia è un crimine.
Nella regione Asia-Pacifico, sono nove su 50 i paesi con leggi analoghe, mentre
in Europa questa legge si ritrova in otto dei 45 paesi del continente (tra cui
anche l’Italia, si veda la tabella in questa pagina, ndr). Per quanto
riguarda l’Africa Subsahariana, sono solo due i paesi che applicano una legge
antiblasfemia: Nigeria e Somalia.

Il
disagio dell’Islam

Pare inevitabile, parlando di «bestemmia» e
di come le istituzioni di diversi paesi nel mondo cercano di contrastarla
attraverso provvedimenti mirati, concentrarsi quasi esclusivamente sull’Islam.
L’attuale influenza di una versione rigorista della dottrina musulmana, quella
wahhabita, elaborata nel medioevo islamico e predominante in Arabia Saudita e
in altri paesi della regione, sta segnando la pratica di fede nell’ecumene
musulmano e anche la vita di chi musulmano non è. Il wahhabismo, forte degli
abbondanti proventi del petrolio, ha incentivato una diaspora missionaria che
ha sostenuto la nascita di infinite scuole coraniche, moschee, centri di
studio, ma anche la diffusione di ideologie di extraterritorialità e
ribellione, e focolai di intransigenza religiosa. Facendo leva su povertà,
frustrazioni e aspirazioni di molte comunità islamiche, dalla Palestina alle
Filippine meridionali, è diventato anche elemento destabilizzatore per molti
paesi a maggioranza musulmana, provocando più vittime tra i correligionari che
non tra i non-musulmani. Un radicalismo che incentiva il senso di inadeguatezza
di ampie comunità islamiche asiatiche attraverso il continuo accento posto
sulla distanza tra i costumi di vita locali e la necessaria fedeltà all’Islam. È
da questo – ovvero dalla percezione di una identità islamica minacciata – che
derivano probabilmente molte delle legislazioni antiblasfemia. Da qui deriva
anche il contrasto continuo all’interno dei grandi paesi musulmani
sull’applicazione della legge coranica (Shari’a): la giurisprudenza
laicista la vorrebbe vincolante per i soli musulmani, gli oltranzisti invece erga
omnes
, ovvero imposta anche alle minoranze. Ulteriori complicazioni
derivano poi dalla presenza di leggi tribali o locali nei diversi ordinamenti.
Alla fine, nella pratica, la legge più
restrittiva s’impone a scapito delle istanze di uguaglianza e, sovente, di
sviluppo.

In carcere il
blasfemo turco

Un caso recente mostra che la legge si applica in modo esteso
anche ai nuovi media. A fine maggio 2013, alla Turchia è toccato condannare per la prima
volta per blasfemia un blogger, un cittadino turco di origini armene, Sevan
Nisanyan, ritenuto colpevole di «avere apertamente denigrato i valori religiosi
di una certa parte della popolazione» e per questo condannato a un anno e 45
giorni di detenzione.

Una condanna estesa dagli iniziali nove mesi chiesti dal pubblico
ministero perché il suo crimine, come segnalato dall’agenzia d’informazione
semi-ufficiale Anadolu, «è stato commesso attraverso un mezzo
d’informazione». Una sentenza che mostra insieme elementi purtroppo noti e
anche di novità, quella decretata in Turchia, paese dalle solide basi laiciste,
iscritte nella sua storia modea prima ancora che nella costituzione del 1982,
ma che sotto il governo islamista di Regep Tayyip Erdogan ha visto una sicura
svolta integralista. Non senza resistenze, intee ed estee al parlamento di
Ankara e anche sotto lo sguardo attento delle diplomazie inteazionali, a
partire da quelle dell’Unione Europea.

In un testo pubblicato sul suo blog lo scorso settembre, Nisanyan
(pubblicista e tra i pionieri delle nuove tendenze dell’industria turistica
turca) aveva parlato delle proteste inteazionali successive all’uscita del
film di produzione hollywoodiana Innocence of Muslims, una pellicola di
basso livello artistico e tecnico e ancor minore successo commerciale, che
metteva in ridicolo la figura del profeta Maometto. Dure poteste, con episodi
di violenza furono il risultato in diversi paesi  musulmani, tra cui Egitto e Libia. Mentre il
premier turco denunciava il film come «islamofobico», la sua popolazione si
limitava a proteste pacifiche e poco partecipate.

«Non è un crimine che chiama all’odio prendersi gioco di alcuni
leader arabi che molti secoli fa proclamarono di essersi messi in contatto con
Dio e ne ottennero, come conseguenza, benefici politici, economici e sessuali.
Si tratta di un caso quasi a livello di scuola matea di quella che noi
chiamiamo libertà di espressione», aveva scritto tra l’altro Nisanyan.

I casi
dell’Islam asiatico

L’Asia meridionale e il Sud-Est asiatico raccolgono la maggioranza
dei musulmani del mondo (il 62%), eppure il loro ruolo nell’Islam è ancora
subordinato ai paesi arabi. Le masse che alimentano ecumenismo e orgoglio
nell’Islam sono lì, in Oriente, ma devono sottostare a regole elaborate sotto
le tende beduine come negli uffici «glacializzati» che si affacciano sul Golfo.

L’Indonesia è il primo paese islamico al mondo con i suoi 250
milioni di abitanti all’87% musulmani; il Pakistan è il secondo con 182 milioni
di credenti; l’India, grande paese induista, è al terzo posto (almeno 140
milioni), all’incirca alla pari con il musulmano Bangladesh. Afghanistan,
Malaysia e Boeo sono altri stati a maggioranza islamica, mentre consistenti
comunità musulmane si trovano in Cina, Thailandia, Malaysia, Myanmar,
Filippine, Vietnam, Cambogia e Sri Lanka.

Tra tutti, il Pakistan si distingue per l’uso più concreto e anche
criticato della legge antiblasfemia. Strumento nato nel 1986 per garantire
all’allora dittatore militare Zia ul-Haq l’appoggio degli islamisti contro gli
oppositori. Gli articoli del codice penale collettivamente indicati come «legge
antiblasfemia» continuano a essere in Pakistan un’arma da usare contro
avversari politici, in faide personali e verso le minoranze. Un’arma a volte
letale che arriva a colpire anche bambini di dieci anni e persone mentalmente
incapaci.

Il governo di Islamabad nega di avere dati disponibili e le altre
fonti sono spesso contraddittorie, ma secondo le ricerche della Commissione
Giustizia e Pace della Conferenza episcopale cattolica pachistana, dal 1986
all’agosto 2009, sono almeno 964 i pachistani finiti sotto processo per
blasfemia: 479 musulmani, 340 ahmadi,
119 cristiani, 14 indù e una decina di fede ignota. Mancano i dati delle
condanne e di quanti stanno scontando la pena, ma sono certamente decine.
Diversi sono stati uccisi in carcere oppure subito dopo la liberazione
decretata dai giudici. Se è vero che a essere stati arrestati e giudicati sono
in misura rilevante musulmani «ortodossi» di appartenenza sunnita o sciita,
spesso critici verso il potere o verso l’estremismo religioso, è pur vero che
le minoranze, compresa «l’eresia» islamica Ahmadi, sono presenti tra gli
accusati in misura superiore. 

Stefano Vecchia
 
Note:

1.
Con blasfemia, o bestemmia, si intendono osservazioni o scritti
considerati sprezzanti, offensivi verso Dio.
2.
Con apostasia si intende l’abbandono di una fede religiosa per un’altra.
Ad esempio l’abbandono dell’Islam per diventare cristiano.
3.
Con diffamazione della religione si intendono la denigrazione o la
critica di un credo religioso.

Stefano Vecchia




l’Italia religiosa tra disinteresse e sospetto

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 12
A fine maggio, diversi studiosi riuniti a Camaldoli (Arezzo)
hanno riflettuto sull’assenza in Italia di un quadro legislativo chiaro
riguardante la libertà di religione, e per formulare proposte da offrire al
parlamento. Molte le valutazioni sulla situazione odiea: il disinteresse
della politica porta conseguenze negative sulla convivenza civile nella nostra
Italia sempre più multiculturale e multireligiosa, la marginalità del tema
religioso porta alla mimetizzazione di gruppi e movimenti e alla scissione
dell’identità religiosa dall’identità civile. È necessario creare una nuova
sensibilità che porti a nuovi strumenti legislativi inclusivi e promotori di
dialogo
.

L’Italia ha
una legislazione inadeguata in materia di libertà religiose, nonostante un
programma costituzionale attento e, per certi aspetti, esauriente.

L’interpretazione del dettato costituzionale
è controversa: non tanto sul generale valore della libertà, sulla valutazione
che la religiosità sia un comportamento umano costituzionalmente apprezzato e
protetto, quanto sul sistema di attuazione della protezione. Secondo alcuni,
l’opera delle istituzioni civili sarebbe limitata dall’incompetenza statale in
materia religiosa, e fondata sul riconoscimento di una competenza quasi
esclusiva delle organizzazioni della religiosità collettiva (le confessioni
religiose). Secondo altri, l’attuazione delle libertà religiose sarebbe oggetto
di un’ampia e diretta competenza dell’autorità civile, fatta salva l’autonomia
delle dette organizzazioni. È principalmente da questo divario dottrinale e
politico, che investe i fondamenti del nostro metodo democratico, che si
produce una situazione di stallo istituzionale a causa della quale non si
riesce a emanare una legge generale. Vi sono forze che non vogliono una tale
legge e altre che ne auspicano l’emanazione. Molti, in entrambi i fronti,
dubitano che la nostra civiltà democratica attuale sia capace di porre rimedio
anche ai guasti unanimemente riconosciuti della situazione.

La Carta di Camaldoli

Partendo da queste considerazioni, la
rivista «Quadei di diritto e politica ecclesiastica», edita da Il Mulino, ha
riunito a Camaldoli (Ar) diversi docenti italiani di diritto ecclesiastico e
canonico. Dall’incontro è nata l’idea di costituire un gruppo di lavoro in
grado di elaborare una proposta da trasmettere al parlamento per favorire la
redazione di una legge organica sulla libertà religiosa nel nostro paese.

La politica, tra  disinteresse e
sospetto

Le politiche conceenti la libertà
religiosa e di coscienza nel contesto italiano soffrono di un problema di
relazione tra centro e periferia: le istituzioni e il legislatore faticano a
comprendere la trasformazione sociale e si perdono in tecnicismi normativi che
si scontrano con le varie dimensioni decisionali: regolamenti regionali,
amministrazioni locali, leggi statali e sovranazionali. In tal senso il fatto
che l’art. 117 della Costituzione attribuisca al governo centrale la competenza
esclusiva in materia di rapporti fra stato e confessioni religiose non comporta
che le questioni di politica ecclesiastica occupino un ruolo rilevante
nell’agenda dell’esecutivo. Infatti, fatte le dovute eccezioni, la prassi
politica e amministrativa testimonia che sui temi della libertà religiosa e di
coscienza domina un sostanziale disinteresse. Lo dimostrano i programmi
strategici delle diverse forze partitiche, per le quali il tema della libertà
religiosa è un «non problema», e la laicità, osserva il professor Nicola
Colaianni (già giudice della Corte suprema di Cassazione fino al 2003,
professore di Diritto ecclesiastico, italiano e comparato, nell’Università di
Bari), un mero «orpello con cui infiorettare i punti programmatici sui diritti».

La verità è che la classe dirigente si
occupa del problema della libertà religiosa solo quando alcuni fatti acquistano
rilievo sul piano politico nazionale, com’è avvenuto, ad esempio, con i casi
Lautsi (l’esposizione dei crocifissi nei luoghi pubblici, ndr) e
Englaro. Fuori da queste circostanze non si può negare che i nodi problematici
sollevati dai comportamenti di natura religiosa, o motivati da ragioni di
coscienza, rimangano marginali nel dibattito politico, e di limitato interesse
per la pubblica amministrazione. Non è una provocazione affermare che esiste un
diffuso sospetto verso il pensiero religioso e un generale analfabetismo
storico-teologico. Quest’ultimo emblematicamente rappresentato sia
dall’esclusione dell’insegnamento della teologia nelle università pubbliche
(avallata nel 1873 dalla stessa Chiesa cattolica), sia dalla marginalità, nel
panorama culturale ed editoriale italiano, di quella parte del lavoro
filosofico-politico – pensiamo ad autori come Rensi, Capitini o De Giorgis –
attenta a disvelare l’attualità e la forza del pensiero religioso nel
superamento della frattura fra fede e modeità.

Ciò che viene meno

Le conseguenze pratiche di tutto ciò sono
molteplici: innanzitutto la scarsa attenzione e sensibilità per il dialogo
interculturale e interreligioso, in contrasto con quanto richiesto nel 2007
dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) con le Guidelines
di Toledo [Art. 19: Tutti hanno
diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma,
individuale o associata, di fae propaganda e di esercitae in privato o in
pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. /
Art. 20. Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una
associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni
legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità
giuridica e ogni forma di attività]. in materia d’insegnamento delle religioni nelle scuole
pubbliche, e, ancor più, dal libro bianco sul dialogo interculturale, Vivere
insieme in pari dignità
, e dalla Raccomandazione n. 12 del Consiglio
d’Europa sulla Dimensione delle religioni e delle convinzioni non religiose
nell’educazione interculturale
rivolta, nel 2008, ai ministri
dell’educazione dei quarantasette paesi membri. Ma soprattutto ciò che è più rilevante
è che la marginalità del dibattito sulla libertà religiosa ha portato a
ritenere secondario il problema della realizzazione di un maturo pluralismo
religioso. Come evidenzia il professor Carlo Cardia (docente di Diritto
Ecclesiastico all’Università degli Studi di Roma 3, avvocato, giurista ed
editorialista di Avvenire): «È nel conflitto e nel cortocircuito tra
intransigenza cattolica e correnti laiciste che sta la radice di una chiusura
provinciale che in Italia condiziona le relazioni ecclesiastiche» e,
aggiungeremmo, influisce negativamente su un potenziale dibattito costruttivo
in materia, e su un progetto di politica ecclesiastica innovativo e di ampio
respiro.

L’identità separata dal diritto di credo?

La perifericità del religioso nel dibattito
politico-istituzionale italiano emerge anche sotto altre forme. Innanzitutto
nella tendenza sempre più accentuata del governo a separare i temi sensibili
connessi all’identità e all’appartenenza etnico-religiosa dalla sfera del
diritto alla libertà di credo, come dimostra, ad esempio, il parere formulato
dal comitato per l’Islam italiano in materia di burqa e del niqab.
Quest’ultimo invita il legislatore a «deconfessionalizzare» la questione del
velo integrale, disgiungendola dall’esercizio del diritto di libertà religiosa.
D’altronde lo stesso Consiglio di stato, nella decisione del 15 aprile 2008, ha
assunto in materia una posizione neutrale, riconducendo l’uso del velo
integrale a pratiche innanzitutto etnico-culturali.

È senza dubbio ascrivibile alla medesima
debole sensibilità ai temi della libertà religiosa il complesso problema del «mimetismo»
cui ricorrono non poche organizzazioni, tra cui quelle musulmane, al fine di
ottenere il riconoscimento di alcuni diritti riconducibili alla sfera degli
art. 19 e 20 della Costituzione1. Nascondere le finalità religiose e di culto per vedere
crescere le probabilità di successo delle proprie attese testimonia la
marginalità sul piano dell’argomentazione politica, del diritto alla libertà
religiosa.

L’Italia religiosa in mutamento

La Carta di Milano 2013, redatta dal Forum delle
religioni
di Milano in occasione dei 1700 anni dell’Editto di Costantino,
ha evidenziato che l’Italia religiosa sta profondamente cambiando, e non si
tratta solo della ricorrente immagine, che tanto timore suscita in una parte
dell’opinione pubblica e della classe dirigente, di un Islam minaccioso, o
dell’ambigua presenza di nuovi movimenti religiosi. Il cambiamento sta
coinvolgendo lo stesso cattolicesimo, «vero basso continuo» della storia
nazionale italiana, osserva Enzo Pace, ordinario di sociologia presso la Facoltà
di Scienze Politiche dell’Università di Padova, studioso e autore di molti
saggi sul fondamentalismo. La communio fidelium (comunione dei fedeli),
nell’interesse della quale fu confermato a Villa Madama nel 1984 il patto di
collaborazione (concordato) tra stato italiano e Chiesa precedentemente siglato
nel febbraio del 1929, sta profondamente mutando. Essa sta subendo
contaminazioni del tutto inedite e inattese, inimmaginabili nella prima metà
degli anni Ottanta: cattolici africani, asiatici, latinoamericani si sono
stabiliti nel nostro paese a seguito delle migrazioni transcontinentali. Essi
cominciano a popolare le parrocchie a fianco dei circa duemila parroci non
italiani che hanno nel frattempo coperto i vuoti lasciati dalla crisi di
vocazioni e dall’invecchiamento del clero nostrano.

Il processo di cambiamento che si sta
velocemente e inesorabilmente attuando sta dunque modificando radicalmente il
paesaggio religioso italiano, da sempre caratterizzato da un’accentuata
monocultura confessionale.

Nuova sensibilità e nuovi strumenti cercasi

Tutto ciò richiede, oltre a una nuova
sensibilità culturale, un rapido adeguamento degli strumenti normativi. Questo
significa che le istituzioni della repubblica hanno l’onere di rivedere le
ragioni del diritto confrontandole con quelle dell’etica sociale; ridefinire il
confine fra ciò che è negoziabile e ciò che non lo è, perché contrario ai
diritti fondamentali della persona; ridefinire ciò che può essere incluso e ciò
che deve essere escluso dal sistema di relazioni sociali; trasformare
l’estraneità in solidarietà gestendo il complesso e difficile rapporto tra la
società multietnica e i valori fondamentali della nostra carta costituzionale.

L’atteggiamento assunto negli ultimi
trent’anni dalle istituzioni centrali della Repubblica italiana nei confronti
del crescente pluralismo religioso è stato improntato a una situazione di paura
sociale. Pur in maniera disomogenea e spesso contraddittoria, gli enti locali e
le regioni sono stati spesso obbligati dai fatti a optare per soluzioni
innovative e coraggiose sul piano delle politiche di integrazione e di dialogo.
L’amministrazione centrale dello stato, e ancor più il legislatore, invece,
hanno preferito perseguire strategie attendiste, nel timore di doversi esporre
dinanzi alle istanze, spesso più che legittime, provenienti dalla società
civile e dalle rappresentanze di alcune minoranze confessionali. In tutti
questi casi, come evidenzia il professor Alessandro Ferrari, docente di diritto
canonico ed ecclesiastico all’Università degli studi dell’Insubria, esperto in «intesa
tra stato e religioni» (in particolare l’Islam), lo stato, anziché fornire alle
nuove religioni un diritto e procedure certe con cui misurarsi, ha preferito
optare per «la via meno impegnativa e più aleatoria e dall’incerto valore
giuridico di tentare di subordinare il godimento dei profili più positivi del
diritto di libertà religiosa alla loro adesione a carte di impegno o carte di
valori predisposte dalle pubbliche amministrazioni, e costituenti una
reinterpretazione e una riscrittura selettiva dei principi e dei valori già
espressi dalla Costituzione».

Solo il tempo lo dirà

Basti pensare all’uso che è stato fatto
della Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione del 2007:
da strumento di inclusione si è trasformata in mezzo funzionale all’esclusione
preventiva delle realtà religiose percepite come scomode e distanti dal sentire
comune. Ancora, non è forse vero che i pareri della Consulta giovanile per il
pluralismo religioso e culturale, del Comitato per l’Islam italiano o della
Conferenza permanente per il pluralismo religioso sono principalmente serviti a
legittimare decisioni già assunte da tempo dal potere politico, senza che di
fatto i veri nodi del pluralismo religioso venissero risolti?

Le nuove intese sottoscritte nel febbraio
2013 per regolare i rapporti tra stato italiano e l’Unione induista italiana e
l’Unione buddista italiana (Ubi), di grande rilievo simbolico perché le prime
che lo stato italiano approva con confessioni non cristiane – a eccezione degli
accordi con le Comunità ebraiche nel 1989 -, arricchiscono il pluralismo
religioso. Tuttavia, non si può negare che siano stati scelti gli interlocutori
meno ostici.

In un futuro non lontano lo stato italiano
sarà così coraggioso da adottare anche nei confronti delle comunità religiose
più problematiche, come quella musulmana, la stessa procedura innovativa? Un
organo così strategico come il Dipartimento per le libertà civili e
l’immigrazione del ministero dell’Inteo sarà disposto a collaborare
fattivamente, e non soltanto con formali patrocini, su progetti coinvolgenti le
questioni politicamente più delicate e sensibili del pluralismo religioso e
dell’integrazione? Solo il tempo aiuterà a dare una risposta a questi
interrogativi da cui dipende buona parte del destino della libertà religiosa in
Italia.

Luca Rolandi

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Luca Rolandi




Sufismo imprigionato


Il sufismo, considerato spesso come una corrente estea all’islam e, allo stesso tempo, come un pericolo per l’unità della comunità islamica, ha una lunga storia di persecuzione. Il caso della Turchia è emblematico: i sufi, oltre a essere osteggiati nei secoli passati da un punto di vista religioso, subirono anche una persecuzione di tipo secolarista e laicista a partire dal 1925. La libertà vigilata imposta al sufismo è forse uno dei segni della sua irriducibile vitalità.

Che il sufismo abbia una storia di persecuzioni è un fatto certo. Il motivo è forse che, nella maggioranza dei casi, esso viene considerato come una corrente estea all’islam. Infatti, il vero dramma dell’islam, oggi come in altre epoche, è quello di non saper mantenere al proprio interno, nel proprio alveo, tutte le tendenze, le correnti, i movimenti religiosi, e questo provoca l’assolutizzazione del monismo già insito nell’idea del Dio uno e unico. Questo è un punto fondamentale per comprendere tutta la vicenda attuale dell’islam: la religione del Profeta si fonda sulla rivelazione coranica, che è il messaggio divino rivelato a Muhammad per il tramite dell’arcangelo Gabriele. Ora, il contenuto rivelato è quello di un monoteismo assoluto, radicale, cioè dell’unità e dell’unicità di Dio. Dio è il più grande, il Sussistente, l’Onnipotente, il Misericordioso, proprio perché – si potrebbe dire – è Uno e l’Unico.

Se volessimo provare a fare un paragone con il cristianesimo, allo scopo di percepire meglio tutta la realtà e anche la differenza del monoteismo musulmano rispetto a quello cristiano, potremmo affermare che, quando noi cristiani professiamo nel credo niceno-costantinopolitano di credere «in un solo Dio, Padre onnipotente…», diciamo di credere in un Dio che è unico, ma è anche Padre, Figlio e Spirito Santo. Per i cristiani l’unità di Dio non è intaccata dal fatto che Dio al suo interno sia Trinità di persone. Per il cristiano Dio è uno, ma in tre persone. Il fatto che Dio nel suo seno sia Trinità costituisce agli occhi dell’islam un indebolimento dell’unità e unicità suprema di Dio. Per un cristiano è quasi necessario partire dalla propria esperienza del Dio trinitario per intuire che cosa significhi il monoteismo radicale dell’islam: un Dio che al suo interno non ha relazioni di persone.

È interessante sottolineare la suprema legge dell’unità divina, perché essa plasma tutti gli ambiti della dottrina e della vita religiosa, nonché politica, della società musulmana. Tutto ciò che appare contrario alla suprema legge dell’unità deve essere impedito e proibito. Ed è a questo proposito che il caso del sufismo diventa interessante e al contempo estremamente simbolico.

Eterodossi e perseguibili

Il sufismo, in sé non ha nessuna idea che possa davvero sconvolgere la dottrina dell’islam, non contiene nessun elemento che sia contro la bontà della religione del Profeta. Esso propone piuttosto una via di realizzazione pratica e spirituale del messaggio dell’islam. Nella storia di questa religione però, in numerosi casi, i sufi e, più in generale, il sufismo, sono stati considerati come elementi eterodossi e quindi anche perseguibili. Perché? Da un lato, il fatto che esistano dei gruppi, delle organizzazioni spirituali musulmane, che sono parte dell’islam, ma che si costituiscono in maniera autonoma e più libera, suscita il timore di un indebolimento dell’unità della comunità islamica, immagine dell’unità divina. La diffusione delle confrateite sufi è quindi interpretata come un attentato alla compattezza dell’islam «ufficiale». Da un altro lato, dal punto di vista dottrinale, l’islam che si ritiene portatore dell’unica interpretazione – a partire dal wahhabismo – rifiuta la dottrina della totale purificazione in Dio, dell’annientamento della persona nell’unità divina (fanâ’). La dottrina sufi dell’annientamento in Dio infatti pone la questione dell’aldilà: come è possibile alla creatura, se si annienta totalmente nell’oceano dell’unità divina, permanere ancora nella sua esistenza di oggi e in quella futura? Questo punto ha sollevato non pochi sospetti, e per questo motivo i sufi l’hanno spiegato attraverso il concetto di permanenza (baqâ’) dell’essere anche dopo l’annientamento. Ricordiamo a questo proposito il celebre al-Hallâj (m. 922) che – secondo un’interpretazione in voga – fu decapitato e poi ridotto in cenere per aver affermato «Ânâ al-Hâqq», cioè: «Io sono la Verità divina, la realtà suprema, Dio». Questa affermazione e altre simili hanno destato più di un sospetto: come è possibile che un sufi si proclami Dio?

Il sufi che pronuncia una frase simile è un mistico, un uomo che ha raggiunto una «trasparenza» spirituale tale da farlo sentire identificato con la divinità. Un’affermazione come quella di al-Hallâj è il riflesso più compiuto del messaggio coranico «non c’è divinità all’infuori di Dio» (lâ ilâha illâ Allâh): se non esiste null’altro al di fuori di Dio, anche io – il soggetto – non sono se non in Dio, quindi io sono Dio. È Dio la realtà suprema, anzi è l’unica vera realtà e tutte le altre sono quasi un soffio, una semplice apparenza di quella suprema verità.

Questo approccio, benché sia fondamentalmente un riflesso del credo islamico, incute timore, e, di fatto, le molteplici persecuzioni e vessazioni nei confronti dei sufi del passato e attuali ne sono la conseguenza.

I timori diventano crociate

Se questo nucleo più mistico pone qualche difficoltà di comprensione, sono sicuramente i riti iniziatici del sufismo che sollevano la maggior parte dei dubbi negli altri musulmani. I timori allora diventano vere e proprie crociate contro i simboli sufi. Nella storia del sufismo sotto l’Impero ottomano si incontrano diverse interpretazioni contrarie alla pratica del sufismo.

Nel XVII secolo, l’Impero ottomano nella sua figura più importante, quella del Sultano, è impegnato a risollevare le sue sorti militari e politiche, e la ragione del declino viene attribuita ai riti, considerati deviati e devianti, del sufismo, in particolare la pratica dei pellegrinaggi alle tombe dei «santi» sufi, la pratica della ripetizione del nome di Dio (dhikr) e la danza rituale (semâ‘).

Una certa interpretazione islamica rigorista dell’epoca fece sì che fosse attribuita la responsabilità delle difficoltà geopolitiche dell’Impero proprio ai sufi e ai loro rituali: nel 1666, i predicatori musulmani (vâiz) intransigenti che officiavano presso la Sublime porta, insieme ai rappresentanti di più d’una corporazione dei mestieri, riuscirono, con un abile colpo di mano, a far proibire dal sultano tutti i riti sufi e in special modo il semâ‘. Si dice che tra i dervisci danzanti, i mevlevî o discepoli di Mevlânâ Rûmî (m. 1273), ne morirono centinaia a causa della tristezza per il fatto di non poter più praticare la danza rituale così importante nella vita del sufi. L’interdetto durò per circa sedici anni, ma già a distanza di un solo anno i dervisci ripresero a eseguire il rituale del quale non potevano fare a meno. Prima del 1666, alcuni sufi furono addirittura condannati a morte per le loro affermazioni e prese di posizione ostili al potere politico1. In generale, la storia ottomana conta un’evoluzione sfavorevole al sufismo, a partire dal XVI secolo, con una ripresa nel XIX secolo, fino alla sua conclusione, con l’inizio della Repubblica di Turchia nel 19252.

Le politiche antisufi dilagano

Se il XVII secolo significò una svolta nella politica religiosa ottomana, anche nelle vicine regioni arabe avvenne qualcosa di importante. Nell’Arabia del XVIII secolo apparve la figura di punta del movimento antisufi, denominato Wahhabismo, movimento che oggi tutti conoscono a causa delle sue ulteriori riforme: il salafismo e, purtroppo, al-Qaeda e l’Isis. Tutte queste interpretazioni dell’islam sono esplicitamente contrarie alla diffusione del sufismo e delle pratiche sufi, e non solo sono contrarie dottrinalmente, ma fanno della lotta al sufismo un vero e proprio cavallo di battaglia nella loro politica religiosa e addirittura militare, come nel caso dell’Isis.

In altri contesti, il sufismo ha anche subito colpi di arresto, come per esempio in Egitto, con la proibizione di pubblicare le opere del grande mistico Ibn ‘Arabî (m. 1240). In Turchia, nel 1925, Atatürk e l’Assemblea nazionale bandirono gli ordini sufi e tutti i loro maestri, e confiscarono i beni immobiliari loro appartenenti. Questo bando stravolse le antiche modalità di vita del sufismo turco ereditate dalla tradizione ottomana. Il caso dei cosiddetti dervisci danzanti è quanto mai indicativo di questa situazione. Se nell’antichità ottomana, e prima ancora selgiuchide, i mevlevî godevano della libertà di formarsi all’interno dei loro conventi sufi (tekke) senza alcun problema, con il potere politico che li favoriva, dopo il 1925 ogni ordine sufi, e specialmente i dervisci danzanti, dovettero lasciare il suolo turco per poter continuare a «esibirsi» nel loro rituale di danza. A dire la verità, non solo la danza poneva problema, ma ancora di più la formazione stessa che prevedeva almeno 1001 giorni di disciplina comune sotto la guida severa e ferma di un maestro3. Per tre anni, i dervisci danzanti vivevano in comunità, e i novizi erano formati nelle grandi cucine del convento di Konya, l’antica Iconium di San Paolo. Con la soppressione di tutti gli ordini sufi, è chiaro che questa disciplina veniva inesorabilmente a decadere e, insieme a questa, anche la classica e autentica formazione.

La diaspora

Un certo numero di dervisci lasciò la Turchia e si rifugiò nei Balcani, a Cipro e in ultima istanza anche negli Stati Uniti. Un esempio su tutti: il gran maestro sufi dei Bektashi, compagine legata al corpo d’armata del sultano (i famosi giannizzeri), lasciò la Turchia per l’Albania e poi si ritirò negli Stati Uniti dove ancora oggi si trova un centro importante. Altri ordini sufi, come i Naqshbandî riuscirono a sopravvivere quasi indenni perché il loro modo di formazione non richiedeva una visibilità particolare. Di fatto, questo gruppo è quello che permane ancora oggi in Turchia e altrove come uno dei più influenti di tutto il mondo sufi all’interno dell’universo musulmano.

La legge del settembre del 1925 varata dalla Grande Assemblea di Turchia e applicata a partire dal dicembre seguente, prevedeva addirittura il carcere per tutti coloro che tentassero la riapertura di uno degli spazi sufi (conventi, tombe, complessi) presenti sul territorio di Turchia. La legge prevedeva non solo il carcere, ma anche una salata multa. In certi casi si imponeva il confino e l’esilio, come nel caso del celebre maestro sufi Said Nursî (m. 1960), che fu osteggiato durante tutta la sua vita. Non va però taciuto che il numero di conventi sufi nella sola città di Istanbul alla vigilia della soppressione, ha un che di inquietante: ce n’erano più di trecento. Questo elevato numero indica che la compagine degli ordini godeva di un impatto notevole, sia dal punto di vista geografico che politico.

In stato di libertà vigilata

Il caso della Turchia è sicuramente uno dei più significativi nella storia dell’islam, perché i sufi, oltre ad essere osteggiati da un punto di vista prettamente religioso nei secoli precedenti il XX, a partire dal 1925 subirono una nuova persecuzione originata da un’ideologia secolarista e laicista, che vedeva nella religione solo un mezzo per regolare la società civile. Il fatto che il governo si trovasse a scontrarsi con diversi Ordini sufi era un vero e proprio impedimento nella gestione sociale dell’aspetto religioso. Per questo gli ordini sufi furono soppressi e fu istituito un ministero per gli affari del culto (Diyanet).

Si capisce allora perché il sufismo in Turchia, come in molti altri paesi (l’Egitto nella sua storia recente, ma anche l’Algeria) viva in una specie di libertà vigilata. È il tentativo di ridurre le potenziali scalfitture che la presenza degli ordini sufi potrebbero procurare, seppur minimamente, a quell’idea monolitica dell’unità della massa musulmana che vuole essere l’immagine dell’unicità divina.

È quindi, il sufismo, un criterio ermeneutico importantissimo per capire il modello di islam che vuole imporsi sugli altri, e finanche un paradigma teologico che plasma la società. Tuttavia, il sufismo è sospetto anche nei regimi laicisti perché tacciato di essere tradizionalista e conservatore. Questa libertà vigilata imposta al sufismo è forse segno della sua libertà dottrinale e della vitalità irriducibile degli ordini sufi.

Alberto Fabio Ambrosio

Note

1 – Cfr. Alberto Fabio Ambrosio, Vita di un derviscio. Dottrina e rituali del sufismo nel XVII s., Carocci editore, 2014; id., Soufis à Istanbul. Hier et aujourd’hui, Parigi, Les Editions du Cerf, 2014.

2 – Cfr. Alberto Fabio Ambrosio, L’islam in Turchia, Carocci editore, 2015.

3 – Cfr. Alberto Fabio Ambrosio, Dervisci. Storia, antropologia, Mistica, Carocci editore, 2011.

Alberto Fabio Ambrosio




Religioni e violenza secondoMedha Patkar

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 30

Attivista indiana per
i diritti umani, ambientalista e donna politica, Medha Patkar mette in
evidenza, nelle sue riflessioni, il nesso tra violenza, religioni e potere
politico ed economico. In un contesto come quello indiano in cui il primo
ministro, Narendra Modi, è l’esponente di spicco del Partito del popolo
indiano: conservatore, nazionalista, di esplicita ispirazione induista.

«Occorre comprendere che la violenza,
l’emarginazione di ispirazione religiosa non è il solo problema dell’India,
dell’Orissa e del Kandhamal. Sovente il fattore religioso è pretesto per
accrescere la presa dei potenti sul territorio, per svendee le ricchezze
naturali a grandi compagnie, per espropriare tribali, aborigeni e contadini a
favore di colossali interessi agricolo-industriali o minerari».

A dirlo è Medha Patkar, attivista
indiana conosciuta per le sue battaglie ambientaliste. In tempi recenti ha
portato il suo impegno sul piano politico, ma senza cessare di sostenere la
trentennale lotta delle popolazioni interessate dalla controversa diga del
Sardar Sarovar sul fiume Narmada che coinvolge quattro stati dell’India
centrale. A lei si deve la fondazione, con altri, dell’«Alleanza nazionale dei
movimenti popolari» che si è impegnata contro globalizzazione e strapotere delle
grandi aziende, e che nel 2004 si è trasformata in movimento politico, il «Fronte
politico popolare». Una scelta non da tutti compresa, il passaggio
dall’attivismo ecologista alla politica attiva, che Patkar ha spiegato con la
necessità di portare impegno e lotte prima rivolte a obiettivi particolari, su
un piano più generale ma anche più incisivo: «Noi crediamo che i movimenti
popolari siano inevitabili in ogni democrazia per tenere vivo il processo
democratico e per sollevare e risolvere i conflitti tra stato e cittadini su
questioni di ampio interesse. Questo ruolo, lo diciamo con umiltà, è importante
e occorre proseguirlo. Contemporaneamente abbiamo sempre detto che la politica
elettorale non è intoccabile. Piuttosto la consideriamo complementare a quella
non elettorale.

Riteniamo necessario sfidare e
cambiare quella parte di cultura politica che è criminale e disgregatrice, che
sfrutta non solo la religione ma anche le caste come una forza per proseguire
con il gioco dei numeri».

Qualche tempo fa in un’intervista
alla scrittrice e giornalista Gargi Parsai, riflettendo su un tema a lei caro e
solo all’apparenza lontano dal suo impegno primario, la Patkar sosteneva che «è
vero, le caste dividono la società, e oggi sono strumentalizzate al punto da
mettere gli uni contro gli altri contadini e contadini, operai contro operai.
Anche le caste vengono contrapposte alle altre caste e così finisce che si
riduce la loro capacità di unirsi contro le ingiustizie, ma anche contro le
minacce crescenti all’ambiente. Di conseguenza, è tempo che le popolazioni
costrette a lasciare le proprie terre e gli emarginati si uniscano, in modo che
queste forme di ingiustizia possano essere affrontate in modo unitario e
efficace».

I massacri di
Kandhamal

Più di recente, nel 2014, in
occasione di un grande raduno che ha ricordato l’avvio dell’ondata persecutoria
anticristiana nello stato di Orissa, la Patkar ha avuto modo di riflettere su
questo aspetto del suo impegno che è di riconciliazione prima ancora che di
contrasto a abusi e discriminazioni.

«Sono davvero felice e allo stesso
tempo triste di vedere che a sei anni dai massacri del Kandhamal molti abbiano
ancora così tanto entusiasmo, tanta energia, coraggio e forza di opporsi al
governo dell’Orissa e a quello federale guidato da Narendra Modi.

I fondamentalisti (non importa a
quale religione appartengano), gli individui che hanno stuprato suor Meena e
coloro che hanno distrutto più di 300 chiese, 6500 case (ucciso più di cento
persone, ndr) e costretto 56mila persone a lasciare le proprie
abitazioni e a vivere per le strade, che hanno devastato i loro campi e
raccolti e altri mezzi di sostentamento, hanno trasformato uomini liberi in
schiavi».

L’attivista, in queste parole, faceva
riferimento ai gravi fatti – la peggiore persecuzione anticristiana della
storia modea del paese – che ebbero luogo nel distretto del Kandhamal, nello
stato orientale di Orissa. Iniziati nel Natale del 2007, quando radicali indù
sobillati da un leader locale, Laxmanananda Saraswati, bloccarono con una
serrata le celebrazioni cristiane, si concretizzarono violentemente dopo
l’uccisione dello stesso Saraswati il 23 agosto 2008. Un delitto di cui vennero
accusati i cristiani locali, in maggioranza convertiti da etnie animiste e
gruppi indù fuoricasta. L’evidente pianificazione del pogrom, con
l’arrivo organizzato di migliaia di fanatici da altre aree dello stato di
Orissa e del paese, fu negata a favore di una tesi che sosteneva invece la
spontaneità della persecuzione. Quegli eventi, che hanno segnato profondamente
la coscienza collettiva della comunità cristiana indiana, e la difficoltà da
parte delle vittime di avere giustizia a causa di un pesante clima di
intimidazioni e coperture, hanno chiarito i limiti della giustizia indiana e
accentuato i timori delle minoranze, in particolare sotto l’attuale governo
nazionalista e filoinduista del paese.

«Il Kandhamal è uno dei molti luoghi
in India segnati dalla violenza comunitaria. Ovunque si verifichino rivolte nel
nome della religione, a finire sotto attacco è l’umanità, che viene seppellita
– ha indicato la Patkar -. Comunque, deplorare questi incidenti, per quanto lo
facciamo con forza, non può essere sufficiente. Chi promuove un atteggiamento
violento nel nome della religione va condannato».

Estremismo induista

Convinzioni, quelle di Medha Patkar,
che trovano sempre più spazio nella società civile indiana – che va aprendosi a
tematiche come la discriminazione e la violenza sessuale, la lotta a malgoverno
e corruzione, la ricerca di unità in un paese sempre più frammentato e quindi
sempre più distante dall’integrazione sognata dai suoi fondatori –
contemporaneamente a un aumento della violenza religiosa. Quest’ultima è
incentivata dal movimento di riconversione all’induismo promosso da gruppi
estremisti che non agiscono più attraverso la sola coercizione o intimidazione,
ma anche proponendo incentivi materiali, e utilizzando metodi che ricalcano le
iniziative benefiche presenti, ad esempio, nella prassi cristiana che gli
stessi gruppi stigmatizzano come mirati alla conversione.

«È molto importante che comprendiamo
che cos’è la religione», ha segnalato la Patkar aprendosi a una tematica
raramente parte del suo impegno, ma che, come altre, riveste un ruolo
essenziale nel paese e nelle sue difficoltà attuali, a partire dal settarismo
che va diffondendosi. «Religione è prassi di vita, religione significa legge;
indica alcuni principi fondamentali e nient’altro che questo».

«Alcuni riconoscono Bhagwan (termine
generico per indicare dio nell’induismo, nda) o Allah, altri offrono namaaz
(preghiera islamica, nda) e altri fanno i rituali della puja (atto
di adorazione induista, ndr) e i nostri fratelli adivasi (aborigeni, nda)
trovano i fondamenti della loro religione tra gli alberi, sulle montagne e nei
fiumi. La comunità dalit (termine più attuale per fuoricasta, intoccabili, nda)
considera il dottor Ambedkar (che guidò il movimento per la loro emancipazione
negli anni Sessanta, nda) come loro divinità. Anche Buddha, Kabir,
Periyar, Vivekanand e Mahavir non hanno mai predicato la violenza, lo stupro,
la distruzione per diffondere le rispettive pratiche religiose o filosofiche.
In molti casi, tuttavia, i loro seguaci hanno intrapreso un cammino che
contrasta con gli ideali religiosi e ovunque questo succeda non sono soltanto
case e campi a essere devastati, ma è la stessa religione a essere distrutta».

Prove di pulizia
etnica

Si è spesso detto, in modo
particolare da parte della Chiesa cattolica la quale dal 2008 fronteggia con
coraggio la sfida dell’integralismo indù al fianco delle comunità di battezzati
sparse tra le foreste e le colline dell’Orissa, che la situazione vissuta in
Kandhamal è stata una prova di pulizia etnica. Una spallata alla convivenza e
all’integrazione, come già era avvenuto nell’enorme pogrom antimusulmano
del Gujarat nel 2002, quando la violenza integralista indù provocò 1044 vittime
accertate (di cui 790 musulmani), migliaia di feriti e mutilati, stupri di
massa, più di 60mila sfollati.

Per questo, segnala la Patkar, è
fondamentale capire che cosa è successo in Kandhamal: «Occorre partire dalla
conoscenza della sorte della popolazione interessata dalla persecuzione,
soprattutto delle donne e dei bambini. Le grida strazianti delle donne che ho
sentito, in un tempo in cui sono usate come puro oggetto di repressione, devono
essere ascoltate. Non è solo il mercato con le sue logiche a trattare le donne
come oggetti, ma a volte anche la religione».

In Kandhamal, obiettivi dei radicali
che scatenarono il pogrom erano dalit e adivasi cristiani. I richiami
alla calma furono ignorati e le violenze scoppiarono quando ai cristiani venne
attribuita la responsabilità dell’uccisione del leader radicale indù Swami
Laxmanananda Saraswati e di due suoi seguaci in un presunto centro spirituale
che altro non era che un luogo di cornordinamento delle strategie induiste nella
regione. Di fatto i cristiani furono scagionati subito dai guerriglieri maoisti
che rivendicarono di aver ucciso l’uomo per le sue attività persecutorie e per
il suo ruolo di apripista del controllo economico sul territorio dell’interno
dell’Orissa da parte di facoltosi correligionari.

«Le accuse comunque sfociarono in
violenze diffuse, vittime, conseguenze ancora presenti. Su che cosa furono
basate le accuse verso la pacifica comunità cristiana? Se ci fossero state
responsabilità concrete, la popolazione locale si sarebbe rivolta alle autorità.
Il fatto fu che a incentivare i disordini fu un gran numero di elementi
arrivati da fuori Kandhamal e anche da fuori Orissa, e a prolungarli contribuì
la latitanza della polizia in uno stato governato allora in coalizione da un
partito locale di centrodestra, il Biju Janata Dal, e dal Bharatiya
Janata Party
, gruppo di riferimento politico dell’estremismo induista, oggi
al potere centrale a livello federale».

Goveo e
fondamentalisti

Ogni anno ad agosto, gli estremisti
indù organizzano manifestazioni in cui accusano i cristiani di essere colpevoli
degli eventi del Kandhamal e di conversioni forzate. Allo stesso modo, i
cristiani, insieme ad altre organizzazioni della società civile locale e
nazionale, chiedono giustizia accusando gli indù di atteggiamento persecutorio.
A chi dovremmo credere? La risposta di Medha Patkar è chiara: «Ricordate: se c’è
violenza di ispirazione religiosa, la responsabilità ricade sia sul governo,
sia sui fondamentalisti. Dov’era il governo nei terribili giorni del Kandhamal,
dal 23 agosto 2008 in avanti? Chi aveva il potere allora in Orissa?
Evidentemente i due partiti della coalizione decisero di non intervenire, anche
se successivamente l’alleanza si allentò notevolmente. Gli ufficiali di polizia
che resero possibile alle violenze di propagarsi non sono stati puniti, come
pure i responsabili dello stupro di suor Meena. Ai profughi, espropriati di
case e beni viene ancora negata la possibilità del ritorno».

Politica (e
ingiustizia) in nome della religione

Questa problematica non è solo
limitata al Kandhamal, e il continuo accento, posto dalle istituzioni,
sull’unità e integrità del paese – a fronte di pratiche di segno opposto che
proprio la stessa politica e le stesse autorità incentivano o consentono – la
rende più evidente per contrasto.

«Fratelli e sorelle – concludeva
Medha Patkar lo scorso agosto il suo discorso in Orissa, mostrando una copia
del rapporto del Tribunale del popolo per il Kandhamal, impegnato a cercare
giustizia per le vittime – qui sono descritte le azioni che occorrerebbe
intraprendere, quali sono le leggi in base alle quali punire i criminali. La
gente non ottiene giustizia perché i politici fanno politica in nome della
religione. I cristiani sono soltanto il 3% della popolazione, i musulmani il
13%, gli adivasi il 9%. Perché i politici dovrebbero sostenerli? Quando i
partiti pensano così, il popolo non ottiene giustizia, i colpevoli non sono mai
puniti mentre innocenti finiscono in carcere per avere reclamato i propri
diritti. Perché non ci sono state indagini efficaci nel caso del Kandhamal?
Perché nessuno pone questa domanda? Questa è la mia domanda». 

Stefano Vecchia

Tags: Medha Patkar, Narenda Modi, Fondamentalismo, fondamentalismo indù, Orissa, intolleranza religiosa, persecuzioni

Stefano Vecchia




Brunei la ricca, sulla via della sharia

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 29

È uno dei più ricchi
paesi del Sud Est asiatico grazie all’esportazione di petrolio. Tra i paradisi
fiscali maggiormente «frequentati». Conta una popolazione di 400mila persone
distribuite su un territorio poco più grande del Molise. Dal 1 maggio 2014, per
tappe successive, sta riformando il proprio codice penale nella direzione della
Sharia: «Un atto di fede e gratitudine nei confronti di Allah, l’onnipotente»,
ha dichiarato il suo sultano.

Un anno fa il pacifico e benestante
sultanato del Brunei virava verso l’islamismo. Ad annunciarlo, lo stesso
Hassanal Bolkiah, sultano del paese dal 1967: «Sono grato ad Allah
l’onnipotente nell’annunciare che il 1° maggio [2014] vedrà la luce la prima
fase dell’applicazione della legge coranica».

Le regole del nuovo codice penale
saranno estese gradualmente fino a sostituire le precedenti e saranno
caratterizzate da un’inasprimento rilevante delle pene. Il «nuovo corso» di
rigida applicazione della legge coranica contrasta con il passato del paese
segnato da un’interpretazione dell’Islam più liberale, utile anche a
legittimare la ricchezza sfacciata e gli eccessi dei regnanti (è degli inizi di
aprile scorso la notizia delle sfarzose nozze del figlio del sultano, segnate
da bouquet di pietre preziose, abiti d’oro, scarpe di diamanti, ndr).

Il nuovo codice penale è uno degli
strumenti che l’oggi 68enne sovrano sta mettendo in campo, oltre alla decisione
di limitare poteri e spese proprie e dei consanguinei, per risollevare la
dignità nazionale e il livello delle casse pubbliche di un paese su cui
esercita un potere quasi assoluto.

Dopo un avvio complesso e più volte
ritardato, il controverso codice penale basato sulla Sharia ha visto finora
un’applicazione graduale con scarsi risultati.

Già in vigore da tempo, in modo
parziale, in ambito civile, a esempio quello familiare, la Sharia è ora legge
di riferimento. Sulla carta, i provvedimenti sono gli stessi, severi e arcaici,
che vengono già applicati altrove: tra essi, l’amputazione delle mani per i
ladri, la fustigazione per reati che includono aborto e uso di alcolici, la
lapidazione per adulterio e sodomia.

Le nuove regole non riguardano solo i
musulmani che rappresentano la grande maggioranza della popolazione, ma anche
la folta comunità immigrata, tra cui diversi cristiani, necessaria al
funzionamento del paese e alle necessità di aziende e famiglie.

Svolta integralista

Benché nel Brunei le manifestazioni
di dissenso verso le decisioni del sovrano e in generale delle autorità, siano
assai rare, le nuove norme hanno suscitato perplessità e proteste da parte
della popolazione sia musulmana che non: attivisti e semplici cittadini hanno
trovato su internet e nei social media strumenti di cornordinamento e
diffusione del loro disagio.

Forte il timore che la legge crei
particolare ostilità e discriminazione nei confronti dei non musulmani. A esprimerlo
sono soprattutto i cinesi, che rappresentano il 15% dei 400mila abitanti del
paese, ma anche gli immigrati, in parte di fede cristiana.

Avvicinandosi la data del 1° maggio
2014, l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani aveva espresso «profonda
preoccupazione» per le pene previste dalle nuove norme, considerate – aveva
segnalato – alla stregua di «tortura o altri trattamenti o punizioni crudeli,
inumani e degradanti».

Con questo provvedimento, il Brunei
va ad aggiungersi all’elenco di quei paesi dotati di leggi draconiane di stampo
religioso, e si mette in una posizione disagevole tra vicini musulmani di ben
altre dimensioni e influenza (ma di minore benessere procapite), come Malesia e
Indonesia, che cercano di contrastare le pretese della politica d’ispirazione
islamista.

La fisionomia del nuovo codice penale
è stata fortemente plasmata dallo stesso sovrano Hassanal Bolkiah. Il sultano
ha specificato che l’emanazione della legge islamica era in cantiere da anni,
in discussione almeno dal 1996, e che «con l’entrata in vigore della presente
legge, adempiamo al nostro dovere verso Allah».

Hassanal, è erede di una famiglia al
potere da sei secoli, passata indenne attraverso conflitti e dominazioni
coloniali, ultima quella britannica che ha imposto un protettorato terminato
soltanto nel 1984. Proprio codici di ispirazione anglosassone avevano finora
definito delitti e pene, mentre la legge religiosa restava relegata alle
contese personali o familiari.

Con i suoi sudditi al 70% di etnia
malese, concentrati per oltre metà nella capitale Bandar Seri Begawan, e per il
resto sparsi su 5.770 chilometri quadrati di territorio, il Brunei si affaccia
su un mare ricco di petrolio e di gas, ed è tra gli stati più benestanti al
mondo con un tenore di vita elevato, sanità e istruzione gratuite. Nonostante
il benessere procapite superiore a quello di molti vicini, e nonostante
l’influenza britannica, da tempo il paese presenta una forma di Islam meno
tollerante rispetto a quello dei due partner regionali già citati, con forti
limitazioni alla presenza di fedi diverse, il bando degli alcornolici, la rigida
applicazione delle regole morali. All’apparenza è una situazione funzionale
all’immagine che la monarchia vorrebbe dare di sé, all’acquisizione di un ruolo
diverso nella regione e anche ai lucrosi rapporti con le petro-monarchie del
Golfo.

La legge e le reazioni

Le difficoltà del sultanato negli
ultimi dodici mesi, comunque, non sono solo quelle date dal dissenso interno o
da quello di carattere diplomatico, ma anche quelle relative alla scarsità di
avvocati in grado di consentire il funzionamento dei tribunali e l’approdo a
giudizi equi e legalmente ineccepibili.

Sui 103 avvocati che, a partire dal
2003, si sono qualificati e successivamente registrati per operare nell’ambito
della legislazione di ispirazione religiosa islamica, solo 16 hanno fatto
domanda di operare nei tribunali islamici. A confermarlo qualche tempo fa, il
giudice di uno di questi tribunali, Yahya Ibrahim, che ne definisce «insoddisfacente»
il numero, ancor più considerando che, in base all’Ordinanza 2013 sul Codice
penale della Sharia, agli avvocati viene chiesto di giocare un ruolo importante
nei dibattimenti a sostegno di sentenze corrette ed efficaci.

Per legge, infatti, gli avvocati
specializzati in legge coranica dovrebbero essere almeno la metà di quelli
registrati in ciascun tribunale, ha affermato Ibrahim durante la cerimonia di
consegna dei certificati ufficiali ai 26 avvocati che avevano completato la
preparazione in questa particolare branca giuridica. Il giudice ha anche
suggerito una seria indagine sulle ragioni per cui essere un avvocato
specializzato nella Sharia sembra al momento poco appetibile per i
professionisti.

Nel loro complesso, le nuove pene,
indicate dal sultano come una «barriera contro negativi influssi estei», sono
state salutate con grande scetticismo e, per la prima volta, come già scritto,
da una vera e propria ondata di proteste attraverso i social media.

Non a caso, recentemente il sultano
ha parlato della monarchia islamica come di un «firewall (il “muro
tagliafuoco” che difende una rete informatica da attacchi estei, ndr.)
contro la globalizzazione». Certamente dedita al controllo dei sudditi, tanto
che, al primo manifestarsi di voci dissidenti riguardo l’introduzione piena
della Sharia, ha avvertito, tramite un messaggio consegnato ai media ufficiali:
«I nostri denigratori non possono continuare con questi insulti. Se ci sono
elementi che consentiranno di portarli in tribunale, allora la prima fase di
attuazione del codice penale islamico avrà un’applicazione certa nei loro
confronti». Non viene specificato chi siano i destinatari del messaggio, i «denigratori»,
ma in un paese in cui i mezzi di comunicazione tradizionali sono strettamente
regolamentati e dove la presenza di inteauti è invece tra le più alte in
Asia, è probabile che nel mirino ci fossero proprio la grande rete e i suoi
strumenti. Infatti proprio su blog e social network cresce la
preoccupazione verso le nuovo norme. Come riportato in uno dei molti posts:
«Fa davvero paura la possibilità di essere lapidati a morte per essere amanti o
multati per diversità sessuale oppure essere puniti per un abbigliamento non
considerato conforme alla morale».

Morale dinastica

Se la levata di scudi contro il
provvedimento ha mostrato quanto poco esso sia sentito come funzionale alla
propria vita dalla popolazione autoctona o immigrata, resta da chiarire quali
siamo le vere ragioni dietro l’introduzione nella versione più severa (almeno
sulla carta) del codice penale islamico. Dalla varietà delle analisi in
proposito, emergono tre punti di convergenza.

Il primo è quello dell’identità nazionale, strettamente legata a quella della sua monarchia. Il passato ha
dimostrato la fragilità del sultanato davanti a potenze straniere. Se tra il XV
e il XVII secolo era stato al centro di un dominio esteso dal Boeo alle
Filippine, ai giapponesi occorse una settimana per conquistarlo durante la
Seconda guerra mondiale. Una fragilità che resta caratteristica del paese anche
oggi. Da qui la necessità di rafforzare (primo tra i paesi dell’area con questa
radicalità) l’identità nazionale attraverso l’ideologia di una «monarchia
islamica malese». Hassanal Bolkiah, al potere dal 1967, noto per disporre,
almeno in passato, di harem rigogliosi nel suo palazzo di 1700 stanze, ha
deciso di cambiare drasticamente l’immagine del suo regno e la propria,
puntando sull’islamizzazione non più solo di facciata.

Secondo punto da considerare è che
l’applicazione severa della Sharia fornisce al sultano – il quale è leader sia
temporale che spirituale – un nuovo potere di controllo in un sistema
che presenta crescenti segnali di disagio. Per questo motivo i gruppi e gli
individui che già prima lamentavano poca libertà e diritti, temono un ulteriore
peggioramento, in contrasto con le loro richieste di maggiore apertura
ideologica e culturale. La gran parte dei cittadini è infatti impiegata nel
settore pubblico, ma al livello di preparazione dei giovani non corrisponde un’adeguata
disponibilità di posti di lavoro qualificati, cosa che determina una
disoccupazione limitata ma in crescita. Il fenomeno è causa di una maggiore
disaffezione al proprio paese nelle fasce d’età inferiori che cercano in
attività come l’uso intensivo del web, il vandalismo, l’uso di anfetamine e la
microcriminalità, alternative alla noia e alla demotivazione. Una situazione
che il sultano ha addebitato a negative influenze estee e a un’adesione solo
parziale al dettato coranico che va rettificata.

Terzo punto, quello economico-diplomatico,
per molti centrale. La legge in vigore, per un biennio in fase transitoria,
consentirà infatti al Brunei di diventare il centro della finanza e del sistema
creditizio islamico nella regione, accogliendo anche maggiori investimenti
dalle economie islamiche, con una differenziazione maggiore di attori e
tipologie d’impresa. Con una svolta netta rispetto alla sua finora quasi
completa dipendenza dalle risorse petrolifere, esportate soprattutto in
Giappone e Corea del Sud, il paese ha deciso di sfruttare le prospettive di
crescita dell’economia islamica globale. Questa, che un rapporto di Thomson
Reuters
stima in un potenziale del valore di 5.000 miliardi di dollari, in
parte consistente dovrebbe convergere sul Sud Est asiatico, sull’Indonesia e la
Malesia.

Una situazione di cui il sultanato,
che punta a diventare una «Singapore musulmana», vuole approfittare dandosi più
salde radici islamiche, un sistema penale e civile consequenziale e strutture
finanziarie-economiche basate sul diritto religioso per attrarre iniziative e
investimenti da Medio Oriente e Asia occidentale.

Una scommessa per il futuro che
potrebbe farlo diventare, suo malgrado, un centro di diffusione dell’ideologia
integralista di matrice araba, e un santuario finanziario per gruppi jihadisti
globali nel cuore dell’Asia.

Stefano Vecchia

Tag: Sharia, Sultanato, Libertà religiosa, Paradiso fiscale, Petrolio

Stefano Vecchia




La laicità che allarga le opportunità

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 28

Oggi l’Italia è un
paese multiculturale e multireligioso, molto diverso da quello che esisteva
soltanto alcuni decenni fa. Benché il diritto alla libertà religiosa sia
sancito dalla Costituzione, nel mosaico legislativo italiano mancano ancora
diversi tasselli. Uno fra tanti, ad esempio, è quello dell’intesa con l’Islam.
In attesa di una legge generale che, anno dopo anno, diventa sempre più ineludibile.

 


L’opinione comune è che in Italia non
esistano veri problemi all’esercizio della libertà religiosa. Essa, del resto, è
tra i diritti più tutelati. Ne parla la Costituzione, direttamente in ben
cinque articoli (3, 7, 8, 19 e 20) e indirettamente in altri quattro (2, 17, 18
e 21). La Corte costituzionale è stata chiamata in molte occasioni a garantie
il rispetto.

Perché dunque occuparsene?

Come emerge dalle interviste
pubblicate nei numeri precedenti di MC (si vedano i n. 1/2, 3 e 4 del 2015, ndr.),
la questione non è affatto risolta. C’è, sì, quanto prevede la Costituzione, ma
i suoi principi non sono ancora attuati del tutto e per tutti.

È tuttora in vigore la legge del ’29,
promulgata dunque durante il fascismo, che definiva la Chiesa cattolica come
religione dello stato riservando alle altre confessioni religiose la condizione
di «culti ammessi». Superato il fascismo e approvata la Costituzione
repubblicana, questa legge non era più sostenibile. La Carta fondamentale dello
stato riconosce infatti ai cittadini piena uguaglianza di fronte alla legge,
indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche,
condizioni personali e sociali (art. 3). Tuttavia sono occorsi diversi anni per
arrivare alla revisione del concordato tra la Chiesa cattolica e lo stato
italiano che, nel 1984, ha reso possibile superare ogni prospettiva
confessionale, eliminando appunto il principio del Cattolicesimo come religione
dello Stato.

Il ruolo del Concilio

Si è giunti a tanto anche grazie al
Concilio Vaticano II, che ha una grande importanza per quanto riguarda la
libertà religiosa. In esso, infatti, la Chiesa ha proclamato «il diritto della
persona umana e delle comunità alla libertà sociale e civile in materia di
religione» (Dignitatis Humanae), ha rilanciato l’ecumenismo, dichiarando
come uno dei principali compiti «promuovere il ristabilimento dell’unità tra
tutti i cristiani» (Unitatis Redintegratio) e promosso il dialogo
interreligioso (dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni con le
religioni non cristiane).

Grazie al Concilio si è diffusa nella
Chiesa italiana una nuova sensibilità ai valori della libertà religiosa che ha
permesso, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, di iniziare il cammino
della revisione concordataria concluso poi nel 1984 con la stipula del nuovo
concordato con lo stato italiano.

Il mosaico incompleto delle
intese

Sull’onda di
questo risultato si è aperta la «stagione delle intese», dando così attuazione
all’art. 8 della Costituzione, che le prevede ma che era rimasto fino ad allora
disatteso. Le intese, secondo la Costituzione, hanno il compito di
regolamentare i rapporti reciproci tra lo stato e le varie confessioni
religiose. La prima è stata siglata con i Valdesi proprio nel 1984. Negli anni
successivi sono state raggiunte intese con altre 11 confessioni. Dieci sono
state poi recepite nell’ordinamento giuridico italiano da apposite leggi,
necessarie per renderle pienamente operanti. Per una, quella con i Testimoni di
Geova, l’approvazione per legge non è ancora avvenuta.

In Italia,
insomma, si sta procedendo molto pragmaticamente per regolamentare la libertà
religiosa, costruendo una sorta di mosaico, di cui ogni nuova intesa
rappresenta un tassello, che tuttavia non è ancora concluso. Si tratta di
un’opera notevole e preziosa per rispondere alla geografia religiosa del nostro
paese, profondamente mutata nel corso del tempo anche per effetto dei flussi
migratori. Oggi infatti l’Italia è un paese multiculturale e multireligioso,
molto diverso da quello che esisteva soltanto alcuni decenni fa. Rimangono
aperti tuttavia problemi notevoli. Con l’Islam, ad esempio, non è ancora stato
possibile raggiungere alcuna intesa, soprattutto perché risulta difficile
individuare interlocutori in grado di rappresentare l’intera comunità islamica.
Si può comprendere quanto sia manchevole e fonte di problemi questa situazione
se si pensa che la questione non sta nel «concedere diritti» (che esistono già,
in quanto, appunto, sanciti dalla Costituzione e dalle leggi), ma
nell’integrare pienamente anche questa religione nell’ordinamento
costituzionale e giuridico del nostro paese: il che significa riconoscee i diritti
– tra cui quello ai luoghi di culto, spesso messo in discussione o addirittura
negato nei fatti ricorrendo a espedienti e cavilli: come non dimenticare la «guerra
delle moschee» che si è avuta negli anni scorsi in diverse città? – ma anche
definie i doveri verso la comunità nazionale in cui essa vive.

Tentativi a vuoto

Molti problemi sarebbero risolti se
si arrivasse ad approvare una legge generale che sostituisca definitivamente
quella del 1929.

È dal 1990 che il parlamento prova a
realizzarla, senza riuscirci: cosa che sorprende ancora di più se si comparano
tra loro i vari disegni di legge via via presentati dalle maggioranze che in
questi 25 anni si sono alternate in Parlamento. Essi, infatti, non sono molto
diversi tra loro nelle questioni fondamentali.

Perché allora un tale ritardo? Quasi
tutti riconoscono che una legge generale sulla libertà religiosa è necessaria.
L’ultimo tentativo per approvarla è stato compiuto nella XVI legislatura con la
«proposta Zaccaria» (vedi Mc aprile 2015, ndr.). Nella seduta del 24
luglio 2007 essa è stata «sepolta» sotto una montagna di emendamenti e si è
arenata, senza riuscire ad arrivare al voto.

Il motivo principale è stato il
rifiuto di molti del riferimento, contenuto nell’articolo 1, alla laicità dello
stato, così come definita dalla Costituzione, quale fondamento della legge che
si presentava al Parlamento. Nella Commissione affari costituzionali di
Montecitorio sono risuonate parole di sorpresa e commenti sdegnati, soprattutto
dai banchi del centrodestra. Qualcuno ha sostenuto che parlare di laicità come
fondamento della legge fosse in contrasto con la Costituzione e col principio
della libertà religiosa, qualcun altro ha affermato che fosse «pleonastico e provocatorio»
il parlarne in una proposta di legge che riguardava scelte da assumere «sul
versante della religione», altri ancora che stabilire «un principio di laicità
al quale deve essere data attuazione nelle leggi dello stato» costituisse «uno
strumento certamente rivoluzionario e certamente difforme dalla logica
costituzionale».

È evidente che si è trattato di
fraintendimenti del concetto di laicità e anche di scarsa conoscenza del
significato che essa ha nella Costituzione del nostro paese. Anche questo può
aiutare a capire come mai il parlamento non riesca ad approvare una legge
generale sulla libertà religiosa.

L’imprescindibile concetto
di laicità della Stato

Non è possibile che una legge
riguardante questa materia prescinda dal principio della laicità dello Stato,
cioè dal fatto che esso non si identifica, né ha una posizione di favore, nei
confronti di alcuna religione. Lo stato è neutrale nei confronti della
religione, e proprio per questo può e deve assicurare agli individui e ai
gruppi la libertà di professare il proprio credo (o di non credere) e garantire
che non subiscano per questo motivo alcuna discriminazione.

La Corte costituzionale, con una
sentenza molto importante (n. 203 del 12 aprile 1989), ha chiarito la portata e
il significato della laicità secondo l’ordinamento italiano. Proprio
riferendosi al nuovo Concordato del 1984, essa ha sostenuto che laicità non
significa indifferenza dello stato dinanzi alle religioni. Al contrario,
costituisce la garanzia che esso, in un regime di pluralismo confessionale e
culturale, intervenga a salvaguardare la libertà di religione di tutti. Ma la
parte forse più significativa della sentenza sta nel riconoscimento che il
nuovo Concordato realizza pienamente la laicità prevista dalla Costituzione.
Infatti il dibattutissimo articolo 7, che attribuisce alla Chiesa cattolica una
condizione del tutto particolare, definita appunto da un concordato, appartiene
alle disposizioni che danno sostanza al principio della laicità dello Stato.

Insomma, è importante rilevare che la
laicità definita dalla Costituzione italiana non stabilisce la separazione
rigida tra lo stato e le religioni come fanno, sia pure con modalità molto
diverse tra loro, quella degli Stati Uniti d’America e della Francia. Per lo
stato italiano la secolarizzazione crescente della società non riduce
l’incidenza della religione o l’esigenza di religiosità delle persone. Il
principio di laicità, inoltre, riconosce l’eguale dignità delle diverse fedi
religiose, andando oltre il semplice principio della tolleranza. E questa è
l’architrave di una effettiva garanzia della libertà religiosa. Ma, e questo è
altrettanto importante, la stessa sentenza riconosce che la pari dignità di
tutte le confessioni convive, per ragioni storiche e culturali che l’ordinamento
costituzionale permette di riconoscere, con uno speciale regime a vantaggio del
cattolicesimo. È una situazione presente anche in altri paesi europei. A una
disciplina di natura generale della religione si affianca una disciplina
speciale.

Per un verso, insomma, si fanno leggi
valide per tutte le religioni, per un altro si ammette un regime bilaterale che
regola, sulla base del concordato, la condizione giuridica del cattolicesimo.
La laicità dello stato italiano, dunque, ha un carattere intermedio rispetto ai
modelli statunitense e francese. Si tratta di una «laicità aperta», in base
alla quale viene garantita la separazione dello stato dalle chiese, ma non
dalla religione. Viene riconosciuta la libertà religiosa e l’eguaglianza di
tutte le confessioni religiose ma anche il «patrimonio storico» del
cattolicesimo. Lo stato non fa propri i principi appartenenti alla sfera
religiosa, rendendoli obbligatori e vincolanti per i suoi cittadini, ma
contemporaneamente garantisce un’apertura dello spazio pubblico ai valori
religiosi. Si tratta, in altri termini, di un atteggiamento che, nei confronti
del fenomeno religioso, affida allo stato il compito non solo di evitare
discriminazioni e di tutelare il pluralismo, ma anche di allargare le
opportunità. La neutralità dello stato si identifica con il rispetto per
l’eguale dignità di tutte le credenze religiose e, naturalmente, anche della
mancanza di ogni credenza.

Riferirsi al «principio di laicità»
nel definire una legge sulla libertà religiosa non deve dunque costituire un
ostacolo alla sua approvazione.

Una necessità reale e
impellente

Risulta chiaro, comunque, che ancora
molto resta da fare. Una regolamentazione tuttavia è indispensabile. Infatti
l’esigenza di assicurare la libertà religiosa si presenta in molteplici
situazioni che fanno parte della vita ordinaria delle persone, come
l’alimentazione, la sepoltura, il matrimonio, l’educazione scolastica, il
lavoro, il ricovero nei luoghi di cura. Ma vanno regolamentati anche il rispetto
delle festività religiose, la disponibilità e la tutela degli edifici di culto,
il libero esercizio dell’attività dei ministri di culto, l’assistenza
spirituale ai carcerati, i rapporti con le pubbliche amministrazioni,
l’appartenenza alle forze armate. Non si tratta di questioni formali o
astratte. Per darvi risposta si può procedere «pragmaticamente» seguendo la
strada delle intese. Ma si deve essere consapevoli che il risultato sarà
ottenuto pienamente solo quando il «mosaico» sarà completato, cioè quando si
arriverà a un quadro legislativo generale delle condizioni che rendono
effettiva la libertà religiosa, eliminando ogni discriminazione in questo
ambito. È una necessità reale e impellente, che sarà soddisfatta solo se
governo e parlamento riusciranno finalmente a superare il limite da più parti
evidenziato, della mancanza nella storia recente del nostro paese di una
consapevole e organica politica ecclesiastica.

Paolo Bertezzolo

Tags: patti lateranensi, concordato, concilio vaticano II, laicità della stato, legge, libertà religiosa, intese

Paolo Bertezzolo




Ma le intese non bastano

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 27

Nonostante la legge
sulla libertà religiosa in Italia sia ancora quella del ‘29, non siamo fermi
lì. Le intese tra lo stato e le singole confessioni avvicinano il nostro paese
alla propria Costituzione, ma il deputato del Pd, Roberto Zaccaria, sostiene la
necessità di una nuova legge. Finché essa non ci sarà, non sarà realizzata in
Italia la libertà di credo. Chiudiamo con questa intervista il piccolo ciclo di
dialoghi sulla libertà religiosa con parlamentari italiani.

Una via pragmatica per arrivare in
Italia alla realizzazione del diritto alla libertà religiosa è stata indicata
dal prof. Stefano Ceccanti, ex senatore Pd, e dal senatore Fi Lucio Malan,
nelle due puntate precedenti: quella delle intese tra stato italiano e singole
confessioni religiose, uno strumento previsto dalla Costituzione.

Oggi, infatti, ci si trova ancora con
la vecchia legge del ’29 – anche se profondamente amputata delle sue parti
incompatibili con la Costituzione -, e allo stesso tempo con l’oggettiva
difficoltà a produrre una nuova legge generale, dimostrata dal fallimento di
vari tentativi del Parlamento in diverse legislature. Piuttosto di insistere
sulla strada impraticabile di una legge generale, si sostiene, è meglio
procedere con le intese, e solo in un secondo momento, quando dovessero esserci
le condizioni appropriate, arrivare a una legge generale.

Roberto Zaccaria non è però dello
stesso avviso. Professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico presso
l’Università di Firenze, ha insegnato Diritto costituzionale, Diritto
dell’informazione e Diritto regionale all’Università di Firenze, Macerata,
Lumsa e Luiss di Roma.

È stato membro della Camera dei
deputati nelle legislature XIV (2001-2006, gruppo La Margherita-L’Ulivo), XV
(2006-2008, gruppo L’Ulivo) e XVI (2008-2013, gruppo Pd).

È stato consigliere di
amministrazione della Rai dal 1977 al 1993 e suo presidente dal 1998 al 2002,
vice Presidente dell’Uer (Unione delle televisioni pubbliche europee) dal 2000
al 2002.

È giornalista pubblicista, iscritto
all’Ordine dei giornalisti.

A differenza dei suoi
colleghi Ceccanti e Malan, lei sostiene la necessità di giungere il più presto
possibile a una legge generale sulla libertà religiosa. Per quali motivi?

«L’esigenza
di intervenire per sostituire la legge del 1929 è essenziale e prioritaria. I
principi contenuti nella nostra carta costituzionale soffrono per una
attuazione incompleta nonostante quello che è stato fatto dall’ordinamento
internazionale ed europeo e dalla giurisprudenza a ogni livello.

Le
intese hanno in qualche modo accentuato la divaricazione tra i fedeli delle
diverse religioni e il trattamento delle stesse confessioni e associazioni.

La
strada di trasformare in legge unilaterale il contenuto comune delle diverse
intese è teorica: bisognerebbe comunque passare da un Parlamento che al momento
sembra poco sensibile verso questi temi. Tanto vale, allora, fare una legge ad
hoc, all’altezza dei tempi».

Una normativa
generale inevitabilmente cerca di dare delle «definizioni di sistema» su cui
l’accordo tra le diverse anime del Parlamento è arduo. Qualcuno lo ritiene
addirittura impossibile. Non pensa che sia difficile superare le diverse
visioni quando si affrontano problemi generali, concettuali e teologici?

«Non
credo che il problema sia quello della difficoltà di dare definizioni di
sistema condivise. Il problema è rappresentato piuttosto dalla difficoltà per
il Parlamento di fare leggi di sistema in ogni campo. Basta guardare i dati
sulla produzione normativa per convincersene. La riforma costituzionale e la
legge elettorale sono due eccezioni accompagnate da una fortissima
determinazione politica. Il resto è governo dell’economia. E questa è la
seconda motivazione: una legge sulla libertà religiosa non rientra tra le
priorità in questo momento storico, come non lo rientrano del resto alcune
leggi complementari come quella sulla cittadinanza e quella sull’immigrazione».

Nella XV legislatura
lei è stato promotore di una legge generale che caratterizzasse in modo molto
preciso il diritto di libertà religiosa, specificando i diritti dei singoli e
delle varie confessioni.

«Nella
XV legislatura sono stato più precisamente il relatore della legge sulla libertà
religiosa riprendendo il lavoro che era stato avviato dall’on. Maselli nella
XIII legislatura (1996-2001). Nella XIV legislatura il percorso parlamentare
alla Camera aveva preso le mosse da un disegno di legge del governo Berlusconi
(Ac – Atto della Camera – n. 2531) che riproduceva nella sostanza il testo del
progetto di legge del governo Prodi della XIII legislatura. Nella XV abbiamo
invece lavorato su due proposte di legge d’iniziativa parlamentare,
rispettivamente dei deputati Bornato (Ac n. 36) e Spini (Ac n. 134), intitolate «Norme
sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi». Ci
siamo mossi con grande rigore svolgendo addirittura due cicli di audizioni: la
prima sulle proposte Bornato e Spini e la seconda su un testo del relatore.
L’atteggiamento intransigente della Cei, manifestato soprattutto nel secondo
ciclo di audizioni, sull’inserimento nel testo di un riferimento al principio
di laicità, ha prodotto un irrigidimento anche in alcuni dei partiti del
centrodestra. Di fronte a un numero rilevantissimo di emendamenti, il
provvedimento si è arenato. La conclusione dei lavori è avvenuta il 24 luglio
2007. La legislatura è finita alcuni mesi dopo».

Ora ha promosso il
«Gruppo Astrid» che lavora in vista della stesura di una nuova proposta di
legge.

«Poco
dopo l’inizio della XVII legislatura, vedendo che il Parlamento non sembrava
intenzionato ad affrontare l’argomento, con il sostegno di un nutrito gruppo di
professori di diritto ecclesiastico, ho proposto alla Fondazione Astrid di
avviare un gruppo di lavoro per definire una nuova legge sulla libertà
religiosa. A motivare quest’iniziativa non c’era solo il fatto che in
Parlamento il tema risultasse assente, ma anche la necessità di rimettere mano
a una nuova impostazione della legge. I testi che avevano accompagnato il
dibattito parlamentare nelle legislature che abbiamo ricordato erano
decisamente datati e quindi si è deciso di impiegare utilmente le energie
dell’accademia nella predisposizione di un testo che sarebbe potuto essere
utile in una prossima stagione parlamentare. L’idea del gruppo di lavoro ha
preso forma più concreta a Camaldoli, nel maggio del 2013 (cfr. L. Rolandi, L’Italia
religiosa tra disinteresse e sospetto
, in Mc agosto-settembre 2013),
in un convegno organizzato dalla redazione del n. 1 dei «Quadei di diritto e
politica ecclesiastica» in collaborazione con il Fidr (Forum internazionale
democrazia e religioni, www.fidr.it). Il convegno aveva per titolo La libertà
religiosa in Italia: un capitolo chiuso?
1».

In quanto tempo pensa
che il testo possa essere pronto?

«I
tempi di lavoro sono costanti in relazione al progetto. Esiste un gruppo
redazionale più ristretto che presenta proposte per il gruppo più ampio2. Sono stati esaminati una sessantina di
articoli. Il lavoro istruttorio si concluderà entro 6-8 mesi. A quel punto
credo che verrà convocato un seminario per discutere coralmente il testo».

Il testo di questa
nuova proposta di legge si differenzia, e in che cosa, da quello da lei
promosso nella XV legislatura?

«Come
dicevo, il nuovo testo, pur prendendo le mosse da quello vecchio, ne allarga
considerevolmente l’orizzonte, e tiene conto degli stati di avanzamento sia
della giurisprudenza che della dottrina. A partire dagli anni 2000 sta
crescendo sensibilmente il profilo internazionale e comunitario della libertà
religiosa; si affacciano i problemi identitari connessi ai flussi migratori; si
prospettano problemi di bioetica; cresce il coinvolgimento di realtà
confessionali estranee alla tradizione giudaico-cristiana; aumentano i problemi
di pluralismo religioso; si fa più complesso il rapporto tra profilo collettivo
e profilo individuale del diritto di libertà religiosa; e tutto questo ha
rilevanti conseguenze sul concetto stesso di libertà religiosa. Questo è un
diritto che viene sempre più spesso associato a problematiche di natura
etico-morale e di natura politico-culturale in riferimento al cambiamento della
geografia religiosa dovuto ai fenomeni migratori. In più, come vediamo anche in
questi giorni, aumentano le questioni di ordine pubblico e sicurezza».

Su cosa basa la sua
fiducia che questa volta una legge generale sulla libertà religiosa possa
essere approvata dal Parlamento? In particolare, ritiene che tale risultato si
possa conseguire nel corso della presente legislatura?

«Non
ho detto che cresce la fiducia sulle possibilità che il Parlamento arrivi ad
approvare un testo in questa legislatura. È proprio questo il motivo per cui
riteniamo utile lavorare al di fuori del Parlamento in una fondazione come
Astrid che lavora al fianco delle istituzioni ma che consente di riunire
esperienze e discipline diverse. Quando saremo pronti offriremo ben volentieri
questo lavoro alle istituzioni e alla politica. Oggi lavoriamo tranquillamente
anche al riparo dalle inevitabili tensioni che il dibattito politico genera».

La sua proposta
precedente si fermò anche perché non ci fu accordo sul fatto che essa si
fondasse sul principio di laicità che, tuttavia, è alla base della Costituzione
repubblicana. Perché dunque non ci si è trovati d’accordo? Oggi le cose sono
cambiate o l’affermazione della laicità dello stato costituisce ancora un
problema per qualcuno?

«In
quel momento quel riferimento nel testo al principio della laicità è risultato
dirompente, ma non è detto che debba essere
sempre così: le cose cambiano. Del resto ripeto che la nostra proposta
avrà un respiro più ampio e, pur fondandosi ovviamente sul principio di laicità
che è parte essenziale della nostra Costituzione, potrà declinarlo in modo
altrettanto efficace. Non credo proprio che andando alla radice del problema vi
possano essere dei contrasti. Magari vi saranno su altri aspetti».

Ritiene che, anche
quando fosse approvata la nuova legge generale sulla libertà religiosa, sarebbe
utile proseguire con la stipula delle intese tra lo stato e le confessioni
religiose?

«Diciamo
subito che non è lecito chiudere una porta, come quella delle intese, che la
Costituzione prevede. D’altra parte ci sono delle intese che hanno fatto
ampiamente il loro percorso, come quella con i Testimoni di Geova, che
dovrebbero essere approvate. Certo, su un piano generale, diciamo di opportunità,
credo che sarebbe meglio procedere con una legge unilaterale dello stato che
regoli il diritto per tutti perché, paradossalmente, se procedessimo solo sul
terreno della regolamentazione bilaterale attraverso le intese rischieremmo di
allargare le disparità tra chi gode di regimi particolari e chi ancora è
soggetto all’anacronistica legge 1159 del 1929».

In attesa della legge
generale, rimane aperta nel nostro paese la questione di un’intesa con l’Islam.
Quali problemi crea questa situazione, nella prospettiva di una piena
integrazione dei fedeli islamici nel sistema costituzionale e giuridico, oltre
che nella società, del nostro paese?
L’approvazione di una legge generale sulla libertà religiosa faciliterebbe la
soluzione di questi problemi o la renderebbe invece più difficile?

«È
esattamente questo il problema. Proprio all’Islam mi riferivo quando parlavo di
inaccettabili differenziazioni. Visto che fino a questo momento la strada
dell’intesa si è rivelata impercorribile con l’Islam, è essenziale procedere
sulla base della cosiddetta legge generale.

Non
ho alcun dubbio. Oggi questa legge è necessaria. Si potrebbe procedere anche
con la creazione di un testo unico che riunisca le disposizioni sparse in una
quantità enorme di testi normativi diversificati. In questa materia però la
mera compilazione non è sufficiente: si tratta di riordinare e ammodeare. Io
credo che la strada migliore sia invece quella di fare una legge di principi e
anche di disposizioni innovative che mettano in soffitta la legge sui culti
ammessi, che contenga una delega idonea e confezionare le disposizioni più
specifiche, e anche la delega per la redazione di un testo unico innovativo».

Paolo Bertezzolo
Note:

1- Tra i relatori di quel convegno c’erano, tra
gli altri, Roberto Mazzola, dell’Università del Piemonte Orientale A. Avogadro,
Marco Ventura della Katholieke Universiteit Leuven, Romeo Astorri
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Alessandro Ferrari dell’Università
degli Studi dell’Insubria.

2- Il gruppo è formato, oltre che dai professori
indicati nella nota 1, dall’intervistato Roberto Zaccaria, in veste di
cornordinatore, da Francesco Margiotta Broglio, Sara Domianello, Pierangela
Floris, Valerio Tozzi, Paolo Naso, Paolo Cavana e Marco Croce. Ha partecipato
ad alcune riunioni il Sen. Lucio Malan. Hanno anche aderito Paolo Corsini e
Vannino Chiti. Partecipano stabilmente alle riunioni, in veste di osservatori,
la dott.ssa Anna Nardini per l’Ufficio studi e rapporti istituzionali della
Presidenza del Consiglio, e la dott.ssa Giovanna Maria Rita Iurato della
Direzione centrale affari di culto del ministero dell’interno. Ci sono poi
alcuni esponenti di confessioni religiose che ne hanno fatto richiesta: Yahya
Pallavicini (Coreis, Comunità religiosa islamica italiana), Ezzedin Elzir
(Ucoii, Unione delle comunità islamiche d’Italia), Abdellah Redouane (Moschea
di Roma), Tiziano Rimoldi (Avventisti), un rappresentante della chiesa
Ortodossa. Per l’Uaar (Unione atei agnostici razionalisti) partecipa anche
Adele Orioli.

Del gruppo redazionale più
ristretto fanno parte Ferrari, Mazzola, Domianello e Floris.

Paolo Bertezzoro




Non siamo fermi al ’29

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 26

Si può scrivere in
una legge che i lavoratori hanno diritto ad assentarsi nelle feste della
propria confessione? Oppure vietare l’uso di una lingua diversa dall’italiano
nei luoghi di culto? Una nuova legge generale sulla libertà religiosa non è,
per la politica odiea, una priorità, anche per l’oggettiva difficoltà di
sciogliere molti nodi che paiono irrisolvibili. Ne parliamo col senatore di
Forza Italia Lucio Malan.

Deputato nella XII legislatura
(1994-1996), eletto nelle liste della Lega Nord, è senatore dal 2001, prima del
Pdl e ora di Forza Italia. È stato membro della commissione affari
costituzionali fino al 2013. Nell’attuale legislatura è questore del Senato e
fa parte della commissione giustizia. È membro della giunta delle elezioni e
delle immunità parlamentari e del comitato parlamentare per i procedimenti
d’accusa. Per conto del parlamento ha svolto numerosi incarichi a livello
internazionale. È attivo anche nella Chiesa Valdese, cui appartiene.

Intervistiamo Lucio Malan, da anni
impegnato sul tema della libertà religiosa.

L’Italia oggi è una
società multiculturale e multireligiosa, molto diversa da quella del ’29 quando,
durante il regime fascista, era stata approvata la «Legge Rocco» sui «culti
ammessi» per «consentire» il libero esercizio dei culti non cattolici, dopo
aver riservato con i Patti Lateranensi una «particolare condizione giuridica»
alla religione dello stato. Nonostante sia stata modificata dalla Corte
costituzionale, per togliere le parti incompatibili con la Costituzione
repubblicana, quella legge è tuttora in vigore. Un’altra, dunque, si impone.
Lei si è molto impegnato in questa direzione. Cosa ha fatto fino a oggi il
Parlamento per rispondere a questa necessità?

«Ci sono stati diversi tentativi di arrivare all’approvazione di una
legge sulla libertà religiosa, in particolare nelle legislature 1996-2001 e
2001-2006. I governi Prodi I e Berlusconi II presentarono disegni di legge
sostanzialmente uguali fra di loro. Nel 2003 la proposta fu approvata in
commissione e approdò nell’aula della Camera, ma non andò oltre la relazione.
Nel frattempo, però, Camera e Senato dal 1984 hanno approvato undici intese1 oltre a cinque modifiche di esse. Il record è
stato nella legislatura 2008-2013, con cinque nuove intese e tre modifiche,
andando oltre l’ambito giudaico-cristiano grazie agli accordi con buddisti e
induisti».

Perché,
nonostante questo notevole lavoro, non è stata ancora approvata la nuova legge
sulla libertà religiosa?

«Perché non è sentita come una priorità e perché si tratta di cosa
molto complicata. Nella legislatura 2001-2006 il testo approvato conteneva
alcune limitazioni ispirate a questioni di sicurezza, che furono ritenute
inaccettabili da molta parte del centro sinistra. Senza quelle limitazioni
sarebbe stato il centro destra a opporsi. Inoltre la legge dell’epoca fascista,
odiosa nel titolo (“culti ammessi”), in realtà concede molto più di quanto si
crede e molti oggi avrebbero difficoltà a riapprovare le stesse norme. Ad
esempio, include la possibilità dell’ora di religione in contemporanea
all’insegnamento della religione cattolica».

Le
intese tra lo stato e le varie confessioni religiose, nonché la futura nuova
legge sulla libertà religiosa, costituiscono una crescita dei diritti e delle
libertà, nel quadro dell’attuazione piena della società democratica definita
nella Costituzione repubblicana. Alla sua base sta il principio di laicità, in
cui tutti si riconoscono. Perché allora tale principio è diventato uno dei
motivi per cui non si è riusciti ad approvare la nuova legge sulla libertà
religiosa?

«Non so se la laicità finisce per essere un ostacolo. Di certo, molti
temono una legge che includa anche gli islamici, perché nelle loro varie realtà,
potrebbe dare l’opportunità agli estremisti di usare le prerogative di
confessione religiosa per fare altro, e si sa che in gran parte dei paesi
islamici, il concetto di laicità dello stato è del tutto sconosciuto. Inoltre,
come ho detto, nessuno vuole concedere spazi e si dice: piuttosto di una
cattiva legge, meglio andare avanti così, visto che comunque la libertà
religiosa c’è e le intese funzionano».

Quali
sono le questioni principali, in ordine alla libertà religiosa, che la nuova
legge deve regolamentare?

«Si tratterebbe di attribuire a tutte le confessioni alcune
prerogative attualmente riservate a quelle che hanno stipulato l’intesa. In
realtà, molte prerogative sono già oggi garantite, come la possibilità, per i
ministri di culto, di visitare i detenuti, entrare negli ospedali non solo per
uno specifico paziente, come ad esempio un parente, e altre questioni. Già oggi
tutte le confessioni possono farlo, purché abbiano il riconoscimento della
personalità giuridica e la nomina dei ministri di culto sia approvata dal
ministero dell’interno, cosa che ultimamente è diventata problematica. C’è poi
la questione della partecipazione all’8 per mille, oggi riservata ai titolari
di intese, che sembra improbabile poter allargare a tutti. Ci sarebbe anche la
questione delle festività religiose, del riconoscimento degli istituti di
formazione dei ministri di culto, e altro ancora. In realtà, non è facile
scrivere una normativa che preveda le esigenze delle varie confessioni e tenga
conto dei problemi che ciascuna può porre alla collettività. In questo le
intese sono molto efficaci perché partono dai casi concreti e li affrontano in
termini di norma. Per fare un esempio banale: non si può scrivere astrattamente
che i lavoratori hanno diritto ad assentarsi nelle feste della propria
confessione: teoricamente ogni giorno la Chiesa Cattolica festeggia una
ricorrenza, o uno o più santi. Parlando di prevenzione dei problemi che si
possono creare con talune confessioni, c’è chi propone di imporre nelle moschee
l’uso del solo italiano, perché l’eventuale incitamento all’odio possa essere
riscontrato più facilmente, e conosco dei musulmani che non sarebbero contrari.
Resta il problema che il Corano deve poter essere letto in arabo, che per loro è
lingua sacra. In ogni caso, non si può fae una norma generale: vuoi vietare
la messa in latino, che fino a 50 anni fa era l’esperienza comune di tutti i
cattolici, schiacciante maggioranza nel paese? Vuoi vietare agli ebrei di
leggere la Torah in ebraico, la lingua in cui per loro, e anche per noi
cristiani, è stata scritta da Mosè sotto la dettatura di Dio? Ci vuole molto
pragmatismo. Prendiamo l’aspetto delicato della circoncisione: è vero che è un
atto irreversibile praticato su bambini di otto giorni, dunque senza alcun
assenso, ma è anche vero che è tradizione antichissima, che non ha alcun
effetto negativo. Ben altra cosa sono le mutilazioni femminili, anche esse
tradizionali in certe etnie, ma del tutto inaccettabili nella nostra civiltà».

Si
può realisticamente pensare che essa sia approvata nel corso della presente
legislatura?

«No. Ma non mettiamo limiti alla Provvidenza».

C’è
chi sostiene che, a seguito della stipula delle intese con diversi culti
religiosi, sia aumentato il divario tra i diritti di questi e i diritti di
quelli che le intese non le hanno stipulate. In altri termini, mentre si opera
per realizzare una piena eguaglianza tra tutti i culti religiosi,
paradossalmente si fa crescere la disuguaglianza tra di loro. La «strada delle
intese» è davvero quella migliore da seguire? Tra l’altro, procedendo per
questa via, oggi si è finito col ritrovarci in una condizione piuttosto
complessa, tra le intese – che nascono da accordi bilaterali tra una
confessione religiosa e lo stato -, la legge del ’29 ancora in vigore e la
nuova legge che non viene avanti.

«Indubbiamente il problema c’è. Ma non dimentichiamo che la Repubblica
Italiana nasce con una diseguaglianza pregressa costituita dal Concordato, che
neppure il Partito Comunista, teoricamente ateo, tentò seriamente di abrogare.
Purtroppo c’è stato di recente un vero e proprio passo indietro con l’assurda e
incostituzionale decisione del ministero dell’Inteo di applicare un
inopportuno parere del Consiglio di Stato, il quale – per la prima volta dalla
legge del 1929 – ha indicato un limite numerico minimo di fedeli per il
riconoscimento dei ministri di culto, per di più nell’esorbitante cifra di 500,
nel presupposto, peraltro falso, che tale sarebbe il numero minimo dei fedeli
nelle parrocchie cattoliche con sacerdote residente. Orbene, in primo luogo ci
sono, proprio nella mia valle (la Val Pellice in Piemonte, ndr), comuni
sotto i 500 abitanti, la maggioranza dei quali è valdese, con tanto di
sacerdote cattolico residente. In secondo luogo, non si può imporre alle altre
le logiche della confessione maggioritaria, anche perché, per forza di cose,
mentre è facile in un territorio molto piccolo trovare 500 cattolici, non lo è
altrettanto trovare, ad esempio, 500 luterani. I luterani, che pure hanno
l’intesa, sono circa seimila volte meno numerosi dei cattolici, e dunque,
mediamente, 500 luterani saranno sparsi per un territorio seimila volte più
vasto: cosa che rende loro impossibile avere un unico ministro di culto. In
terzo luogo, spesso le confessioni minoritarie hanno dei ministri di culto che,
per mantenersi, hanno un altro lavoro, come del resto la maggioranza dei
rabbini: non si può pensare siano in grado di svolgere lo stesso lavoro di un
sacerdote cattolico a tempo pieno. In quarto luogo, la percentuale di
praticanti è spesso più alta nelle minoranze più recenti di quanto lo sia tra i
cattolici o altre confessioni storiche, nelle quali la secolarizzazione ha
prodotto effetti tra i fedeli. Ecco, eliminando questo obbrobrio, si
rimedierebbe a gran parte del problema. Basterebbe un’indicazione del ministro
dell’Inteo, o del dirigente preposto, visto che la decisione è stata di un
dirigente, e non certo una legge. Il parere del Consiglio di Stato non può
valere più della Costituzione o di una legge. Né è accettabile che una cosa
applicata senza significative limitazioni dal regime fascista (salvo il baratro
delle leggi razziste, naturalmente), venga ristretta oggi, dopo settant’anni di
democrazia».

Nella
società multiculturale italiana, di cui si parlava all’inizio, appare urgente
affrontare anche altri problemi, in particolare quello dell’immigrazione e
quello della «cittadinanza». È possibile arrivare a una piena attuazione della
libertà religiosa senza che la nuova legge venga accompagnata da altre leggi
che riguardino quelle due questioni? Libertà religiosa, immigrazione e
cittadinanza non costituiscono una trilogia che deve andare insieme?

«A mio parere le cose sono ben distinte. Le leggi sull’immigrazione si
applicano indifferentemente a cattolici, musulmani, atei e chiunque altro, com’è
giusto. E la libertà religiosa riguarda italiani, immigrati regolari e
irregolari, turisti e passanti, com’è giusto. Tutte questioni delicate, ma
distinte. Solo un paese, oltre alla Città del Vaticano, ch’io sappia, regola
l’immigrazione sulla base della religione: Israele, che definisce se stesso
come stato ebraico, ma è più facile diventare cittadino italiano per un extra
comunitario che diventare ebreo per un gentile».

Paolo Bertezzolo
Note:

1- L’articolo 8 della Costituzione stabilisce che
i rapporti delle confessioni religiose con lo stato «sono regolati per legge
sulla base di intese [accordi] stipulate con le relative rappresentanze».

Tag: libertà religiosa, Costituzione, Laicità dello stato, Intese

Paolo Bertezzolo




Una primavera solo all’inizio

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 21

Le «primavere arabe»
hanno suscitato entusiasmi e retoriche che paiono oggi non completamente
giustificati. La libertà religiosa, ad esempio, sembra avee fatte le spese. L’islamologo
gesuita Samīr Khalīl Samīr ci racconta ciò che per lui è il grande passo avanti
delle rivoluzioni che dal 2011 stanno, ancora oggi, cambiando il volto
dell’area mediorientale. Nonostante le problematiche.

«Una “primavera” non consiste nei primi
frutti che si possono raccogliere, spesso acerbi e aspri, bensì nello slancio
verso la coscienza democratica che germina nella testa di milioni e milioni di
persone, in gran parte giovani». Parola di Samīr Khalīl Samīr nell’introduzione
al suo libretto Quelle tenaci primavere arabe, edito dalla Emi.

Gesuita egiziano, Samīr Khalīl Samīr è un islamologo
attento ai processi culturali e sociali dell’area mediorientale. Lo
intervistiamo per farci raccontare quanto, secondo lui, le cosiddette primavere
arabe abbiano influito sulla libertà religiosa in quella zona e, in particolar
modo, in Egitto. Secondo un recente studio del Pew Research Center,
infatti, sembra che l’effetto delle rivoluzioni sulla libertà religiosa sia
stato per lo più negativo.

Può
fare un bilancio delle cosiddette «primavere arabe» iniziate tre anni fa?

«Si
sente spesso dire che la primavera araba è diventata l’inverno arabo. Però
secondo me ciò che si è realizzato negli ultimi tre anni è un cambiamento
profondo che porterà delle conseguenze positive anche laddove niente si è
fatto, come nella penisola araba.

Che
cosa sta cambiando? Innanzitutto per la prima volta si sa che si può
protestare. E non protestare nel vuoto, ma per cambiare.

C’è
stata l’epoca delle rivoluzioni: nel ’52 in Egitto con Nasser, nel ’54 in Iraq,
nel ’58 in Siria. Tutte conseguenze di quella crisi enorme che è stata la
creazione dello stato d’Israele. Oggi la gente prende coscienza che quelle
rivoluzioni, di solito militari e autoritarie, non possono continuare, e dice:
“Grazie per ciò che si è fatto, ma adesso è troppo”.

In
Egitto fino agli anni ’50 c’era libertà a tutti i livelli, ma anche ingiustizia
sociale, perché pochi privilegiati avevano tutte le possibilità, mentre la
massa del popolo viveva con difficoltà. La rivoluzione introdotta da Nasser ha
lavorato su questo, ad esempio con le riforme agrarie. Ma politicamente ha
fatto un passo indietro. Oggi, con le primavere arabe, tutti sanno che non solo
è possibile protestare in parole, ma anche cambiare le cose».

Le
primavere arabe sono state accolte dall’Occidente con grande entusiasmo. Sembra
però che col tempo la situazione della libertà sia peggiorata, in particolare
per la libertà religiosa, che già era molto compressa.

«A
fare la rivoluzione in Egitto e Tunisia sono stati essenzialmente i giovani,
che hanno avuto un ruolo decisivo suscitando la presa di coscienza in tutta la
popolazione. Ma poi, quando si è trattato di fare un governo, non essendo
preparati alla gestione del potere, ognuno è andato su una linea diversa: in
Egitto hanno fatto più di 10 partiti.

Gli
unici organizzati per prendere il potere erano gli islamisti. I Fratelli
musulmani, creati nel ’28, hanno infatti una struttura molto disciplinata: un sistema
gerarchico nel quale ognuno obbedisce al superiore, e non sa niente di più.
Hanno un programma molto semplice, sempre uguale fin dalle origini: “L’islam è
la soluzione”. Per qualunque domanda: economica, politica, sociale, religiosa.
Non è un affare intellettuale ma emotivo. L’islam è sacro. E poi i Fratelli
musulmani si sono moltiplicati grazie al finanziamento del Qatar e, all’inizio,
dell’Arabia saudita, prendendo possesso delle moschee e spiegando alla gente
che quando l’Islam avesse preso il potere sarebbe stato il paradiso.

Ecco
perché hanno vinto le elezioni. Benché abbiano ottenuto solo il 51,7%.

E
l’Occidente ha subito detto: “Ecco! Questa è la democrazia!”. L’Occidente ha
sostenuto che Morsi rappresentava il potere del popolo. In realtà il popolo,
dopo un anno, ha visto che la situazione sociale non era cambiata. Anzi era
peggiorata, anche a causa delle regole introdotte per l’islamizzazione del
paese che hanno fatto crollare il turismo, la prima fonte di entrata per
l’Egitto, e ha reagito: “Noi vogliamo la riforma sociale, la riforma politica,
e siamo stati delusi”».

Quindi
c’è stata la nota raccolta di firme per le dimissioni di Morsi.

«I
giovani hanno ripreso il contatto con la popolazione e hanno avviato una
petizione. Dopo 11 mesi di governo, le firme raccolte per mandare via Morsi
sono state 22 milioni. Non si era mai vista in Egitto una petizione di questo
tipo. E poi, un mese dopo, la gente è scesa per strada. In Egitto, grazie a
Dio, non girano molte armi, quindi la gente non poteva fare niente se non con
l’aiuto dell’esercito. Perché dal ’52 l’esercito è il potere che va con il
popolo contro i regimi. E dunque l’esercito è venuto a sostenere il popolo, non
per fare un colpo di stato, come ho letto nella maggioranza dei giornali in
Occidente, ma per creare un governo provvisorio, retto da un magistrato che era
stato nominato da Morsi stesso come uno dei capi della magistratura. Poi ha
invitato tutti i partiti a presentarsi, e tutti hanno accettato fuorché i
Fratelli musulmani, che hanno detto: “O noi o niente”.

Io dico: “Meno male che i Fratelli musulmani hanno preso
il potere”. Perché da 90 anni si presentavano come la soluzione di tutti i
problemi, e la gente semplice ci credeva. Ma ora tutti hanno potuto finalmente
vedere che non hanno cercato di migliorare la situazione sociale, politica, ma
di islamizzare, cambiando i programmi scolastici, le strutture, la televisione,
provando a introdurre la sharia. Ecco perché secondo me c’è una presa di
coscienza: è frutto dell’esperienza! E questo è un passo avanti. Ma non abbiamo
ancora risolto i nostri problemi: ci vorrà credo almeno un decennio per
strutturare democraticamente paesi che non hanno mai praticato la democrazia».

Come
hanno reagito i Fratelli musulmani alla rimozione di Morsi?

«Il
potere islamista è simile ai regimi precedenti: cerca di imporsi. Per questo ci
sono ancora violenze. In Egitto ci sono stati attacchi contro le chiese, contro
i più deboli, quelli che non hanno potere e non cercano di prenderlo. Non c’è
nessuna giustificazione a questo se non il fanatismo che è una tendenza forte e
fondamentale negli islamisti. È un’ideologia radicale che vuole imporre
l’applicazione della religione e che non piace alla maggioranza dei musulmani.

L’ascesa
al potere dei Fratelli musulmani è stata un passo avanti dal punto di vista
della presa di coscienza che una religione può anche diventare una dittatura.
Quando sono arrivati al potere, in un mese hanno fatto da soli una nuova
Costituzione, e abbiamo dovuto votarla nel giro di una settimana. Ma come si fa
a leggere e ponderare una Costituzione in una settimana? Nessuno lo crederà, ma
l’Egitto ha il 40% di analfabeti che, per questo, seguono ciecamente il
predicatore che tocca la corda sensibile della religione».

E
in Tunisia com’è la situazione?

«In
Tunisia è andata meglio, perché lì c’è una lunga esperienza di laicità dello
stato. Nella Costituzione tunisina c’è la parità tra uomo e donna. La Tunisia è
l’unico paese islamico al mondo ad aver vietato la poligamia, che ha imposto
l’uguaglianza tra uomo e donna nell’eredità, mentre il Corano dice che la donna
deve ricevere la metà di ciò che ricevono in eredità i suoi fratelli. La
Tunisia quindi aveva già fatto ben altri passi avanti. Anche se ora si sta
riducendo la laicità, e l’islamismo si diffonde, rimane però un Islam molto più
democratico».

Tutto
ciò sembra confermare l’opinione di chi sostiene che la libertà religiosa si
sia ridotta.

«Nell’area
mediorientale e nordafricana la situazione dei cristiani oggi è più difficile
di prima. Proprio a causa di questo background islamista.

L’Islam
storicamente categorizza le persone in tre gruppi: i musulmani, che hanno tutti
i diritti e doveri. La società deve essere musulmana. All’opposto c’è l’ateo. È
inammissibile non credere. L’ateo non può vivere nella società musulmana. La
terza categoria è intermedia: sono i protetti, cioè gli ebrei e i cristiani.
Essi sono in una posizione intermedia perché credono in Dio, ma non sono
musulmani, e quindi non hanno la credenza perfetta. Per cui possono vivere
nella società musulmana, ma sottomessi.

Questo
sistema dall’Ottocento in avanti si è lasciato influenzare dall’Occidente. Oggi
la categoria dei sottomessi esiste ancora, però è meno forte.

In
Egitto una moschea si può costruire anche senza permessi, e nessuno la può
distruggere.

Per
costruire una chiesa bisogna chiedere il permesso e possono passare anche dieci
anni prima che venga data l’autorizzazione. La richiesta rischia di non
arrivare mai a conclusione, perché bloccata nell’iter burocratico da qualche
islamista. Per cui ogni tanto viene distrutta una chiesa perché costruita in
modo illegale. La discriminazione nel concreto della vita è forte. Anche
convertirsi dall’Islam al cristianesimo è impossibile. L’unico modo è emigrare».

Quindi
come vede lei la condizione dei cristiani nell’area, e come vede il loro
futuro?

«In
Nord Africa cristiani ce ne sono pochi. Ci sono alcune migliaia di nordafricani
diventati cristiani, in particolare in Algeria. In teoria non possono. Si fa di
nascosto ma con il rischio della prigione. In Arabia saudita gli apostati
vengono uccisi. Nella penisola arabica ci sono più di due milioni di cristiani:
filippini, srilankesi, indiani, etiopi, ecc. Essi non hanno il diritto di
ritrovarsi insieme neppure in privato. In Occidente nessuno dice nulla su
questa ingiustizia perché l’Arabia è ricca.

Ciò
che noi chiediamo come cristiani è di essere semplicemente dei cittadini.

Sul
passaporto egiziano, come su qualunque documento, è obbligatorio indicare la
religione. Quando ho dovuto rifare il passaporto in ambasciata a Parigi, alla
voce “religione” ho scritto “ateo”. Poi alla voce “mestiere”, “monaco”. Sono
stato subito richiamato, e l’ambasciatore mi ha chiesto: “Sa che cosa ha
scritto? Di essere monaco e ateo”. Io allora gli ho chiesto che cosa avesse a
che fare la religione con lo stato, e gli ho detto che è un affare tra me e
Dio. Poi gli ho richiamato il principio della rivoluzione egiziana nasseriana
del ’52: “La religione appartiene a Dio, la patria a tutti”. A quel punto
l’ambasciatore mi ha detto che ero troppo avanzato, che ci vuole del tempo. Io
gli ho replicato che con il suo ragionamento anche mille anni non sarebbero
sufficienti.

Tutto
questo suscita domande tra i cristiani del medio oriente. Molti mi dicono:
“Abuna, io voglio vivere e morire qui. Ma i miei figli? Devo pensare a loro. È
per questo che ho deciso di emigrare. Perché qui non si può vivere”. Io rispondo
loro che hanno ragione, ma anche che c’è un’altra possibilità: rimanere per
cambiare la società. Io sono convinto che questa è la missione dei cristiani:
come dice il Vangelo, siamo il lievito nella pasta. La storia e gli studi del
centro che ho creato a Beirut dicono che sono stati i cristiani nel corso della
storia ad aver plasmato gran parte della cultura mediorientale: sono stati il
lievito. Oggi abbiamo questa missione: diffondere lo spirito del Vangelo».

Luca Lorusso

Samir Khalil
Samir

Nato al Cairo nel ’38, Samir
Khalil Samir
è gesuita dal ’55. Ha compiuto gli studi in Francia, tra cui
un dottorato di islamistica ad Aix-en-Provence. A Roma ha fatto un dottorato in
scienze religiose al Pio (Pontificio Istituto Orientale), istituto in cui
insegna da 40 anni. Ha insegnato per 12 anni anche al Pisai (Pontificio
Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica). E insegna regolarmente altrove nel
mondo. È stato anche impegnato per sette anni in Egitto per lo sviluppo sociale
nei villaggi e nei quartieri poveri del Cairo, lanciando, tra le altre cose, un
insieme di piccole scuole per analfabeti musulmani e cristiani. Da più di
quarant’anni è impegnato a far conoscere il patrimonio culturale dei cristiani
di lingua araba, avendo essi una teologia, un pensiero essenzialmente
improntato al rapporto con i musulmani, sviluppati dall’ottavo secolo in
avanti, sconosciuto agli stessi arabi. Ha pubblicato una sessantina di libri in
questo settore, e ha creato un centro che promuove tali studi, il Cedrac, a
Beirut, città in cui vive e insegna (all’università Saint-Josef).

«Essenzialmente la grande letteratura
arabo-cristiana appartiene al Medio Evo, dall’ottavo al quattordicesimo secolo.
Sia per i musulmani che per i cristiani è il periodo aureo. È in questo periodo
che i cristiani hanno dato un contributo di prim’ordine alla cultura araba, che
quindi non è esclusivamente islamica. Dal 14° secolo in avanti è iniziata
l’epoca della decadenza, durata fino al 19° secolo, quando è nato un nuovo
“rinascimento”, di nuovo con il grande contributo dei cristiani. Il ruolo
culturale dei cristiani nel mondo arabo è grandissimo. Perciò abbiamo una
cultura comune, e su questa base possiamo costruire, proporre un progetto
condiviso».

L.L.
Egitto 2014

Nuovo presidente,
vecchi padroni

Il nuovo presidente dell’Egitto è
Abdel Fattah al Sissi, ex ministro e ufficiale dell’esercito, che si è
confermato il vero padrone del paese africano. Al Sissi si è imposto con oltre
il 96% dei suffragi, percentuale che rafforza ancora di più i dubbi sulla
democraticità delle elezioni egiziane. Queste erano state indette per il 26 e
27 maggio, ma la scarsissima affluenza ai seggi aveva indotto il Comitato
elettorale (Pec) a prolungare di 24 ore la possibilità di votare. Nonostante
questo, si è recato alle ue soltanto il 46,9% degli egiziani. Nel corso
dell’ultimo anno, il movimento della Fratellanza musulmana, che aveva vinto le
elezioni del giugno 2012, è stato dichiarato fuorilegge. Il suo principale
rappresentante, Mohamed Morsi, presidente deposto da un colpo di stato (luglio
2013), è attualmente sotto processo.

Tags: libertà religiosa, fondamentalismo, religione, primavere arabe, Egitto, Fratelli Musulmani

Luca lorusso