Una fede pericolosa: Crescono le persecuzioni anticristiane nel mondo

Testo di Cristian Nani – direttore di Porte Aperte Onlus – Foto Open Doors |


Persecuzioni. Nel mondo un cristiano ogni 12 viene perseguitato: oltre 215 milioni di persone vessate e discriminate a causa della loro fede. Sono stati 3.066 i martiri nel 2017, e migliaia le chiese, le abitazioni, i negozi di cristiani distrutti. Il rapporto World Watch List 2018, pubblicato da Porte Aperte/Open Doors, mostra, in una classifica, le 50 nazioni dove le persecuzioni sono maggiori.

Henry fa il falegname, un’attività che ama e svolge nella sua città, Marawi (Sud delle Filippine). Il 23 maggio 2017 è un normale giorno di lavoro per lui, quando qualcuno bussa alla porta. Aprendo si trova di fronte un gruppo di sconosciuti. Lui domanda chi siano, loro rispondono: «I tuoi assassini».

Il commando fa parte di un gruppo affiliato all’Isis, miliziani di varia estrazione in grado di prendere in ostaggio l’intera città di Marawi per cinque mesi1.

Henry (nome di fantasia, ndr) viene malmenato e incappucciato per essere condotto in una sorta di carcere nel quale è tenuto in ostaggio per vari giorni. Quando verrà liberato dalle forze militari filippine, racconterà di aver visto l’inferno. Persone rapite con lui vengono bendate e decapitate, alcune donne sono violentate: lui e altri sono costretti a guardare.

Nell’agenda di questi gruppi è chiaro l’intento di eliminare la presenza cristiana dalla zona.

Henry è tra le molte vittime di quella che Porte Aperte nel suo rapporto annuale World Watch List 2018 definisce «oppressione islamica», cioè la fonte primaria di persecuzione dei cristiani nel mondo.

Reena, vietato convertirsi

Reena invece è una ragazza di 19 anni che viveva in un villaggio in una zona remota dell’India (per ragioni di sicurezza non citiamo il nome del villaggio, né il vero nome della ragazza, ndr).

Lei e la famiglia sono ex induisti convertiti alla fede cristiana.

In cerca di lavoro come insegnante, nel settembre del 2016 era approdata in una scuola per un colloquio: «Il preside mi ha offerto dei dolcetti tipici, che ho mangiato – ha raccontato -. Da lì in poi non ricordo più nulla». Drogata e privata della libertà per svariati giorni, ancora oggi non ricorda niente di quello che ha subito. I partner locali di Porte Aperte che la seguono nella cura del trauma, pensano che Reena abbia rimosso il ricordo di quei giorni perché troppo doloroso. Quando ha ripreso conoscenza, si è ritrovata in un treno fermo in un luogo a 14 ore di distanza da casa sua.

Oggi Reena sta abbastanza bene, non ha ancora trovato un lavoro, ma nel frattempo è tornata a scuola per continuare gli studi.

Gli aggressori rimangono impuniti, mentre il preside della scuola continua a minacciare la famiglia, ed è per questa ragione che la ragazza si è trasferita da suo fratello in un altro villaggio.

Il numero di aggressioni di questo tipo contro i cristiani in India stanno aumentando.

Reena è una delle vittime della seconda più importante fonte di persecuzione anticristiana nel mondo: il «nazionalismo religioso».

L’ostilità anticristiana

Monitorando oltre 90 paesi, con ricerche che partono anche dal basso (quindi dal campo missionario, grazie alla presenza nel territorio), Porte Aperte fotografa ogni anno la persecuzione anticristiana nel mondo attraverso il rapporto World Watch List.

Per persecuzione s’intende «qualsiasi ostilità subita come conseguenza dell’identificazione dell’individuo o di un intero gruppo con Cristo. Questa può includere atteggiamenti, parole e azioni ostili nei confronti dei cristiani».

Il rapporto evidenzia, in una sorta di classifica, i primi 50 paesi dove maggiormente si perseguitano i cristiani. Nelle posizioni più «basse» si trovano i paesi nei quali si è registrato un livello di persecuzione «alto». Salendo verso i primi posti, si passa attraverso un livello «molto alto» per approdare, nelle prime posizioni, al livello della persecuzione «estrema».

La metodologia adottata per stilare la Wwlist considera ogni sfera della vita dei cristiani (privato, famiglia, comunità, chiesa, vita pubblica e violenza) ed è progettata per monitorare le strutture profonde della persecuzione e non solo gli incidenti violenti.

Il team di ricerca distingue due categorie principali con cui la persecuzione può esprimersi: la prima riguarda le pressioni e le vessazioni subite in ogni aspetto della vita che si manifestano in una quotidiana miscela di soprusi, abusi, marginalizzazione e violazione di diritti fondamentali come l’accesso alle cure, al lavoro, all’istruzione, alla giustizia, e così via. La seconda categoria di persecuzioni, invece, è la violenza, quella di fatto più riportata dai mezzi di comunicazione poiché più d’impatto in termini mediatici. Sebbene la seconda sia quella più visibile e quasi l’unica presente nel dibattito pubblico, è la prima quella più diffusa: la prevaricazione nascosta e costante che devasta la vita di milioni di cristiani a causa della loro fede.

Iraq: campo di sfollati cristiani

Dietro ogni persecuzione c’è un persecutore

Ma chi sono gli attori di questo fenomeno? È chiaro che si tratti di singoli individui, ma anche di gruppi, o addirittura istituzioni, ostili ai cristiani. Ecco un elenco di quelli che nei fatti sono veicoli di odio e intolleranza anticristiana: governi locali e nazionali; leader di gruppi etnici; leader religiosi non cristiani; leader di altre chiese cristiane; movimenti radicali; normali cittadini, incluse le folle istigate in vari modi; le famiglie stesse dei cristiani; i partiti politici; gruppi rivoluzionari o paramilitari; il crimine organizzato; organizzazioni multilaterali.

È importante avere in mente questa varietà di attori poiché fa comprendere come, per esempio in alcune aree rurali della Colombia, sia successo che certi leader di gruppi indigeni, con la connivenza delle autorità locali, abbiano inflitto a membri dello stesso gruppo indigeno convertiti al cristianesimo gravi vessazioni fino all’incarcerazione, tortura, esproprio dei beni ed espulsione dal villaggio. Quando l’attore è uno stato, per fare un altro esempio, la dinamica cambia: le Maldive, dove molti italiani trascorrono le proprie vacanze, sono un paese islamico che ritiene ogni maldiviano necessariamente musulmano. Questo comporta che, quando un maldiviano si converte o è semplicemente interessato al cristianesimo, affronta pressioni dallo stato stesso. Il Pakistan, con la famosa legge contro la blasfemia (emblematico il caso di Asia Bibi), è un altro esempio di stato che prevarica, ma supportato da movimenti radicali che puntano all’eliminazione della presenza cristiana. Mentre in Messico i cartelli della droga possono aggredire le chiese che in qualche modo interferiscono con i loro scopi criminali, in Sri Lanka è accaduto che monaci buddisti abbiano incitato le folle a inveire e aggredire i cristiani locali considerati agenti contaminanti della cultura tradizionale del paese.

Trend della persecuzione

Nigeria: Uno dei sopravvissuti agli attacchi dei Boko Haram

In termini assoluti la persecuzione aumenta. È questo che emerge dalla Wwlist 2018 che prende in considerazione il periodo 1 novembre 2016 – 31 ottobre 2017. Nella classifica delle prime 50 nazioni dove più si perseguitano i cristiani, troviamo ben tre paesi con un punteggio al di sopra di 90 su 100: Corea del Nord, Afghanistan e Somalia (rispettivamente 1°, 2° e 3° posto), con un livello di persecuzione estremo a tal punto da rendere la vita impossibile per i cristiani e da costringerli alla clandestinità.

La Corea del Nord e l’Afghanistan quest’anno hanno un punteggio del tutto simile: solo per poco il regime di Kim Jong-un è al primo posto (per il 15° anno di fila). Essere scoperti in Corea del Nord a partecipare a una riunione di preghiera o in possesso di una Bibbia, può significare la morte o la reclusione nei famigerati campi di rieducazione, veri e propri lager denunciati anche dalle Nazioni Unite. Si stima che tra i 40 e i 70mila cristiani languiscano in questi campi a causa della loro fede. Per quanto riguarda l’Afghanistan, sebbene sia un paese più conosciuto in Italia rispetto alla Corea del Nord, rimane altresì poco noto per le condizioni dei cristiani che vi abitano, costretti a vivere nel terrore di essere scoperti. Convertirsi dall’islam al cristianesimo in Afghanistan significa andare incontro al ripudio della famiglia e della società, fino alla tortura, all’incarcerazione e alla morte.

Nel mondo sono ben 11 le nazioni in cui si registra una persecuzione estrema simile a quella dei paesi appena citati. Tra le regioni del mondo in cui i cristiani vengono perseguitati, l’Africa cresce, avendo alcune sue nazioni nelle prime posizioni (Somalia 3°, Sudan 4°, Eritrea 6°, Libia 7°). In Asia centrale, in paesi come Uzbekistan (16° posto), Turkmenistan (19°), Tagikistan (22°) e Kazakistan (28°), dal dissolvimento dell’Urss, l’islam è cresciuto esponenzialmente, anche nella sua corrente più oppressiva, generando intolleranza nei confronti dei cristiani.

Tra le fonti di persecuzione, il nazionalismo religioso, in particolare legato all’induismo e al buddismo, risulta in forte aumento, soprattutto in seguito all’incremento delle violenze anticristiane in India (11° posto) e delle discriminazioni in paesi buddisti come Laos (20°), Myanmar (24°), Nepal (25°, nuovo ingresso nella classifica) e Buthan (33°).

I numeri della persecuzione

Sono stati 3.066 i martiri cristiani accertati nel 2017, di cui 2.000 solo in Nigeria del Nord, regione interessata dall’estremismo islamico. Oltre 215 milioni sono i cristiani perseguitati nel mondo (1 ogni 12) secondo la Wwlist. Almeno 15.540 attacchi sono avvenuti ai danni di chiese, case e negozi di cristiani: bruciati, saccheggiati o totalmente distrutti. Impressionante è il fenomeno dei matrimoni forzati, particolarmente forte in Pakistan: almeno 1.240 giovani donne cristiane sono state rapite e forzate a sposare uno sconosciuto. Oltre 1.000 sono stati i rapimenti a fine di abuso e violenza carnale. Tutto ciò prefigura chiaramente quella che viene definita la doppia vulnerabilità delle donne cristiane in questi contesti: perseguitate in quanto cristiane e in quanto donne.

Questi dati sono solo la punta dell’iceberg, poiché il sommerso, il non denunciato, è potenzialmente enorme (basti pensare anche solo all’impossibilità, in alcuni contesti, di denunciare un crimine o un abuso a causa della connivenza delle autorità locali).

L’India: la grande democrazia

Vale la pena soffermarsi sul caso dell’India, salita addirittura all’11° posto della Wwlist, con un grado di persecuzione definibile estremo. Il partito Bjp (Bharatiya Janata Party) al governo con il primo ministro Modi, ha una chiara agenda volta a induizzare il paese, facendo forte leva su un nazionalismo religioso che inevitabilmente crea intolleranza nei confronti dei non induisti e decreta un’emarginazione dei cristiani. I fatti dicono che il numero di attacchi contro comunità cristiane (che a volte hanno provocato anche morti) è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni.

L’India, quella che gli europei conoscono come una grande e pacifica democrazia, non esiste più da tempo, e i primi a pagarne il prezzo sono proprio i cristiani.

Quando nei consessi internazionali si addebitano alle autorità indiane violazioni dei diritti fondamentali dei cristiani, esse rispediscono aspramente le accuse al mittente senza alcuna spiegazione.

Una fede pericolosa

È dunque la fede cristiana una fede pericolosa?

Ebbene sì, in molti paesi e per oltre 215 milioni di uomini e donne. Esattamente come era pericoloso essere cristiani ai tempi della chiesa primitiva, quella degli Atti degli apostoli, là dove la fede cristiana ebbe inizio.

Cristian Nani
direttore di Porte Aperte Onlus

Note:

1- Il 23 maggio 2017, Marawi (città di circa 200mila abitanti, capoluogo della provincia di Lanao del Sur, isola di Mindanao) è stata occupata dai jihadisti del gruppo Maute (un clan familiare locale che ha giurato fedeltà allo Stato Islamico) con l’appoggio del gruppo radicale filippino Abu Sayyaf. Lo scopo era quello di creare una sorta di califfato fedele ai principi dell’Isis.

L’esercito regolare di Manila ha messo sotto assedio la città con oltre 7mila militari e bombardamenti aerei. Dopo 148 giorni, a ottobre, i jihadisti sono stati sconfitti. Secondo l’agenzia Fides: «Sono oltre 1.000 le vittime del conflitto: 163 soldati, 822 militanti e 47 civili». Secondo l’Ocha, delle 350mila persone fuggite dall’area durante il conflitto, molte devono ancora rientrare.


Le fonti della persecuzione

  1. Oppressione islamica: l’obiettivo è portare il paese o il mondo sotto la «Casa dell’islam» attraverso azioni violente o meno, che colpiscono i cristiani in modo particolare. Esempi: Pakistan, Iran, Arabia Saudita.
  2. Nazionalismo religioso: lo scopo è imporre la propria religione come elemento caratterizzante della propria nazione (principalmente induismo e buddismo, ma anche altre religioni). Esempi: India, Nepal o Sri Lanka.
  3. Antagonismo etnico: cerca di introdurre con forza l’influenza di norme antiche e tradizioni in un contesto tribale. Spesso si presenta sotto forma di religione tradizionale che si oppone alla presenza di cristiani nella società. Esempi: Yemen, Somalia o Afghanistan.
  4. Protezionismo denominazionale: cerca di mantenere la propria denominazione cristiana come unica espressione legittima o dominante del cristianesimo nel paese e quindi vessa qualsiasi altra denominazione. Esempio: Etiopia.
  5. Oppressione comunista e postcomunista: cerca di mantenere il comunismo come ideologia prescrittiva e/o controlla la chiesa attraverso un sistema di registrazione e di sorveglianza. Esempi: Corea del Nord, Laos o Vietnam.
  6. Intolleranza secolare: ha lo scopo di sradicare la religione dal dominio pubblico e, se possibile, anche dal cuore delle persone, e impone una forma di laicità atea come una nuova ideologia di governo. Esempi: si tratta di una tendenza che diffonde un sentimento anticristiano, ad esempio quando i cristiani difendono principi morali collegati alla propria fede (famiglia e matrimonio tradizionale, ecc.).
  7. Paranoia dittatoriale: siamo di fronte a un dittatore che fa di tutto per mantenere il potere e reprime con forza qualsiasi cosa sembri una minaccia. Esempi: Eritrea, Corea del Nord.
  8. Corruzione e crimine organizzati: l’obiettivo è creare un clima di impunità, anarchia e corruzione al fine di arricchirsi. Esempi: Messico, Colombia.

C.N.


Porte Aperte/Open Doors

Porte Aperte/Open Doors è un’agenzia missionaria attiva da oltre 60 anni nel campo del sostegno ai cristiani perseguitati di ogni denominazione. Nasce dalla visione di un missionario, conosciuto come Fratello Andrea, «Il contrabbandiere di Dio» (dal titolo del best seller che racconta la sua storia).

L’opera missionaria, iniziata nel 1955 portando Bibbie oltre la cortina di ferro, oggi è diventata un’organizzazione attiva e strutturata in oltre 80 paesi. Conosciuta negli ultimi anni soprattutto per il report sulla persecuzione anticristiana nel mondo (World Watch List), oggi opera attraverso molti progetti che spaziano dagli aiuti umanitari di prima necessità al sostegno spirituale e psicologico alle vittime, dalla fornitura di materiale formativo cristiano alla costruzione di infrastrutture utili alle comunità locali. Inoltre opera nei paesi liberi affinché si diffonda nell’opinione pubblica internazionale una sempre maggiore consapevolezza sulla condizione dei cristiani in queste nazioni.

Porte Aperte Onlus
CP 114 – 35057 San Giovanni Lupatoto (VR)
www.porteaperteitalia.orgsito internaz.: www.opendoors.org

 




Cristiani perseguitati nel mondo.

Cresce il loro numero.


Testo di Luca Lorusso


Sono 215 milioni i cristiani perseguitati nel mondo, uno ogni 12. Vivono soprattutto in Asia e Africa. Subiscono una violenza quotidiana che si manifesta in pressioni e vessazioni di ogni tipo, soprusi, abusi, marginalizzazione, fino alla violazione dei diritti fondamentali nei casi di atti di violenza esplicita.

Secondo la World watch list 2018, l’ultimo rapporto di Open Doors pubblicato oggi (www.porteaperteitalia.org), sono stati 3.066 i cristiani uccisi per la loro fede nell’ultimo anno, e 15.540 le chiese, le case e i negozi di cristiani attaccati. I cristiani detenuti senza processo sono stati 1.922, quelli rapiti 1.252, quelli abusati fisicamente e mentalmente 33.255, quelli violentati o abusati sessualmente 1.020.

In questo scenario generale, Open Doors stila una classifica dei luoghi più pericolosi: una lista di 50 paesi nei quali i livelli di persecuzione verso i cristiani sono alti, molto alti o estremi. Per il 16° anno di fila è la Corea del Nord il paese più persecutorio. Gli altri dieci nei quali la Wwl segnala livelli estremi di persecuzione sono (in ordine) Afghanistan, Somalia, Sudan, Pakistan, Eritrea, Libia, Iraq, Yemen, Iran e India. Tra questi 11 paesi, Libia e India sono le nazioni che hanno fatto registrare l’aumento più forte di persecuzioni rispetto all’anno scorso. In India – dove i cristiani aggrediti tra il 1° novembre 2016 e il 31 ottobre 2017 (il periodo preso in esame dalla Wwl 2018) sono stati 24.000 – l’intolleranza anti-cristiana cresce di pari passo con il nazionalismo induista che ha tra i suoi rappresentati più potenti il primo ministro Narendra Modi. Non è un caso forse che nel 2014, l’anno in cui Modi è stato eletto, l’India era al 28° posto e che negli ultimi tre anni è salito nella classifica fino all’11°.

Tra le molte informazioni, per la gran parte preoccupanti, messe a disposizione da Open Doors si registrano però anche alcune buone notizie: l’organizzazione fondata nel 1955 dall’olandese Andrew van der Bijl, segnala l’uscita della Tanzania dalla sua lista per il miglioramento della situazione dei cristiani nel paese e il leggero miglioramento in Kenya ed Etiopia. Anche per la Siria, paese che continua a essere sconvolto dalla guerra, viene registrato un miglioramento grazie all’arretramento dell’Isis che ha ridotto la violenza diretta sui cristiani.

Video di presentazione della WWL 2018: https://www.youtube.com/watch?v=igf2udrmu1s

La cartina interattiva: https://www.porteaperteitalia.org/persecuzione/




Esportare la libertà religiosa


Testo di Luca Lorusso |


Gli Usa pensano di avere una missione da compiere nel mondo. È l’eccezionalismo americano che si manifesta con la politica estera statunitense.
Anche la libertà religiosa ne è strumento e fine. Altri – come l’Ue – ne hanno seguito l’esempio. Ma dopo anni di ascesa del modello Usa di tutela della
libertà religiosa, oggi si registra un declino. Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore presso l’European University Institute di Fiesole.

Sono le 12 di venerdì 24 novembre 2017. Una bomba esplode dentro una moschea uccidendo decine di persone. I fedeli sufi scappano, ma fuori ci sono miliziani del Daesh che sparano sulla folla. Rimangono a terra 305 corpi, tra cui 27 di bambini.

Il sufismo è la via mistica dell’Islam, considerato dagli islamisti come un’eresia da combattere. La moschea al-Rawdah si trova a Bir al-Abed, nel Nord del Sinai.

È la strage più sanguinosa degli ultimi anni in Egitto, è uno dei troppi esempi di violenza nel mondo contro chi professa un credo religioso.

Non passa giorno, infatti, senza che il diritto di libertà religiosa subisca violazioni in Medio Oriente come in Asia, in Africa come in Europa o in America. Si parla dei Rohingya del Myanmar, musulmani apolidi perseguitati in un paese buddista. Si è parlato dei Copti in Egitto, dei Testimoni di Geova in Russia, delle politiche restrittive di paesi come la Cina o la Corea del Nord o il Pakistan.

In questo scenario il diritto di libertà religiosa è diventato un fine e, più spesso, uno strumento di vere e proprie strategie di politica estera. In primis da parte degli Usa, ma anche dell’Ue e, con accenti piuttosto differenti, di altri paesi non appartenenti al blocco occidentale come la Russia o quelli riuniti nell’organizzazione della Conferenza islamica.

Ne abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, ricercatore dell’European University Institute di Fiesole, autore del volume Esportare la libertà religiosa, edito dal Mulino nel 2015 e ora in lingua inglese dalla britannica Routlege.

Prof. Annicchino, sembra che il pericolo per la libertà religiosa nel mondo aumenti. Anche lei ha questa impressione?

«È più di una percezione. Abbiamo dati scientifici a tal proposito dai quali non possiamo prescindere. Faccio riferimento soprattutto ai report del Pew Forum. I loro dati indicano che nel mondo sono aumentate le restrizioni alla libertà religiosa mediante gli interventi legislativi dei diversi stati e che sono ugualmente aumentate le ostilità sociali a sfondo religioso.

Per quanto riguarda le norme che restringono la portata delle attività dei gruppi religiosi o del singolo fedele possiamo fare diversi esempi: le restrizioni volute dal partito comunista cinese, non solo rispetto al tema delle nomine dei vescovi cattolici che devono essere per forza approvate dal Pcc; le leggi anticonversione indiane (a dimostrazione del fatto che questo non è un problema legato ai soli paesi islamici, come spesso si tende a credere); la messa al bando, in Russia, di interi gruppi religiosi come ad esempio i testimoni di Geova, quasi in nome della sicurezza nazionale».

Il suo libro propone una tesi di fondo: negli ultimi 20 anni gli Usa hanno messo il tema della libertà religiosa come punto focale della loro politica estera.

«Tenuto conto del mio profilo scientifico concentro la mia analisi sull’International religious freedom act (Irfa), la legge approvata dal Congresso degli Usa nel 1998 che riguarda proprio la tutela e la promozione del diritto di libertà religiosa nel mondo. Nel mio studio provo a mostrare come quel modello, nel bene e nel male, abbia avuto una sua diffusione. Tanto è vero che altri paesi, soprattutto occidentali, tra cui Canada, Ue, Inghilterra, Olanda, hanno provato a fare qualcosa di simile segnalando che la libertà religiosa è importante.

Anche il governo italiano lo ha fatto: ricordiamo il caso di Mariam Ibrahim che, in Sudan, era stata incarcerata e fatta partorire in carcere, perché accusata di essersi convertita dall’islam al cristianesimo. Ora vive negli Usa anche grazie all’Italia.

Ovviamente, non sostengo che il modello americano abbia sempre funzionato, anzi, nel libro faccio esempi di palesi doppi standard di applicazione da parte degli Usa: ci sono paesi che violano il diritto di libertà religiosa che, per ragioni di real politik, non vengono sanzionati.

Io penso, però, che non si possa pretendere che i paesi privilegino la libertà religiosa in qualsiasi loro azione nei confronti di altri paesi. Privilegiarla sempre potrebbe anche portare a delle reazioni che sul lungo periodo danneggerebbero la libertà religiosa stessa. Se uno stato sta sempre col dito puntato sulla Cina, o altri paesi, dicendo: “Noi non facciamo nulla con voi fin quando voi non garantite il nostro stesso livello di tutela della libertà religiosa”, io credo che si possa bloccare un processo di dialogo.

Bisogna guardare a questi temi nell’ottica di un processo e non di un singolo atto».

Nel suo libro, lei lega questa azione degli Usa all’eccezionalismo statunitense.

«Gli Stati Uniti hanno una precisa autorappresentazione di se stessi: si vedono come un modello di comportamento per gli altri paesi del mondo. Ed essendo un paese in cui la narrazione del valore della libertà religiosa è importante, un paese fondato da dissidenti religiosi, il dibattito interno sul tema ha sempre avuto una sua centralità. Gli Usa hanno vissuto un processo lungo e travagliato per garantire la tutela della libertà religiosa internamente. Poi hanno recuperato il tema anche in chiave di politica estera, dicendo: “Questo è per noi uno dei diritti fondamentali e pensiamo che anche altri paesi possano far assurgere questo diritto a elemento centrale delle loro politiche”.

Per gli Usa la libertà religiosa non è un diritto tra molti, ma il fondamento di tutti gli altri, tanto è vero che F. D. Roosevelt, quando viene approvata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel ‘48, identifica nella libertà religiosa una delle quattro libertà fondamentali (libertà di espressione, di culto, libertà dal bisogno e dalla paura, ndr)».

Quali sono gli strumenti che si sono dati gli Usa con la legge del ‘98 per tutelare la libertà religiosa nel mondo?

«L’Irfa è una legge molto complessa. Ci sono due tipologie di strumenti fondamentali: la prima è quella diplomatica classica, con tutta un’attività di comunicazione del Dipartimento di stato su altri paesi, affinché vengano garantiti alcuni diritti, e con le sanzioni vere e proprie, cioè il riconoscimento di status economici più o meno vantaggiosi. La seconda è quella delle sanzioni su singoli individui violatori del diritto di libertà religiosa. Un esempio è quello di Narendra Modi: ai tempi in cui era governatore dello stato indiano del Gujarat, ci furono violenze contro la minoranza musulmana e fu accertata dal governo degli Usa la sua responsabilità. A Modi fu interdetto l’ingresso negli Usa. Sanzione su singolo individuo che fu revocata quando Modi fu eletto primo ministro dell’India».

Ci sono dei risultati positivi di questa politica estera?

«Gli esperti hanno una doppia valutazione: da una parte è vero che su singoli casi è stato possibile salvare delle persone, dall’altra però, come tendenza generale, questa azione non ha garantito un abbassamento dei livelli di violazione del diritto alla libertà religiosa. Secondo me anche perché, rispetto al ‘98, viviamo in un mondo molto diverso, nel quale sono aumentate soprattutto le ostilità sociali rispetto alle minoranze religiose. Nel ‘98, ad esempio, non avevamo il dibattito che abbiamo oggi sui populismi e il ritorno degli identitarismi nazionali. Quello che gli scienziati sociali misuravano nel ‘98 è molto diverso da quello che misuriamo oggi. Nel ‘98 la chiesa ortodossa russa non aveva il ruolo centrale nella costruzione dell’identità nazionale che ha oggi in Russia. Nel ‘98 l’induismo indiano non era al governo e non premeva per la produzione di norme contrarie ai diritti delle altre minoranze religiose, e così via».

© European Union 2015 – European Parliament | Pietro Naj-Oleari

La politica degli Usa sulla libertà religiosa nel mondo è stata imitata da vari paesi, tra cui l’Ue. In cosa si è distinta dagli Usa?

«Si è distinta a livello burocratico. L’Ue ha approvato delle linee guida per un’azione di soft law, cioè senza la creazione di grandi apparati burocratici, ma inserendo la libertà religiosa nella politica estera già esistente dell’Ue. Negli Usa, con l’Irfa si è creata una vera e propria commissione specializzata che fa solo quello, la Uscirf, si è creato tutto un meccanismo all’interno del Dipartimento di stato, si sono previsti due rapporti annuali sulla libertà religiosa nel mondo, si prevedono dei meccanismi per indicare quali sono i paesi che violano seriamente il diritto di libertà religiosa… Anche nell’Ue si è creato pochi anni fa un intergruppo parlamentare per la libertà religiosa che produce un suo rapporto annuale (Forb, ndr), ma sono storie diverse, anche dal punto di vista della narrazione ideale. Il dibattito sulla libertà religiosa e sulla religione in quanto tale non ha, a livello istituzionale nell’Ue, la stessa centralità che ha all’interno dell’impianto costituzionale Usa, dove il diritto di libertà religiosa è garantito addirittura dal primo emendamento costituzionale (1791), quindi è il diritto che viene, almeno descrittivamente, prima degli altri».

L’arrivo di Trump ha cambiato qualcosa?

«Parzialmente. Obama, soprattutto durante il periodo in cui Hillary Clinton era segretario di Stato, non premeva molto per la tutela del diritto di libertà religiosa. Trump, essendo stato portato alla presidenza anche da tantissimi voti di gruppi religiosi, soprattutto evangelici, ha premuto molto su questo tasto e sono previsti nuovi fondi a favore del Dipartimento di stato per la tutela di questo diritto».

Sembra però che la grande attenzione degli Usa per la libertà religiosa sia più rivolta all’estero che all’interno.

«Da un punto di vista formale, questo è il mandato che l’Irfa dà al Dipartimento di stato. Non è prevista un’indagine interna sullo stato della libertà religiosa negli Usa. È prevista solo un’azione esterna. Questa è una delle obiezioni classiche: “Voi guardate solo fuori e non guardate dentro”. Però qui parliamo di una politica concepita come politica estera. Per l’interno ci sono altri dipartimenti, altri ministeri e altre istituzioni.

Un’altra obiezione che viene fatta, soprattutto dai russi e dai paesi musulmani, suona così: “Voi pretendete di vagliare con i vostri standard occidentali il modo in cui viene rispettata la libertà religiosa in altri paesi che non hanno i vostri standard o, addirittura, non hanno i vostri valori”. Questo porta alcuni studiosi a parlare di “impossibilità della libertà religiosa”. Qui sorge a mio modo di vedere un problema di relativismo. “Ogni paese ha i suoi valori e quindi è difficile avere un discorso universale sul diritto di libertà religiosa”. Ma se una persona viene incarcerata perché si converte, qualsiasi sia la sua fede, io credo che sia possibile essere universalmente d’accordo che è ingiusto. A livello di tutele minime credo che sia necessario un discorso globale su questi temi, e credo che sia legittima l’attività di pressione da parte di alcuni stati per garantire, appunto, almeno le tutele minime. Non credo che si possa essere accusati di imperialismo perché si salva una persona che altrimenti viene costretta a partorire in carcere a causa della sua conversione».

AFP PHOTO / THOMAS SAMSON

I paesi islamici e la Russia ortodossa criticano questo approccio degli Usa perché hanno un’idea di libertà religiosa differente. Ci può spiegare quali sono i distinguo fondamentali?

«Uno dei problemi principali con i paesi islamici (non con l’islam) è sicuramente quello relativo alla facoltà di conversione. In alcuni paesi ci sono addirittura delle norme penali che prevedono l’incarcerazione.

In Russia invece c’è una problematica che riguarda la tutela delle minoranze religiose e la loro facoltà di operare, soprattutto dal punto di vista del proselitismo. Ad esempio verso i testimoni di Geova c’è stata una notevole azione dei servizi di sicurezza della federazione russa. Queste azioni portano a rendere inoperative le minoranze religiose. Tutto ciò dipende anche da una certa evoluzione teologica interna alla chiesa ortodossa russa che è maggioritaria, territoriale e nazionale e che influenza le politiche legislative dello stato. Venuto meno il collante dell’ideologia comunista, infatti, tantissima parte della costruzione del dibattito pubblico nella federazione russa si basa oggi, a mio modo di vedere, solo su questa pseudo identità collettiva ortodossa».

A volte la libertà religiosa non viene osteggiata in quanto tale, ma presa e utilizzata per un uso contrario. Pensiamo all’esempio del Pakistan che per difendere le sue leggi sulla blasfemia ricorre al concetto di tutela della religione.

«Anche qui c’è un problema teorico. In questo caso, come in altri casi di paesi musulmani, il diritto umano alla libertà religiosa viene inteso come diritto della religione in quanto tale ad essere tutelata. Ma questo non risponde agli standard internazionali di tutela che prevedono che i diritti umani siano diritti degli individui, non delle idee. L’idea in quanto tale non gode di protezione, soprattutto in un’ottica di tutela della libertà di espressione. Se si legittimano sanzioni penali per la blasfemia, questo può portare a punire anche casi in cui non vi siano offese della religione, ma soltanto descrizioni ritenute non veritiere dal detentore del sapere teologico».

Sempre sull’utilizzo della libertà religiosa a fini politici, nel suo libro fa l’esempio della guerra in Siria nella quale la Russia dice di sostenere il regime anche per tutelare la libertà religiosa delle minoranze cristiane protette da Bashar al-Assad.

«Anche lì la dinamica è la stessa. La cosa interessante è che, mentre spesso la Russia critica gli Stati Uniti perché nei rapporti statunitensi viene indicata come paese particolarmente problematico, in questo caso ha una identica veduta d’insieme per quel che riguarda le violazioni anticristiane. C’è una scelta politica che non mi sorprende, essendo la Russia il primo alleato del regime siriano, essa trova nell’istanza della tutela delle minoranze religiose un altro argomento a supporto della sua posizione».

Stringer – Anadolu Agency

Il sottotitolo dell’edizione inglese del suo libro è «ascesa e declino del modello Usa». C’è una fase di «ritirata» della libertà religiosa dall’agenda globale?

«Quello che è cambiato, soprattutto dal punto di vista del dibattito interno Usa, è che non c’è più la stessa visione sul ruolo della libertà religiosa all’interno e all’estero. La legge del ‘98 è stata approvata sostanzialmente all’unanimità dal congresso, nonostante fosse passato pochissimo tempo dall’impeachment di Bill Clinton. Cioè, un congresso profondamente diviso come solo nel caso di un’impeachment può esserlo, è riuscito ad approvare quella legge quasi all’unanimità. Questo vuol dire che il sentimento rispetto alla libertà religiosa era profondamente condiviso. C’era una sua centralità. Oggi non è più così, perché la libertà religiosa viene etichettata come un tema repubblicano o di destra, mentre la tutela di altri diritti, soprattutto i diritti delle minoranze Lgbt, sono associate a istanze più progressiste. Questo rappresenta uno dei segnali più evidenti della polarizzazione che oggi vive il sistema democratico statunitense, ma anche tante democrazie occidentali. Il fatto che la libertà religiosa, da un’istanza condivisa sia trasformata in un’istanza partitica o addirittura identitaria, come alcune esternazioni di Trump lasciano presagire, ne provoca un declino. E poi c’è sempre il problema dei doppi standard, come avviene con l’Arabia saudita, che a lungo andare sottrae credibilità».

A questo punto l’ultima domanda: quale futuro per questo tema a livello internazionale?

«A livello internazionale sicuramente il dibattito non scemerà, anzi, io credo che sia destinato a rimanere centrale, anche grazie al fatto che le nostre società diventano sempre più complesse e sempre più, quindi, realiste, perché dovranno confrontarsi sepre più con diverse istanze religiose. Nel caso italiano basta pensare alle problematiche che pone la presenza oramai di quasi due milioni di fedeli musulmani i quali hanno spesso rapporti molto forti con i loro paesi d’origine.

Mi auguro che i paesi occidentali riescano ad affrontare il tema con un minimo di coerenza. Uno dei principi anche giuridici dell’impianto del diritto dell’Ue è quello della coerenza tra politica interna e politica estera: non si può essere credibili fuori se noi non garantiamo i diritti dentro. E poi spero che ci sia un dibattito anche a livello di organismi internazionali, le Nazioni Unite piuttosto che altri, devono riuscire a coinvolgere quanti più paesi possibile nonostante la diversità di vedute si stia inasprendo.

Luca Lorusso




Libertà religiosa: molte critiche e poche azioni


Nel 74% dei paesi del mondo avvengono violazioni del diritto di libertà religiosa. Sono note le vicende del Medio Oriente, un po’ meno forse quelle di altri paesi come l’India e la Cina. L’Unione europea e gli Usa alzano la voce perché nel mondo venga garantita la libertà di culto, ma alle analisi e dichiarazioni seguono azioni poco efficaci. In più non sempre Usa e Ue sono coerenti al loro interno con ciò che chiedono agli altri.

Non è difficile, soprattutto nel corso degli ultimi anni, imbattersi in notizie che raccontano di continue violazioni dei diritti delle minoranze religiose in diversi paesi del globo. Se si prendesse un mappamondo, lo si facesse girare in uno dei due sensi, lo si fermasse e si puntasse il dito a caso, si avrebbe il 74% di possibilità di indicare un territorio, uno stato, nel quale avvengono serie violazioni del diritto di libertà religiosa. Secondo i dati del Pew Research Centre on Religion & Public Life è questa la percentuale di paesi nei quali si registrano restrizioni particolarmente significative sulla religione.

Fino al genocidio

Tali limitazioni al dispiegamento dell’attività religiosa nella sfera pubblica possono essere determinate da molteplici fattori. Per i ricercatori del Pew Research Centre, sono due quelli principali: le norme che disciplinano le attività dei gruppi di fedeli delle diverse religioni e, in secondo luogo, le ostilità dovute a elementi culturali in una data società nei confronti dei membri dei vari credo. Appartengono alla prima categoria, ad esempio, tutti quei paesi che hanno emanato leggi particolarmente severe nei confronti delle attività dei missionari e delle conversioni. Le ostilità sociali si riscontrano soprattutto in quei paesi nei quali il tasso di applicazione della legge e la tutela dei diritti civili sono molto bassi e nei quali quindi è difficile sanzionare e disincentivare comportamenti discriminatori.

Vi sono poi alcuni casi gravissimi per i quali si può addirittura parlare di vero e proprio genocidio. È quanto ha ad esempio affermato nel giungo 2016 la United Nations Independent Inteational Commission a riguardo delle violenze commesse in Siria e Iraq dai militanti dello Stato islamico nei confronti delle minoranze yazide e cristiane costrette ad abbandonare le loro case, a trovare rifugi di fortuna o a fuggire all’estero. La commissione ha formalmente riconosciuto il genocidio perpetrato ai loro danni chiedendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite di «riportare con urgenza la situazione in Siria di fronte alla Corte penale internazionale o di stabilire un tribunale ad hoc con un’ampia giurisdizione geografica e temporale».

Il rapporto usa parole particolarmente forti per descrivere le azioni poste in essere dai militanti islamisti: «L’Isis ha cercato di cancellare gli yazidi attraverso gli omicidi, la schiavitù sessuale, la schiavitù, la tortura e i trattamenti inumani e degradanti e i trasferimenti forzati, causando seri danni fisici e mentali; sono state inflitte condizioni di vita che conducono a una morte lenta; l’imposizione di misure per prevenire la nascita dei bambini yazidi, anche tramite le conversioni forzate degli adulti, la separazione degli uomini yazidi dalle loro donne e i traumi mentali arrecati; i bambini yazidi trasferiti dalle loro famiglie per essere affiancati ai combattenti dell’Isis, separandoli dalle loro credenze e dalla loro comunità religiosa».

L’estremismo islamista non è il solo

Sono stati numerosi i leader religiosi che hanno espresso preoccupazione per le sempre più frequenti violenze nei confronti delle minoranze religiose. Papa Francesco ha ripetutamente sottolineato quanto la situazione che numerose comunità cristiane si trovano ad affrontare sia una delle più tragiche e difficili nell’intera storia del cristianesimo. Di recente è stato il patriarca russo Kirill a esprimere forte preoccupazione per le persecuzioni nei confronti delle minoranze cristiane, soprattutto in Medio Oriente: «Siamo molto preoccupati per la situazione dei cristiani, semplicemente spazzati via dagli islamisti radicali, sono nostri fratelli e viviamo la loro tragedia come nostra».

Ma non sono solo i paesi nei quali si diffonde l’estremismo islamista l’oggetto della preoccupazione di molti. Ad esempio nel 2008 nello stato indiano dell’Orissa si sono perpetrati dei veri e propri massacri anticristiani: oltre cento morti, case e chiese distrutte e migliaia di sfollati. Secondo il rapporto pubblicato dal Catholic Secular Forum, un’organizzazione della società civile indiana, molte delle violenze verificatesi negli ultimi anni ai danni dei cristiani e delle altre minoranze religiose sarebbero da attribuirsi alla crescente influenza dell’ideologia Hindutva («induità») che non tollera la presenza di altre religioni in India. Questa ideologia sarebbe quindi il propellente per la diffusione di campagne d’odio, diffamazione e violenza ai danni delle minoranze.

Riguardo allo scottante dossier relativo alla Cina e ai suoi rapporti con i gruppi religiosi, basti ricordare che la leadership del partito comunista cinese si è ormai resa conto di come il tasso di conversioni (soprattutto al cristianesimo) abbia già ora la capacità di incidere in maniera sostanziale sul futuro politico (e religioso) del paese. Per questo, oltre a cercare a volte il dialogo con esponenti dei vari gruppi, la Cina mette in atto delle politiche centralizzatrici per porre in mano alla burocrazia ministeriale il controllo delle leadership religiose. Controllo che è ovviamente rigettato dalle comunità che vedono nella loro autonomia un principio da proteggere al fine di evitare eccessivi interventismi statali vissuti come veri e propri tentativi di strumentalizzazione della fede per fini politici.

L’Unione europea che fa?

I casi fin qui elencati sono soltanto alcuni: le violazioni gravi del diritto di libertà religiosa si susseguono giorno dopo giorno e il numero di vite mutilate a causa della fede aumenta. I rapporti delle organizzazioni inteazionali e di quelle non governative sono ormai molto specializzati e un’analisi attenta di questi testi permette di scoprire uno scenario che, purtroppo, è a tinte molto fosche.

Ci si potrebbe chiedere se vi siano stati dei tentativi di reazione utili a prevenire lo sviluppo di tali azioni da parte di stati o movimenti politici che ledono profondamente quello che dovrebbe essere un diritto garantito e riconosciuto a livello universale.

La protezione internazionale del diritto di libertà religiosa ha una lunga storia politica e istituzionale. Di recente anche le istituzioni europee hanno cominciato a interessarsi al tema, sia mediante l’azione del servizio europeo per le relazioni estee che fa capo all’Alto Commissario per la politica estera Federica Mogherini, sia tramite la creazione di un intergruppo parlamentare denominato European Parliament Intergroup on Freedom of Religion or Belief and Religious Tolerance.

Nel giugno 2016 l’intergruppo parlamentare ha reso pubblico un rapporto annuale sullo stato della libertà religiosa nel mondo che offre significativi spunti di riflessione al fine di ricostruire la posizione europea sul tema. Si lamenta innanzitutto l’assenza di coerenza tra i numerosi proclami delle istituzioni europee e le politiche e le azioni effettivamente intraprese, e inoltre l’ancora scarsa consapevolezza, da parte dei funzionari che si occupano della politica estera dell’Unione europea, della priorità che il tema della libertà religiosa dovrebbe avere nel contesto delle sue azioni.

Le critiche rivolte alle istituzioni di Bruxelles non devono sorprendere. Spesso infatti ci si limita alla pubblicazione di generici proclami di condanna delle violenze perpetrate ai danni delle minoranze religiose senza intraprendere delle vere e proprie azioni politiche (come ad esempio delle sanzioni commerciali) che possano segnalare concretamente il valore attribuito alla tutela del diritto di libertà religiosa.

La scelta è ovviamente discutibile: da una parte si vorrebbe che le sanzioni potessero scattare immediatamente per creare degli incentivi per quei paesi che utilizzano sistematicamente politiche discriminatorie ai danni delle minoranze religiose. Dall’altro un’azione diplomatica incisiva richiede spesso più tempo e un’azione che non sia necessariamente pubblica ed esplicitamente critica. È tuttavia da registrare, appena un mese prima la pubblicazione del report, la nomina di Jan Figel, ex primo ministro slovacco, a inviato speciale per la promozione della libertà religiosa e di coscienza. Figel ha già promesso iniziative concrete sul tema e sarà quindi da valutare nei prossimi mesi quali saranno i risultati che la sua azione raggiungerà.

E gli Usa che fanno?

A questi sviluppi europei deve associarsi quanto avviene negli Stati Uniti avvolti in un clima da campagna elettorale permanente che ha visto proprio il tema della libertà religiosa occupare una centralità nel dibattito per le elezioni presidenziali che non si registrava da anni. La proposta di Donald Trump, relativa al divieto di ingresso temporaneo negli Stati Uniti per i fedeli di religione musulmana, ha infatti generato molteplici reazioni e commenti particolarmente critici. Vi è innanzitutto da sottolineare il fatto che un paese come gli Stati Uniti che ha nella sua narrazione storica una posizione privilegiata per il diritto di libertà religiosa ha particolari difficoltà a recepire una proposta come quella avanzata da Trump. Tanto è vero che anche elettori tradizionalmente leali al partito Repubblicano, come i fedeli della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Gioi (i mormoni), hanno criticato con veemenza tale proposta, memori delle persecuzioni subite nel corso della loro storia proprio a causa della loro affiliazione religiosa. Tale proposta andrebbe poi ad aggiungere ulteriori elementi di incoerenza alla politica statunitense di promozione del diritto di libertà religiosa perseguita da Washington da molti anni.

Anna Su, in un recente volume pubblicato per Harvard University Press (Exporting Freedom. Religious Liberty and American Power), ha ricordato come il governo statunitense abbia sempre posto una particolare attenzione alla tutela di tale diritto, soprattutto nella prospettiva della tutela dei missionari cristiani. Ma come sarebbe possibile giustificare, quantomeno retoricamente, l’ergersi a paladini del diritto di libertà religiosa nel mondo, quando i propri leader politici, allo stesso tempo, propongono il divieto di ingresso nel proprio paese per i fedeli musulmani?

Le incoerenze non aiutano

Altre incoerenze restano comunque presenti nella politica degli Stati Uniti d’America. Tra queste è doveroso segnalare l’ambigua politica nei confronti del governo dell’Arabia Saudita resosi protagonista, anche di recente, di episodi di discriminazioni e violenze ai danni di alcune minoranze e che attua, da sempre, una politica profondamente discriminatoria nei confronti delle donne e della condizione femminile in generale. Anche nei paesi in cui non si riscontrano gravi violazioni, o vere e proprie persecuzioni religiose, permangono oggettive difficoltà rispetto a una piena tutela del diritto di libertà religiosa. Queste possono concretizzarsi in ostacoli all’apertura dei luoghi di culto o all’ottenimento della registrazione governativa al fine di regolarizzare la propria posizione o alla possibilità di fare propaganda del proprio culto.

Se tali difficoltà riguardanti le minoranze religiose si riscontrano all’interno dei paesi che intendono farsi paladini della tutela del diritto di libertà religiosa anche in altre parti del mondo (come avviene per l’Europa e gli Stati Uniti) nasce un problema di credibilità. Certo le difficoltà poste da un paese come, ad esempio, l’Italia, all’apertura di un luogo di culto non sono lontanamente paragonabili alla pianificazione dell’eliminazione sistematica di una minoranza. Ma cosa si sentiranno rispondere i governi occidentali quando andranno a chiedere più diritti per le minoranze religiose in paesi fortemente egemonizzati da una sola religione, sia essa l’induismo o l’islam?

Saremo noi europei, noi occidentali, in grado di dimostrare che la libertà religiosa è davvero un diritto di tutti e per tutti? La domanda che ci assilla, e alla quale saremo chiamati a dare un risposta anche in un futuro abbastanza vicino, è: «Crediamo davvero nella libertà religiosa?».

Dalla risposta concreta a questa domanda dipenderà il futuro di molti fedeli.

Pasquale Annicchino*

* Pasquale Annicchino, Adjunct Professor  of Law St. John’s Law School, New York, Research Fellow European University Institute, San Domenico di Fiesole. Autore del volume Esportare la Libertà Religiosa. Il Modello Americano nell’Arena Globale, Il Mulino, Bologna, 2015.




Italia moschee negate


In Italia la questione dei luoghi di culto musulmani è all’ordine del giorno. Diverse regioni e città vi si confrontano. È impossibile passare sotto silenzio l’ormai stabile radicamento di circa due milioni di fedeli musulmani. E questo porta con sé la necessità di affrontare anche la questione della loro libertà religiosa. Partendo da una delle esigenze più essenziali: la disponibilità di luoghi in cui svolgere e celebrare in forma collettiva la preghiera, le festività e le altre attività e pratiche essenziali per la loro vita comunitaria.

L’apertura di un luogo di culto è sempre materia simbolica e, non di rado, delicata. Simbolica perché il luogo di culto rende evidente nello spazio pubblico l’esistenza di una comunità che si riunisce intorno a principi e valori non necessariamente condivisi da tutti. Delicata perché interpella le altre componenti sociali: dalla società civile alle istituzioni pubbliche alle altre comunità religiose, a partire, nel contesto italiano, dalla chiesa cattolica.

Non «se», ma «quali» luoghi di culto

A seconda delle vicende che accompagnano la sua apertura, il luogo di culto (in questo caso musulmano) può divenire strumento di integrazione culturale, sociale e civile, oppure di ghettizzazione, di chiusura, emarginazione e isolamento. In Italia i luoghi di culto musulmani rischiano di vivere più la seconda esperienza negativa che la prima positiva. Questo perché alla quantità dei luoghi musulmani presenti sul territorio, non ne corrisponde una uguale qualità. Infatti, dei circa 800 censiti, soltanto sei (Segrate, Brescia, Colle Val d’Elsa, Roma, Ravenna e Catania), o poco più, possono essere identificati come vere e proprie moschee. Gli altri sono semplici «sale di preghiera» collocate in capannoni, garage, seminterrati, magazzini e palestre. Luoghi riadattati e, non di rado, in condizioni poco dignitose e disagiate.

La questione, dunque, non è se aprire luoghi di culto musulmano in Italia (perché ci sono già), ma quali luoghi di culto musulmani vuole avere l’Italia: per l’esclusione o per l’integrazione?

Il carattere laico dello stato

La Costituzione, nell’interpretazione costante e sempre più approfondita della Corte Costituzionale, impone una scelta precisa: il luogo di culto è espressione del diritto di libertà religiosa. Lo stato centrale (dettando le norme fondamentali), e le regioni (predisponendo la legislazione di dettaglio), hanno il dovere di garantire a tutti i gruppi religiosi questo diritto, mostrando non indifferenza, ma adoperandosi per rendee concrete le possibilità di esercizio. In altre parole, l’apertura dei luoghi di culto è espressione non solo dello specifico diritto di libertà religiosa, ma, più in generale, del carattere laico (pluralista e non indifferente) della Repubblica italiana chiamata a valorizzare e integrare, su un piano di uguale libertà, tutte le formazioni sociali, anche quelle religiosamente connotate.

Le regioni fanno il bello e il cattivo tempo

Lo stato è intervenuto in materia facendo rientrare gli edifici di culto tra le opere di urbanizzazione secondaria, e dunque tra gli spazi pubblici di interesse comune. Le municipalità dovranno quindi pianificare i propri territori prevedendo la presenza di luoghi di culto, e disponendo per essi anche la possibilità di appositi finanziamenti pubblici.

Fissata questa regola essenziale, lo stato centrale non ha emanato alcuna disciplina organica di settore, lasciando l’attuazione del dettato costituzionale ai diversi legislatori regionali. Ed è qui che si sono incontrate le prime difficoltà. Infatti le varie leggi regionali in materia di edilizia di culto, in alcuni casi hanno portato a un’esplicita discriminazione contraria alla costituzione. Larga parte della legislazione regionale in materia mostra in particolare tre caratteristiche:

  1. la grande discrezionalità lasciata alle pubbliche amministrazioni nella valutazione delle istanze avanzate dai diversi gruppi religiosi;
  2. la ricorrente differenza di trattamento riservato alla chiesa cattolica rispetto agli altri gruppi;
  3. la tendenza a considerare come interlocutori soltanto le comunità religiose istituzionalmente organizzate e numerose, riservando minore attenzione ai gruppi più fluidi (non solo i musulmani, ma anche, ad esempio, gli evangelici), meno numerosi e, di fatto, più distanti dal «sentire» della maggioranza.

Da queste tre tendenze, alcune regioni (l’Abruzzo e, soprattutto, per ben due volte, la Lombardia) hanno fatto derivare l’esclusione delle confessioni religiose prive di Intesa con lo stato1 dai contributi pubblici per l’edilizia di culto (Abruzzo), o dalle ordinarie procedure per l’assegnazione degli spazi, sostituite da altre più onerose (Lombardia).

La Corte costituzionale ha reagito contro questa tendenza dichiarando incostituzionali le leggi in materia edilizia della regione Abruzzo (1993) e Lombardia (2002 e 2016). Tali leggi non riconoscevano che il diritto a disporre di un luogo di culto discende direttamente dall’art. 19 della Costituzione e, dunque, costituisce un elemento essenziale del diritto di libertà religiosa indipendentemente dalla stipulazione di un’Intesa con lo stato.

Nonostante il loro peso, gli interventi della Corte costituzionale tuttavia non sembrano diventati un patrimonio comune dei legislatori regionali e delle amministrazioni comunali che si trovano a governare collettività multiculturali e religiosamente differenziate.

La «questione musulmana»

All’interno di questo quadro, la «questione musulmana» ha costituito la cartina di tornasole per verificare la capacità del ceto politico-istituzionale italiano di dare corpo alla libertà religiosa e alla laicità dello stato. L’islam, infatti, porta con sé tutti gli ingredienti capaci di mettere in crisi una gestione statica degli spazi pubblici.

Non solo i musulmani ben si prestano a rappresentare lo stereotipo dell’incolmabile alterità, ma essi sono pure frammentati, privi di rappresentanza unitaria, etnicamente e culturalmente differenziati, diversificati anche per scuole e tradizioni religiose, nonché per i legami con i paesi di provenienza che perdurano, spesso con scorno delle nuove generazioni, anche molti anni dopo l’insediamento in Italia.

L’11 settembre e le altre tragiche date che ne sono seguite, fino agli ultimi attentati di Bruxelles, hanno favorito l’inquadramento dei musulmani sub specie securitatis, incentivando paure e logiche differenzialiste – ispirate all’eccezionalismo – anche nel godimento del diritto di libertà religiosa e di culto. Di fatto, il legittimo godimento di luoghi di culto per i musulmani è divenuto, oggi, assai problematico.

Si spiegano così le 800 «sale di preghiera» allestite in luoghi inadatti e disagiati, e le pochissime «moschee» presenti nel nostro paese.

Un circolo vizioso da rompere

Peraltro, ad aggravare la situazione concorre la circostanza che nessuno dei loro luoghi di culto è formalmente classificato e, dunque, trattato come tale. Qualche lacuna del diritto e l’indisponibilità politica producono da troppo tempo un circolo vizioso che deve essere interrotto. Nei confronti dei gruppi religiosi ancora privi di intesa con lo stato italiano, infatti, il nostro paese non dispone di una legge generale sulla libertà religiosa e si serve ancora della legislazione sui «culti ammessi» del 1929-1930. Questa normativa lascia grandi spazi alla discrezionalità politica, e le comunità musulmane, per loro ignoranza o sfiducia, o per rifiuti e ostilità subiti, non sono ancora riuscite a ottenere il riconoscimento quali «enti di culto». L’unico ente musulmano capace di ottenere tale riconoscimento è stata la Moschea di Roma nel lontano 1974. La data è importante: si era in piena crisi petrolifera ed era obiettivo della politica estera dei tempi avere buoni rapporti con il mondo arabo incarnato, appunto, da una moschea che non rappresentava tanto i «musulmani italiani», quanto gli stati a maggioranza musulmana. Nel suo consiglio di amministrazione siedono, infatti, gli ambasciatori dei «paesi musulmani» accreditati presso la Repubblica e la Santa Sede.

Per gli altri gruppi, fino a ora, la via di questo riconoscimento è stata interdetta. Come pure è stata interdetta (molto discutibilmente) dal Consiglio di Stato la possibilità di ottenere una personalità giuridica di diritto privato ricorrendo al codice civile: per il giudice amministrativo, infatti, quando la finalità religiosa è prevalente l’unica via per il riconoscimento della personalità giuridica è quella prevista dalla legislazione del 1929-1930.

Ma così si torna al punto di partenza. I musulmani sono stati indotti allora a optare per il mimetismo, organizzandosi attraverso associazioni no profit, onlus, associazioni di promozione sociale. Tutte forme idonee per l’esercizio di molte delle attività non cultuali delle comunità religiose, ma inidonee per lo svolgimento delle attività con fine di religione e di culto. Per questo le comunità vengono poi a scontrarsi con i dinieghi comunali – e regionali – nel momento in cui vogliano, attraverso dette associazioni, aprire e gestire un luogo di culto.

Due percorsi da intraprendere

È evidente che i percorsi per superare questa impasse sono fondamentalmente due:

  1. varare una nuova legge sulla libertà religiosa che superi definitivamente la legislazione dell’epoca fascista dettando nuove norme sull’associazionismo religioso nonché i principi fondamentali in materia di edilizia di culto;
  2. in attesa di tale intervento, favorire l’organizzazione delle comunità musulmane secondo un modello duale già sperimentato con successo in altri paesi: da una parte, l’associazione di culto (allo stato attuale, una semplice associazione privata non riconosciuta) quale rappresentante degli interessi religiosi dei fedeli musulmani residenti in un determinato territorio; dall’altra, tutte le forme associative previste dall’ordinamento italiano per l’esercizio delle attività non cultuali.

In questo modo, attraverso un dialogo aperto e trasparente, le amministrazioni comunali ben potrebbero rapportarsi con le «associazioni religiose» in vista dell’assegnazione di aree o edifici per il culto, anche con l’accompagnamento di specifiche convenzioni in cui fissare rispettivi oneri, obblighi e contributi pubblici di sostegno.

Leggi ostili generano esclusione e insicurezza

Purtroppo, il percorso più seguito è più spesso un altro: quello dell’interdizione e della chiusura.

Ne è stato un recente esempio la legge regionale lombarda n. 62 del 27 gennaio 2015. In base a questa normativa l’apertura di un luogo di culto da parte dei gruppi religiosi privi di intesa (leggi: i musulmani) finiva per essere condizionata da controlli e oneri particolarmente pesanti e totalmente discrezionali. Si evocava poi il ricorso a invasive misure di sorveglianza che esorbitavano dalle competenze regionali.

Il 24 marzo scorso è stata resa nota la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionali parti importanti della legge lombarda. Ma l’azione dei giudici non è sufficiente.

Le nuove misure approvate il 5 aprile scorso dal Consiglio regionale del Veneto si collocano, pur se con maggior prudenza, sulla stessa direttrice tracciata dal legislatore lombardo. Il luogo di culto come eccezione da definire e circoscrivere (anche spazialmente) più che come diritto fondamentale da regolare. Si evoca, ma a fini apparentemente descrittivi, evitando le conseguenze costituzionalmente illegittime, la distinzione tra chiesa cattolica, confessioni con intesa e confessioni senza intesa; si evoca il referendum e si introduce la possibilità di richiedere l’utilizzo della lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto. Una norma che esorbita dalle competenze in materia urbanistica proprie del legislatore regionale e potenzialmente suscettibile di essere discrezionalmente strumentalizzata dai comuni, in occasione della stipula – e dell’esecuzione – delle convenzioni, contro l’apertura dei luoghi di culto delle comunità composte per la maggior parte da stranieri.

L’ostilità nei confronti dei luoghi di culto musulmani trascura la realtà (essi esistono già e vanno, piuttosto, ben regolati); offende la Costituzione; produce esclusione e insicurezza e, non da ultimo, contribuisce a erodere la comprensione del diritto di libertà religiosa che rischia di essere meno tutelato, per tutti.

Alessandro Ferrari*

* Alessandro Ferrari insegna diritto ecclesiastico e diritto canonico presso l’Università degli Studi dell’Insubria (Como-Varese). Autore di numerose pubblicazioni è membro del Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano istituito presso il ministero dell’Inteo.

Note:

1- Per approfondire il tema delle intese e della legge generale sulla libertà religiosa in Italia, si vedano gli articoli di questa rubrica in Mc 1-2/2015 (pp. 78-82), 3/2015 (pp. 66-69), 4/2015 (pp. 72-75) e 5/2015 (pp. 69-72).




Diritto di libertà interiore

La tensione alla libertà interiore, ricercata comunitariamente, è uno dei cardini del sufismo, e anche uno dei motivi per cui è sempre stato considerato pericoloso, sia dal potere teocratico che da quello laicista. Una storia raccontata dal «santo» sufi Jalâl al-Dîn Rûmî, detto Mawlânâ, illustra, come una parabola, la strada per realizzarla.

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La purificazione interiore è l’obiettivo verso cui tende il sufi nel suo rapporto con il Dio Altissimo, Onnipotente e Misericordioso (che è lo stesso Dio del musulmano «ordinario»). Raggiungere uno stato di «annientamento», di spoliazione da tutto, dall’individualismo, dall’egoismo, dalle passioni disordinate che possono governare l’uomo, e divenire libero di innalzarsi verso Dio. Si tratta del fanâ’, di quella condizione che talvolta viene confusa con una specie di nirvana. Ma nel nirvana non si sa dove sia l’anima o la creatura, mentre il sufi sa perfettamente dove si trova, anche quando è sospeso tra il cielo e la terra, in quello stato particolare definito «tra i due mondi», la barzakh.

Il sufismo, nella sua tensione verso la purificazione mistica, è un fatto della vita pratica, vissuta: riguarda l’esistenza concreta del fedele. Non si può percepire in profondità cosa sia questa corrente mistica dell’Islam, se non si scende nel concreto della vita, se non si assiste, ad esempio, alla pratica dello zikr, la ripetizione del nome di Dio, se non si partecipa alla danza dei dervisci rotanti. E non si può partecipare della sua forza liberatrice se non si vive comunitariamente: perché quella dei sufi non è una ricerca individualista, ma bensì comunitaria. Ricercano insieme la liberazione interiore. È questo il motivo per cui la loro esistenza fa temere i diversi poteri, tanto quelli religiosi integralisti quanto quelli politici laicisti (cfr MC ago.-sett. e nov. 2015). Il fatto che esistano dei gruppi di ricerca interiore, mette in scacco, da un lato la frammentazione della società voluta dai regimi laicisti, e dall’altro il conformismo uniformante dei regimi teocratici, tra cui quelli musulmani. La ricerca di una spiritualità della libertà interiore può infatti sfociare anche in una ricerca di libertà sociale.

La poesia di Dio

Per comprendere come avviene l’elevazione dell’animo e della persona del sufi, c’è una complessa rete di pratiche rituali che sarebbe utile conoscere. Ma per comprendere il cuore delle aspirazioni mistiche dei sufi, di liberazione interiore, può bastare leggere alcuni dei suoi testi tradizionali.

Il sufismo si esprime eminentemente in poesia, e non è un caso che nei paesi musulmani la poesia sia ancora oggi un mezzo di contestazione sociale. Alcuni mistici trasmettono l’anelito alla libertà interiore e, spesso, a quella civile, proprio tramite la poesia. Lo si intuisce bene da una storia contenuta nel poema Mathnawî di Jalâl al-Dîn Rûmî, quasi una parabola con un pappagallo e il suo padrone come protagonisti, in cui è contenuta tutta la tensione del sufismo verso la purificazione e liberazione.

C’era un mercante che aveva un pappagallo

«C’era un mercante che aveva un pappagallo; un bel pappagallo imprigionato in una gabbia1. Il mercante si preparò per un viaggio: decise di andare in India. Generosamente disse ad ogni schiavo […]: “Che cosa vuoi che ti porti?”. Ognuno gli chiese ciò che più desiderava: il brav’uomo si impegnò con tutti. Poi disse al pappagallo: “Che regalo ti piacerebbe che ti portassi dal paese dell’India?”. Il pappagallo rispose: “Quando laggiù vedrai i pappagalli, spiega loro la mia sventura e dì loro: ‘Il tal pappagallo, che ha nostalgia di voi, per desiderio del Cielo è nella mia prigione. Vi saluta, chiede giustizia, e desidera conoscere da voi un rimedio e un modo per essere ben guidato’. E dice ancora: ‘È bene che, avendo nostalgia di voi, io renda lo spirito e muoia nella separazione? È giusto che mi trovi in una crudele prigionia, mentre voi siete sui teneri arbusti o sugli alberi? È questa la fedeltà degli amici?’”. […] Il mercante accettò quel messaggio e promise di portare il saluto del pappagallo ai suoi simili.

Giunto ai limiti più estremi dell’India, scorse nella pianura un gruppo di pappagalli. Fermò il suo cammello, poi trasmise il saluto, adempiendo così al suo incarico. Ed ecco che uno dei pappagalli si mise a tremare violentemente, il suo respiro si fermò e cadde morto. Il mercante si rammaricò di aver dato quelle notizie, e disse: “Sono venuto a distruggere questa creatura. Certamente era un parente del mio pappagallino […]. Perché ho fatto questo? Perché ho portato quel messaggio? Con una parola stupida ho distrutto questa povera creatura”. […].

Il mercante concluse le sue faccende e toò a casa col cuore lieto. Portò un dono a ogni schiavo, fece un regalo a ogni schiava. “Dov’è il mio regalo? – chiese il pappagallo -. Raccontami ciò che hai detto e che cosa hai visto”. “No – egli rispose – veramente mi pento, torcendomi le mani e mordendomi le dita. Perché mai, per ignoranza e follia, ho portato un messaggio tanto stupido?”. “Padrone – disse il pappagallo – di che cosa ti penti? Che cosa mai ti provoca collera o dolore?”. “Ho riferito i tuoi lamenti – rispose – a un gruppo di pappagalli simili a te. Uno dei pappagalli capì il tuo dolore, che gli spezzò il cuore, tremò e morì. Mi sono addolorato. Pensavo: ‘Perché ho detto ciò?’ Ma a che serve pentirsi dopo aver parlato?” […].

Quando l’uccello udì ciò che quel pappagallo aveva fatto, tremò violentemente, cadde e rimase stecchito. Il mercante, vedendolo cadere così, diede un balzo e gettò in terra il suo berretto; si buttò per terra e si lacerò il vestito […]. Gridava: “Oh, bel pappagallo dalla voce soave! Che cosa ti è successo? Perché sei diventato così? Oh! Ahimé per il mio uccello dalla dolce voce! Oh! Ahimé per il mio amico intimo e mio confidente! Oh, ahimé per il mio uccello melodioso, vino del mio spirito, mio giardino e mio dolce basilico!” […]. Il mercante, logorato dal dolore, dall’angoscia e dalla nostalgia, pronunciava centinaia di frasi, a volte in polemica con se stesso, a volte giustificandosi, a volte supplicando, a volte appassionato di verità, a volte di irrealtà […].

Dopo di ciò, lo buttò fuori dalla gabbia. Il pappagallino volò via fin su un alto ramo. Quel pappagallo morto prese il volo come quando il sole balza in avanti da Oriente. Il mercante rimase stupefatto per ciò che l’uccello aveva fatto; senza capire, improvvisamente intuì i segreti dell’uccello. Alzò il volto e disse: “Oh, fammi la grazia di spiegare questo fatto. Che cosa ha fatto quel pappagallino laggiù perché tu imparassi il modo di preparare questo cocente stratagemma per me?”. Il pappagallo disse: “Con la sua azione, mi ha consigliato: ‘Rinuncia al fascino della tua voce e al tuo affetto, poiché è stata la tua voce che ti ha condotto alla schiavitù’. Esso ha fatto finta di essere morto per darmi questo consiglio intendendo: ‘Tu che sei divenuto un cantore per il fior fiore della società e per la gente comune, per ottenere la libertà muori come faccio io’”. Così il pappagallo gli diede uno o due consigli pieni di saggezza, poi gli rivolse il saluto della separazione. Il mercante gli disse: “Va’, che Dio ti protegga! Adesso mi hai mostrato una nuova via”, e disse a se stesso: “Questo consiglio è per me; seguirò la sua via, poiché quella via è radiosa. La mia anima sarebbe forse inferiore a quella del pappagallo? Ogni anima deve seguire una via così buona”».

Commento al racconto

Si tratta di un testo con intenti performativi: leggendolo si ha l’impressione di crescere nella libertà e si può immaginare il sufi che si lascia portare dalle sue parole aprendosi sempre più a Dio.

Il pappagallo incarna l’anima del sufi, o anche il desiderio umano di vera pace e di vera liberazione. È anche il simbolo dell’essere che ripete senza una vera logica le parole ascoltate: esso ripete, ma senza capire necessariamente i suoni che pronuncia. La storia inizia con la presentazione della situazione: il pappagallo è imprigionato, come l’anima dell’uomo. Il mercante è il suo padrone incontestato. C’è in questo passaggio tutta la visione del sufismo: l’anima profonda e autentica dell’uomo è in gabbia, imprigionata in mille lacci che la tengono legata al mondo. Il mercante è simbolo della più bassa mondanità dell’uomo che viaggia per il mondo in cerca di godimento. La sua logica tiene in scacco tutti, servi e pappagallo: «Cosa vuoi che ti porti dall’India?». Per mantenere i servi asserviti e il pappagallo in gabbia, promette regali. Ma il pappagallo ha un guizzo di profonda intelligenza interiore, e chiede al padrone di portare il suo lamento e la sua domanda di liberazione ai suoi simili.

Il pappagallo è attanagliato dalla domanda più lancinante che abita l’animo umano: la condizione in cui si trova, e che gli sembra naturale, è una condizione che porta alla libertà?

Il pappagallo della storia ci dice che il sufi si domanda in continuazione se quel che sta vivendo è una prigione dell’anima che porta alla libertà, oppure è inganno. Se la gabbia fosse davvero la sua situazione naturale – si potrebbe dire metafisica -, allora perché desiderare uscire di gabbia? Il pappagallo, in fondo, non desidera uscire di prigionia, ma soltanto conoscere la verità. È la verità, in realtà, che rende liberi, e se il pappagallo conoscerà la verità grazie ai suoi amici dell’India, sarà pago e felice.

La storia ci dice inoltre che la verità si conosce anche grazie alla compagnia degli amici. La ricerca, che tende a una spiritualità della libertà interiore, è comunitaria, è possibile solo in gruppo, ha quindi dei risvolti sociali.

Il racconto prosegue con il mercante che si reca in India, e qui trova dei simili del suo animale domestico. Dopo aver comunicato loro il messaggio del suo pappagallo, uno di essi cade morto. Il mercante è assalito dalla tristezza, ma sembra che essa non provenga dalla compassione per la sorte dell’animale, quanto piuttosto dal pensiero della morte in sé, e quindi della propria morte, tant’è vero che poi se ne torna a casa «lieto». Si scoprirà poi che il pappagallo indiano non è morto davvero, ma il mercante non sa andare al di là delle apparenze terrene che lo tengono schiavo.

In contrasto con la stupidità mondana del mercante, il pappagallino sa interpretare correttamente la morte bizzarra del compagno indiano. Egli intuisce immediatamente la comunicazione profonda che il suo simile gli invia tramite il mercante. E applica quanto gli è stato suggerito: fa finta di morire.

Se il pappagallo capisce subito il segreto inviatogli, il mercante invece rimane ingabbiato nel suo più profondo egoismo individualistico: piange e si dispera, ma dalle parole che pronuncia si capisce che non è il pappagallo a interessargli, quanto piuttosto la sua voce soave, e «l’intimo confidente, giardino e dolce basilico». Il suo amore è tutto intriso di motivi individualistici. Nel suo soliloquio si accusa e si giustifica, supplica e chiede di vedere la verità. Il suo agitarsi dipende dal fatto che non accetta che il suo io sia scosso da un fatto apparentemente privo di logica umana: il mercante non sa andare al di là dell’apparenza della morte.

Allora ecco il colpo di scena: il pappagallo «morto» trova la libertà proprio attraverso la morte. Ha appreso ciò che cercava, la verità della sua situazione, cioè che non è libero, che viene tenuto imprigionato dalla sua stessa voce melodiosa. Ha capito che deve morire a se stesso per trovare la totale liberazione. Il sufi ama ripetere la parola del profeta Muhammad: «Morire prima di morire», che significa proprio questo, sopprimere da sé, dal proprio animo, tutto quanto è negativo e impedisce la liberazione e la purificazione.La storia si conclude con le parole del mercante che esprimono la sua nuova consapevolezza: tutto ciò che è successo con il suo pappagallo è un insegnamento per lui, perché anche lui possa trovare la libertà. La libertà interiore infatti è contagiosa, e diffonde libertà attorno a sé.

I sufi grazie al loro intimo anelito alla liberazione totale diffondono quindi un messaggio di libertà, del diritto di ciascuno alla salvezza da tutto ciò che tiene ostaggio l’animo umano.

Alberto Fabio Ambrosio

Note

1 – Per tutta la storia, si veda: Jalâl al-Dîn Rûmî, Mathnawi. Il poema del misticismo universale, Bompiani, Milano 2006, vol. 1, pp. 187-210.




Sufismo sprigionato

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 31

Il sufismo,
dall’Africa sub sahariana all’Estremo Oriente, dall’Europa al Maghreb,
rappresenta la via mistica dell’Islam. Affonda le sue radici nelle origini
della fede musulmana, e attraversa i secoli fino a oggi, con i grandi maestri e
i moltissimi membri dei suoi ordini. Bandito dalla Turchia laica di Ataturk nel
1925, oggi assume nuove forme continuando a nutrire la spiritualità dell’intero
paese.

Il sufismo (tasavvuf) viene
considerato, comunemente, l’ambito mistico della religione islamica. Questo è
parzialmente vero, nel senso che alcuni sufi sono stati o sono dei mistici,
altri semplicemente dei sufi. Se la mistica, infatti, è in un certo senso
l’unione con Dio o, meglio ancora, l’esperienza immediata e diretta della
divinità, allora il sufismo è mistica nel suo obiettivo più elevato.

Un abito di lana grezza

Il termine «sufismo» proviene da una
radice, molto probabilmente siriaca (sûf), che designa un abito di lana
grezza, un po’ come quello di San Francesco. Questo termine passa col tempo a
indicare il povero alla ricerca della saggezza divina. Anche i due termini più
affini indicano lo stesso significato: «derviscio» e «fâqir» (il nostro
fachiro). Al di là dell’aspetto puramente terminologico, quel che è importante
sottolineare riguardo al sufismo è il suo fine ultimo, rappresentato dal
desiderio del sufi di mondare la propria interiorità – specialmente la volontà
che si oppone a Dio – fino ad arrivare allo stadio di completa purificazione in
Dio, di «annientamento» nella divinità (fanâ‘). Come ricorda uno dei
primi sufi, Junayd (morto nel 911): «Il sufismo è che Dio ti faccia morire a te
stesso e ti faccia vivere in Lui». L’aspirazione più intensa del sufi è
raggiungere la libertà più vera. Il sufismo è quindi una via di liberazione
interiore verso l’oceano della divinità, dell’unità divina.

Il sufi non mette in questione
minimamente la professione di fede musulmana, «non c’è alcun Dio all’infuori di
Dio» (lâ ilâha illâ Allah), ma anzi la mette in pratica a tal punto che
non esiste null’altro che l’Essere divino, nel quale si perde come una goccia
nel mare. Si potrebbe allora dire che il sufismo propone una via di
purificazione e di liberazione interiore che conduce lo spirito a uscire dalla
prigione del corpo.

Ansârî (morto nel 1088), altro grande
mistico del sufismo, afferma infatti che senza essere pervenuti a questa
liberazione, si è come in una prigione: «O Dio! Nessun’altra gioia se non nella
Conoscenza tua, nessuna gioia se non nella Manifestazione tua! Colui che vive
senza di Te è come un cadavere in prigione, la vita senza Te è la morte stessa!
Colui che vive in te è eterno». Una liberazione che è tutta interiore, mistica,
e conduce a concentrare tutte le forze nel Dio Uno e Unico.

Seguire un maestro per «annientarsi»
in Dio

Il sufismo è tuttavia un fenomeno
religioso storicamente e socialmente più vasto del solo ambito mistico. Dal XII
secolo a oggi, tutto il mondo musulmano ha visto il fiorire di gruppi di sufi
che si riuniscono intorno a un maestro fondatore di una confrateita (tarikat:
vie). Due sono i principi del sufismo così come esso viene vissuto nelle
confrateite: l’obbedienza cieca al maestro sufi e la pratica della
ripetizione del nome di Dio (zikr). Riguardo all’obbedienza, si potrebbe
pensare che essa sia un principio contrario a una vera liberazione o libertà
interiore, invece, secondo la dottrina sufi, il discepolo si dona interamente
nelle mani del maestro proprio per essere condotto su una via di libertà e di «annientamento»
in Dio. Sia la pratica di affidarsi completamente alla guida di un maestro che
l’aspirazione all’annientamento in Dio solleva dei sospetti nell’Islam più «ufficiale»,
ed è una delle ragioni per cui il sufismo è stato, ed è, perseguito dalle
correnti più rigoriste dell’Islam. Anche se lungo la storia, il sufismo ha
incontrato delle opposizioni, non bisogna cedere alla tentazione di pensare che
esso non faccia parte dell’Islam. Anzi, ne fa parte appieno e in certi casi
esso è addirittura più espressivo del messaggio coranico di altre forme
ritenute più canoniche.

Il sufismo e le confrateite sufi si
diffondono in tutto il mondo musulmano, in tutte le regioni in cui c’è una
presenza islamica. Questo è segno che esso ha una sua potenzialità di libertà
rispetto alle forme più conosciute di Islam, come il wahhabismo e il salafismo,
e infine i gruppi estremi. Il sufismo come interpretazione dell’Islam
indipendente dalla versione «ufficiale», ne fa un movimento estremamente
interessante proprio per comprendere l’evoluzione della religione del Profeta.

Tra Impero ottomano e
Repubblica turca

La storia del sufismo si può grosso
modo suddividere in due fasi: quella dei carismatici sufi della prima ora
(VIII-XII secolo) e quella della seconda ondata legata alle confrateite
(XII-XXI secolo). Nell’arco di questa storia
si può dire che l’Impero ottomano dal XVI secolo in poi, e la Repubblica
di Turchia dall’inizio del XX secolo, costituiscono degli esempi interessanti
di paesi in cui il sufismo si è sviluppato in maniera estremamente capillare.
Durante l’epoca ottomana, il sufismo, attraverso le numerose confrateite
musulmane, era particolarmente vivace. Le tarikat, o vie mistiche di
realizzazione del credente musulmano, avevano diverse provenienze e tendenze.
Alcune di queste erano diffuse in molte regioni del mondo musulmano oltre che
sul territorio ottomano. Altre erano invece tipicamente ottomane perché diffuse
soprattutto nel territorio governato dal Sultano (ad esempio la Mevlevîyye).
Con l’avvento della Repubblica turca (1923), tutti questi gruppi dovettero
subire una grave battuta d’arresto. Nel 1925, infatti, la Grande Assemblea
della giovane Repubblica decretò la chiusura di tutte le confrateite e la
cessazione di tutte quelle pratiche spirituali che potevano imparentarsi con il
sufismo. Nei primi decenni della storia repubblicana, quindi, il sufismo, i
dervisci e la vitalità spirituale delle tarikat vennero espulsi
dall’ambito pubblico e dalla vita sociale e confinati alla vita privata.
Permaneva invece lo spirito sufi che impregnava tutti coloro che erano, prima
della proibizione, legati a una spiritualità o a un cammino iniziatico. A
partire dagli anni ’50 del XX secolo, cioè quando alcune leggi del governo
favorirono la visibilità sociale dell’Islam, anche il sufismo, attraverso le tarikat,
riprese a vivere, anche se sotto un aspetto più culturale e folcloristico. È il
caso tipico dei dervisci danzanti (i Mevlevîs): le antiche confrateite
che avevano subito profonde trasformazioni, potevano, grazie alla formazione
d’associazioni culturali in Turchia, garantire la trasmissione del loro
patrimonio spirituale, ma i nuovi gruppi che s’ispirano al sufismo hanno creato
nuove forme di vita, meno strutturate delle più antiche confrateite.

Le confrateite cambiano
forma

La loro designazione, quella di cemaat
(comunità), indica l’idea di un consorzio più ampio che s’ispira e che
obbedisce al carisma di un maestro e del suo insegnamento. Quello che era
tipico della tarikat, il patto d’obbedienza a un vero maestro spirituale
(shaykh), viene sostituito da una fedeltà che si realizza anche solo
attraverso la lettura dei suoi scritti e un legame interiore alla sua figura.
Le pratiche fondamentali nelle organizzazioni tradizionali, il rito della
ripetizione del nome di Dio (zikr) e la danza sacra (semâ‘), sono
sostituite da altre formule più comunitarie di espressione, come la diffusione
stessa del pensiero del maestro. Il gruppo che oggi è certamente più conosciuto
in Turchia è quello che si richiama alla figura di Fethüllah Gülen (nato nel
1941) che, grazie alla fedeltà di tanti simpatizzanti, ha potuto costituire una
vera e propria comunità spirituale, diffusa sia in Turchia che all’esterno del
paese. Altre organizzazioni, anche di donne, s’ispirano all’antica struttura
delle confrateite sufi che avevano influenzato la religiosità dell’Impero
ottomano. Si potrebbe dire ancora che, come nell’ambito della vita religiosa
cristiana il modello del monaco rimane essenziale, così per il sufismo turco,
il modello della tarikat permane fondamentale.

Nel tessuto del popolo turco

Al di là delle caratteristiche
specifiche dei singoli gruppi, quello che è degno di nota è la grande impronta
che lo spirito del sufismo ha impresso nella religiosità turca. Jelâl ed-Dîn Rûmî
(m. 1273), Yûnus Emre (m. 1320) sono due delle figure del misticismo più
autentico dell’Islam, e i loro scritti, così come il loro pensiero, sono
penetrati nel tessuto del popolo turco. È questa mistica, profonda e anche
tollerante, che ha segnato il carattere spirituale dei Turchi, un aspetto del
sufismo in Turchia ancora poco studiato, che è probabilmente un’eredità della
storia ottomana e una peculiarità dell’Islam in questo paese.

Si potrebbe analizzare in modo
sintetico il sufismo turco tenendo conto di tre elementi che lo caratterizzano.
Il primo elemento è certamente costituito dal pensiero e dagli scritti dei
grandi sufi. Il secondo elemento è rappresentato dal patrimonio che la
tradizione delle confrateite sufi ha consegnato alla storia presente della
Turchia. Infine, il terzo elemento è una certa libertà, tipicamente turca,
nella creazione di nuove modalità e di nuove formule di esistenza spirituale.
Grazie a questi elementi, la Turchia, paese laico, sperimenta una vera
religiosità e una spiritualità profonda.

Una presenza tutt’altro che
marginale


Oggi, tanto in Turchia quanto in
numerosissimi altri paesi a maggioranza musulmana, le confrateite sufi sono
una presenza tutt’altro che marginale. Sono, in certi casi, capaci di cambiare
le sorti di un paese o di orientare tanto la religiosità quanto addirittura la
compagine politica. Nella Turchia repubblicana, questo è evidente nell’azione
delle confrateite più tradizionali e dei nuovi movimenti, le comunità.

Questi caratteri del sufismo, seppur
tratteggiati rapidamente, conducono a una riflessione più ampia sul suo ruolo
all’interno dell’evoluzione del mondo musulmano. Infatti, sia nella storia
primordiale di questo movimento ascetico e spirituale, che nel prosieguo, i
sufi hanno affermato una capacità di resistenza e di affermazione della propria
spiritualità e interiorità a costo di condanne e persecuzioni.

Espressione fedele
dell’Islam

Ancora una volta bisogna affermare
che il sufismo è un elemento interno alla religione del Profeta e che non si
discosta in nulla, nelle sue parti fondamentali, da essa. Il sufismo è semmai
un’interpretazione più interioristica e, certe volte, iniziatica. È forse
questo aspetto che fa sprigionare il sufismo nella sua capacità di formare le
persone alla dipendenza assoluta da Dio – la «classica sottomissione» di cui
parla l’Islam – ma in termini di liberazione interiore. Pur rimanendo legato al
Dio uno e unico dell’Islam, il sufi cerca di sperimentare una purificazione e
una libertà intima. A questo aspetto più spirituale fa seguito anche una certa
passione per la libertà fondata proprio sul desiderio di esprimersi liberamente
nelle confrateite sufi. La libertà interiore a cui aspira il sufi si riflette
quindi anche nel suo desiderio di libertà a livello sociale, soprattutto in
società segnate da un certo contenimento dello spazio individuale.

Alberto Fabio Ambrosio
Fine prima puntata

Sufismo tra rifiuto e
accettazione

Secondo l’Inteational
Religious Freedom 2013
del dipartimento di stato degli Usa, i sufi hanno
subito negli ultimi anni discriminazioni e abusi in diversi paesi nel mondo: in
Somalia Al-Shabaab ha distrutto luoghi di culto e tombe di chierici e religiosi
sufi, ha ucciso civili e funzionari di governo di orientamento sufi tramite
assassinii mirati denunciandoli come non-musulmani o apostati; gruppi salafiti
hanno vandalizzato e distrutto siti sufi in Libia, oltre ad aver rivendicato
l’uccisione di un religioso sufi; salafiti hanno attaccato decine di santuari
sufi anche in Tunisia; attacchi sono stati registrati contro i sufi in
Pakistan, Iran, Iraq, Siria.

Nel rapporto The
World’s Muslims: Unity and Diversity
, pubblicato nel 2012, il Pew Centre
(autorevole organizzazione con base negli Usa) dedica una certa attenzione al
sufismo mostrando come esso e le sue pratiche vengano percepiti nelle diverse
regioni del mondo musulmano: «In Asia meridionale i sufi vengono ampiamente
considerati come musulmani (dal 77% della popolazione, ndr), mentre in
altre regioni tendono a non essere molto conosciuti, oppure a non essere
accettati come parte della tradizione islamica (vengono considerati musulmani
da circa il 50% in Medio Oriente, dal 32% in Russia e nei Balcani, dal 24% nel
Sud Est asiatico e dal 18% nell’Asia centrale, ndr). Opinioni divergenti
ci sono anche per quanto riguarda certe pratiche tradizionalmente associate a
particolari ordini sufi. Ad esempio, recitare poesie o cantare in lode di Dio
sono pratiche generalmente accettate nella maggior parte dei paesi musulmani,
ma la Turchia è l’unico paese in cui la maggioranza dei musulmani accolgono la
danza devozionale come una forma accettabile di culto, probabilmente a causa
dell’importanza storica in quel paese dell’ordine Mevlevi o dei “dervisci
rotanti”».

Alcuni dati particolarmente interessanti riguardano il
continente africano, per il quale il Pew Centre scrive: «L’identificazione con
il sufismo è più alto in Africa sub sahariana. In 11 dei 15 paesi esaminati
nella regione, un quarto o più dei musulmani affermano di appartenere a un
ordine sufi. Significativo il caso del Senegal nel quale il 92% degli
intervistati dice di appartenere a una confrateita sufi. L’ordine Tijaniyya è
il più comune in tutta la regione, con almeno un musulmano su dieci: Senegal
(51%), Ciad (35%), Niger (34%), Camerun (31%), Ghana (27%), Liberia (25%),
Guinea Bissau (20%), Nigeria (19%), Uganda (12%) e Repubblica Democratica del
Congo (10%). Il secondo movimento più diffuso è la confrateita Qadiriyya, che
è seguito dall’11% dei musulmani in Ciad, dal 9% in Nigeria e dall’8% in
Tanzania. Inoltre, l’ordine Muridiyya è prevalente in Senegal (34%), ma non
dispone di un ampio seguito tra i musulmani negli altri paesi esaminati».

L’affiliazione
ai vari ordini sufi è percentualmente meno rilevante nel resto del mondo
musulmano. Tra i paesi presi in considerazione dall’indagine del Pew Centre,
gli unici con una proporzione di aderenti a qualche confrateita sufi più
ampia del 10% sulle rispettive popolazioni di fede islamica sono: Bangladesh
(26%), Russia (19%), Tagikistan (18%), Pakistan (17%), Malesia (17%), Albania
(13%) e Uzbekistan (11%). Parecchi ordini sono importanti in singoli paesi, come
la Naqshbandiyya in Tagikistan (16% di tutti i musulmani), Chistiyya in
Bangladesh (12%) e Bektashiyya in Albania (12%).

Luca
Lorusso

Danza coi sufi

Il libro di Alberto Fabio Ambrosio, Danza
coi sufi. Incontro con l’Islam mistico
, (San Paolo, Milano 2013, pp. 165, € 9,90) è il racconto di un incontro personale, quello dell’autore
domenicano – uno dei maggiori studiosi cristiani dell’Islam mistico – con il
sufismo: appassionato già di mistica cristiana, scopre che anche la religione
del Profeta ha una sua ricca storia di misticismo. Ma è soprattutto il racconto
dell’evoluzione di questa particolare via della spiritualità islamica,
concentrato in particolar modo sui primi secoli, le prime figure di grandi
mistici, i primi ordini sufi: a partire da Maometto (m. 632), considerato «il
prototipo dei Sufi», passando per Hasan al-Basri (m. 728), Rabi’a al-’Adawiyya
(m. 801), Harith al-Muhasibi (m. 857), fino ai grandi maestri del XIII secolo,
Ibn ‘Arabi (m. 1240) e Mawlana Rumi (m. 1273), quest’ultimo fondatore dell’ordine
dei Mevlevi, più conosciuti come Dervisci danzanti.

«Il sufismo, potremmo dire, è il lato simpatico di un
Islam che rischia sempre di fare paura. I mistici non fanno paura a nessuno,
forse a torto, perché sono i più rivoluzionari di tutti; coloro che cercano di
togliersi l’armatura delle sicurezze umane e di tuffarsi nel mare della divinità».

Il domenicano
Ambrosio non manca di esprimere più volte, nel corso degli otto capitoli, i
dubbi che negli anni gli sono sorti, o gli sono stati posti da altri, circa la
liceità, o anche solo l’utilità, di spendere la sua vita di sacerdote cristiano
nello studio del misticismo musulmano. La risposta a tali dubbi viene da sé,
viene dalla lettura di questo e altri testi che sono nutrimento per il dialogo
interreligioso, e viene anche dai molti legami, le molte analogie, che lo
studioso mette in luce tra il misticismo sufi e il Vangelo: «Quando noto come
la spiritualità cristiana si possa alleare a quella musulmana, mi sembra di
essere più completo, di essere più forte. Forse è per questo che studio,
osservo, contemplo e talvolta mi nutro della spiritualità dei miei amici (sufi,
ndr), in uno spirito di solidarietà e di comunione naturale. […] Il
Cristo per me segna la rotta; ma tutto (e dico proprio tutto) può diventare
barca, remo, vento… soffio dello spirito che mi sospinge verso Lui, perché so
che in ultima analisi, è Lui che mi cerca».

Luca Lorusso
Piccolo glossario

• Misticismo: esperienza immediata di Dio o della divinità.
Molte religioni comportano una parte di misticismo, tra cui l’Ebraismo, il
Cristianesimo e l’Islam.

• Ordine
(confrateita) sufi:
un ordine sufi nasce
da un sufi carismatico che può avvalersi dell’insegnamento di un altro maestro
accreditato. In ogni ordine sufi ci sono dei «conventi», a capo dei quali si
trova un maestro. Attoo al maestro si riuniscono dei discepoli. Un ordine
sufi non ha però una struttura giuridica né spirituale come gli ordini
religiosi cattolici. I sufi non vivono in comunità, ma si ritrovano con
regolarità attorno al proprio maestro, non fanno voto di castità ma vivono nel
mondo, con una professione, e insieme a una famiglia. Rari sono i sufi che non
si sposano.

• Wahhabismo: il movimento di ritorno alle origini
musulmane iniziato con Ibn ‘ad Al-Wahhab nell’Arabia del XVIII secolo. Questa
corrente di interpretazione è diventata il credo ufficiale dell’Arabia Saudita,
e da questo paese si è diffuso nel resto del mondo musulmano (vedi MC
1-2/2015, p.38)
.

• Salafismo: indica di fatto lo stesso movimento
iniziato da Al-Wahhab ma, mentre con wahhabismo ci si riferisce soprattutto al
movimento storico, con salafismo si indica la dottrina e la pratica di ritorno
alle origini. Il salafismo ha conosciuto numerose «riforme» che tentano sempre
di propugnare la purezza iniziale dell’Islam, eventualmente anche con l’uso
della forza, com’è il caso del salafismo jihadista.

• Danza sacra: con questo termine si intende in generale
ogni danza o movimento danzante che tende al raggiungimento di una certa
esperienza spirituale o mistica. Nel caso del sufismo, la danza sacra per
eccellenza è quella dei dervisci danzanti che permette il raggiungimento
dell’esperienza dell’unità divina.

• Shaykh e dhikr: termini riferiti ai due principi del
sufismo, soprattutto di quello che storicamente si incarna negli ordini sufi.
L’obbedienza al maestro (shaykh) il quale è rappresentante del Profeta e, in
ultima analisi, di Allah, e il rituale della ripetizione dei nomi di Dio, lo
dhikr.

• Religione
iniziatica:
è quella in cui per
diventae membro è richiesto un rito «segreto», di accoglienza o di
iniziazione appunto, in cui il candidato, passando delle prove, viene accettato
dagli altri adepti. Anche il cristianesimo, in un certo senso, comporta
l’iniziazione (il battesimo) con la differenza che il rito non è nascosto ma
pubblico.

 

Sufismo: breve
cronologia

• VII-XII secolo: epoca dei «grandi maestri spirituali», tra
cui Bistâmî, Junayd, Rabi’a.

• 922: morte di al-Hallaj. La sintesi della sua
dottrina si può riassumere così: «Se Dio è tutto e io sono nulla, io sono anche
Dio, poiché tutto è nulla e solo Dio è». Il sufismo diventa «ufficialmente»
sospetto.

• XI secolo: Glâzâlî (m. 1111) scrive la Revivificazione
delle scienze religiose, una sorta di Summa theologica islamica in cui viene
ufficialmente trattato il sufismo.

• 1240: morte di Ibn ‘Arabî, filosofo mistico
dell’Islam.

• 1273: morte di Rûmî, uno dei più grandi mistici e
poeti dell’Islam.

• XII-XXI secolo: il sufismo si realizza negli Ordini sufi.

• Dal XVIII secolo: i sufi subiscono la persecuzione dei
wahhabiti in Arabia Saudita e, in seguito, in altre regioni.

• 1925: il sufismo e gli ordini sufi sono banditi
dalla Repubblica di Turchia.

A.F.A.

Alberto Fabio Ambrosio




Italia: intese tra Fedi e Stato

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 25

Iniziamo con
l’intervista a Stefano Ceccanti, ex senatore del Pd che si è occupato in senato
di libertà religiosa, una piccola serie di dialoghi con politici italiani di
diverso orientamento. Diritto sancito dalla Costituzione, la libertà di culto,
a livello legislativo, deve ancora trovare compimento. Alcune intese tra lo
stato italiano e confessioni religiose ampliano il panorama, in attesa di una
legge generale sul tema.

«Nonostante sia necessario per l’Italia
arrivare a una legge generale sulla libertà religiosa che sia pienamente
inserita nella Costituzione repubblicana, oggi purtroppo ne abbiamo ancora una
– ampiamente amputata dalla Corte costituzionale – del ‘29, quella sui culti
ammessi».

Professore ordinario di Diritto
pubblico comparato, Stefano Ceccanti è docente di Diritto costituzionale
italiano e comparato e di Diritto parlamentare presso l’Università La Sapienza
di Roma. È stato senatore del Pd nella XVI legislatura (2008-2013). È autore di
numerose pubblicazioni su riviste italiane e inteazionali.

Lo incontriamo per approfondire la
questione della libertà religiosa nel nostro paese, non da un punto di vista «filosofico»
o «teologico», ma da quello giuridico: il diritto dell’individuo di avere una
fede religiosa e di praticarla, o di non avee nessuna.

La nostra conversazione si avvia
subito dal nodo fondamentale: la difficoltà di arrivare a una legge generale
che finalmente sostituisca quella del ‘29. La legge sui culti ammessi era stata
emanata dopo i Patti lateranensi tra la chiesa e lo stato italiano. Essi
riconoscevano il cattolicesimo come religione dello stato, ponendolo in una
condizione superiore agli altri culti religiosi «ammessi». La Costituzione
repubblicana eliminò questa sperequazione, affermando la piena eguaglianza tra
i culti e foendo ampie garanzie per la libertà religiosa di tutti. Tuttavia,
fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, la libera esplicazione dei culti
non cattolici, in particolare protestanti, fu molto limitata, con
un’applicazione della legislazione in materia sostanzialmente simile a quella
del periodo fascista. I principi costituzionali, insomma, erano come «congelati».
La svolta si ebbe a partire dal 1956, quando entrò in funzione la Corte
costituzionale che intervenne ripetutamente, abrogando le norme in contrasto
con la Carta fondamentale.

Allo stesso tempo, col Concilio
Vaticano II, la chiesa cattolica inaugurò una stagione di grande rinnovamento,
anche in questo campo. La dichiarazione Dignitatis Humanae, il decreto Unitatis
Redintegratio
sull’ecumenismo e la dichiarazione Nostra Aetate sulle
relazioni con le religioni non cristiane, costituirono documenti fondamentali
per il pieno riconoscimento da parte dei cattolici della libertà religiosa di
ogni essere umano. Fu possibile, così, giungere nel 1984 al superamento del
Concordato del ’29, sostituendolo con un accordo tra la chiesa cattolica e lo
stato italiano ispirato ai principi della Costituzione e ai valori del
Concilio.

Si avviò quindi una trasformazione
che, tuttavia, non è ancora conclusa. Oggi, infatti, ci si trova con la vecchia
legge profondamente amputata delle sue parti incompatibili con la Costituzione.

Come mai quella del ‘29 non
è stata ancora sostituita da una nuova legge complessiva che regoli le
questioni connesse alla libertà religiosa nel nostro paese?

«Nella storia dell’Italia
repubblicana è mancata, da parte delle autorità, una consapevole e organica
politica ecclesiastica. Lo aveva rilevato già Arturo Carlo Jemolo (1891-1981,
luminare di diritto ecclesiastico, cattolico liberale, impegnato in sostegno
della laicità dello stato, ndr)».

Non sono mancati, tuttavia,
tentativi di introdurre una disciplina generale e organica sulla questione.

«Sì. L’ultimo risale alla XV
legislatura (2006-2008). Ma la proposta di legge di cui fu relatore Roberto
Zaccaria (Pd) è naufragata».

Ricordo che essa,
recuperando proposte presentate in precedenza e mai approvate, intendeva
caratterizzare in modo molto preciso il diritto di libertà religiosa,
specificando i diritti dei singoli e delle confessioni religiose, ad esempio,
anche in relazione all’educazione scolastica, al lavoro, allo stato di «ministro
di culto», ai loro rapporti con i privati e con le pubbliche amministrazioni,
alla degenza in luoghi di cura, all’appartenenza alle forze armate,
all’inteamento in istituti di pena, alle esequie, alla tumulazione e, non da
ultimo, agli effetti civili del matrimonio celebrato davanti a un ministro di
culto non cattolico o a «soggetto equiparato». Prevedeva pure, tra l’altro, una
novità rilevante come l’istituzione di un registro delle confessioni religiose
presso il ministero dell’Inteo per definie lo «status» nei confronti
dell’ordinamento italiano.
Per quale motivo la proposta non è stata approvata?

«Soprattutto perché non si è riusciti
a trovare una posizione comune attorno al concetto di laicità dello stato. Esso
era espre-sso nei primissimi articoli, tra le disposizioni di principio. In
parlamento e nel paese, in particolare nella posizione assunta dalla Conferenza
episcopale italiana, si è manifestato un disaccordo che non è stato possibile
conciliare».

Sì. L’allora segretario
generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori, sostenne, ad esempio, che
l’introduzione del principio di laicità, «addirittura quale fondamento della
legge sulla libertà religiosa», suscitava «sorpresa e contrarietà». Gli
interventi su questo punto in parlamento, poi, avevano, a mio avviso, rivelato
molteplici modi d’intendere il principio della laicità dello stato, passando
dall’uno all’altro senza vera consapevolezza. Cosa può insegnare tale
esperienza?

«Credo si debba concludere che è
difficile superare le diverse visioni quando si affrontano problemi generali,
concettuali e teologici. Una normativa generale inevitabilmente cerca di dare
delle “definizioni di sistema” sulle quali l’accordo è arduo, se non
addirittura impossibile.

Non bisogna mai dimenticare, infatti,
la lezione di Jean Bauberot (nato nel 1941, ndr), storico e sociologo
delle religioni francese, fondatore della sociologia della laicità. Egli ha
sostenuto che, quando si parla di questi temi, ognuno parte dal suo lato del triangolo:
1) la libertà religiosa con la forza dei numeri per i credenti nella/e
religione/i di maggioranza, 2) l’uguaglianza a prescindere dai numeri delle
confessioni di minoranza, 3) la separazione tra chiese e stato per atei e
agnostici. Si fa fatica a condurre tutti dentro i confini del triangolo per far
loro prendere coscienza di tutti i lati. Prima di Bauberot, Jacques Maritain
(1882-1973, filosofo cattolico francese, ndr) lo aveva già spiegato bene
a Città del Messico il 6 novembre del 1947. Si era nella fase di preparazione
della Dichiarazione dei diritti umani dell’Onu. Egli sostenne che si trattava
di accettare un paradosso: arrivare a un accordo su un comune pensiero
politico, sull’affermazione di un medesimo insieme di “convinzioni che dirigano
l’azione”, è tanto più facile quanto più si rinunci a convergere sui
fondamenti, cioè “sulla giustificazione dei principi pratici”».

Secondo
lei, dunque, è molto più proficuo un approccio «pragmatico» alla questione.

«Sì. Del resto
in questo modo si sono ottenuti dei risultati non trascurabili nella XVI
legislatura».

Nel
corso di essa lei, assieme al senatore Lucio Malan di Forza Italia, ha
presentato un disegno di legge sulla libertà religiosa che ha contribuito a
raggiungere i risultati a cui si riferisce. Cosa vi proponevate di ottenere con
quell’iniziativa?

«Diverse intese
tra lo stato e alcune confessioni religiose già stipulate dal primo governo
Prodi e, in seguito, dal quarto governo Berlusconi, erano di fatto congelate.
Si trattava di arrivare alla loro approvazione anche in via legislativa».

Le
Intese sono previste dall’articolo 8 della Costituzione per regolare i rapporti
delle confessioni religiose con lo stato. È una prescrizione che serve a
proteggerle da eventuali imposizioni unilaterali, da parte dello stato
italiano, di una qualche disciplina relativa ai loro rapporti con esso.
Ciascuna intesa deve poi tradursi in legge, per entrare a tutti gli effetti
nell’ordinamento dello stato. Con quante confessioni religiose sono state
stipulate intese?

«A tutt’oggi
sono 11 (si veda Box, ndr). Le intese rendono possibile, alle
confessioni che le hanno stipulate e che lo richiedano, l’accesso all’otto per
mille. Delle 11, solo 10 lo fanno, perché i Mormoni non l’hanno richiesto. I
contribuenti quindi possono scegliere tra queste dieci, oltre alla chiesa
cattolica e allo stato. Si tratta di 12 opzioni: un complesso piuttosto ampio.
In favore di tutte quante, oltre che in favore della chiesa cattolica, è
possibile fare offerte deducibili nella dichiarazione dei redditi».

Si è
poi raggiunta l’approvazione per legge delle intese?

«Sì, cinque
delle undici sono state approvate per legge proprio nella XVI legislatura. Tra
esse, due sono per la prima volta estee al tradizionale ambito giudeo
cristiano. Si tratta dell’intesa con i buddisti e di quella con gli induisti».

I
risultati di questo modo di procedere che punta su accordi diretti con le
confessioni religiose, mettendo da parte, per il momento, una legge generale
sulla libertà religiosa, sembrano dunque molto positivi.

«Certamente.
L’approvazione con una legge delle nuove intese ha reso possibile una cosa
importante, cioè la soluzione delle macro questioni di carattere organizzativo,
senza perdersi in quelle di “definizione generale” che avrebbero molto
probabilmente bloccato di nuovo il dibattito».

Questo
tipo di approccio tuttavia è stato criticato. Da ultimo lo ha fatto Alessandro
Ferrari, docente di diritto canonico ed ecclesiastico all’Università degli
studi dell’Insubria, nel libro La libertà religiosa in Italia. Un percorso
incompiuto
. Cosa sostengono questi critici?

«Per loro la
preferenza accordata alle intese – non solo quelle approvate recentemente con
legge, ma anche le “intese storiche” – piuttosto che a una legge generale, ha
generato una “piramide dei culti” al cui apice sarebbe un “diritto
specialissimo”: il diritto pattizio con la chiesa cattolica e con le
confessioni, ma con la prima in posizione sovraordinata rispetto alle seconde.
Tale “diritto specialissimo” sarebbe seguito da un “diritto speciale” che
dovrebbe essere rappresentato dalla legge generale sulla libertà religiosa, in
sostituzione della legislazione fascista, e che al momento è molto ridotto. Da
ultimo vi sarebbe il “diritto comune”».

Quali
problemi creerebbe questo sistema?

«Produrrebbe
delle vittime: le confessioni non riconosciute, lasciate sole alla base della
piramide e alla mercé della discrezionalità delle autorità statali».

Lei
non è d’accordo con tale critica. Perché?

«In realtà,
fermo restando il dialogo che in ogni momento può essere attivato con tutte le
confessioni religiose, l’avvicinamento delle confessioni diverse dalla
cattolica al regime concordatario rappresenta il superamento degli effetti
negativi della “uguale libertà e non completa uguaglianza” che erano ancora
insiti nel primo regime concordatario e che, prima della revisione del 1984, la
stessa Corte costituzionale faceva fatica a rimodulare. È
vero, quindi, che le tutele sono aumentate per tutti, e non viceversa. Puntare
a una legge generale prima delle intese, al contrario, avrebbe portato a
ulteriori fallimenti determinati dalla insistente volontà di individuare
definizioni che non sono ancora condivise».

Questo modo di operare può
valere anche per l’Islam?

«Al momento l’Islam vi sfugge, per
una serie di ragioni».

Quali sono?

«L’Islam è una religione estranea al
“paradigma confessionale”, è policentrica, sia per gli orientamenti teologici
sia per la particolare composizione etnica dei musulmani italiani. Questo rende
difficile individuare un unico interlocutore».

È un problema risolvibile?

«Penso di sì. Si era proposto allo
stesso modo anche per i Buddisti e gli Ortodossi, con cui l’intesa è stata
realizzata. Anche Valdesi e Metodisti, che in origine erano divisi, si sono
aggregati proprio in vista dell’intesa. D’altro canto la Spagna, che è
culturalmente simile all’Italia, ha raggiunto da tempo l’intesa con l’Islam».

Vi sono altri problemi che
rallentano il raggiungimento di un’intesa con l’Islam?

«Sì. È difficile, ad esempio,
distinguere tra fattore religioso e fattore etnico culturale (poligamia,
mutilazioni genitali femminili, burqa), o anche trattare alcuni precetti della
teologia islamica che riguardano la separazione tra sfera politica e sfera
religiosa che mal si declinano con l’idea di laicità così come si è sviluppata
nel nostro ordinamento.

Anche alla luce di queste considerazioni
è chiaro che l’aspirazione a una normativa generale sulla libertà religiosa
difficilmente può giungere a una realizzazione. Anche in questo caso, lo
strumento delle intese offerto dall’articolo 8 della Costituzione (si veda Box,
ndr), che i Costituenti hanno voluto fosse flessibile, continua a
rappresentare l’opzione preferibile per il superamento di questioni pratiche e
per l’avvicinamento delle parti in causa».

È meglio, dunque,
rinunciare definitivamente a una legge generale sulla libertà religiosa?

«No. Una legge generale può benissimo
esserci. Ci si può arrivare, tuttavia, in un momento successivo e più
pacificato, e solo nell’ottica di fornire una “coice” a un quadro in gran
parte già formato dalle intese».

La preferenza «operativa»
per le intese piuttosto che per una legislazione generale sembra avvicinare
l’approccio del nostro paese alla questione della libertà religiosa e della
laicità al modello americano.

«Sì. Le intese con le confessioni
religiose diverse da quella cattolica in fondo non sono altro che “pratiche di
accomodamento”. Infatti cercano soluzioni a situazioni specifiche, creando in
alcuni casi anche delle deroghe al diritto comune in nome della libertà
religiosa. La pratica dell’accomodamento è tipica degli Stati Uniti d’America,
paese in cui si è realizzato uno dei principali modelli di libertà religiosa al
mondo. Esso, in virtù del diritto giurisprudenziale, affronta le esigenze dei
diversi gruppi religiosi e dei singoli con un approccio “caso per caso”.

L’incremento delle intese ratificate,
nell’ottica di declinare il pluralismo religioso, ha avvicinato il nostro
modello a quello di “laicità aperta”, dove il pluralismo si coniuga con la
separazione tra sfera civile e religiosa, ma non con l’ostilità per la presenza
della religione nel dibattito e nello spazio pubblico, né con l’indifferenza
delle autorità per il fenomeno religioso. Insomma, la laicità pluralista
italiana effettivamente è molto più vicina agli Usa di quanto non si sia
storicamente e culturalmente indotti a pensare».

Questo fatto può avere
influenze sul quadro europeo e sulla gestione del fenomeno religioso nello
spazio pubblico dell’Unione europea?

«Certamente. Il modo in cui l’Italia
risponderà, e sta già rispondendo, alle sfide poste dal pluralismo religioso,
conta molto per l’Europa. Le risposte italiane avranno tanto più valore quanto
più proverranno da un paese la cui storia è fortemente segnata dalla prevalenza
di una religione maggioritaria quale quella cattolica, peraltro in corso di
evidente e fecondo aggioamento».

Paolo Bertezzolo

libertà religiosa e
intese

In Italia la libertà
religiosa è sancita nell’articolo 8 della Costituzione, dove si afferma che «Tutte
le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le
confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi
secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico
italiano». Tale norma costituisce parte del «principio di laicità» dello stato
italiano che si ricava dalla lettura combinata di numerose disposizioni della
Costituzione, come ha precisato la Corte costituzionale nel 1989 e, in
particolare, dell’articolo 7 che stabilisce la separazione tra ordine religioso
e ordine temporale.

Sempre
l’articolo 8 stabilisce che i rapporti delle confessioni religiose con lo stato
«sono regolati per legge sulla base di intese stipulate con le relative
rappresentanze».

La tavola
valdese è stata la prima confessione non cattolica a stipulare un’intesa con lo
stato italiano, nel 1984, subito dopo la revisione del Concordato lateranense
del 1929 avvenuta quell’anno. Da quel momento si è avviata una grande
trasformazione nei rapporti dello stato italiano con la chiesa cattolica e con
le altre confessioni religiose, definita in una serie di leggi.

Le richieste di
intesa devono seguire una procedura precisa. Dapprima vengono sottoposte al
parere della Direzione generale affari dei culti, presso il ministero degli
interni. Quindi il governo avvia le trattative con le rappresentanze delle
confessioni religiose in vista della stipula dell’intesa. Esse sono affidate al
sottosegretario-segretario del Consiglio dei ministri. Le trattative sono
avviate solo con le confessioni che abbiano ottenuto il riconoscimento della
personalità giuridica ai sensi della legge n. 1159 del 24 giugno 1929, su
parere favorevole del Consiglio di stato. Il sottosegretario si avvale della
Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose
affinché predisponga la bozza di intesa unitamente alle delegazioni delle
confessioni religiose richiedenti. Su tale bozza di intesa esprime il proprio
preliminare parere la Commissione consultiva per la libertà religiosa. Dopo la conclusione
delle trattative, le intese, siglate dal sottosegretario e dal rappresentante
della confessione religiosa, sono sottoposte all’esame del Consiglio dei
ministri ai fini dell’autorizzazione alla firma da parte del presidente del
Consiglio. Dopo la firma del presidente del Consiglio e del presidente della
Confessione religiosa le intese sono trasmesse al parlamento per la loro
approvazione con legge.

Oltre a quella
con la tavola valdese, sono state approvate, con legge ai sensi dell’art. 8
della Costituzione, le intese con: le Assemblee di Dio in Italia (Adi),
l’Unione delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° giorno, l’Unione delle
Comunità Ebraiche in Italia (Ucei), l’Unione Cristiana Evengelica Battista, la
Chiesa Evangelica Luterana in Italia (Celi), la Sacra Arcidiocesi ortodossa
d’Italia ed Esarcato per L’Europa meridionale, la Chiesa di Gesù Cristo dei
Santi degli ultimi giorni, la Chiesa Apostolica in Italia, l’Unione Buddista
italiana (Ubi), l’Unione Induista Italiana. L’intesa con la Congregazione
cristiana dei testimoni di Geova, siglata nel 2007, non è stata invece ancora
approvata con legge.

P.B.

Paolo Bertezzolo




Indonesia: «Il pericolo cristiano»

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 22

Anche nella corsa elettorale
per le presidenziali (di luglio 2014) il peso delle istanze islamiste si è
fatto sentire. Se da un lato lo stato cerca di contrastare le derive estremiste
più pericolose, dall’altro sembra lasciare un po’ troppo margine a situazioni discriminatorie.
Le minoranze religiose, tra cui il 10% di popolazione indonesiana di fede cristiana,
sono oggetto di campagne diffamatorie e violazioni di diritti.

In piena campagna elettorale per le
presidenziali del 9 luglio (in corso nel momento in cui scriviamo), la politica
di ispirazione confessionale si è posta di traverso lungo la strada di Joko
Widodo (Jokowi), il candidato favorito, popolare governatore di Jakarta, in
lizza contro Prabowo Subianto, ex comandante delle forze speciali
dell’esercito. La minaccia degli islamisti di togliere il sostegno al suo
partito, il Partito democratico indonesiano per la lotta (Pdi-P), ha inserito
un elemento di incertezza nella corsa elettorale che prima era sembrata priva
di ostacoli.

A minacciare il boicottaggio è stato soprattutto l’alleato
Pkb (Partito per il risveglio nazionale), braccio politico della maggiore
organizzazione di massa indonesiana, il Nahdlatul Ulama (Nu), sottoposto
all’influsso dei leader religiosi, scettici sull’agenda sociale del candidato
del Pdi-P, e sul suo programma in generale, in cui poco spazio trovavano le
istanze religiose.

Al programma laicista del Pdi-P, infatti, il Partito per
il risveglio nazionale contrappone un’agenda fortemente ispirata all’islamismo
sociale che sempre più ricopre un ruolo di peso nelle dinamiche politiche
nazionali. Le istanze del Nahdlatul Ulama, infatti, e quelle dell’altro
grande movimento sociale islamista, la Muhammadiya, entrambi con decine
di milioni di membri, sono difficilmente ignorabili da chi detiene il potere a
Jakarta, e ancor più da chi intenda mantenerlo.

Un paese musulmano

L’Indonesia è il più popoloso paese islamico al mondo, con
250 milioni di abitanti, di cui l’88% musulmani. Arrivato all’inizio del XIV
secolo e abitualmente pacifico e dialogico, l’Islam indonesiano è fortemente
influenzato dall’esperienza della mistica islamica (sufismo) che ha trovato
varie modalità di accordo con la preesistente mistica animista o di ispirazione
induista.

L’arcipelago indonesiano, esteso su quasi due milioni di
chilometri quadrati e frammentato in 17mila isole, decine di etnie e centinaia
di lingue e dialetti, ha fatto in tempi recenti della «grande rete» di Inteet
uno strumento importante di comunicazione e di integrazione nazionale. Anche
per il cristianesimo locale, che raccoglie circa il 10 per cento della
popolazione, Inteet rappresenta uno strumento d’informazione e di educazione
fondamentale. Esso si affianca alla presenza cristiana nei mass media stampati,
televisivi e radiofonici, e alla partecipazione attiva al dibattito politico,
sociale e culturale.

Su Inteet si muove però anche l’islamismo radicale
duramente represso dalle autorità nelle sue espressioni estremiste e
terroriste, indebolito da centinaia di arresti, condanne al carcere e alla pena
capitale dopo i tragici attentati di Bali del 12 ottobre 2002. L’azione di
contrasto del radicalismo islamico cerca insieme di disinnescare il rischio di
conflitto interreligioso, di sovvertimento del potere civile e di fuga dei
cooperanti e investitori stranieri di cui il paese ha bisogno. Essa però fatica
a evitare la pressione crescente che opprime le minoranze religiose.

«Pericolo cristianizzazione»

Gli islamisti paventano una «cristianizzazione»
dell’arcipelago. Essa è lo spauracchio che giustifica le mobilitazioni di massa
e gli attacchi da parte di facinorosi.

Il sobborgo di Bekasi, presso la capitale Jakarta, è
diventato dal 2008 il centro di una contesa tra Chiese cristiane e gruppi
radicali islamici che riguarda edifici religiosi per i quali vengono concessi
permessi di costruzione ma non di apertura al culto. I luoghi di culto di altre
fedi rappresentano una minaccia per chi vede nell’Islam la sola fede possibile
nell’arcipelago.

Dalle strade di Bekasi, lo scontro si è portato da tempo
anche sulle strade «virtuali» di Inteet, sempre aspro e pretestuoso, e con
gli stessi «protagonisti». Alcuni, come il Consiglio indonesiano per la
diffusione dell’Islam e il Movimento degli studenti islamici, con un forte
accento anticristiano. Altri, come il Fronte dei difensori dell’Islam,
particolarmente impegnati contro l’apostasia. Infine, hanno un ruolo di
supporto organizzazioni semilegali o del tutto illegali di derivazione salafita
e jihadista, come pure la Jemaah Ansharut Tauhid, l’organizzazione
fondata nel 2008 da Abu Bakar Ba’asyir, ora in carcere per aver ispirato i
fatti di Bali, ma ancora principale punto di riferimento della Jamaah
Islamiah
, movimento emulo di Al Qaeda.

La propaganda islamista definisce «allarmanti» le
conversioni al cristianesimo, e insinua che l’accesso a religioni diverse da
quella musulmana sia frutto di manipolazione e non di adesione spontanea.
Secondo questa campagna denigratoria, l’Islam dovrebbe affrontare i «concorrenti»
ad armi pari, con propri strumenti televisivi e informatici.

A confutare queste insinuazioni e pretese sono in molti, e
tra essi l’Inteational Crisis Group, che ha denunciato il tentativo di
creare tensioni e scontri tra le comunità, utilizzando a pretesto i dati
relativi ad aree del paese che hanno visto una certa immigrazione cristiana per
ragioni professionali o per fuga da calamità naturali (come nella provincia di
Aceh, sull’isola di Sumatra).

Tagliare le radici dell’odio

Al momento il grande paese asiatico, impegnato a gestire
l’uscita dal sottosviluppo e a mantenersi ancorato a un Islam tradizionalmente
dialogico e tollerante, è al 47° posto nella classifica della persecuzione
anticristiana nel mondo stilata da Open Doors (e reperibile su www.worldwatchlist.us).
Non ha tuttavia tagliato le radici dell’odio. Forze di sicurezza e magistratura
hanno colpito duramente l’islamismo radicale per quanto riguarda la minaccia
alla stabilità nazionale, ma il governo ha mancato di prevenire e combattere le
intimidazioni contro le minoranze religiose. Movimenti di attivisti islamici,
che attuano iniziative da veri e propri vigilantes, sono diventati una minaccia
all’ordine pubblico. In più il fallimento di una vera decentralizzazione
amministrativa, anche delle autorità preposte alle attività religiose, ha
impedito lo sviluppo di iniziative efficaci di dialogo e confronto. Infine, gli
interessi politici e personali che inquinano il dibattito sui limiti della
libertà d’espressione, hanno permesso iniziative propagandistiche e
persecutorie. La carta della paura della «cristianizzazione», di una presunta
minaccia al predominio islamico nell’arcipelago, giocata dai movimenti
islamisti, rischia di portare non soltanto nuovi aderenti al network estremista
e alle sue affiliazioni jihadiste, ma anche visibilità e giustificazione,
finora negate, alle loro azioni.

Leggi per l’unità, destinate
a dividere

A Sumatra, nella provincia di Aceh, dove l’autonomia
garantita dagli accordi di pace firmati tra guerriglieri islamisti e governo
indonesiano ha portato tra l’altro anche all’affermazione – unica provincia
indonesiana – della Sharia, la legge coranica, diverse fonti denunciano
crescenti difficoltà per la cristianità locale che conta 12-13mila individui.

Oggetto del contendere non è soltanto il lungo e tortuoso
iter necessario per aprire un luogo di culto non islamico, ma anche un
documento firmato dai cristiani nella provincia nel 2001 in cui si accetta che
ad Aceh possano esservi una sola chiesa e quattro cappelle. Una situazione
superata negli anni per arrivare a 22 luoghi di culto, formalmente provvisori e
costruiti con l’approvazione – secondo Fides – di un forum
interreligioso locale che include esponenti musulmani. Una necessità per i
cristiani di Aceh, contro cui hanno preso posizione i militanti islamici.

Come sottolineato a agenzia Fides da padre
Romanus Harjito, direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie, «tali
episodi sono tollerati dal governo centrale, che ha concesso la Sharia. In
questi casi, per noi cattolici, c’è il mancato rispetto della Pancasila, la
legge fondamentale dello stato indonesiano alla base della convivenza fra
comunità religiose, i cui cinque principi sono: fede in un solo Dio, diritti
umani, unità nazionale, democrazia, giustizia sociale».

Proprio nel tentativo di tradurre i cinque principi in
norme che, nella visione dei padri fondatori dello stato nel 1945, dovevano
essere fonte di unità, nazionalismo e identità, starebbero però le radici di
buona parte dei problemi delle minoranze religiose. Sia perché esse hanno
riconosciuto come religioni ufficiali i soli islamismo (nella versione
sunnita), protestantesimo, cattolicesimo, induismo, buddhismo e confucianesimo,
a scapito di altre fedi come il giudaismo, l’islamismo shiita, l’islamismo
Ahmadiya (che sostiene il principio di una profezia non completata con
Maometto), le fedi tradizionali autoctone; sia perché hanno indotto una parte
consistente delle strutture di governo e amministrazione a organizzarsi proprio
sulla base di tali presupposti.

Ad esempio, il ministero per gli Affari religiosi ha
dipartimenti che rispettano le fedi approvate, negando a chi non ne fa parte il
riconoscimento ufficiale e eventuali benefici. I curricula scolastici
rispecchiano la discriminazione, e gli educatori sono scelti in base alla loro
fede per operare con studenti della stessa fede, ovviamente mainstream,
negando così possibilità anche professionali a comunità di fedi non
riconosciute.

Di converso, l’Organismo di cornordinamento per il controllo
delle credenze mistiche (ovvero le fedi ancestrali), attivo dagli anni
Cinquanta, ha, in tempi recenti, esteso le proprie attività fino a includere il
controllo di denominazioni accusate di provocare disordine sociale, tra cui i
circa 400mila Ahmadiya, che da minoranza discriminata si trovano anche a essere
sottoposti a politiche coercitive.

Stefano Vecchia
 

Nahdlatul Ulama e
Muhammadiya

Nata nel 1926, la Nahdlatul Ulama (Nu,
Risveglio dei leader religiosi) è la maggiore organizzazione di ispirazione
islamica (sunnita) dell’Indonesia. Forte oggi di almeno 30 milioni di membri,
con una decisa impronta sociale, ha il suo nucleo operativo nelle quasi 8.000
scuole coraniche (pesantren) che costituiscono un sistema educativo
parallelo a quello pubblico soprattutto tra i gruppi meno favoriti o isolati di
popolazione. Nonostante il suo ruolo determinante nella lotta contro il
colonialismo e l’occupazione giapponese, dopo l’indipendenza il suo impegno
politico è stato solo occasionale. Raramente è scesa a compromessi con la sua
essenza di movimento religioso e sociale con l’obiettivo di far nascere uno
stato islamico in Indonesia, paese musulmano ma dai forti tratti laicisti.
Ufficialmente non ha svolto attività politica nell’ultimo quarto di secolo. La
parentesi della presidenza di Abdurrahman Wahid «Gus Dur», suo leader, tra
l’ottobre 1999 e il luglio 2001, si è conclusa prematuramente, nonostante il
prestigio personale. Essa però è servita a unificare il paese dopo la fine del
regime di Suharto, che aveva usato la carta islamista per rafforzare il suo
potere fino alle massicce proteste che lo hanno indotto alle dimissioni nel
1998.

La Muhammadiya
(Frateità di Maometto), gruppo nato all’inizio del XX secolo e visto con
sospetto dagli islamisti tradizionalisti (Nahdlatul Ulama è nata proprio
in reazione alla Muhammadiya), è nei numeri di poco inferiore alla Nu,
ma ha un impatto maggiore sulla vita pubblica. Si ispira a una diversa visione
dell’Islam (incentiva l’interpretazione individuale del dettato coranico
piuttosto che quella della giurisprudenza islamica), e ha un maggiore slancio
sociale e politico. Anch’essa si avvale di numerose scuole di ispirazione
islamica (6.000). Esse però sono più aperte nei curricula, e in molti casi
accettano studenti non musulmani. Alla Muhammadiya fanno riferimento
anche centinaia di ospedali e cliniche diffusi nel paese, centri culturali e di
studi sociali. Politicamente attiva, l’organizzazione – che ha finora resistito
alle spinte per dare vita a un proprio partito – lascia sostanzialmente liberi
i suoi membri di aderire a movimenti che non contrastino con le sue idee di
base. Suoi limiti, secondo i detrattori, sarebbero l’apertura a istanze
religiose locali precedenti l’arrivo della fede di Maometto nell’arcipelago,
l’apertura dialogica nei confronti di altre fedi immigrate, come quella
cristiana, e infine la mediazione tra Islam e modeità che è al centro delle
sue origini e del suo sviluppo.

Risultati delle elezioni 2014:

Canditato
Vice
Partito
voti
%

Prabowo Subianto
Hatta Rajasa
Great Indonesia Movement Party (Partai
Gerakan Indonesia Raya)
62,248,936
46.83%
Joko Widodo
Jusuf Kalla
Indonesian Democratic Party –
Struggle
(Partai Demokrasi Indonesia-Perjuangan)
70,666,298 
53.17%

Total   132,915,234 votanti 
Dati ufficiali dalla Commissione elettorale Indonesiana (http://www.kpu.go.id)

Il Jakarta Globe parla di vittoria incontestabile di  Joko Widodo.

Vatican Insider commenta: «La sconfitta del presidente in carica e la vittoria dei moderati alimentano la fiducia tra le minoranze cristiane».

Dati completi delle elezioni su Wikipedia.Indonesian presidential elections, 2014.
Nella foto qui sotto il nuovo presidente dell’Indonesia Joko Widodo (da Wikipedia)

S.V.

Tags: Indonesia, presidenziali, Joko
Widodo Jokowi, Nahdlatul Ulama, Muhammadiya, Prabowo Subianto, minoranze
religiose, movimenti islamisti, cristianizzazione, odio religioso, persecuzione

Stefano Vecchia




Il credo e la carta d’identità

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 16


L’alevismo è una espressione religiosa che alcuni aleviti
considerano parte dell’islam, mentre altri no. Un cittadino turco chiede che
sulla sua carta d’identità non venga indicata la sua appartenenza all’islam, ma
all’alevismo. Dopo il rifiuto della Corte d’appello e della Cassazione, l’uomo
si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Gli viene data ragione,
anche se su un aspetto diverso: la violazione della sua libertà di credo c’è stata a causa della presenza sul documento d’identità di
una casella dedicata alla religione di appartenenza.

Sinan Isik, un cittadino turco di
Izmir, l’antica Smie, nel 2004 chiese alla Corte d’appello della sua città di
cambiare sulla sua carta d’identità la dicitura «islam» con «alevita1». Secondo la legge turca, infatti,
sul documento di riconoscimento si deve indicare la confessione religiosa cui
si appartiene. Quella posta dall’ufficiale dello stato civile sul suo documento,
secondo Isik, era sbagliata.

Alevismo e islam

Gli aleviti sono una minoranza religiosa piuttosto consistente in
Turchia. A essa, infatti, appartiene almeno il 10% della popolazione, ma forse
anche di più.

Se l’alevismo sia o meno una confessione islamica è una questione
aperta. Una parte dei suoi membri lo crede, ma un’altra lo nega. Sinan Isik era
di questa seconda convinzione, sostenuta dalle associazioni che fanno parte
della Federazione degli aleviti Bektachi.

«Io ritengo, sulla base delle mie convinzioni – sostenne Isik –
che una persona non possa essere contemporaneamente alevita e musulmana. La
Repubblica di Turchia protegge nella propria Costituzione la libertà di
religione e di coscienza e mi rifiuto quindi di tollerare questa ingiustizia
che mi ferisce profondamente».

La Corte d’appello, qualche mese dopo, respinse la sua domanda,
sulla base del parere della Direzione degli affari religiosi da essa
interpellata. La Direzione è un organismo che dipende dal primo ministro e ha
il compito di occuparsi delle credenze, del culto e della morale dell’islam,
nonché della gestione dei luoghi di culto. Essa indicò l’alevismo come un
sottogruppo dell’islam che non può essere considerato una religione
indipendente. La dicitura «alevita» – secondo la Direzione degli affari
religiosi – non va quindi indicata sulla carta d’identità, dove non possono
essere riportate le sottoculture o le interpretazioni di una religione, ma solo
la dicitura generale per non compromettere «l’unità nazionale, i principi
repubblicani e il principio di laicità».

La Corte d’appello stabilì dunque che non vi era errore relativo
all’indicazione dell’appartenenza religiosa sul documento di riconoscimento di
Isik. Per chiarirlo ancora meglio, indicò che dal materiale stesso prodotto
dall’interessato a sostegno della sua richiesta, l’alevismo risultava
un’articolazione dell’islam. Gli aleviti infatti, ad esempio, considerano Ali
come il primo imam con un ruolo centrale nella loro confessione religiosa. Ma,
come quarto califfo, genero e successore di Maometto, egli è una delle
personalità più illustri dell’islam. Gli aleviti, insomma, secondo la Corte
d’appello, sono degli islamici, esattamente come cattolici, protestanti e
ortodossi sono tutti cristiani. Quando un individuo aderisce a una delle
interpretazioni dell’islam, rimane islamico.

Sull’obbligo di dichiarare
il proprio credo

Isik non accettò la sentenza e fece ricorso alla Cassazione,
precisando meglio la sua posizione. Oltre all’indicazione errata della propria
religione, egli infatti contestò il fatto stesso di doverla segnalare sul
documento d’identità. L’obbligo lo costringeva contro la sua volontà a rivelare
la sua appartenenza religiosa, violando, a suo parere, la Costituzione turca,
che nell’articolo 24 afferma: «Nessuno può essere obbligato a rivelare le
proprie credenze e le proprie convinzioni religiose». Anche il parere della
Direzione degli affari religiosi, che aveva considerato la sua confessione come
islamica, per Isik era inaccettabile.

La giustizia turca ha tempi invidiabili. Prima della fine di
quello stesso 2004 arrivò la decisione della Cassazione. Purtroppo per Isik,
anche questa a suo sfavore. La Cassazione infatti confermò la sentenza della
Corte d’appello, respingendo la sua richiesta. Per la Direzione degli affari religiosi,
così come per i giudici di primo e secondo grado, l’obbligo di indicare la
propria religione sulla carta d’identità non violava il principio di rispetto
della laicità prescritto dall’articolo 136 della Costituzione.

A sostegno di questa posizione c’era addirittura una sentenza
della Corte costituzionale turca del 1995, che difese quell’obbligo di legge:
«Lo stato deve conoscere le caratteristiche dei suoi cittadini» per esigenze di
ordine pubblico, di interesse generale e per «imperativi economici, politici e
sociali». La norma riguarda tutte le religioni, che vengono quindi trattate
allo stesso modo come deve avvenire in uno stato laico. Di conseguenza non crea
alcuna discriminazione tra i cittadini. Essa, infine, non si intromette nelle
credenze degli individui, o nella loro mancanza di credenze. In particolare,
non introduce alcun obbligo – incostituzionale – a divulgarle. D’altro canto il
codice civile turco permette a ogni cittadino maggiorenne di scegliere
liberamente la propria religione. Nel caso la cambi, è sufficiente che richieda
agli uffici dello stato civile di scrivere quella nuova.

Cinque giudici costituzionali su undici, si erano opposti alla
decisione degli altri sei, ritenendo incostituzionale la legge. La sentenza del
1995 fu, quindi, a strettissima maggioranza.

L’ostinazione di Isik

Sinan Isik non si diede per vinto, e si appellò alla Corte europea
dei diritti dell’uomo (Cedu). Poté farlo perché la Turchia, che non appartiene,
come noto, all’Unione Europea – è in corso l’esame della sua richiesta di
entrare a fae parte -, è però membro del Consiglio d’Europa, e ha quindi
sottoscritto la Convenzione dei diritti dell’uomo di cui la Cedu controlla il
rispetto.

Nel frattempo in Turchia fu introdotta una normativa più
tollerante che abrogava la precedente. Da quel momento le informazioni relative
alla religione dell’individuo sono inserite o modificate nei registri di stato
civile solo in base a quanto dichiarato per iscritto dall’interessato. È
previsto inoltre che la casella relativa sul documento d’identità possa essere
lasciata vuota o che l’informazione già trascritta venga cancellata.

Nel suo ricorso alla Cedu Isik ribadì le sue posizioni, ritenendo
che la normativa, anche se nel frattempo modificata, violasse l’articolo 9
della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (quella sulla libertà di
religione di cui abbiamo parlato anche nei due precedenti articoli, ndr.). Secondo lui, infatti, il rigetto
della sua domanda di sostituire «islam» con «alevita» sulla sua carta
d’identità, aveva rappresentato un’ingerenza dello stato nel suo diritto alla
libertà religiosa, oltre al fatto che la carta d’identità, presentata
continuamente e per i più svariati motivi, rappresentava di per sé una
divulgazione obbligatoria delle proprie opinioni religiose.

Durante il dibattimento, pure il rappresentante del governo turco
ribadì le posizioni della propria parte. Per rinforzarle, si riferì anche alla
sentenza della Corte costituzionale del 1995 già ricordata. «La Repubblica di
Turchia è uno stato laico – affermò – dove la libertà di religione è
espressamente consacrata dalla Costituzione». Negò che la legge contestata da
Isik andasse contro quel principio. Il contenuto della carta d’identità,
secondo lui, non poteva essere determinato in funzione dei gusti di ogni
persona: le confessioni che fanno parte dell’islam sono molteplici ed era
quindi necessario non menzionarle «per preservare l’ordine pubblico e la
neutralità dello stato».

La sentenza di Strasburgo

La Cedu diede ragione a Sinan Isik con la sentenza del 2 febbraio
2010: c’era stata effettivamente una violazione dell’articolo 9 della
Convenzione europea a causa dell’obbligo di indicare la propria religione sulla
carta d’identità. Anche il ricorso al parere della Direzione per gli affari
religiosi, secondo la Corte europea, era stata discutibile. Infatti in una
società democratica lo stato è il garante ultimo dei pluralismi, compreso
quello religioso. Le autorità dunque non possono privilegiare
un’interpretazione della religione a scapito di un’altra, o costringere una
comunità religiosa divisa a porsi, contro la sua volontà, sotto una direzione
unica: si violerebbe di nuovo, in tal caso, il dovere di neutralità e
imparzialità dello stato. Ricorrere al parere della Direzione degli affari
religiosi, che si occupa solo di affari riguardanti la religione musulmana, non
è conciliabile con tale dovere. Essa infatti è un organismo di parte, che
esclude l’esistenza dell’alevismo come religione a se stante.

È interessante, infine, pure quanto la Cedu affermò a proposito
della possibilità di lasciare vuota sulla carta d’identità la casella
riguardante l’appartenenza religiosa. Con la nuova legge, che lo prevede,
infatti, le istituzioni mantengono comunque informazioni sulla religione dei
cittadini nei registri di stato civile. La casella dedicata al credo
d’appartenenza, compilata o lasciata vuota, continua a esistere sulle carte
d’identità e rischia in entrambi i casi di diventare un’informazione sulle
convinzioni intime dell’individuo. Chi chiedesse di cancellare l’indicazione
religiosa potrebbe essere ritenuto avverso al divino, chi invece lasciasse
vuota la casella si distinguerebbe – contrariamente alla propria volontà e in
virtù di un’ingerenza delle pubbliche autorità – da chi invece vi indicherebbe
la propria appartenenza.

La Cedu, insomma, con la sua sentenza indicò qual era il vero
problema contenuto nel caso Isik. Esso non riguardava tanto il rifiuto in sé di
sostituire «islam» con «alevita» sulla carta d’identità, quanto la trascrizione
– obbligatoria o facoltativa che fosse – della religione sulla carta d’identità
che comportava, a causa dello stesso utilizzo del documento, la divulgazione
obbligatoria di convinzioni intime e personali. Era quella trascrizione che
andava tolta. Solo così, concluse la Cedu, sopprimendo cioè la casella dedicata
alla religione sulle carte d’identità, si sarebbe potuto riparare il danno
subito da Sinan Isik, rimediando alla violazione dei suoi diritti.

La decisione fu condivisa da sei giudici su sette. Anche l’unico
che non era d’accordo, per ragioni che non è qui il caso di esaminare, sostenne
comunque di non comprendere né l’interesse, né l’utilità di far comparire la
religione su una carta d’identità, anche se su base volontaria.

L’impegno degli stati

Le sentenze della Cedu diventano esecutive, perché gli stati che
hanno sottoscritto la Convenzione sono impegnati a conformarsi a esse. C’è un
Comitato dei ministri, cui le sentenze sono trasmesse, che ha appunto il
compito di sorvegliae l’esecuzione.

Questo permette di riprendere una considerazione fatta già nei
precedenti articoli: la Corte, di fronte alla condivisione dei principi da
parte di tutti i membri del Consiglio d’Europa, rende possibile uniformare
anche la loro applicazione nei vari stati. Questa funzione ne fa uno degli
strumenti più rilevanti per la costruzione in Europa di una comune coscienza
civile e della sua traduzione pratica.

Paolo Bertezzolo

 
Note:

1-
Gli Aleviti sono un gruppo religioso, sub-etnico e culturale
presente in Turchia che conta circa dieci milioni di membri. L’Alevismo è
considerato una delle molte sette dell’Islam.

L’Alevismo
è una setta unica nell’ambito dell’Islam sciita duodecimano, dal momento che
gli Aleviti accettano il credo sciita riguardo Alī
e i dodici Imam. Alcuni Aleviti non vogliono però essere descritti come Sciiti
ortodossi.

Non
sono da confondere con gli Alawiti presenti ad esempio in Siria.

Nel
capitolo dell’Inteational Religious Freedom Report for 2012 del
Dipartimento di stato Usa dedicato alla Turchia gli aleviti vengono stimati tra
i 15 e i 20 milioni, mentre si dà conto del fatto che i leader del gruppo
religioso sostengono essere 20-25 milioni gli aleviti in Turchia. Secondo il
suddetto rapporto, su una popolazione di 74,7 milioni stimata nel 2011, il 99%
è musulmano, di cui la maggioranza sunnita.

Circa
165mila cristiani delle varie Chiese, tra cui 25mila cattolici.

Paolo Bertezzolo