2015: verso i nuovi obiettivi del millennio

Gli obiettivi per lo
sviluppo sono in scadenza. In 14 anni hanno tenuto alta l’attenzione su temi
cruciali. Alcuni indicatori sono pure migliorati. Ma non basta. Occorre
mantenere viva l’attenzione collettiva e attivare le coscienze.

<!-- /* Font Definitions */ @font-face {Cambria Math"; panose-1:2 4 5 3 5 4 6 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-536870145 1107305727 0 0 415 0;} @font-face { panose-1:2 15 5 2 2 2 4 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-1610611985 1073750139 0 0 159 0;} @font-face {Calibri Bold"; panose-1:2 15 7 2 3 4 4 3 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-1610611985 1073750139 0 0 159 0;} @font-face {Calibri Italic"; panose-1:2 15 5 2 2 2 4 10 2 4; mso-font-charset:0; mso-generic- mso-font-pitch:variable; mso-font-signature:-1610611985 1073750139 0 0 159 0;} /* Style Definitions */ p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-priority:99; mso-style-unhide:no; mso-style-qformat:yes; mso-style-parent:""; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:none; mso-layout-grid-align:none; text-autospace:none; font-size:12.0pt; mso-fareast-Times New Roman"; mso-bidi- color:black;} .MsoChpDefault {mso-style-type:export-only; mso-default-props:yes; font-size:10.0pt; mso-ansi-font-size:10.0pt; mso-bidi-font-size:10.0pt;} @page WordSection1 {size:612.0pt 792.0pt; margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm; mso-header-margin:36.0pt; mso-footer-margin:36.0pt; mso-paper-source:0;} div.WordSection1 {page:WordSection1;} -

Il 2015 sarà un anno cruciale perché forse, il punto di domanda è d’obbligo in una situazione mondiale tanto turbolenta e densa di incertezze, le Nazioni Unite toeranno a essere un luogo dove ragionare e decidere sui veri problemi del mondo. L’occasione sarà data dalla nuova Agenda per lo sviluppo che i governi dovranno discutere e approvare dopo la scadenza degli Obiettivi del Millennio.

Come molti ricordano, gli Obiettivi sono stati individuati nell’Assemblea generale del 2000, quando la tragedia delle torri gemelle non si era ancora compiuta e l’Onu era considerata, dopo il crollo dell’impero comunista e la fine del bipolarismo, un luogo di rappresentanza e di negoziato in grado di dare una risposta ai bisogni vecchi e nuovi dell’umanità.

L’allora Segretario generale Kofi Annan aveva chiesto ai governi di passare dalle parole ai fatti individuando, tra i molti documenti dei summit per lo sviluppo celebrati nel decennio precedente, otto obiettivi concreti, chiari, misurabili, da raggiungere entro una scadenza prestabilita: il 2015 appunto.

Nel 2002, non appena si sono smorzati gli echi della tragedia dell’11 settembre che in quel periodo aveva completamente catalizzato l’attenzione e occupato l’agenda politica, Annan ha cercato l’avallo e il sostegno dell’opinione pubblica, chiamando i cittadini alla mobilitazione. Così migliaia di organizzazioni, Ong, sindacati, gruppi giovanili, scuole, amministrazioni locali e, per il loro tramite, milioni di uomini, donne e ragazzi hanno manifestato, sottoscritto petizioni, promosso iniziative di pressione a favore degli Obiettivi.

Tutti i paesi, dai più poveri ai più ricchi, sono stati attraversati da questo fermento: possiamo considerare quella sui Millennium Goals, la più grande campagna di opinione mai realizzata. All’iniziativa intitolata «Stand Up» (alzati in piedi contro la povertà), organizzata una volta all’anno, hanno partecipato milioni di persone (si calcola che nel 2009 siano stati 44 milioni).

Oltre a essere diventati il principale quadro di riferimento per politiche e programmi di cooperazione, gli Obiettivi sono stati il primo tentativo di riassumere in un documento unitario le molteplici componenti dello sviluppo umano, coniugando istruzione e salute, tutela dell’ambiente e parità di genere, trasferimento delle tecnologie e commercio internazionale.

Ben prima della crisi economica, la campagna ha evidenziato il carattere globale dei problemi: la povertà e la fame non riguardano solo i paesi del Sud del mondo, ma richiedono uno sforzo congiunto, le pandemie come l’Aids, la tubercolosi o le altre malattie contagiose non si fermano alle frontiere, ma possono colpire gli abitanti del mondo intero; l’emergenza climatica e l’esaurimento delle fonti energetiche non minacciano solo i paesi industrializzati, ma accrescono le difficoltà economiche dei paesi produttori di materie prime.

Nonostante la drammatica battuta d’arresto negli sforzi per combattere fame e povertà causata dalla crisi economica del 2008, gli Obiettivi del Millennio hanno prodotto effetti positivi. Secondo l’ultimo rapporto Onu di verifica, mezzo miliardo di persone è uscito dalla povertà assoluta, l’88% dei bambini e delle bambine viene oggi iscritto alla scuola primaria, con tassi di incremento del 15% in Africa e dell’11% in Asia. Il tasso di frequenza scolastica delle bambine nei paesi emergenti è salito dal 60% al 79%; 4 bambini su 5 vengono vaccinati, anche se il totale dei bambini sotto i cinque anni che muoiono ogni anno di malaria e altre malattie curabili è di 9 milioni; le morti delle partorienti sono diminuite del 47% anche se sono ancora 287mila ogni anno, e di queste 50mila hanno meno di 19 anni. Grazie alla prevenzione e ai farmaci antiretrovirali, diminuisce il numero delle persone che contraggono il virus Hiv e muoiono di Aids, mentre i morti per la malaria sono diminuiti di un quarto.

Questi passi avanti sono il risultato dell’azione combinata di crescita economica, politiche governative, impegno della società civile e sforzo globale in favore degli Obiettivi del Millennio, dimostrando che, se gli obiettivi sono condivisi e si mettono in campo le risorse necessarie, i risultati arrivano.

Nel 2015 gli Obiettivi scadono e si rischia un vuoto di iniziativa. Per questo le Nazioni Unite hanno promosso il processo Beyond2015 (oltre il 2015), individuando i 12 Nuovi Obiettivi, a cui vale la pena di riservare la nostra attenzione nei prossimi mesi.

Sabina Siniscalchi
Tagks: obiettivi 2015, millennio, sviluppo, povertà
Sabina Siniscalchi




Finanza etica: È possibile?

Papa Francesco denuncia l’economia che fa aumentare le
disuguaglianze. Il mercato che si sostituisce allo stato. Il trionfo
dell’individualismo. La crisi dovrebbe modificare il concetto di sviluppo. E la
finanza etica acquista terreno.

Non è un caso che i grandi mezzi di comunicazione
abbiano dato così poco risalto all’esortazione apostolica di Papa Francesco «Evangelii
Gaudium
». Essa contiene, infatti, una lucida denuncia del sistema economico
contemporaneo, alquanto indigesta per chi da questo sistema è blandito e
foraggiato.

Papa
Francesco esorta i cristiani a rifiutare l’economia che accresce le
disuguaglianze, che sfrutta l’essere umano invece di servirlo, che provoca
sofferenze: «L’economia che uccide».

Ci
sollecita a non credere alle teorie che presuppongono una crescita economica,
favorita dal libero mercato, capace di produrre di per sé una maggiore equità e
inclusione sociale nel mondo.

«Questa
opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia
grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e
nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante».

Negli
ultimi venti anni, chiunque abbia osato mettere in discussione le teorie che
hanno orientato la globalizzazione economica è stato oggetto di accuse spesso
deliranti, persino da parte degli stessi che oggi si stracciano le vesti di
fronte alla crisi finanziaria: siete contrari al progresso, nostalgici del
comunismo, partigiani del pauperismo.

Intanto,
ovunque nel mondo ha preso piede una sorta di nuova ideologia secondo la quale
il mercato può sostituirsi allo stato, il fisco è una rapina, i servizi
pubblici vanno smantellati, la ricchezza non deve avere obblighi, il lavoro
umano è solo un costo e la finanza va svincolata da ogni controllo.

Un
modo di pensare che non ha riguardato solo l’economia, ma è penetrato nella
mente e nel cuore delle persone, producendo quel pericoloso individualismo che
scandalizza oggi Papa Francesco e che causa tanto dolore.

Sono
stati minati i valori che, se ci si pensa bene, hanno favorito lo sviluppo
delle economie in Europa: la percezione dell’interesse collettivo, il senso del
bene comune, il concetto di mutualismo.

Con la crisi queste deleterie convinzioni hanno
cominciato a vacillare e da più parti oggi viene invocata una nuova visione
dello sviluppo, un nuovo pensiero economico.

Si
dimentica, tuttavia, che alcuni questo pensiero lo custodiscono da tempo, senza
farsi scoraggiare dalla supponenza dominante, ma avendo la tenacia di
coltivarlo e incarnarlo in pratiche economiche generatrici di sviluppo sociale,
occupazione, tutela dei territori, valorizzazione delle persone e delle comunità.

Parliamo
delle iniziative messe in campo dalla finanza etica, che non solo operano bene,
ma sono anche solide.

Da poco è stata pubblicata una ricerca, commissionata
dalla Gabv (Global Alliance for banking of values) che dimostra come le
banche eticamente orientate sono più robuste dal punto di vista delle riserve
patrimoniali e, in proporzione al bilancio, prestano più denaro.

Queste banche, presenti in vari paesi (dalla Triodos
olandese al Banco Sol in Bolivia, dal Credit Cooperatif francese
alla Banca Popolare Etica in Italia) hanno fatto quasi il doppio dei crediti
rispetto alle banche tradizionali: il 75,9% contro il 40,1%.

L’indagine mette a confronto le banche della Gabv
con quelle associate al Gsif, Global Systemically Important Financial
Istitutions
, cioè i 28 principali istituti censiti dal Financial
Stability Board
, tra i quali Bank of America, Bank of China,
Unicredit.

Negli
anni della crisi, mentre le banche tradizionali hanno diminuito il credito
erogato mediamente del 2% (il cosiddetto credit crunch), le banche
etiche lo hanno aumentato di circa il 3%.

Queste
ultime hanno anche una raccolta molto più solida e mantengono un miglior
livello di capitalizzazione, addirittura sono migliori anche sotto il profilo
della redditività del capitale investito che risulta dello 0,53%, più elevata
di quella delle grandi banche (0,37%).

Le
ragioni del loro successo, spiega Peter Blom direttore della Gabv vanno
ricercate in un comportamento più
rigoroso, che non cerca il profitto a ogni costo, non fa scelte spericolate e,
soprattutto, non scarica sullo stato e sui risparmiatori i misfatti dei
manager.

Le
banche etiche sono premiate da una clientela che mette al centro delle proprie
scelte economiche il rispetto delle persone e dell’ambiente, insomma sono
banche nelle quali oggi si può riporre la propria fiducia.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Armi: commercio trasparente?

Ad aprile l’Onu ha approvato il trattato
sul commercio delle armi. Gli stati dovranno dichiarare la destinazione delle
armi prodotte. Ma l’accordo entrerà in vigore solo con la ratifica di 50 paesi.

Sembra
paradossale, ma un effetto positivo la crisi lo ha avuto: le spese mondiali per
armamenti nel 2012 sono diminuite dello 0,5%. È la prima volta in dieci anni.
Le nuove guerre del terzo millennio, che si sono sommate a quelle vecchie, e la
lotta al terrorismo hanno fatto crescere smisuratamente gli investimenti in
armi che oggi superano i livelli del periodo della guerra fredda: nel 2012 sono
stati spesi 1.750 miliardi di dollari, il 2% per prodotto mondiale lordo. La
diminuzione rispetto all’anno precedente è dovuta alla contrazione della spesa
nei paesi occidentali colpiti dalla crisi, in compenso hanno speso di più le
nuove potenze economiche: la Cina registra un 8% in più, la Russia ben il 16%.
Insomma non si tratta di un’inversione di tendenza, il pianeta continua a
essere super armato e il commercio delle armi fiorente, al primo posto nella
classifica degli esportatori rimangono gli Stati Uniti, in contrasto con le
crociate di Obama contro le troppe armi in casa propria, poi la Russia e più
distanti Germania e Francia, l’Italia non sfigura piazzandosi all’ottavo posto.
I migliori clienti sono in Asia: India, Cina, Pakistan, Corea, ma anche i paesi
del Nord Africa hanno aumentato le importazioni.

Questo è il commercio, per così dire, legale, in cui le
transazioni sono registrate dai governi, poi c’è quello clandestino che
alimenta i conflitti più spaventosi, come quello della Siria, 200 mila vittime
e un milione e mezzo di rifugiati.

In Italia, timida e inascoltata dalla politica, si è
alzata la voce dei movimenti pacifisti contro gli F-35 che non
solo costano al bilancio della stato decine di miliardi, che investiti
diversamente potrebbero far ripartire l’economia e l’occupazione, ma sono
mostri attrezzati per trasportare armi nucleari telecomandate. Nel nostro paese
mancano le risorse per la ricerca contro le malattie e le varie associazioni, come
l’Airc (Associazione italiana ricerca sul cancro) devono contare sulla
generosità dei cittadini, eppure l’industria italiana degli armamenti continua
a disporre, anche grazie ai finanziamenti pubblici, di sostanziosi mezzi per lo
sviluppo tecnologico.

In
questo scenario desolante, lo scorso aprile si è aperto uno spiraglio: dopo
sette anni di complicate mediazioni, l’Assemblea delle Nazioni Unite ha
approvato a larga maggioranza il Trattato internazionale sul commercio delle
armi
. Scopo dell’accordo non è quello di bloccare l’import e l’export di
armamenti convenzionali: dai carri armati alle pistole, dagli aerei da guerra
ai sistemi di artiglieria, piuttosto di porvi dei limiti, scoraggiando la
vendita a paesi sotto embargo, come la Siria o l’Iraq, o a paesi responsabili
di gravi violazioni dei diritti umani, come l’ Uzbekistan o il Congo
Rd.

Il governo degli Stati Uniti che, pressato dalle lobby
dell’industria bellica, ha contribuito alla lungaggine delle trattative, ha
dichiarato che si tratta di un accordo storico perché contribuirà a «ridurre la
violenza nel mondo». Gli Stati continueranno legittimamente a produrre ed
esportare armi, ma dovranno dichiarare dove sono destinate, evitando che
vengano utilizzate da paesi e gruppi colpevoli di genocidi, crimini contro
l’umanità o atti di terrorismo. Amnesty Inteational, che avrebbe sperato in
un trattato vincolante che prevedesse divieti e sanzioni, ha dichiarato: «Non è
l’accordo che avevamo sperato, ma è un effettivo passo avanti, in quanto
obbliga tutti gli stati ad una maggiore trasparenza»

L’opinione pubblica potrà sapere e intervenire, questo è
l’aspetto più importante dell’accordo che, occorre ricordarlo, entrerà in
vigore solo quando almeno 50 paesi l’avranno ratificato. Sotto questo profilo
l’Italia può fare da scuola, infatti, grazie alla pressione di Ong e Istituti
missionari e all’impegno di molti parlamentari, già nel 1997 ha adottato la legge
n. 185/97 che pone vincoli precisi all’export italiano, obbligando tra l’altro
le banche a segnalare le transazioni che effettuano nel settore, inclusi gli
importi finanziari e i paesi destinatari.

Gli istituti di credito hanno espresso a più riprese la
loro protesta, anche con qualche ragione (l’obbligo riguarda solo le banche
italiane), ma le più attente alla propria reputazione hanno capito che è
controproducente fare affari sulla morte e sulle stragi e si sono dotate di policy
per regolamentare il proprio intervento nel settore delle armi.

Un grande aiuto è venuto dal professor Umberto Veronesi
che, insofferente allo squilibrio tra spese per la difesa e per la ricerca
scientifica, ha dato vita da due anni a questa parte a un tavolo di confronto
tra banche e società civile che ha portato all’adozione di un codice di
condotta condiviso.

Sabina Siniscalchi




Sempre più divisi

Mentre a Davos si celebra l’incontro dei
potenti, le disuguaglianze nel mondo crescono. E questo fatto indebolisce le
democrazie. Ma c’è chi propone soluzioni.
E i ricchi fanno orecchie da mercante.

All’inizio
del 2013, sulle montagne immacolate della Svizzera, si è celebrato ancora una
volta l’appuntamento di Davos. Lo strano convegno di oltre duemila tra capi di
stato, accademici, manager, giornalisti, invitati da una fondazione
privata, non viene scalfito né dal tempo (siamo alla 26esima edizione), né
dalla protesta dei no global (sempre meno clamorosa), né dalla crisi
finanziaria.

Il World Economic Forum (Wef) si riunisce per
migliorare il mondo: «improving the state of the world». Che non serva a
nulla è evidente, visto che il mondo, con tutti i suoi disastri, non cambia; ma
bisogna riconoscere che è uno dei rari momenti in cui i mezzi di informazione
trattano di temi globali, cosa che non succede, purtroppo, quando si tengono le
conferenze dell’Onu. Certo i partecipanti al Forum sono meno ingessati dal
cerimoniale, l’agenda è meno formale, insomma l’evento ha più colore, ma la
vera spiegazione è che a Davos si ritrovano i veri potenti, quelli che
detengono il controllo della finanza, dei mercati e della politica. E il potere
esercita una grande attrazione sui media.

Chi cerca di intrufolarsi, nel tentativo assai difficile
di far valere le proprie tesi, sono le Ong, da quelle ambientaliste come Greenpeace
a quelle che lottano contro la fame come Oxfam. Proprio a quest’ultima
va dato il merito di aver proposto a Davos un tema fastidioso: l’insostenibilità
della ricchezza smodata che va di pari passo con il crescente divario tra
ricchi e poveri.

In occasione del Wef, Oxfam ha presentato un
documento dal titolo «Il costo dell’ineguaglianza: come la ricchezza estrema ci
fa male».

Negli ultimi trent’anni – sostiene Oxfam –  la disuguaglianza si è drammaticamente
accentuata in quasi tutti i paesi del mondo e il reddito di alcuni ha toccato
vette mai viste prima. In Cina il 10% della popolazione possiede oggi il 60%
del reddito, lo stesso accade in Sudafrica.

La
globalizzazione con il suo mito del trickle down, lo sgocciolamento
della ricchezza fino agli strati più bassi delle società, non ha funzionato. La
crescita economica non ha portato migliori condizioni di vita per tutti, ma
l’abbondanza esagerata per pochi. Il mercato dei beni lussuosi raddoppia ogni
anno e anche dopo la crisi, la domanda di yacht, macchine sportive, champagne,
giornielli non ha subito rallentamenti. Ma l’espansione dei consumi di lusso non è
sufficiente a far ripartire l’economia, la concentrazione del potere di
acquisto in poche mani è, dunque, inefficiente dal punto di vista economico.

Anche il problema della povertà non può essere risolto
da una ricchezza così mal distribuita: in Sudafrica, dove il tasso di crescita annuo
del Pil supera il 3%, un milione di persone verranno spinte sotto la soglia
della povertà nei prossimi 5 anni, a meno che il governo non prenda
provvedimenti.

Le società ineguali sono poco dinamiche perché
impediscono la mobilità sociale: se un bambino nasce povero in una società
ingiusta vivrà e morirà da povero. L’ascensore sociale scende verso il basso,
ma non riesce a salire. Il motivo: la qualità dei servizi pubblici peggiora,
mentre le eccellenze nella scuola, nella sanità, nella previdenza, vengono
riservate a chi le può pagare profumatamente.

Durante la «Grande depressione» il presidente Roosevelt
dichiarò: «L’uguaglianza politica che abbiamo conquistato diventa priva di
significato di fronte alla disuguaglianza economica». 

Nelle
società ineguali la democrazia risulta fortemente indebolita, perché la
politica si piega al volere della grande ricchezza: lobby ben oliate e
con potenti mezzi impediscono interventi a favore della ridistribuzione, come
la tassazione progressiva su redditi e patrimoni.

Dopo la seconda guerra mondiale, lo sviluppo economico
dell’Europa è andato avanti per tre decenni puntando sull’allargamento delle
opportunità e sulla creazione di società più inclusive. La stessa cosa è
avvenuta nelle «tigri asiatiche»: la Corea del Sud ha distribuito i benefici
della crescita ai propri cittadini, incrementandola ulteriormente, anche il
governo brasiliano negli ultimi quindici anni ha basato la propria crescita
inarrestabile sulla lotta alla povertà e sull’aumento del benessere della maggioranza
della popolazione.

Dunque le ricette non mancano, ma il primo passo – dice Oxfam
– per poter risolvere il problema è quello di riconoscerlo e consideralo una
priorità politica. Dovrebbe avvenire così anche in Italia che, tra i paesi
europei, è uno dei più diseguali.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Donne, piano anticrisi

Eticamente

La discriminazione delle donne in Italia e nel mondo è lontana dall’essere debellata. Anche sul piano economico. Eppure le aziende guidate da donne ottengono le migliori performance. Dando un contributo sostanziale.

Ogni anno al palazzo di vetro si riunisce la commissione dell’Onu sullo stato delle donne (Csw, Commission on the status of women) che ha il compito di monitorare la condizione femminile nel mondo. Anche per il 2012, la Csw ha lanciato un allarme: le donne non solo sono le più colpite dalla crisi, ma partecipano con più difficoltà ai piani di recupero e di rilancio dell’economia.
La popolazione femminile ha subito più danni sul fronte dell’occupazione, l’ultimo rapporto dell’Oil (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro) stima che, dallo scoppio della crisi del 2007 a oggi, 22 milioni di donne, soprattutto nei paesi industrializzati, abbiano perso il lavoro.

Esistono vari indici per misurare la condizione femminile, due i più importanti e riconosciuti a livello internazionale: il Ggg (Global Gender Gap) che misura quattro fattori differenziali: la partecipazione economica, il livello di educazione, il potere politico, lo stato di salute.
E il Gei (Gender Equity Index) ideato e utilizzato dalla rete non governativa Social Watch,  che tiene conto delle differenze nel campo dell’istruzione, del reddito e della rappresentanza nei luoghi decisionali.
Secondo il Gei 2012, l’Italia è al settantesimo posto su 154 paesi.
La situazione delle donne italiane è ben descritta nello studio «Lavori in corsa», pubblicato in occasione del trentennale della Cedaw, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Le discriminazioni che le donne italiane subiscono sono molte, ma, limitandosi al settore economico e finanziario, si nota come le principali riguardino il mondo del lavoro. In Italia lavora solo una donna su due. Metà delle donne italiane non solo non ha lavoro, ma, a quanto dice l’Istat, neppure lo cerca.
Per le lavoratrici italiane resta enorme il problema della conciliazione dei tempi di lavoro con la vita famigliare a causa della mancanza di servizi essenziali come gli asili nido, questo porta una donna su cinque a lasciare il posto dopo la mateità. E ancora, grandi sono le disparità salariali che possono toccare fino al 20% dello stipendio, inoltre la carriera professionale è più discontinua e meno gratificante e, quando la lavoratrice va in pensione, riceve un assegno più basso e questo espone le donne anziane a un maggiore rischio di povertà.

Anche se scelgono la strada del lavoro autonomo, le donne sono più discriminate. Secondo un recente studio del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) le imprenditrici pagano un costo più alto per ottenere prestiti (fino a 50 punti base in più rispetto agli uomini) e una donna che presenta come garanzia quella di un’altra donna è considerata dalle banche come il «peggior cliente», questo a dispetto del fatto che le imprese femminili hanno un tasso di fallimento più basso di quelle maschili e sono più redditizie: fino al 27% in più nella redditività commerciale e del capitale investito.
Uno studio della Banca d’Italia dimostra che se l’occupazione raggiungesse il 60% delle donne in età produttiva (come stabilito dagli obiettivi europei di Lisbona), il Pil crescerebbe di 7 punti percentuali, anche perché per ogni 100 donne che lavorano si creerebbero 15 posti in più nei servizi.
All’origine di tutte queste forme di discriminazione e di esclusione economica, c’è senza dubbio la scarsa rappresentanza della popolazione femminile nei centri decisionali dell’economia, della politica e, addirittura, della cultura. Meno del 20% sono donne tra i dirigenti di azienda, i componenti dei consigli di amministrazione, i direttori scolastici, i cattedratici, per non parlare delle istituzioni, dove le donne non superano il 17%. Persino nel terzo settore e nella cooperazione sociale, la situazione non cambia. Le donne sono tante, talvolta la maggioranza tra gli operatori e i volontari, ma sono un’infima minoranza se si cerca tra i responsabili.
Ciononostante, le donne sono protagoniste di iniziative economiche solide, caratterizzate, in prevalenza, da due fattori di successo. Il primo tocca la dimensione comunitaria, le imprese delle donne non sono quasi mai individualiste: contano sempre sulla presenza di una rete o famigliare o di gruppo. Il secondo riguarda l’innovazione, molte imprese «in rosa» sono ingegnose e arricchiscono l’attività produttiva con idee nuove e vincenti.
Recentemente il parlamento italiano ha approvato una legge che obbliga, in linea con gli altri paesi europei, a portare la presenza femminile nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa a un terzo dei componenti. Legge che ha dovuto superare molti dubbi e pesanti critiche.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Voglia di nuovo

Eticamente

In Italia la disoccupazione giovanile è la più alta d’Europa. Si va verso un conflitto generazionale. Ma solo i giovani avranno il coraggio di cambiare.

Nel nostro paese i giovani sono un problema: senza lavoro, con poca istruzione, a carico della famiglia, privi di un avvenire.
La disoccupazione giovanile riguarda il 30,1% di uomini e donne tra i 18 e i 30 anni. Da uno studio della Ue siamo lo stato europeo con il più alto differenziale tra occupazione adulta e occupazione giovanile, dei 2 milioni e 150 mila disoccupati conteggiati in Italia, la maggior parte sono giovani.
Anche quando trovano un’occupazione, i giovani sono pagati poco e hanno meno tutele, spesso sono oggetto di nuove forme di sfruttamento, più subdole di quelle che dovette affrontare la classe operaia nel Novecento, molti di loro non hanno coscienza dei propri diritti, non vedono nel sindacato un presidio in grado di tutelarli ma, paradossalmente, un pericolo che può mettere a repentaglio la loro posizione.
Anche i «fortunati» che hanno laurea e master sono costretti ad accettare un lavoro precario che non rappresenta la «gavetta», ma una condizione di sotto inquadramento che dura anni e che non ha prospettive di carriera.

Poi ci sono i Neets (Not in Education, Employment or Training) i giovani che non lavorano e non studiano, un fenomeno recente che si sta allargando nei principali paesi industrializzati, dal Regno Unito al Giappone, investendo persino la Cina. Secondo l’Istat i Neets in Italia sono oltre 2 milioni, il 25,9% delle persone sotto i 29 anni, quasi il doppio della media europea. Hanno abbandonato gli studi, affascinati dall’idea di guadagnare per soddisfare i desideri di oggi senza aspettare le incertezze del domani; la scuola li ha lasciati andare per miopia e per mancanza di risorse, così ingrossano le fila delle agenzie interinali e si ritrovano sulle panchine dei parchi come vecchi senza futuro.
Il risvolto sociale di questa situazione è sotto gli occhi di tutti: giovani che pesano fino a 35 anni sul bilancio della famiglia di origine.
Ma cosa succederà quando i genitori lavoratori o i nonni pensionati non ci saranno più? Come faranno questi giovani a far studiare i loro figli, a curarsi quando saranno malati, a pagarsi l’assistenza quando saranno anziani?
Andiamo verso un conflitto tra generazioni per la spartizione del lavoro e del poco welfare rimasto. Senza un’azione di inclusione ed equità sociale che punti a conciliare i diversi interessi tutto sarà oggetto di conflitto, non solo il lavoro, ma i servizi, le abitazioni, i negozi, gli spazi.

Non possiamo rassegnarci a questa prospettiva, occorre ripartire e ricostruire. Se c’è una cosa che la crisi ci ha insegnato è la vacuità dell’individualismo: non è vero che bisogna arrangiarsi, che ci si salva da soli, una bufera come quella che ha investito l’economia negli ultimi due anni spazza via anche quelli che ce l’avevano fatta.
Dopo la sbornia neoliberista, economisti e politici si affannano a trovare altre ricette, riaggiustando conti e idee, ma senza il coraggio del nuovo.
Questo coraggio non appartiene agli adulti, ancorati a vecchie mentalità e a visioni superate, può venire solo dai giovani, sono loro che possono portare energia vitale nella società e innescare un vero cambiamento.
Occorre dare loro spazio non solo nei movimenti e nelle manifestazioni di protesta, ma ai tavoli della politica e nei centri della cultura.
Spesso non si affacciano in questi luoghi perché sanno di non ricevere ascolto e perché rifuggono i territori degli adulti, bisogna andarli a cercare, tirarli via dall’isolamento e convincerli che la via d’uscita è nello stare insieme, nell’impegno comune.

Per tanti giovani rassegnati altrettanti reagiscono, si indignano e si impegnano, proprio come abbiamo fatto noi, nei tempi andati. Loro hanno una qualità in più: la coerenza tra comportamenti pubblici e comportamenti privati; il convincimento che il mutamento deve avvenire su due piani, quello collettivo e quello individuale, incarnano l’idea che la responsabilità è di tutti e a ognuno spetti un ruolo.
Un approccio fresco che rinnova e reinterpreta l’idea di democrazia: non più un esercizio passivo che delega tutte le scelte a governi e istituzioni, ma partecipazione in prima persona.
Spetta ancora una volta alla politica intercettare questo cambio di pensiero e tradurlo in forme nuove di rappresentanza. Solo così si potranno affrontare e magari risolvere gli enormi problemi che abbiamo addossato ai nostri figli e nipoti.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Non c’è solo il Pil

Il Pil è un indice inadeguato del benessere di un paese. Per questo altri
misuratori (spesso proposti dalla società civile) si fanno strada.

Non se ne parla molto, ma autorevoli istituzioni come la Commissione europea, l’Ocse, l’Istat e altrettanto autorevoli economisti, capeggiati da tre Premi Nobel (Amartya Sen, Jean Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz)  riconoscono che il Pil (Prodotto interno lordo) è un indice insufficiente per rendere conto dello stato economico e sociale di un paese.
La semplice misura della produzione di beni e servizi non considera, infatti, fattori che sono cruciali per il progresso di una nazione: il livello di istruzione, lo stato di salute, l’accesso alle conoscenze informatiche, l’apporto delle donne, la valorizzazione del patrimonio ambientale, la distribuzione della ricchezza.

Non che il tema sia recente, basti ricordare che già nel 1968 Robert Kennedy  pronunciava un memorabile discorso in cui affermava che «Il Pil misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Negli anni Novanta, ad andare oltre il Pil, ci ha provato l’Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, con il suo Indice di Sviluppo Umano (Hdi): non solo reddito pro capite, ma aspettativa di vita e indice di istruzione. I Rapporti annuali dell’Undp hanno finalmente chiarito che lo sviluppo non coincide con la crescita economica, ma riguarda altri aspetti della vita umana:  la convivenza pacifica, l’accesso ai beni e ai servizi, la partecipazione democratica, l’equità nelle opportunità.
L’Undp per primo ha lanciato l’allarme sull’aumento della disuguaglianza che accompagna la crescita economica senza regole e la globalizzazione senza diritti, chiedendo agli stati di non preoccuparsi solo dell’incremento della ricchezza ma anche della sua distribuzione; e ancora, grazie all’Undp è, per così dire, tornato di moda l’indice Gini che misura la concentrazione della ricchezza e che ha preso il nome del suo ideatore Corrado Gini, un giurista con il pallino della statistica che 1927 fondò in Italia l’Istat.

Anche la comunità non governativa ha detto la sua sull’argomento, il Social Watch, una rete di oltre 200 Ong di 50 nazioni dal 1996 pubblica un Rapporto annuale in cui classifica i paesi in base a due indici: il Gei  e il Bci. Il Gei, (Gender Equity Index), misura quanto le donne vengono istruite, quando sono rappresentate nelle istituzioni pubbliche e quanto partecipano alle attività economiche; il Bci (Basic Capability Index), indice di capacità di base definisce la povertà non solo in termini di reddito, ma considera altri fattori come la percentuale di bambini che riceve un’istruzione elementare, la sopravvivenza fino a 5 anni di età, il numero di nascite assistite da personale qualificato.
Sempre la società civile ha messo a punto gli indici ambientali: come l’impronta ecologica o l’Esi (Enviromental Sustainability Index) che misura la sostenibilità di un’economia in base alla sua capacità di risparmiare risorse energetiche e idriche, riciclare i rifiuti e salvaguardare la biodiversità.
In Italia, un gruppo di ricercatori legati alla campagna Sbilanciamoci da una decina d’anni utilizza il Quars, l’indicatore sintetico della qualità regionale dello sviluppo che mostra come le regioni più sviluppate non sono necessariamente le più ricche se – per contro – hanno un tasso di inquinamento elevato e i loro cittadini si ammalano più degli altri.
Nell’agosto del 2009, la Commissione europea ha diramato una Comunicazione intitolata «Non solo Pil,  misurare il progresso in un mondo in cambiamento» con la quale ha messo in guardia i paesi membri dall’utilizzo del Pil come unico indicatore: «Esistono validi motivi, dice la comunicazione, per completare il Pil con statistiche che riprendano gli altri aspetti economici, sociali e ambientali dai quali dipende fortemente il benessere dei cittadini», per questo entro il 2013 i paesi membri dell’Unione dovranno presentare una contabilità economico-ambientale.
Il clima di ripensamento del modello economico, seguito alla crisi del settembre 2008, ha favorito il dibattito e l’attenzione del mondo politico ed economico su questo tema, basti pensare che all’impegno profuso dal presidente francese Sarkozy che ha promosso e finanziato il gruppo degli economisti guidato da Stiglitz.
Oggi siamo in una fase di normalizzazione: i governi pensano alle elezioni e gli economisti abbandonano il terreno faticoso dell’innovazione. Il processo per andare oltre il Pil rischia di interrompersi. Per fortuna, c’è chi non si da per vinto e continua a ricercare, esplorare, proporre.
Come il presidente dell’Istat Enrico Giovannini che ha il pallino dei nuovi indicatori e ne sfoa in continuazione, aiutandoci a capire cosa succede davvero nel nostro paese sotto il profilo del  benessere reale, delle opportunità,   della   condizione
giovanile.

Sabina Siniscalchi




Futuro: sempre più donna

Ben tre Obiettivi del millennio riguardano la situazione femminile: oltre
ad essere vittime principali della crisi economica, le donne continuano
ad essere discriminate ed escluse dalle risorse fondamentali per lo sviluppo, nonostante stiano dando prova che il futuro del mondo è nelle loro mani.

Il Comitato Onu per l’Eliminazione delle discriminazioni contro le donne ha espresso grave preoccupazione per l’impatto della crisi economica sui diritti delle donne e delle bambine. Il Comitato teme l’incidenza di fattori negativi, quali l’aumento della disoccupazione femminile, la diminuzione del reddito, l’acuirsi della violenza domestica, il regresso nel campo dell’educazione e della salute, a causa dei minori investimenti sociali.
La crisi si abbatte soprattutto sulle donne perché, da sempre, esse sono la maggioranza dei poveri, degli analfabeti e degli affamati. La popolazione femminile continua a rimanere esclusa da risorse fondamentali per lo sviluppo, come il credito, la terra, la formazione e la tecnologia.
Secondo l’Ifad (l’agenzia dell’Onu per il cibo e l’agricoltura) nell’ultimo decennio la partecipazione delle donne al lavoro agricolo, a causa dei conflitti e della migrazione maschile, è aumentata di un terzo; in Africa il 30% delle piccole attività agricole è condotto da donne ed esse producono ben l’80% del cibo, ma non possiedono titoli di proprietà.
Anche nei paesi ricchi le donne subiscono discriminazioni nel lavoro e nelle retribuzioni: nell’Unione Europea la differenza salariale tra maschi e femmine è in media del 17,4%, provocando un maggiore rischio di povertà per le lavoratrici, soprattutto se sole o in età avanzata.
Nelle «zone franche» del Centro America o dell’Asia, che foiscono manufatti ai mercati del Nord, le donne lavorano fino a 14 ore al giorno, prive di tutele sindacali, lontano dalle famiglie, spesso vittime di abusi e incidenti.
I crimini transfrontalieri, esplosi con la globalizzazione, colpiscono soprattutto le donne: l’Ufficio Onu contro la droga e il crimine (Unodc) ha da poco presentato il primo Rapporto sulla tratta degli esseri umani: la maggior parte sono donne, vendute e comprate per lo sfruttamento sessuale o per il lavoro forzato.
La discriminazione contro le donne è connaturata ai processi economici e sociali che generano o accentuano le ingiustizie, ma almeno non è più stabilita per legge: la Convenzione delle Nazioni Unite contro ogni forma di discriminazione contro le donne, infatti, è stata firmata da 185 paesi su 192.

La condizione delle donne è talmente importante per il progresso economico e sociale che tre degli otto Obiettivi di sviluppo del millennio riguardano specificatamente le donne: il secondo che punta all’istruzione per tutte le bambine del pianeta, il terzo che prefigura una piena equiparazione e partecipazione delle donne, il quarto che si focalizza sulla salute delle madri e delle partorienti.
All’ultimo summit economico di Davos, è stato presentato l’indice della disparità di genere, il Global Gender Gap, che tiene conto di 4 fattori: partecipazione economica, educazione, potere politico, salute e aspettativa di vita; sono stati misurati 115 paesi e nella maggioranza di essi la condizione delle donne sta migliorando, in 22, tuttavia, sta peggiorando.
Nonostante un ambiente sfavorevole, talvolta ostile, le donne riescono a diventare leader politici, animatrici di movimenti locali e mondiali, protagoniste di progetti economici di successo.
Ovunque, sono le ideatrici e le promotrici di iniziative straordinarie che si ispirano ai valori dell’innovazione, della partecipazione, della promozione del bene comune. Ormai è a tutti nota l’esperienza del microcredito della Grameen Bank: milioni di donne in Bangladesh, uno dei paesi più poveri del mondo, grazie a piccoli prestiti riescono ad avviare attività produttive i cui benefici ricadono sulle loro famiglie e sull’intera comunità.
Esistono migliaia di esperienze simili in tutti i paesi del mondo e le protagoniste sono quasi sempre le donne.
Ho partecipato ai diversi World Social Forum che si sono celebrati nei 5 continenti dal 2001 a oggi: la presenza delle reti femminili, soprattutto africane, latinoamericane e asiatiche è sempre formidabile: donne coraggiose e tenaci, che non si scoraggiano di fronte agli enormi problemi dei loro paesi, ma continuano a lottare. Credo che il futuro del mondo sia nelle loro mani.

Di Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




G8, non basti più

C’è un altro modo di pensare, e agire

L’incontro del G20 a Londra non è stato così negativo.
   Almeno a parole. Intanto la Commissione speciale
     delle Nazioni Unite propone un gruppo G192.
       Per togliere il monopolio decisionale al G8.

Poteva andare peggio, invece il G20, che si è svolto a Londra all’inizio di aprile, ha segnato, almeno nelle parole, un cambio di rotta.
Un invitato eccellente come il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki Moon si è detto impressionato dal forte senso di unità e di solidarietà che ha caratterizzato l’incontro.
Il G20 è composto dai governi dei venti paesi più potenti del mondo: quelli che dalla seconda guerra mondiale guidano il sistema economico e quelli che sono entrati nel club in anni recenti, in virtù dei loro strepitosi tassi di crescita.
I primi non hanno saputo prevenire la crisi, i secondi non la sanno bloccare.
Finora i vari incontri dei «grandi» (G20, G7, G8) non hanno preso decisioni vere sull’economia e la finanza: i sorrisi e le foto di gruppo hanno mascherato a malapena la distanza delle posizioni e l’assenza di soluzioni condivise.
Un vuoto decisionale reso ancora più grave dalla presunzione di proporsi come l’unico luogo deputato a trattare i problemi economici del mondo.
Il G7 (allora G5) è stato inventato a metà degli anni Settanta, proprio quando le Nazioni Unite stavano mettendo a punto il progetto di un «Nuovo ordine economico internazionale».
La crisi petrolifera scoppiata nel 1973 aveva fatto vacillare il  modello di crescita senza limiti e messo in discussione i rapporti di forza tra paesi produttori di materie prime e paesi industrializzati.
I paesi più potenti, vedendo minacciata la loro posizione dominante, hanno deciso di avocare a sé ogni negoziato sulle questioni economiche e finanziarie. Il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, governati da quegli stessi paesi, hanno avallato la decisione.
Il confronto e le decisioni sulla finanza e l’economia sono state definitivamente sottratti all’Onu e alle sue agenzie sul commercio (Unctad), il lavoro (Ilo), lo sviluppo (Undp), l’ambiente (Unep).
Il disastro in cui ci troviamo comprova che quella scelta non fu né efficace né lungimirante, ma proprio una congiuntura così drammatica ci impone di andare oltre le recriminazioni.
È in gioco la «stabilità e l’equità» delle relazioni economiche e finanziarie inteazionali, come ha ben intuito la Commissione speciale, costituita lo scorso gennaio dal presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e presieduta dal premio Nobel Joseph Stiglitz.
Il G8 rappresenta solo il 13% della popolazione mondiale e non può decidere per tutti i popoli del pianeta. Bisogna cambiare metodo, per questo la Commissione fa riferimento al G192, vale a dire a tutti i paesi membri dell’Onu: solo una proposta di riforma allargata e condivisa, infatti, può produrre un cambiamento reale e profondo.

La Commissione ha un programma di lavoro serrato che prevede il confronto con il G20 e il G8, l’interlocuzione con le principali istituzioni inteazionali, il dialogo con il settore privato e la consultazione della società civile.
Si stanno analizzando quattro grandi filoni:  regole finanziarie, questioni multilaterali, questioni macroeconomiche e riforma dell’architettura finanziaria globale, al fine di sottoporre una proposta di riforma all’high-level conference che si terrà al palazzo di vetro dall’1 al 4 giugno.
Lo scopo di questo processo – secondo il documento iniziale – è quello di «riportare la finanza alla sua funzione originaria per sostenere l’economia reale e gestire i rischi in modo più equo; modificare i sistemi e le strutture di regolazione verso meno speculazione e maggiore stabilità, sostenere con la finanza gli obiettivi dell’occupazione dignitosa e dell’economia verde».
Anche Banca Etica ha preso parte alla consultazione della società civile, a cui hanno partecipato circa cento grandi reti e organizzazioni inteazionali.
Il documento conclusivo di tale consultazione contiene, per così dire, le ricette della società civile per uscire dalla crisi; molte sono le questioni sollevate e altrettante le proposte avanzate: dall’abolizione del sistema bancario ombra, al divieto di utilizzare i derivati per beni vitali come il cibo e l’energia, dalla canalizzazione delle rimesse degli immigrati  per progetti sostenibili all’introduzione di tasse globali per finanziare gli obiettivi del millennio.

I suggerimenti di Banca Etica riguardano, in particolare, l’inclusione nella valutazione del rischio degli aspetti sociali ed ambientali (come fa la banca con il proprio modello di rating), prevedere negli accordi di Basilea un regime specifico per le imprese sociali e le cornoperative, ridurre la portata del segreto bancario, sostenere con una normativa adatta il microcredito e la microfinanza.
Non possiamo prevedere l’esito del processo in corso: navighiamo a vista in un mare in tempesta, ma l’incontro del G20 a Londra sembra andare nella giusta direzione:  maggiori controlli sui mercati finanziari, un limite ai paradisi fiscali, investimenti straordinari non solo per soccorrere le banche, ma per salvare i lavoratori e i cittadini più deboli. La stessa idea di un governo pubblico dell’economia, è rivoluzionaria dopo venticinque anni di liberismo selvaggio. 
Speriamo che il G8 che si terrà in Italia il prossimo luglio non faccia marcia indietro.

Di Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




I «puntini» sui musulmani

Egregio direttore,
il 24 gennaio scorso si riunirono
ad Assisi i rappresentanti
delle principali
religioni a pregare per la
pace: erano monoteisti e
animisti. Li univa un’idea
superiore e universale.
Noi (che crediamo in
un solo Dio) siamo più vicini
ad ebrei e islamici; ma
riconosciamo in Gesù il
Dio che si è fatto uomo e
ha patito la croce per redimerci
dal peccato. Il suo
messaggio è la nostra legge
ed è la rivelazione, che
Gesù ha detto di predicare
a tutte le genti. È una
rivelazione divina: quindi
definitiva e non ha bisogno
di ulteriori complementi.
Gli islamici considerano
rivelazione il corano di
Muhammad, il quale dice
di averla ricevuta da Dio
attraverso l’arcangelo Gabriele.
Nella libertà di religione
noi rispettiamo il loro
credo, ma non lo condividiamo.
Inoltre essi non
hanno un’autorità superiore
che indichi cosa bisogna
credere; quanto loro
dicono gli studiosi coranici,
magari con
affermazioni contraddittorie
secondo i casi e i
tempi, può diventare verità
cui si vincolano.
Per la legge italiana c’è
parità tra uomo e donna,
mentre gli islamici intendono
la donna soprattutto
come un mezzo per avere
discendenza. E sono succubi
della «legge islamica
», successiva a Muhammad,
che detta norme a
volte incivili.
La stampa cattolica, sotto
il pretesto dell’accoglienza
e tolleranza, non è
esplicita; versa tanta acqua
sul fuoco pro bono
pacis, guarda solo al poco
che ci unisce e non al tanto
che ci divide. Da quello
che vi si legge c’è da pensare
che la religione islamica
sia anch’essa vera,
che la fede degli islamici è
buona come la nostra. Il
corano ha la stessa autenticità
della bibbia. Se dicessimo
il contrario, li offenderemmo.
Forse gli islamici sono
più religiosi di noi; ma noi
per loro siamo degli infedeli
ed essi per noi sono
gente di un’altra religione.
Forse fra qualche secolo
ci capiranno, per ora no.
Ora ci disprezzano con una
punta di odio, che è
dettato in tutta coscienza,
e va rispettato. Noi non
capiamo la religiosità degli
islamici: tutti, in perfetta
fila, pregano più di noi,
anche se le donne non sono
in mezzo a loro. Io ci
vedo anche tanto formalismo,
molta convinzione,
ma anche tanta usanza
tradizionale.
Muhammad è profeta in
senso biblico? Veramente
il corano è stato recapitato
dall’arcangelo Gabriele?
Ditecelo, per favore.
La maggioranza dei cattolici
non ha capito se i
musulmani sono fratelli o
concorrenti e non sa, su
ciò che ci divide, come
comportarsi e cosa credere.
Ogni tanto capitano
dei fatti gravi che ci lasciano
perplessi. Mai una volta
che, durante un’omelia,
si senta parlare di islam,
anche per mettere le mani
avanti e aprire gli occhi ai
cattolici disinformati.
Perché non mettete i
punti sulle «i»?

Lettera importante
quanto «delicata».
Lo studioso Maxime
Rodinson definì Muhammad
un profeta armato
di scimitarra. In tal caso,
il fondatore dell’islam
non è un profeta secondo
lo spirito biblico dell’amore.
Né lo fu, ad esempio,
Elia, quando scannò
i profeti di Baal [divinità
della natura in Siria-Palestina]
(cfr. 1 Re 18, 40).
«Veramente il corano è
stato recapitato dall’arcangelo
Gabriele?». Forse
non è costruttivo domandarlo.
Infatti i musulmani
potrebbero
subito replicare: «E chi vi
dice che l’angelo abbia
annunciato a Maria che
sarebbe divenuta madre
di Dio?». Così le dispute
religiose continuerebbero,
sterili, all’infinito!
Riteniamo che il confronto
fra «noi» e «loro»
(previa mutua conoscenza
culturale-religiosa)
debba riguardare soprattutto
le leggi dello stato e
il mancato rispetto dei diritti
umani (libertà, reciprocità,
uguaglianza) in
ogni angolo del mondo:
un’autocritica musulmana
è importante… Importante
è pure conoscere le
possibili conseguenze dei
«matrimoni misti».
Altri temi su cui confrontarsi
sono la democrazia
e la «modeità»,
argomenti temuti da tanti
leaders musulmani.

Lettera firmata