Guerra alle armi:

una lotta impari ma necessaria


Spesso lo dimentichiamo, ma l’articolo 11 della nostra Costituzione recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Per dar corpo allo spirito costituzionale, nel 1990 è stata approvata una legge, tuttora in vigore, la n. 185/90, che vieta le esportazioni di armi in paesi in guerra o che violano i diritti umani e impone alle aziende produttrici di armamenti, così come alle banche che ne appoggiano le transazioni, di fornire al parlamento dati completi sulle operazioni, quali il tipo di arma, il paese destinatario, il valore, ecc. La legge è stata il risultato di un’ampia e tenace mobilitazione del mondo pacifista, soprattutto cattolico: in prima linea nella campagna «Contro i mercanti di morte» c’erano Pax Christi, le Acli, Mani Tese e gli istituti missionari.

Dentro il palazzo, parlamentari attenti e sensibili avevano studiato l’argomento e, confrontandosi con la società civile, hanno messo a punto un provvedimento all’avanguardia. Tra costoro c’era l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in tutti questi anni ha sempre difeso la legge di fronte ai tentativi, a volte riusciti, di renderla meno restrittiva.

La normativa italiana è talmente avanzata da aver ispirato il dibattito e l’approvazione in sede Onu del Trattato mondiale sul commercio delle armi.

A dispetto di norme e accordi internazionali, il commercio delle armi è però in continua crescita e i dati relativi al 2016, pubblicati all’inizio del 2017 dal Sipri, il prestigioso Stockholm Peace Research Institute, attestano che la spesa militare mondiale ammonta a 1.676 miliardi di dollari, circa l’1% in più dell’anno precedente.

Se si guarda al dato pro capite, per ogni abitante della terra si spendono in armi 228 dollari l’anno, molto di più di quello che si spende per salute e istruzione.

Quello che è forse meno noto è che i maggiori importatori sono paesi che hanno in corso guerre o che non rispettano i diritti umani: Arabia Saudita, India, Cina, Turchia, Pakistan, ecc.

Sul fronte delle esportazioni, il 74% proviene da cinque paesi: Usa, Russia, Cina, Francia e Germania.

Il paradosso sta nel fatto che nella classifica dei primi dieci ci sono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e quattro dei membri a rotazione nel biennio 2016/ 2018, tra cui l’Italia.

Il che significa che tutte le decisioni del Consiglio di Sicurezza che riguardano la «legittimità» delle guerre o gli embarghi verso paesi totalitari sono prese dai maggiori produttori ed esportatori di armamenti.

Fa notare Anna Mcdonald, direttrice di Control Arms, una coalizione non governativa europea: «Alcune delle principali crisi che il Consiglio di Sicurezza deve fronteggiare, ad esempio il conflitto che insanguina lo Yemen, sono state provocate e vengono mantenute dai suoi stessi membri, vendendo armi alle parti in conflitto».

Anche se nell’Unione europea e nel Nord America, la spesa per la difesa registra una lieve diminuzione, le 100 principali aziende produttrici di armi, la maggioranza delle quali ha sede in Usa e in Europa, hanno visto aumentare il loro volume di affari del 43% negli ultimi dieci anni. Alle imprese storiche, se ne aggiungono di nuove, con sede in Brasile, India, Sud Corea, Turchia, che oggi offrono i loro prodotti agli acquirenti esteri.

Il mercato mondiale delle armi è florido, ma i suoi costi umani, sociali e ambientali non vengono messi in conto né dai governi né dalle imprese.

Un gruppo di associazioni italiane ha presentato un esposto a diverse procure per violazione della legge 185 perché dall’Italia vengono spedite armi all’Arabia Saudita che le utilizza per bombardare lo Yemen.

La ditta produttrice è la Rvm Italia, controllata interamente dal gruppo tedesco Rheimetall. Lo stabilimento si trova a Domusnovas in Sardegna, regione da cui avvengono le spedizioni, documentate con foto e video dai movimenti pacifisti. Lo scorso maggio, la Fondazione finanza etica ha partecipato all’Assemblea degli azionisti di Rheinmetall (possiede il numero minimo di azioni) per chiedere conto delle migliaia di bombe prodotte in Italia e sganciate sui civili yemeniti (si tratta di 19.675 ordigni per un valore di 32 milioni di euro), ma ha ricevuto una risposta chiara: «L’azienda segue i propri interessi commerciali».

Interessi commerciali che prevalgono anche in Leonardo-Finmeccanica (partecipata al 32% dal ministero dell’Economia) che si colloca al nono posto nella classifica mondiale delle imprese armiere.

Sabina Siniscalchi

 




Finanza etica, eppure esiste


Gran parte del prodotto dal crimine viene riciclato in attività legali. E passa attraverso meccanismi finanziari bancari. Esiste però anche una finanza che fa del bene. Si è dovuta dotare di strumenti di controllo molto rigorosi.

L’onorevole Rosi Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia va ripetendo che troppo spesso dove c’è il denaro c’è anche la mafia. Le attività criminali, sempre più lucrose, sono facilitate dalla globalizzazione che ha abbattuto le frontiere economiche ed eliminato i controlli. Il commercio di droga e altre sostanze illegali, il traffico di armi, l’esportazione dei rifiuti dai paesi ricchi a quelli poveri, fino all’aspetto più odioso che è il traffico di esseri umani sono prosperati negli ultimi trent’anni.

L’Agenzia delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine (Unodc) conferma che l’enorme quantità di denaro prodotto dalle iniziative criminose solo in parte viene reinvestita nella criminalità o nei paradisi fiscali, il resto viene «lavato» e riciclato in attività economiche per così dire «normali». Laddove le banche sono restie a prestare denaro a piccole e medie imprese, perché il margine di intermediazione è sempre più ridotto, arriva la criminalità.

Ma anche negli scambi leciti e «puliti» il denaro può fare danno, la crisi del 2008 ha dimostrato come il risparmio venga utilizzato non per sostenere l’economia reale, ma per alimentare la speculazione e appagare l’avidità di profittatori senza scrupoli.

I risparmiatori rimangono vittime di dirigenti e amministratori bancari spericolati che fanno scelte azzardate portando al fallimento la propria azienda e costringendo lo stato a intervenire con costosi piani di salvataggio.

Prima di depositare il nostro denaro nelle banche, dovremmo chiederci e chiedere che fine fa, non solo per tutelare il nostro patrimonio, ma per evitare di diventare, sia pure inconsapevolmente, conniventi con speculatori e delinquenti.

Dopo i disastri provocati dalla finanza, l’Abi (associazione delle banche italiane) e le sue consorelle straniere, insistono sull’importanza dell’educazione finanziaria dei cittadini, come se la responsabilità di quello che è successo fosse nostra, della nostra mancata conoscenza dei meccanismi del sistema bancario.

In realtà sono le banche che hanno tradito la loro missione: raccogliere risparmio e investirlo nelle imprese, nei territori e nel benessere delle persone.

Il presidente Trump, appena insediato, ha messo mano alla legge Dodd-Frank, approvata dall’amministrazione Obama dopo il crac della Lehman con l’obiettivo di mettere ordine nella finanza e impedire alle banche di speculare con i propri patrimoni che servono, invece, a coprire i rischi di credito.

Le grandi banche statunitensi hanno protestato contro i controlli previsti dalla legge e il nuovo presidente si è precipitato ad accontentarle.

Eppure esiste una finanza che, non solo funziona, ma fa del bene.

Banca Etica ne è un esempio italiano, è stata fondata nel 1999 da centinaia di organizzazioni e singoli cittadini che hanno raccolto il capitale per creare un istituto che agisse secondo i principi della finanza etica, primo fra tutti considerare il credito un diritto umano e valutare sempre l’impatto delle attività economiche su società e ambiente.

Banca Etica funziona come una banca normale: raccoglie risparmio e lo investe in progetti. Ciò che la rende «etica» sono – oltre ai principi ispiratori – alcune peculiarità: ad esempio rende pubblico l’elenco delle attività finanziate, è una banca cooperativa in cui i soci sono molto attivi ed esercitano un controllo reale sulle scelte degli amministratori, nel processo del credito associa l’istruttoria sul merito creditizio con la valutazione socio ambientale del richiedente, infine, in Banca Etica, la differenza tra la retribuzione massima e quella minima non può superare il rapporto 6 a 1.

Del gruppo Banca Etica fa parte Etica sgr, una società di gestione che investe esclusivamente in fondi selezionati sulla base di un centinaio di criteri molto rigorosi che ne misurano l’impatto sociale e ambientale, la governance, l’impegno contro la corruzione, ecc. I fondi di Etica non solo premiano aziende e stati virtuosi, ma hanno anche un rendimento molto elevato, a conferma del fatto che l’etica conviene sempre.

La Banca Etica agisce seguendo determinati criteri che rendono più etica e giusta l’attività bancaria, non si tratta di criteri irrealistici, anche altre banche potrebbero adottarli e questo sicuramente renderebbe il sistema più trasparente e meno rischioso per i risparmiatori.

Una cosa è sicura: chi deposita il proprio denaro in Banca Etica ha la certezza che servirà a migliorare la vita delle persone e a cambiare in meglio il nostro paese.

Sabina Siniscalchi

 




Europa unita


Un tempo i giovani vedevano l’Europa come portatrice di pace. Oggi l’Unione si associa a crisi, disoccupazione, respingimenti di migranti, paura. I populismi xenofobi guadagnano punti. Mentre l’Italia ha almeno il merito di puntare i piedi.

Per la mia generazione l’Europa unita era un bellissimo sogno, in grado di far battere il cuore. Guardavamo sereni al processo di unificazione, confidando in un avvenire di pace, cooperazione e sviluppo non solo per noi europei, ma per il mondo intero. A scuola e nelle università ci parlavano di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Konrad Adenauer, spiegandoci che il progetto di un’Europa forte e coesa era il frutto della loro grande statura politica e morale.

Nel corso degli anni questo sogno si è pian piano sgretolato sotto le rigide imposizioni del mercato, gli egoismi nazionali e lo strapotere delle tecnocrazie. Oggi nessun giovane sogna grazie all’Europa, anzi l’appartenenza europea suscita apprensione, è considerata, a ragione o a torto, la causa della disoccupazione e dell’impoverimento delle nuove generazioni.

Se si chiede a un giovane cosa rappresenti per lui l’Unione europea, la risposta più benevola è: burocrazia, eccesso di regole, costi esagerati, vertici inconcludenti. Ancora più triste sarebbe una risposta come: l’Europa è un giogo per i più deboli, un’inespugnabile fortezza per i poveri del mondo.

Non è una bella Europa quella che non apre le braccia a chi fugge dalla guerra e dalla miseria, che non si commuove di fronte alle migliaia di esseri umani che affogano nel Mediterraneo, che lascia soffrire di stenti e freddo chi si ammassa lungo i suoi confini.

Le idee e le parole che influenzano le scelte dei politici europei sono paura, minaccia, respingimenti, muri. Le stesse idee e parole che circolano tra la gente e ispirano il voto popolare più rozzo.

Ne consegue che l’accordo sulle quote, che pure riguarda numeri trascurabili – un totale di 160mila trasferimenti entro il 2017 – è bloccato da mesi, mentre l’Ue ha deciso di versare alla Turchia 3 miliardi di euro (e altri 3 nel 2018), perché si faccia carico dei migranti che essa non vuole, invischiandosi malamente con l’arrogante Recep Tayyp Erdogan che calpesta sistematicamente i diritti umani e viola le convenzioni inteazionali.

Si è creato un orribile circolo vizioso tra governanti e governati dove nessuno ha l’autorevolezza di proporre una visione differente.

Per questo ci ha favorevolmente colpito la presa di posizione di Matteo Renzi che, lo scorso novembre, ha posto il veto sul bilancio europeo, un gesto che, nella pratica, ha solo un effetto dimostrativo, ma riveste un alto significato politico: non vogliamo che si costruiscano muri con il denaro che l’Italia versa alla Ue.

Anche Emma Bonino, già stimata commissaria Ue e convinta europeista, ha predisposto una sorta di prontuario sull’immigrazione in cui sfata i falsi miti che alimentano sospetto e rifiuto.

Dimostra ad esempio che la cosiddetta invasione degli stranieri è un inganno: nell’Unione europea, su 510 milioni di residenti, solo il 7% è costituito da immigrati (35 milioni). La quota di stranieri varia notevolmente tra i paesi europei: il 10% in Spagna, il 9% in Germania, l’8% nel Regno Unito e in Italia, il 7% in Francia. Paradossalmente i paesi più ostili all’accoglienza degli immigrati sono quelli che ne hanno di meno: la Croazia, la Slovacchia e l’Ungheria, ad esempio, ne hanno circa l’1%.

Nel mondo ci sono 16 milioni di rifugiati, ma solo 1,3 milioni sono ospitati nei 28 paesi dell’Unione europea, meno del 10%. Nel mondo i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia (2,5 milioni), il Pakistan (1,6 milioni), il Libano (1,1 milioni) e la Giordania (664mila).

E ancora, in Europa solo il 5,8 per cento della popolazione è di religione islamica, mentre il terrorismo – che tuttavia ha ben poco a che fare con la vera religione – colpisce molto di più al di fuori dei confini europei: le nostre vittime rappresentano meno dell’1% del totale, perché le maggiori e continue stragi avvengono in Siria, Afghanistan, Iraq, Nigeria, Niger e Somalia, proprio nei paesi da cui fugge la maggioranza dei migranti.

Nel dibattito e nelle scelte europee sull’immigrazione, l’Italia si distingue per umanità e capacità, e sono in gran parte italiani i mezzi e il personale, civile e militare, di pattuglia nel Mediterraneo, dove soccorrono decine di migliaia di esseri umani stremati. Non diamo retta alle proteste sguaiate della minoranza xenofoba, che purtroppo esiste anche nel nostro paese, godiamoci l’orgoglio di essere cittadini di una nazione che incarna nei fatti i valori della civiltà europea.

Sabina Siniscalchi




Il paradiso non può attendere


Il meccanismo dell’elusione fiscale spesso non è illegale. Ma si basa su manipolazioni, società di comodo e corruzione. E soprattutto colpisce gli onesti e priva le casse pubbliche di denaro necessario a pagare i servizi essenziali per tutti.

Neppure la donna più potente del mondo sa come risolvere il problema, per questo ha chiesto aiuto a una Ong, così alla vigilia della conferenza internazionale contro la corruzione, che si è svolta a Londra lo scorso maggio, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, ha convocato Winny Byanyima, africana, presidente di Oxfam Inteational, per discutere del più grave e inestricabile nodo del sistema economico mondiale: i paradisi fiscali.

Si calcola che individui e imprese nascondano nei territori off shore qualcosa come 7.600 miliardi di dollari, che, secondo uno studio pubblicato dal quotidiano francese Le Monde, provengono per 2.600 miliardi dall’Europa, 1.200 dagli Stati Uniti, 300 dal Canada, 200 dalla Russia, 1.300 dall’Asia, 800 dai paesi del Golfo, 700 dall’America Latina e 500 dall’Africa. Denaro che sfugge, più o meno legalmente, alle imposizioni fiscali degli stati, ricchezza rubata alla collettività dei paesi, dove i profitti e i redditi sono creati anche grazie alle infrastrutture e ai servizi pagati dai cittadini onesti.

Basterebbe il 5 % di una tale somma per sfamare gli affamati, garantire un’istruzione a tutti i bambini del mondo, curare tutti i malati, assicurare un reddito alle donne, depurare suolo e acque inquinati, fornire energia anche ai luoghi più sperduti, insomma attuare quell’agenda per lo sviluppo che le Nazioni Unite invocano dall’inizio del Millennio.

Sono soprattutto le grandi imprese, consigliate da studi legali ricompensati profumatamente, che eludono il fisco attraverso varie pratiche: dichiarazioni dei redditi manipolate, creazione di società di comodo, adozione del trasfer pricing. Politiche queste, di trasferimento dei prezzi tra filiali e consociate con sede in paesi diversi, come le vendite di prodotti a prezzi inferiori nei paradisi fiscali e la successiva esportazione verso i paesi di destinazione a prezzi maggiorati.

In molti casi si ricorre alla corruzione dei funzionari pubblici e si comprano informazioni da politici compiacenti. Racconta il quotidiano The Guardian che l’impresa britannica Heritage Oli&Gas Ltd, che ha sostenuto la campagna elettorale di David Cameron, avvisata che l’Uganda stava per incrementare il prelievo fiscale sui profitti petroliferi si è precipitata a ridomiciliare la società nelle isole Mauritius, un paradiso fiscale che non ha sottoscritto con il governo ugandese l’accordo sulla doppia imposizione; con questa mossa astuta ha evitato di pagare 400 milioni di dollari in più, una cifra che corrisponde a quello che il governo dell’Uganda spende annualmente per la sanità.

Non siamo rimasti particolarmente scioccati dalla vicenda dei Panama Papers. Le informazioni diffuse dall’Inteational Consortium of Investigative Joualists, ribadiscono semplicemente che ci sono tanti furbi, più o meno famosi, nel mondo della politica, delle banche, delle imprese, dello sport e dello spettacolo che, per non pagare le tasse, trasferiscono i loro beni in paesi dal fisco inesistente o molto malleabile. Molti dei casi scoperti non sono illegali (è questo forse il vero scandalo), ciononostante l’elusione fiscale è davvero deleteria: colpisce i contribuenti onesti, crea svantaggi competitivi per le piccole e medie imprese e priva le casse pubbliche del denaro per pagare i servizi essenziali. La fuga dei capitali inoltre è particolarmente odiosa quando colpisce i paesi poveri: nei Panama Papers troviamo anche il nome di Aliko Fangote che, secondo la rivista Forbes, è l’uomo più ricco dell’intera Africa, grazie alle sue innumerevoli attività produttive e commerciali che lucrano sulle preziose materie prime africane. Da oltre trent’anni, da quando era al potere il presidente americano Ronald Reagan, ostile a qualsiasi regolamentazione, l’Ocse sta studiando il modo per arginare il fenomeno dei paradisi fiscali e ha redatto liste nere e grigie che comprendono oggi 38 paesi distribuiti nei vari continenti. Ne fanno parte piccole isole come Tonga e le Cayman, ma anche stati come il Delaware (Usa), che ha meno di 1 milione di abitanti ma ospita la sede legale di 1 milione e 100 mila società.

La Commissione europea ha cercato di introdurre dei meccanismi di trasparenza per impedire l’elusione fiscale da parte delle multinazionali. Lo scorso 12 aprile ha definito che solo le corporations con un fatturato annuo superiore ai 750 milioni di euro (rimangono escluse l’80% delle imprese) devono presentare una rendicontazione finanziaria paese per paese, e solo all’interno dei confini della Ue, in altre parole non saranno obbligate a raccontare nulla sui profitti maturati nei paesi extracomunitari.




Povertà disuguaglianze in aumento


Pochissimi ricchi possiedono sempre di più, mentre aumenta il numero dei poveri nel mondo. Le cause sono scelte fiscali inadatte e politiche salariali che acuiscono il divario. E la situazione continua a peggiorare.

Ormai ci sono più miliardari a Pechino che a New York, a riprova del fatto che la ricchezza sta crescendo anche in paesi che una volta erano considerati del «terzo mondo».

La ricchezza cresce, ma la povertà non diminuisce, anzi in certe aree del mondo, ad esempio in Europa, sta aumentando. Nel suo recente rapporto «L’economia per l’1%», l’Ong Oxfam calcola che 62 miliardari hanno una ricchezza pari a metà della popolazione mondiale, possiedono da soli quello che 3 miliardi e mezzo di esseri umani si devono spartire.

In Europa il club dei più ricchi è formato da 342 miliardari che hanno un patrimonio di 1.340 miliardi di dollari. E, sempre in Europa, dal 2009 al 2013, i poveri assoluti, vale a dire di coloro che non riescono a pagarsi le cure se si ammalano o a riscaldarsi d’inverno, sono cresciuti di 7,5 milioni, portando il numero a superare i 50 milioni. In Italia, la percentuale delle persone colpite dalla povertà è cresciuta dal 2005 al 2014 passando dal 6,4% all’11,5%. Si tratta soprattutto di bambini e ragazzi sotto i 18 anni.

Dell’incremento della ricchezza prodottosi dall’inizio del secolo, il 50% è rimasto nelle mani dell’1% della popolazione mondiale.

Dunque i ricchi si arricchiscono e tengono la loro ricchezza ben stretta senza diffondee i benefici, smentendo clamorosamente la teoria del trickle down (sgocciolio), che ha ispirato le politiche economiche liberiste che puntavano a favorire i soggetti più forti e dinamici che avrebbero fatto sgocciolare la loro ricchezza fino ai settori sociali più deboli e poveri.

Trent’anni di valutazioni e decisioni sbagliate in economia hanno prodotto un mondo fortemente ineguale, dove la crescita avvantaggia chi è già ricco.

La principale di queste scelte sbagliate riguarda le tasse, ovunque sono state promosse politiche fiscali regressive: più sei ricco, meno paghi. L’Italia non fa eccezione: i governi di centrodestra (più liberisti degli altri) hanno abolito la tassa di successione, mantenuto sotto la media europea il prelievo sulle rendite finanziarie, allentato i controlli contro l’evasione. Viviamo nel paese d’Europa con maggior carico fiscale, ma sono i lavoratori, i consumatori e le piccole imprese che ne sopportano il peso, infatti le aliquote sui redditi più alti si sono dimezzate dal 1980 ad oggi. Il compianto Luciano Gallino in «Finanzacapitalismo», uscito nel 2011, affermava: «Se un lavoratore ha un imponibile di 28mila euro (circa 1.500 ore di lavoro) paga 6.960 euro di tasse, invece chi ha un capitale depositato dello stesso importo e non muove un dito ne paga 5.600».

Il magnate Warren Buffet ha avuto l’ardire di riconoscere che lui paga meno tasse di tutti gli altri dipendenti della sua società, persino meno della sua segretaria o degli addetti alle pulizie.

Queste politiche distorte hanno bloccato quello che gli economisti chiamano «l’ascensore sociale»: chi nasce povero oggi ha più probabilità di rimanere povero rispetto a cinquanta anni fa.

Dice l’economista Joseph Stiglitz, tra i primi a denunciare il fenomeno della disuguaglianza e i suoi rischi: «La maggioranza dei cittadini ha la sensazione di giocare a un gioco dove le carte sono truccate, per questo abbandona il tavolo», in altre parole non confida nelle istituzioni, non va a votare, perde il rispetto per la classe politica incapace di porre rimedio al problema o peggio asservita ai gruppi più ricchi.

Chi non prova vergogna di fronte allo scandalo dell’ingiustizia sono le imprese multinazionali pronte a strapagare i loro manager, comprimere i salari e ridurre i posti di lavoro.

Oxfam India denuncia che il Ceo (in italiano, l’amministratore delegato), della più importante azienda informatica indiana guadagna 416 volte di più di un proprio impiegato. Anche in Italia non si scherza: le differenze salariali tra dipendenti e manager vanno da 1 a 163, secondo il rapporto Fisac Cgil del 2015 un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni e 326 mila euro all’anno, un dipendente porta a casa una media di 26 mila euro lordi annui.

Questo spiega perché anche in Italia le risorse si concentrano sempre di più nelle mani di pochi e l’1% della popolazione detiene il 23,4% di tutta la ricchezza prodotta nel nostro paese.

Sabina Siniscalchi

 




Laudato si’, per nostra madre terra

La nuova enciclica di
papa Francesco mette in relazione degrado ambientale e umano. Bacchetta i
politici incapaci a trovare risposte. E sprona la società civile nella sua
opera di monitoraggio e pressione. Un documento da leggere e mettere in
pratica.

C’è stato
un tempo in cui i movimenti per la difesa dell’ambiente e quelli per lo
sviluppo del «Terzo mondo» si guardavano con reciproca diffidenza: i primi allarmati
dall’impatto sul pianeta che avrebbe avuto l’eventuale crescita economica della
parte povera del mondo, i secondi insospettiti dall’eco che la questione
ambientale stava avendo sui media mondiali che invece rimanevano indifferenti
alla sorte di metà dell’umanità.

Poi è arrivato il Summit della Terra nel 1992 a Rio de
Janeiro, nel quale gli esperti, tanto capaci quanto disconosciuti, delle
Nazioni Unite, ci hanno fatto comprendere che la questione della povertà e
quella dell’ambiente sono inscindibili, che non si può affrontare l’una senza
tener conto dell’altra e che qualsiasi soluzione parziale è destinata al
fallimento.

Quello di Rio è stato un evento senza precedenti: vi
parteciparono 172 governi e 108 capi di stato, 2.400 rappresentanti di organizzazioni
non governative.

Anche in
termini di scelte politiche, il summit del ‘92 è stato un evento straordinario
che ha prodotto accordi come la Convenzione internazionale sulla Biodiversità,
l’Agenda 21 – una sorta di manuale sullo sviluppo sostenibile declinata a
livello territoriale dai governi locali -, la Convenzione sul cambiamento
climatico da cui è scaturito il Protocollo di Kyoto cinque anni dopo.

Ma, soprattutto, al vertice di Rio è stato messo in
discussione da tutti, rappresentanti politici e della società civile, il
modello di crescita economica senza limiti, basato sull’uso forsennato di
combustibili fossili, sull’industrializzazione a tappe forzate, sulla
produzione infinita di scorie e scarti.

Da
allora si sono fatti piccoli passi avanti nel passaggio alle energie
rinnovabili, nel riciclo e riuso dei rifiuti, nella decontaminazione delle
acque e dei terreni, ma ancora oggi si è troppo lontani da quel progetto di
nuovo modello di sviluppo che il summit della terra aveva delineato.

Purtroppo, con l’avvento della globalizzazione
economica, le relazioni tra paesi sono orientate esclusivamente agli interessi
commerciali, l’azione dei governi si è indebolita, perché la sottomissione
della politica alla finanza ha svuotato i luoghi del governo mondiale.

I vertici e le conferenze sull’ambiente che si sono
celebrati dopo Rio non hanno avuto lo stesso respiro planetario e non si sono
conclusi con agende altrettanto ambiziose.
Eppure i problemi ambientali sussistono, pressanti e drammatici, investono ogni
parte del mondo, basti pensare al cambiamento climatico, e si sommano
drammaticamente all’emergenza sociale che colpisce sia il Sud che il Nord del
mondo. «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non
potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo
attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale»
afferma papa Francesco nella sua Enciclica «Laudato si’». I politici sono
incapaci di trovare una risposta globale perché miopi e senza coraggio o,
peggio, perché si fanno condizionare dal potere economico, denuncia il
pontefice.

Per
questo «è lodevole l’impegno di organismi inteazionali e di organizzazioni
della società civile che sensibilizzano le popolazioni e cornoperano in modo
critico, anche utilizzando legittimi meccanismi di pressione, affinché ogni
governo adempia il proprio e non delegabile dovere di preservare l’ambiente e
le risorse naturali, senza vendersi a ambigui interessi locali o inteazionali».

Allora tocca a noi cittadini, prendere coscienza,
organizzarsi, fare pressione, tenendo sempre assieme la questione sociale:
giustizia, lavoro, difesa dei più deboli, accoglienza dei rifugiati, con la
difesa dell’ambiente.

Perché dobbiamo ascoltare «tanto il grido della terra
quanto il grido dei poveri». L’enciclica papale, lucida e profonda tocca tutti
i nodi irrisolti del nostro tempo, indica le soluzioni, ispira con la fede,
sprona chi governa, ammonisce chi comanda l’economia, conforta chi si impegna.

Un documento che non deve giacere nelle sacrestie, ma va
conosciuto e assimilato in ogni passaggio, per guidare le nostre scelte e le
nostre azioni.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Infanzia: sempre più a rischio?

400 milioni di bambini al mondo si trovano sotto la soglia
di povertà assoluta. E anche la crisi nei paesi ricchi ha conseguenze nefaste
sull’infanzia. Intanto gli Obiettivi del millennio arrancano. E in Italia cosa
succede?

L’immagine più
straziante del 2013 rimarrà quella delle piccole bare bianche, ognuna con un
orsacchiotto sopra, dei bambini annegati a Lampedusa.

Quanti
bambini muoiono nella fuga dalla povertà e dalle guerre non lo sapremo mai,
anche perché a volte non c’è traccia delle loro brevi esistenze negli elenchi
ufficiali.

Sappiamo
però quanti bambini vivono oggi nella miseria: secondo il rapporto «The state
of the poor» della Banca Mondiale, un terzo dei poveri del mondo sono minori,
400 milioni di bambini al di sotto dei 13 anni si trovano in uno stato di
povertà assoluta.

I
dati sul nostro paese sono altrettanto sconfortanti: in Italia un quarto dei
poveri assoluti sono minori. La povertà assoluta è, secondo la definizione
dell’Istat, «l’incapacità di acquisire i beni e i servizi necessari a
raggiungere uno standard di vita minimo accettabile».

Sempre
l’Istat ci segnala che in Italia nell’ultimo anno la povertà assoluta è
cresciuta del 29 per cento, ormai ci sono quasi 5 milioni di persone in stato
di grave indigenza, di cui oltre un milione sono bambini e ragazzi. L’Unicef e
tutte le agenzie specializzate sui problemi dell’infanzia concordano nel dire
che la povertà costituisce la principale causa di discriminazione di bambini e
adolescenti.

Per
questo suggeriscono di considerare il minore come titolare di un diritto alla
protezione di base, il che significa che se il bambino è in uno stato di
privazione a causa della condizione della sua famiglia, del suo gruppo sociale
o del luogo dove vive, le istituzioni pubbliche devono prendersene cura,
assicurandogli i diritti fondamentali e i servizi essenziali stabiliti dalla
Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia del 1989. Una Convenzione
che, si noti bene, tutti gli stati hanno ratificato, a parte Somalia e Stati
Uniti.

Ma
per troppe bambine e troppi bambini la Convenzione è come se non fosse mai
stata scritta.

La
situazione è così intollerabile che il presidente della Banca Mondiale, Jim
Yong King, nella conferenza di presentazione del rapporto sulla povertà, ha
avuto un moto di vergogna: «I bambini non dovrebbero essere così crudelmente
condannati a una vita senza speranza».

Grazie
all’impegno per gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio si sono fatti alcuni
progressi, ad esempio nel campo dell’educazione primaria in cui, tra il 1990 e
il 2010, il tasso di frequenza scolastica dei bambini nei paesi in via di
sviluppo è salito dal 60% al 79%.

Passi avanti sono stati compiuti anche per
combattere la mortalità infantile che negli ultimi vent’anni è stata dimezzata,
ma ancora oggi 12.000 bambini muoiono ogni giorno per malattie che si possono
prevenire e nell’Africa sub sahariana il tasso di abbandono scolastico,
specialmente delle bambine, è sempre elevatissimo.

Non
si sta facendo abbastanza. Finora gli obiettivi stabiliti non sono stati
raggiunti non perché siano troppo ambiziosi o tecnicamente inarrivabili, ma a
causa di misure inadeguate e investimenti insufficienti. Investimenti che si
sono drasticamente ridotti anche nei paesi colpiti dalla crisi, dimenticando
che il benessere di una famiglia e di una comunità dipendono dalla qualità dei
servizi disponibili e che la riduzione della spesa per scuole, presidi
sanitari, mense e altre forme di sostegno sociale, accresce il disagio dei
bambini.

In
Italia,
un esempio che ci tocca da vicino, dal 2008 la spesa per assegni
famigliari è stata ridotta, è stato azzerato il fondo per l’inclusione degli
immigrati e sospeso il contributo per l’alloggio ai nuclei famigliari da parte
di quasi tutti i comuni. Queste scelte, di cui sono responsabili i vari governi
che si sono succeduti nel nostro paese dallo scoppio della crisi a oggi, hanno
pesanti ripercussioni sulla sorte dei minori. Anche l’aumento della disoccupazione
si riflette su di loro, se i genitori perdono il lavoro, aumenta per i figli il
rischio dell’abbandono scolastico e, nelle situazioni di marginalità sociale,
quello del lavoro minorile.

Secondo
un recente studio della Fondazione Trentin e della Ong Save
The Children, in Italia ci sono 260 mila minori che lavorano,
un lavoro che si svolge prevalentemente in imprese famigliari, agricole,
dell’allevamento, della ristorazione, ma che per 30 mila  ragazzi fra i 14 e i 15 anni è svolto in
condizioni pericolose e di sfruttamento.

Le
vittime sono ragazze, provenienti dall’Est Europa o dalla Nigeria, sfruttate
nella prostituzione o ragazzi egiziani e cinesi sfruttati in attività
produttive, mentre fenomeni di tratta riguardano minori di origine Rom, coinvolti
in circuiti di accattonaggio e attività illegali.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Expo, quale eredità?


Una vetrina anche per grandi imprese che violano il motto «Nutrire il pianeta». Ma sono stati trattati temi importanti: sradicamento della povertà, riduzione degli squilibri, tutela della biodiversità, eliminazione degli sprechi. Un’esperienza collettiva che ha fatto superare l’individualismo. Bilancio dall’interno.

L’impressione condivisa è che a Expo sia passata la «meglio umanità», eterogenea, composta da tante diverse provenienze: nazionali, culturali, sociali, generazionali, ma ugualmente entusiasta, generosa, desiderosa di conoscere, a dispetto di chi la vorrebbe omologata e indifferente.

Il nostro presidente del consiglio ha definito Expo una grande vetrina delle eccellenze economiche.

Una vetrina controversa, diciamo noi, che ha visto la presenza positiva di piccoli agricoltori, cornoperative e consorzi, ma anche quella di grandi imprese che con il loro operato violano ogni giorno la massima «Nutrire il pianeta, energia per la vita».

Sotto questo profilo si poteva fare di più, conformare l’esposizione di Milano a criteri etici in modo da consentire solo la presenza di imprese che adottano comportamenti rispettosi dell’ambiente, dei diritti dei lavoratori e della legalità.

Un valido esempio viene dalla Cascina Triulza, il padiglione della società civile, che ha adottato una Carta dei Valori, selezionando le presenze e le sponsorizzazioni in modo coerente con i contenuti e la missione delle centinaia di organizzazioni sociali e ambientali che lo hanno animato.

Ma al di là degli aspetti commerciali, che pure sono connaturati a un’esposizione universale, l’Expo di Milano, in virtù del tema scelto e grazie alla vivace partecipazione di tanti paesi e culture, è stata anche una straordinaria esperienza. Visitare Expo ci ha aiutati a capire che il mondo non finisce sull’uscio delle nostre case, che è pieno di sfide, ma anche di luoghi e persone meravigliosi.

Sarebbe un errore credere che l’esposizione di Milano abbia sottaciuto e fatto dimenticare i problemi del nostro tempo: numerosi padiglioni e tantissimi eventi hanno riguardato temi di impellente attualità, come lo sradicamento della povertà, la riduzione degli squilibri, l’eliminazione degli sprechi, la tutela delle biodiversità, l’accoglienza verso chi fugge da guerre e disastri ambientali.

Questioni drammatiche di fronte alle quali spesso ci si sente impotenti e soli. L’esposizione di Milano è stata un’esperienza collettiva che ha fatto superare, sia pure per un periodo e in un contesto particolari, l’individualismo che ci paralizza e ci rende cinici.

A Expo si è respirata un’atmosfera diversa dal solito, un miscuglio di fiducia, calore umano e speranza.

Chi ha liquidato Expo come un grande luna park non ha voluto andare a fondo, superare la crosta del folklore per capie le qualità più autentiche: la contaminazione tra le diversità e la comunanza tra le persone.

Tuttavia questi sentimenti non bastano a cambiare le cose, la responsabilità ritorna a noi, individui e organizzazioni impegnati per un nuovo modello di sviluppo, i nostri messaggi e le nostre proposte hanno raggiunto, grazie a Expo, milioni di cittadini di ogni parte del mondo, dobbiamo valorizzare questo patrimonio, non disperdere il consenso che si è formato attorno alle nostre idee. Questa è la ragione che ha spinto oltre sessanta organizzazioni del terzo settore ad allestire e gestire il padiglione della società civile Cascina Triulza e questo è il compito che Expo ci consegna.

Oltre all’eredità materiale di un immobile di grandi dimensioni, ci rimane un lascito immateriale: continuare nel nostro impegno, coagulando attorno agli stessi obiettivi realtà che mai in passato hanno avuto l’opportunità di lavorare insieme.

Quale sarà il ruolo di Cascina in futuro è stato comunicato in un’affollata conferenza stampa lo scorso ottobre: continuare a fare da collante tra i cittadini e il mondo istituzionale affinché i decisori accolgano le istanze di cambiamento che arrivano dal basso, essere un ponte tra i progetti di inclusione sociale e le imprese che valorizzano le risorse umane e ambientali; rimettere in circolo i beni che Expo ha accumulato per evitare sprechi e scarti; rilanciare i progetti migliori nel campo dell’educazione, della multiculturalità, della formazione e della cooperazione.

Tutto questo in uno spirito di assoluta autonomia dai poteri e dai condizionamenti politici, perché, come ci ha esortato il presidente emerito dell’Uruguay Pepe Muijca, in visita a Cascina il 21 settembre, dobbiamo rimanere «liberi di parlare e denunciare» le storture di un mondo che, dopo Expo, tutti sanno che deve essere cambiato.

Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Cibo: bisogno di tutti, monopolio di pochi

Un pugno di
multinazionali controlla il 70% dei semi. E quattro gestiscono il 90% della
distribuzione di alimenti. Sono loro che decidono cosa mangiamo. Le risorse per
produrre cibo – terra, acqua, capitali – sono sempre più appannaggio di pochi.

 

All’Expo di
Milano, ci sono tutti: Capi di stato, governi, istituzioni inteazionali,
imprese e organizzazioni della società civile. Davanti a milioni di visitatori
ammaliati, discutono di questioni alimentari e si sforzano di dimostrare, con
le parole e con la pratica, come si può nutrire il pianeta, rigenerando la
vita.

Di
fronte a tanta energia positiva, a tanto impegno e competenze, viene spontaneo
chiedersi perché non ci si è pensato prima, perché bisognava organizzare
un’esposizione universale per trattare di un tema che è al centro della
sopravvivenza umana?

Era
proprio necessario organizzare un evento così grande, con investimenti così
ingenti e con gli strascichi di malversazioni che lo hanno accompagnato, specie
all’inizio, quando i controlli non erano stati ancora attivati? Non ci si
poteva sedere attorno a un tavolo e trovare le soluzioni? Non sarebbe stato
meglio mettere in pratica le raccomandazioni e i piani di azione che negli anni
le agenzie dell’Onu specializzate, la Fao, il Programma alimentare mondiale e
Ifad, hanno messo a punto in decine di conferenze, ricerche e documenti?

Da
tempo si poteva agire per sottrarre alla fame 840 milioni di persone che ancora
ne soffrono, e salvare dalla malnutrizione i 161 milioni di bambini che ne sono
colpiti.

Semplicemente perché viviamo in un mondo complesso
e sbagliato dove chi è povero e debole non riesce a far sentire la sua voce, né
a influenzare le scelte politiche ed economiche.

Per
questo ci voleva l’Expo, perché le persone comuni, i consumatori, i giovani
capissero e dicessero: basta, facciamo qualcosa!

Perché
fosse chiaro quello che il Mahatma Gandhi intuiva quasi cento anni fa: «La
terra produce abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, non l’avidità di
pochi».

Tutti
gli abitanti del pianeta potrebbero ricevere una nutrizione sufficiente e di
qualità se ci fosse un po’ di giustizia in più, se si mettesse un freno al
monopolio delle risorse necessarie per produrre e distribuire il cibo: terra,
acqua, capitali.

Oggi
queste risorse sono concentrate nelle mani di poche grandi imprese: sette
multinazionali controllano il 70 per cento del mercato dei semi, dieci si
spartiscono le foiture di pesticidi, nel mercato dei cereali 9 transazioni su
10 sono controllate da quattro corporations. I grandi marchi che dominano la distribuzione sono una
decina: Nestlè, Kraft, Unilever, Pepsi, Mars, Danone, Kellodg’s, General Mill,
Coca Cola.

Sono
loro che decidono cosa dobbiamo mangiare: cibo sano che ci mantiene in salute o
cibo spazzatura che aumenta il rischio di malattie.

Sempre
loro indirizzano la ricerca scientifica nel settore alimentare, per la quale è
più profittevole studiare ortaggi a lenta maturazione per rifornire le tavole
del mondo ricco piuttosto che piante resistenti alla siccità per nutrire le
popolazioni dell’Africa saheliana.

Sono
le grandi imprese dell’agroindustria che, per garantirsi i profitti futuri, si
accaparrano le terre e le fonti d’acqua comprandole da governi irresponsabili e
corrotti in paesi dove i poveri sono sempre di più e contano sempre meno.

Queste
imprese sono venute all’Expo di Milano a mostrare le loro strabilianti
innovazioni e le loro merci evolute con l’obiettivo di tenere alta la propria
reputazione. Sanno, infatti, che la riprovazione pubblica e la condanna morale
danneggiano i buoni affari.

Fortunatamente
la denuncia delle loro responsabilità non rimane più circoscritta a pochi
ostinati, a livello politico e tra i cittadini si sta diffondendo l’idea che il
loro comportamento va tenuto sotto controllo.

L’Ocse
e l’Onu hanno promosso le «Linee guida» per le imprese in materia di ambiente e
impatto sociale. L’anno scorso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni
Unite ha approvato un’importante risoluzione per la quale si arriverà ad
adottare uno strumento legalmente vincolante, che potrà sanzionare le imprese
colpevoli di violazioni dei diritti umani.

Alcune
Ong hanno attivato sistemi di monitoraggio in numerosi paesi del mondo ed
esiste una piattaforma creata dal Center for Business and Human Rights, un ente
non profit che ha sede a New York, consultabile dai consumatori per valutare le
politiche e la condotta delle imprese dal punto di vista sociale e ambientale.

Come
visitatori e come organizzazioni sociali siamo presenti a Expo anche per
questo, per dire alle grandi imprese che il loro gioco non ci piace e che
vogliamo cambiare le regole.

Sabina Siniscalchi




Le donne in prima fila

Diritto al cibo:Le donne, in
qualsiasi parte del mondo, sono le nutrici dell’umanità. Hanno il senso del
bene comune e del futuro. Nelle aree povere sono il primo argine contro la
fame. Nei paesi ricchi sono abili contro gli sprechi. Anche all’Expò se ne
parlerà.

Una delle tante contraddizioni che segnano il
nostro mondo riguarda la relazione tra popolazione femminile e alimentazione.
Ovunque le donne coltivano, cucinano, somministrano il cibo, ma sono proprio
loro, assieme ai bambini, che più soffrono di fame e malnutrizione.

La condizione di povertà, subalteità economica,
emarginazione sociale e, talvolta, di sfruttamento in cui vivono milioni di
donne si riflette sul loro stato nutrizionale. Le bambine che vivono nelle aree
rurali povere, vengono nutrite di meno rispetto ai loro coetanei maschi, anche
se sono loro che aiutano le madri a preparare il cibo e a procurare l’acqua che
serve a dissetare la famiglia.

Gli studi dell’Ifad (il Fondo internazionale per lo
sviluppo agricolo delle Nazioni unite) dimostrano che negli ultimi venti anni
la partecipazione delle donne al lavoro agricolo – anche a causa dei conflitti
e delle migrazioni maschili – è aumentata di un terzo.

In
Africa il 30% delle piccole attività agricole è condotto da donne che producono
l’80% del cibo per auto consumo, ma non hanno titoli di proprietà, né hanno
accesso al credito e alla formazione.

Combattere la fame, assicurare il diritto universale a
un’alimentazione sana e sufficiente passa dal superamento della disuguaglianza
di genere.

Queste sono le ragioni per cui l’Expò di Milano,
che si intitola «Nutrire il pianeta, energia per la vita», intende riconoscere
un particolare rilievo al nesso tra donne e nutrizione.

Il
tema sarà trasversale ai vari eventi e momenti: se ne occuperanno le
organizzazioni della società civile, presenti nel padiglione Cascina Triulza.
Verrà affrontato dalle istituzioni inteazionali, in particolare dalle agenzie
dell’Onu dedicate. Verrà incluso nelle iniziative promosse dai governi, in
primis quello italiano. Allo scopo il ministero degli Affari esteri (Mae) ha
lanciato, già nel 2013 a Torino, We Expo (Women for Expo), un progetto
che mira a tenere accesi i riflettori sulla condizione femminile, arricchendo
il dibattito, ma anche avanzando proposte che possano essere tradotte in azioni
concrete. In un documento del Mae si legge: «chiediamo di rafforzare il potere
delle donne in agricoltura, attraverso l’impiego di tecnologie che rendano meno
usurante il lavoro, assicurando loro pari accesso alla proprietà della terra,
al credito, alla formazione e ai servizi nelle aree rurali, nel caso di lavoro
salariato garantendo loro le stesse paghe degli uomini, applicando norme e
tutele che le proteggano dalla violenza e dallo sfruttamento, garantendo la
loro educazione sia primaria che professionale».

We Expo si propone come uno strumento culturale che
interpella decine di donne chiedendo loro di raccontare un piatto o un alimento
che ha un particolare valore; così donne di paesi, culture, professione, età
diverse stanno mobilitandosi attorno alle grandi questioni al centro
dell’agenda di Milano, attraverso un loro personale racconto di vita. Tra di esse alcune famose come Shirin Ebadi,
l’avvocata iraniana Nobel per la Pace e Vandana Shiva, l’ambientalista indiana
che si oppone alle multinazionali dell’agro industria, la scrittrice Simonetta
Agnello Hoby e l’attrice Lella Costa.

Tutte
si esprimono sul nutrimento, non solo del corpo, ma anche della libertà e della
mente, dimostrando come la sostenibilità del pianeta passi attraverso lo
sguardo, l’intelligenza e le mani delle donne.

Le donne possono realizzare un modo diverso di produrre
e distribuire il cibo, perché fa parte della loro natura considerare il cibo
non tanto una merce o un prodotto, quanto la fonte della vita, per questo se ne
preoccupano in prima persona. Indipendentemente dalla loro estrazione sociale,
culturale, religiosa, le donne sono nutrici, foiscono il cibo alle persone
che vivono loro accanto. Hanno il senso del bene comune e del futuro, sanno
che, per poter continuare a vivere, bisogna aver cura degli altri: dei propri
famigliari, ma anche della comunità, del territorio, delle risorse naturali,
delle generazioni future.

Nelle
aree povere del mondo, dove il cibo scarseggia, l’azione delle donne è il primo
argine, il vero baluardo contro la fame dei più deboli, per questo dovrebbero
essere loro le prime destinatarie degli aiuti.

Nei
paesi ricchi, le donne possono essere le abili avversarie degli sprechi
alimentari, ingiustificati e inaccettabili: in un mondo dove 800 milioni di
persone soffrono di fame cronica un terzo di tutto il cibo, circa 1,3 miliardi
di tonnellate l’anno, viene sprecato o va perso.

Tags: Donne, lavoro, alimentazione, cibo

Sabina Siniscalchi