Mondo, fabbrica di disuguaglianze


Un tempo le disuguaglianze interessavano soprattutto le classi sociali, oggi riguardano anche le nazioni. Allora si riferivano soltanto a reddito e patrimonio, oggi includono anche alcuni parametri ecologici. Con una certezza: i ricchi sono inviolabili. Sempre e ovunque.

L’uguaglianza è una delle aspirazioni più antiche dell’umanità, ma a giudicare da come stanno andando le cose, abbiamo ancora molta strada da fare. L’8 dicembre scorso, a firma del World inequality lab, è uscito il Rapporto 2022 sulle disuguaglianze mondiali e le notizie non sono incoraggianti. Il rapporto certifica che le disuguaglianze vanno crescendo a tutti i livelli. Un tempo ci si limitava ad analizzare le differenze esistenti nella distribuzione del reddito e del patrimonio, con l’esplodere della crisi ambientale si dedica molta attenzione anche alle disparità esistenti nell’ambito dell’impronta di carbonio e, più in generale, di quella ecologica.

Le disuguaglianze non parlano direttamente della condizione delle persone, quanto delle differenze che esistono fra loro.  Quando i mondi erano chiusi, i raffronti avevano senso solo all’interno delle singole realtà territoriali. Nei tempi antichi avremmo potuto studiare le differenze esistenti all’interno dell’impero egizio, dell’impero babilonese, dell’Impero Romano, o di quello di Carlo Magno. Raffronti allargati non avrebbero avuto molto senso perché le realtà sociali e geografiche erano poco comunicanti tra loro.

Nord e Sud

A partire dal 1500, l’Europa iniziò però ad andare alla conquista del resto del mondo per appropriarsi delle sue ricchezze. In un primo tempo, lo fece per servire le necessità belliche dei propri sovrani, poi quelle economiche delle proprie imprese. In quell’epoca accanto alle differenze tra classi, iniziarono anche quelle tra le nazioni.

Sul finire della Seconda guerra mondiale, quando la struttura coloniale era ancora in piedi, il mondo era formato da una ristretta cerchia di paesi localizzati nel Nord, con una buona capacità produttiva e tecnologica, che convivevano con una massa di paesi del Sud senza alcun tipo di infrastruttura e di capacità produttiva se non quella agricola e mineraria al servizio delle esigenze economiche del Nord del mondo.

Benché si vadano restringendo, le differenze costruite in quel tempo sono ancora ben visibili a livello di produzione e consumi. Basti dire che il Nord del mondo, che ospita appena il 16% della popolazione complessiva, assorbe tutt’ora il 38% di tutta l’energia impiegata a livello mondiale.

Volti della diseguaglianza. Foto Leroy Skalstad – Pixabay.

Il reddito pro capite

Volendo, invece, fare una fotografia più particolareggiata del livello di ricchezza raggiunto da ogni paese, ha senso utilizzare come parametro il reddito pro capite, che si ottiene dividendo la ricchezza annuale prodotta per il numero di abitanti presenti nel paese. Un esercizio matematico che, pur non essendo di alcun aiuto per conoscere la reale distribuzione della ricchezza, dà un’idea di massima della ricchezza disponibile in rapporto alla popolazione. Da questo punto di vista, la Banca mondiale divide il mondo in quattro gruppi: paesi a basso reddito, a reddito medio basso, a reddito medio alto, a reddito elevato.

Al primo gruppo, anche detto Quarto mondo, appartengono i paesi con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno. In tutto 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale. All’ultimo gruppo, anche detto Primo mondo, appartengono i paesi con reddito pro capite superiore a 12.696 dollari. In tutto 77 nazioni localizzate principalmente in Europa e Nord America, con una popolazione complessiva di 1,2 miliardi di persone corrispondenti al 16% della popolazione mondiale. Ai due estremi il Burundi con meno di 800 dollari pro capite all’anno e il Lussemburgo che supera i 122.000 dollari pro capite all’anno.

Tutto ciò indica quanto sia ancora profonda la ferita inflitta dal colonialismo al Sud del mondo e quanto pesi ancora sulla incapacità di molti paesi di rimettersi in piedi da un punto di vista   economico, umano e sociale. Anche perché, a un certo punto, è finito il colonialismo inteso come occupazione straniera, ma non è finito il dominio economico che, anzi, si è riorganizzato attorno a nuove alleanze che hanno portato all’emergere di una inedita classe mondiale comprendente super ricchi di ogni nazionalità.

La ricchezza

Per ragioni di tipo metodologico, il rapporto del World inequality lab ha preferito depurare la popolazione mondiale dei bambini in modo da concentrarsi solo sugli adulti stimati in 5,1 miliardi. Ha poi stabilito che, in base alle condizioni di vita, la popolazione può essere suddivisa in tre fasce d’appartenenza: la classe povera, quella media e la ricca.

La classe povera corrisponde al 50% del totale (2,5 miliardi di adulti), quella media al 40% (2 miliardi) e quella ricca al 10% (517 milioni). Il rapporto segnala come è distribuita la ricchezza fra i tre gruppi precisando che la ricchezza ha due facce: quella del reddito e quella del patrimonio.

Il reddito si riferisce agli introiti incassati tramite il lavoro o i profitti in un certo periodo di tempo. Il patrimonio si riferisce a tutto ciò che si è accumulato nel tempo sotto forma di beni durevoli (case, auto, elettrodomestici) e di valori finanziari. Nel 2021, il reddito complessivo, a livello mondiale, è stato calcolato in 86mila miliardi di euro, di cui solo l’8% è stato goduto dal 50% più povero. La quota più alta è stata goduta dal 10% più ricco che ha intascato il 52% del reddito complessivo. E il brutto è che, nel corso del tempo, la situazione è addirittura peggiorata. Considerato che, nel 1820, il 10% più ricco si appropriava del 50% del reddito prodotto a livello mondiale e il 50% più povero intascava il 14%, se ne conclude che, nel 1820, il reddito del 10% più ricco era 18 volte più alto del 50% più povero, oggi è salito a 38 volte. Disparità che si riflettono anche rispetto al patrimonio. Nel 2021 il patrimonio privato complessivo ammontava a 377mila miliardi di euro ed era distribuito in maniera ancora più iniqua del reddito: solo il 2% risultava di proprietà del 50% più povero, mentre il 10% più ricco possedeva il 76% di tutto il patrimonio esistente.

Se vogliamo, la situazione è ancora peggiore perché, nella classe ricca, c’è una casta ristretta, corrispondente all’1% di tutti gli adulti, che da sola si appropria del 19% del reddito mondiale. E se concentriamo l’attenzione sul patrimonio, scopriamo che appena 56,2 milioni di adulti possiedono il 45,8% di tutto il patrimonio privato, qualcosa come 3,4 milioni di dollari a testa.

L’inquinamento dei ricchi e quello dei poveri

Disparità che si riflettono anche nei livelli di inquinamento: il 10% più ricco è responsabile del 49% delle emissioni di anidride carbonica, con l’1% più ricco che contribuisce da solo al 15%. Per contro il 50% più povero è responsabile solo del 7%.

Le statistiche non dicono quale sia la nazionalità degli appartenenti al 50% più povero, ma considerato che il loro reddito medio si aggira sui 2.700 euro all’anno è probabile che risiedano quasi totalmente nei paesi del Sud del mondo. Invece, conosciamo la nazionalità dell’1% più ricco, i famosi 56,2 milioni di adulti che siedono all’apice della «piramide della ricchezza». Ce la rivela il Credit Suisse col suo Global wealth report. Come c’era da aspettarsi, la fetta più ampia di super ricchi ha un passaporto statunitense (39%), seguita da quelli con un passaporto europeo (31%), precisando che quelli di nazionalità italiana sono 1.480, pari al 3% del totale mondiale. Un tempo al terzo posto venivano quelli di nazionalità giapponese, ma ora sono stati sorpassati da quelli di nazionalità cinese che rappresentano il 9% del totale. Fra le altre nazionalità, oltre a quella canadese, sudcoreana, taiwanese, compaiono quella russa, indiana, brasiliana, messicana, saudita.

Se abbandoniamo il livello mondiale e scendiamo nel dettaglio delle singole nazioni, troviamo che il paese più iniquo, fra quelli con dati disponibili, è il Sudafrica dove il 10% più ricco si appropria del 66,5% del reddito prodotto e detiene l’86% del patrimonio privato. In questo paese la ricchezza detenuta dal 50% più povero ha addirittura segno negativo, indice del fatto che i poveri possiedono solo debiti.

Il paese più equo, invece, sarebbe la Slovacchia dove il 10% più ricco assorbe il 28% del reddito prodotto e detiene il 43% del patrimonio privato. Su valori simili si trova anche l’Italia dove il 10% più ricco si prende il 32% del reddito prodotto e detiene il 48% del patrimonio privato.

Fra le ragioni per cui le disuguaglianze continuano a crescere, due meritano particolare menzione: la globalizzazione selvaggia e una politica fiscale accomodante con i ricchi.

Volti della diseguaglianza. Foto Leroy Skalstad – Pixabay.

Lo stato a difesa dei redditi dei ricchi

Uno degli effetti della globalizzazione è stata la riscrittura della geografia mondiale del lavoro. Libere di spostare la produzione dove il lavoro costa meno, molte imprese hanno chiuso i loro stabilimenti nel vecchio mondo industrializzato per rifornirsi presso contoterzisti sorti come funghi in Cina, India, Bangladesh, Indonesia.

Ad un tratto tutti i lavoratori del mondo si sono ritrovati uno contro l’altro: quelli italiani contro quelli polacchi, quelli spagnoli contro quelli bengalesi, tutti pronti a vendersi per un salario più basso in modo da conquistare il lavoro tanto agognato. Ed è successo che la quota di prodotto nazionale lordo andato ai salari si è ridotta ovunque. Mediamente a livello mondiale è diminuita del 9% passando dal 72%, nel 1982, al 63%, nel 2017.

L’Italia rispecchia esattamente questa media. L’iniquità distributiva poteva essere compensata dall’intervento riequilibratore degli stati tramite il sistema fiscale. Ma – ahinoi – anche su questo piano da anni assistiamo a scelte che tendono a favorire i ricchi. Lo testimoniano la riduzione delle aliquote sugli alti redditi, l’abbattimento delle tasse di successione, la mancata introduzione di una seria imposta sul patrimonio. E l’Italia non fa eccezione. Basti dire che l’ultima legge di bilancio riduce ulteriormente le aliquote sull’Irpef, l’imposta sulle persone fisiche, che da cinque passano a quattro, dove la prima rimane ferma al 23% per i redditi fino a 15mila euro e l’ultima rimane ferma al 43%. La riforma è stata presentata come una scelta di equità perché la tassazione del 43% è stata abbassata a 50mila euro, mentre prima si applicava oltre i 75mila euro. Ma il vero scandalo non sanato è che chi guadagna centinaia di migliaia di euro all’anno paga come chi guadagna 50mila euro. Non così nel 1974, quando l’imposta sulle persone fisiche fece la sua prima comparsa. A quel tempo gli scaglioni erano 32, con l’ultimo al 72% sui redditi oltre 258mila euro. Somma che, rapportata ai prezzi di oggi, corrisponde a 3,3 milioni di euro. Redditi da capogiro che ben pochi raggiungono. Eppure, nessuno vuole toccarli. Per adulazione? Per calcolo politico? Per paura di ritorsioni? Forse per tutto un po’, ma di certo c’è che oltre ad acuire le disuguaglianze, l’inviolabilità dei ricchi priva le casse pubbliche di introiti importanti che rendono i governi sempre più deboli e incapaci di garantire i servizi richiesti da una società moderna.

Lo stato e la vendita dei beni comuni

Questa situazione di penuria genera anche un altro fenomeno: lo spogliamento degli stati di ogni tipo di proprietà, perché la necessità di far cassa li induce a vendere tutto ciò che è bene comune: strade, edifici, terreni, attività produttive. Nei primi anni Ottanta, i governi dei paesi occidentali possedevano fra il 15 e il 30% della ricchezza complessiva presente nei loro paesi, oggi molti di loro registrano una quota pari allo 0%. In alcune nazioni il capitale pubblico è addirittura negativo perché i debiti superano il valore delle proprietà pubbliche. Il nuovo rapporto sulle disuguaglianze documenta che in questa situazione si trovano Stati Uniti e Gran Bretagna, ma forse anche l’Italia considerato che il nostro debito pubblico supera il 150% del Pil.

Tutto questo, però, non è frutto della malvagità della natura, ma della volontà umana. Per cui può essere cambiato, se ciascuno di noi lo vuole. E lo vorremo nella misura in cui rafforzeremo le nostre convinzioni morali e la nostra volontà di partecipazione.

Francesco Gesualdi

 




Ucraina, tempo di deporre le armi


L’aggressione della Russia all’Ucraina rientra nella prassi delle grandi potenze. In questo caso, a causa del pericolo nucleare, la situazione è ancora più rischiosa. La domanda da porsi è la seguente: è possibile difendersi da arroganza, soprusi e violenza senza ricorrere alle armi?

L’aggressione contro l’Ucraina da parte della Russia di Putin è l’ennesimo esempio di come le grandi potenze si sentano autorizzate a utilizzare la forza delle armi ogni volta che non trovano altro modo per imporre la propria volontà. Per quanto riguarda la Russia, era già successo negli anni passati con l’aggressione alla Cecenia (1999-2009) e alla Georgia (2008). Per quanto invece riguarda l’Occidente, possiamo citare l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan. Ovviamente una giustificazione è fornita sempre, possibilmente nobile. Ad esempio: la difesa della libertà, l’esportazione della democrazia, la liberazione delle donne. E, naturalmente, la sicurezza, ragione principe invocata anche dalla Russia per giustificare l’invasione dell’Ucraina.

Crimea e Donbass

Fino al 1991, l’Ucraina era una delle Repubbliche dell’Unione Sovietica. Poi, quando l’Urss si disgregò, divenne una nazione indipendente, al pari della Russia. Con una popolazione di 44 milioni di persone, il 70% dei residenti in Ucraina parla ucraino, l’altro 30% russo, porzione collocata soprattutto nella parte meridionale e orientale del paese, in particolare nelle regioni della Crimea e del Donbass. Da vari anni in queste regioni si erano sviluppati movimenti separatisti, che, nel 2014, diedero alla Russia il pretesto per invadere e annettersi la prima. E non è un caso se, nel febbraio 2022, l’invasione dell’Ucraina è cominciata proprio con l’invio di truppe in Donbass, dove, va detto, il conflitto che dura da oltre un lustro ha già provocato all’incirca 14mila vittime da ambedue le parti, le milizie filo russe e l’esercito ucraino.

La Crimea venne occupata sostenendo che lo chiedeva la popolazione locale. In realtà interessava alla Russia per la sua posizione strategica: affacciata sul Mar Nero, essa permette alle fregate russe di raggiungere il Mediterraneo attraverso il Bosforo e lo stretto dei Dardanelli. Ma l’invasione avvenne nel febbraio 2014, una data che, collegata ad altri eventi, mostra come l’annessione della Crimea avesse anche un altro scopo, al tempo stesso punitivo e intimidatorio. Da tempo fra Ucraina e Unione europea erano in corso trattative per stipulare un accordo di libero scambio (in vista di una piena adesione all’Ue), ma quando arrivò il tempo della firma, nel novembre 2013, il presidente in carica, Viktor Janukovyč, si rifiutò di farlo. Immediatamente nel paese si svilupparono vaste proteste represse nel sangue dalla polizia ucraina. Esse, però, alla fine ebbero come risultato la fuga e la messa in stato di accusa di Janukovyč. Le proteste popolari mostrarono chiaramente che una larga fetta della popolazione voleva e vuole un processo di avvicinamento all’Unione europea, ma questo alla Russia non è mai piaciuto. E qui sta il vero nodo del contendere: la Russia non tollera di avere un paese confinante deciso ad orbitare attorno a un altro centro gravitazionale. Non lo tollera per ragioni economiche e per ragioni militari.

Ucraina e Unione Europea

Come c’era da aspettarsi, nella fase iniziale di spezzettamento dell’Unione Sovietica, le relazioni economiche dell’Ucraina erano principalmente con Mosca. Tuttavia, un po’ alla volta, la Russia è stata sostituita con l’Unione europea che, oggi, assorbe il 43% delle esportazioni ucraine e contribuisce al 41% delle sue importazioni. I settori forti dell’economia ucraina sono la siderurgia, l’agricoltura, il settore minerario. Settori che la rendono importante perfino a livello mondiale. In campo agricolo, ad esempio, l’Ucraina è il primo esportatore mondiale di olio di girasole, il terzo produttore al mondo di patate e il quinto esportatore di grano. In ambito minerario è il primo paese europeo per riserve di uranio, il secondo paese del mondo per riserve di ferro, l’ottavo al mondo per riserve di carbone, minerale tornato tristemente in auge.

L’Ucraina svolge un ruolo importante anche come paese di transito del gas russo. Ruolo che tuttavia si è andato attenuando da quando nel 2012 è entrato in funzione il Nord Stream, il gasdotto che porta il gas direttamente in Germania passando per il Mar Baltico. Tant’è che oggi solo il 30% del gas russo diretto all’Europa passa per l’Ucraina, con danno evidente per l’economia del paese che si vede ridurre gli introiti per questo servizio. Pur con questo neo, nell’ultimo decennio l’economia ucraina è cresciuta costantemente. Con i suoi 44 milioni di consumatori, molti servizi pubblici privatizzabili, abbondanza di terre agricole, vasti giacimenti da sfruttare, l’Ucraina esercita un forte appeal sull’Unione europea che, pur di averla come 28° membro, ha anche deciso di spenderci. Dal 2014 a oggi, l’Unione europea ha sborsato all’Ucraina 17 miliardi di euro, parte a fondo perduto, parte sotto forma di prestiti, per consentirle di portare avanti le riforme necessarie a poter entrare nell’Unione. La Russia, da parte sua non ha speso neanche un rublo, ma vorrebbe tanto che l’Ucraina divenisse il sesto membro dell’«Unione economica euroasiatica», l’alleanza economica instituita nel 2014 fra Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia.

Il ruolo della Nato

Più dello smacco economico, a innervosire la Russia è però la questione militare. Quando il mondo comunista cominciò a disgregarsi, sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, esistevano due alleanze militari: da una parte il Patto di Varsavia, dall’altra l’Alleanza Atlantica, in sigla Nato.

Il Patto di Varsavia era stato istituito nel 1955 e, oltre all’Unione Sovietica, comprendeva altri sette paesi del blocco comunista: Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica democratica tedesca, Romania, Bulgaria, Ungheria e Albania. Il Patto Atlantico, invece, era stato istituito nel 1949 e oltre a Stati Uniti e Canada, comprendeva un’altra decina di stati europei del blocco capitalista. Le due alleanze avevano entrambi lo scopo di permettere ai paesi aderenti di sostenersi a vicenda nel caso uno di loro fosse stato attaccato da un paese del blocco opposto. Con il disgregarsi del blocco comunista e il conseguente sfaldamento del Patto di Varsavia, molti si dissero che la Nato non aveva più ragione d’esistere, ma invece di dissolversi si rafforzò perché molti paesi ex comunisti chiesero di farne parte. E oggi la Nato è un’alleanza militare formata da 30 paesi, che complessivamente spendono in armamenti oltre 1.000 miliardi di dollari all’anno, oltre le metà della spesa mondiale per armamenti che, nel 2021, è stata pari a 1.981 miliardi. In testa gli Stati Uniti che da soli hanno speso 778 miliardi, il 39% della spesa mondiale. La Cina, seconda in classifica, spende 252 miliardi, mentre la Russia si attesta a 62 miliardi dietro l’India che ne ha spesi 73. In termini di spesa pro capite fa 2.364 dollari per gli Usa e 430 per la Russia.

Oltre a chiedere di entrare nell’Unione europea, l’Ucraina chiede di entrare anche nella Nato. Il processo di ammissione è in atto in entrambi i casi. Per l’entrata nell’Alleanza, un tavolo di consultazione permanente è stato istituito nel 1997. Nel frattempo, sono possibili piani di collaborazione, come l’invio di istruttori militari da parte della Nato o la messa a disposizione di truppe da parte del nuovo candidato, per operazioni militari che coinvolgono la Nato. Ad esempio, nel 2003 l’Ucraina ha inviato in Iraq qualche migliaio di soldati che ci sono rimasti fino al 2008. Scelta ripetuta nel 2007 con l’invio di truppe in Afghanistan. Gli Stati Uniti hanno ringraziato, inviando 2,7 miliardi di dollari dal 2014 a oggi per il rafforzamento dell’esercito ucraino.

Intanto, nel 2017, un nuovo atto del parlamento ucraino ha confermato la richiesta di ingresso nella Nato, permettendo al presidente Zelensky di proseguire con le procedure di ammissione. La Russia però si oppone strenuamente a questa prospettiva, perché non gradisce l’idea di avere basi e truppe Nato a ridosso dei propri confini. Da un trentennio Mosca si oppone all’allargamento dell’Alleanza Atlantica, chiedendo all’Ucraina di scegliere la strada della neutralità, come fanno vari altri paesi in Europa: Moldova, Svezia, Finlandia, Austria, Irlanda, Svizzera. E, fra tutti, il riferimento è la Finlandia, paese nordico che confina con la Russia. La Finlandia fece la scelta della neutralità nel lontano 1955 come contropartita dello smantellamento della base militare russa a Porkalla, un porto navale a pochi chilometri da Helsinki. Un precedente storico che dovrebbe far riflettere.

Tra sanzioni e armi

Fortunatamente, la scelta effettuata dall’Occidente come contromisura contro le ripetute aggressioni russe è stata quella delle sanzioni economiche, anche se, in controtendenza, in occasione dell’aggressione di febbraio è stato deciso di inviare anche armi alle forze ucraine. Scelta che era meglio non fare, ricordandoci che, secondo l’articolo 11 della Costituzione, «l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Che non significa rinunciare a difenderci o tollerare qualsiasi sopruso e arroganza, ma rivedere il modo di opporci alle violenze. La politica perseguita fino a oggi dall’Occidente, Italia compresa, è l’attuazione del motto «Si vis pacem, para bellum», se vuoi la pace prepara la guerra. La cosa da fare è ribaltare questo postulato affermando che la pace si prepara con la pace. Che in concreto significa due cose.

La prima: prepararci a forme di difesa basate sulla non collaborazione. Ad esempio, nel caso ucraino piuttosto che armi avremmo dovuto inviare corpi civili di pace col duplice scopo di soccorrere la popolazione locale e mettere in difficoltà l’esercito invasore.

La seconda scelta è quella di smettere di intervenire a cose fatte, quando il vaso si è rotto e cercare invece di prevenire la rottura del vaso. Che, fuori di metafora, significa lavorare per la distensione invece che per la tensione. Oggi, un passo fondamentale in questa direzione sarebbe lo smantellamento della Nato e di qualsiasi altra organizzazione militare che crea blocchi militari. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è la chiara dimostrazione di come i blocchi militari generino paura e la paura generi violenza.

I vuoti proclami delle Nazioni Unite

L’unica strada per interrompere l’escalation militare è il multilateralismo. Il rafforzamento, cioè, di sedi internazionali all’interno delle quali portare i dissidi internazionali con l’intento di trovare soluzioni basate sulla mediazione e l’accordo, piuttosto che sulle armi. L’umanità aveva già fatto un tentativo in questa direzione tramite l’istituzione delle Nazioni Unite. Ma non ci ha creduto abbastanza e oggi le Nazioni Unite sono poco più di un luogo dove si pronunciano vuoti proclami. È arrivato il tempo di cambiare tutto questo.

Francesco Gesualdi




I profitti del Covid, tanti e per pochi


A oltre due anni dall’inizio della pandemia che ha sconvolto l’esistenza dell’umanità, ci sono pochissimi vincitori. In prima fila, le multinazionali del web e quelle farmaceutiche. Con tanti soldi pubblici e le consuete ingiustizie.

La conta definitiva dei danni provocati dal Covid si potrà fare solo a pandemia superata. Per ora i numeri raccontano che, a fine 2021, si contavano più di cinque milioni di morti a livello mondiale e una perdita economica stimata in 3mila miliardi di dollari dovuta agli arresti produttivi, i famosi lockdown decretati in molti paesi industrializzati nel corso del 2020. Con inevitabili contraccolpi anche per i paesi più poveri che, nel 2020, hanno registrato un crollo delle loro esportazioni fino al 40%.

Detto questo, il Covid non è stata una sciagura per tutti. Al contrario, per qualcuno è stata una vera manna. Ad esempio, la riduzione della vita sociale ha provocato un boom delle attività online che hanno permesso ai giganti del web di ottenere profitti da nababbi. Tipico il caso di Amazon che, nel 2020, ha realizzato un fatturato pari a 386 miliardi di dollari, il 38% in più dell’anno precedente, mentre i suoi profitti sono aumentati dell’84% passando da 11,5 a 21,3 miliardi di dollari.

Nei primi mesi di pandemia non ci sono state altre imprese vincenti quanto quelle informatiche, ma di lì a poco anche per le imprese farmaceutiche il Covid si sarebbe dimostrato una gallina dalle uova d’oro. In particolare, per quelle dedite alla produzione di vaccini. Con i virus il problema è che ancora non si sono scoperti farmaci antivirali ad ampio spettro come invece è successo per gli antibatterici. Per cui, quando si presenta un nuovo ceppo (il virus originale modificato per alcune piccole varianti), siamo praticamente disarmati. Per questo assumono

particolare importanza i vaccini, perché la sola cosa che funziona sono gli anticorpi, siano essi prodotti a seguito di contagio o di vaccino.

I produttori di vaccini

Il termine «vaccino» deve la sua origine a «vacca» perché le prime forme di stimolazione intenzionale di anticorpi si sono realizzate a fine 1700 nei confronti del vaiolo mediante l’inoculazione in soggetti sani di siero proveniente dalle pustole presenti sulle mammelle delle vacche malate. Col tempo la vaccinazione è diventata una pratica abituale nei confronti di numerose malattie, per cui sono tantissime le industrie che si dedicano a questo genere di attività, non solo nel vecchio mondo industrializzato, ma anche in Cina, India, Brasile, Thailandia e molti altri paesi del Sud del mondo, anche se l’Africa si presenta come il continente meno attrezzato. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel 2019 il mercato globale dei vaccini valeva 33 miliardi di dollari, ma rappresentava solo il 2% del mercato farmaceutico complessivo. Inoltre, benché in termini di volumi produttivi i più grandi fossero le società indiane Baharat biotech e Serum institute of India, che assieme contribuivano al 37% dell’intera produzione, in termini di valore la situazione era dominata dalle multinazionali occidentali. In particolare, quattro – Gsk, Merck, Pfizer e Sanofi -, che da sole esprimevano il 90% del valore globale dei vaccini, realizzato per il 68% nelle nazioni più ricche. Ma oggi la situazione sta cambiando perché il Covid ha rimescolato tutte le carte.

Fiala di vaccino mRna di Moderna. Foto Mufid Majnun – Pixabay.

Il sostegno pubblico

Per cominciare si è assistito a un massiccio sostegno finanziario delle imprese farmaceutiche da parte dei governi, anche se va detto che il settore farmaceutico è sempre stato assistito dalla mano pubblica. Ma, in tempi normali, l’aiuto viene dato in forma mascherata. La formula utilizzata, infatti, è quella della collaborazione con le università che passano alle imprese i risultati delle loro ricerche. In altre parole, le università spendono per studiare e ricercare, mentre le imprese godono gratuitamente del loro lavoro con notevole risparmio di spese. Questa formula è così collaudata che è stata la prima soluzione a cui  AstraZeneca ha pensato, quando ha deciso di dedicarsi a un vaccino anti Covid (del tipo a vettore virale). Essendo di nazionalità britannica, ha stretto un accordo di collaborazione con l’Università di Oxford che, da oltre un decennio, stava studiando un vaccino contro gli adenovirus presenti negli scimpanzé. L’ipotesi era che, a partire da quegli studi, si potesse ottenere un vaccino contro il Covid, come poi è avvenuto. Il costo sostenuto dall’Università di Oxford per le proprie ricerche non è stato rivelato, ma secondo una ricostruzione effettuata da alcuni accademici, fra cui Samuel Cross e Sarai Keestra, l’esborso complessivo ha superato i 250 milioni di euro, finanziati in gran parte dal governo britannico, dall’Unione europea e da alcune fondazioni private.

L’intervento del governo britannico si è concretizzato in particolare nel 2020, in linea con l’azione di molti altri governi. Non appena hanno capito che la soluzione della pandemia stava nel vaccino, questi hanno cercato di garantirsene l’approvvigionamento tramite contributi alla ricerca e contratti di preacquisto con le case farmaceutiche per una spesa complessiva che la fondazione Kenup ha stimato in 88 miliardi di dollari. Il solo governo degli Stati Uniti ha stanziato 18 miliardi di dollari e ancora non si sa quanti siano stati concessi a fondo perduto e quanti come pagamento anticipato di dosi concordate. L’iniziativa, battezzata Operation warp speed (operazione a tutta velocità), è stata strutturata in modo da poter evitare la trasparenza, ad esempio delegando l’esercito a stipulare i contratti con le case farmaceutiche come se si trattasse di operazioni militari. Tuttavia, nel marzo 2021 il Congresso ha prodotto un documento che rivela le somme elargite alle singole imprese e il corrispondente numero di dosi da consegnare a produzione avviata.

Una rapida realizzazione

I finanziamenti pubblici hanno avuto il loro effetto: nel marzo 2021 erano già disponibili 12 diversi vaccini prodotti non solo in Europa e Stati Uniti, ma anche in Cina, Russia, India, e ora anche a Cuba. Alcuni ottenuti secondo metodiche più tradizionali, altri con tecnologie all’avanguardia, ma tutti accomunati dalla rapidità di realizzazione. Basti dire che, prima del Covid, i tempi medi per la messa a punto di un vaccino variavano da 10 a 15 anni. Il record era stato battuto negli anni Sessanta dal vaccino contro la parotite che aveva richiesto soltanto quattro anni.

Stante la situazione, la rapidità   va salutata con favore, anche se qualcuno l’ha pagata e la mente va ai morti per trombosi provocata dal vaccino AstraZeneca. Incidenti che hanno nuociuto gravemente alla reputazione di questo vaccino fino a farlo accantonare definitivamente nei paesi più ricchi. Perfino, il governo della Gran Bretagna, suo paese natio, gli ha girato le spalle preferendo i vaccini di Pfizer e Moderna, tecnologicamente più avanzati, i cosiddetti vaccini mRna.

Lo scandalo profitti

Pur essendo molto diverse fra loro, le due aziende sono i veri vincitori della partita vaccinale, almeno in Occidente.

Pfizer è una grande multinazionale statunitense che, nel 2020, si posizionava all’ottavo posto mondiale, per fatturato, fra le imprese farmaceutiche. Fino al 2020, più che i vaccini, la sua specialità erano i farmaci per malattie rare e oncologiche, ma quando è comparso il Covid, ha incassato quasi 6 miliardi di dollari di contributi pubblici e si è buttato nella ricerca di un vaccino mRna. Mossa vincente.

Nel 2021, Pfizer ha quasi raddoppiato il proprio fatturato rispetto all’anno precedente, un balzo dovuto interamente alla vendita dei vaccini anti Covid la cui quota sul fatturato è passata dal 15% nel 2020 al 50% nel 2021. E i profitti di Pfizer sono più che raddoppiati giungendo a 20 miliardi di dollari. Del resto, a fronte di una ricerca interamente finanziata dalla mano pubblica, i suoi vaccini sono venduti a 19,50 dollari a dose benché Oxfam abbia calcolato che il costo di produzione si fermi a 1,2 dollari a dose. Moderna, anch’essa superfinanziata dalla mano pubblica, fa ancora peggio vendendo lo stesso tipo di vaccino per 25,50 dollari a dose.

Al pari di Pfizer, anche Moderna è statunitense, ma le sue dimensioni sono di gran lunga inferiori. La prima è un gigante, la seconda un nanerottolo. Per giunta più che farmacologica, Moderna è un’industria di tipo biotecnologico. Durante il primo semestre 2020 ha dichiarato introiti uguali a zero, mentre nello stesso periodo del 2021 ha dichiarato un fatturato di 6,2 miliardi di dollari. Praticamente da azienda moribonda è diventata miliardaria, con profitti dichiarati pari a 4,3 miliardi di dollari, un’incidenza del 70%. E quando ha aperto il suo mercato in Europa, ha pensato bene di domiciliarsi in Svizzera in modo da convogliare in un paradiso fiscale tutti gli introiti incassati dalle sue vendite ai governi europei. Così siamo all’assurdo che la collettività spende per la ricerca, le imprese si arricchiscono, poi quelle stesse imprese gabellano la collettività evitando le tasse. Ed hanno pure il permesso di mettere il brevetto sulle scoperte realizzate con i soldi pubblici, arrecando così un danno alla salute pubblica mondiale, perché sono loro a decidere a chi concedere le licenze di produzione e a che prezzo.

I brevetti dei ricchi

Fin dal sorgere della pandemia i paesi del Sud del mondo hanno invocato lo stato di emergenza per chiedere la sospensione dei trattati internazionali a protezione dei brevetti o, per dirla con l’eufemismo usato dai potenti, a tutela dei diritti di proprietà intellettuale. Invano. La lobby delle multinazionali farmaceutiche è così potente da aver ottenuto un «no» compatto da parte di tutti i paesi del Nord, prima fra tutte l’Unione europea. Il risultato è un mondo diviso in tre: i paesi ricchi dotati di vaccini e farmaci all’avanguardia, quelli a ricchezza media con vaccini di qualità più bassa e nessun farmaco antivirale, infine quelli poveri sprovvisti di tutto. Situazione confermata dai tassi di vaccinazione.

Secondo One world data, al 1° dicembre 2021, la percentuale di popolazione che ha avuto almeno una dose di vaccino era del 75% nei paesi a ricchezza elevata, del 44% nei paesi a ricchezza media, del 6% nei paesi a ricchezza bassa.

Eppure, tutti sanno che in un mondo globalizzato come è quello di oggi, non esiste più la possibilità di proteggersi da soli: o ci si salva tutti o non si salva nessuno. Le nuove varianti che continuano a imperversare ne sono una chiara dimostrazione.  Ma di fare qualcosa che una volta tanto sia per le persone, anziché per le imprese, questo sistema non vuole proprio saperne. Il massimo che sa fare sono promesse non mantenute.

Invio di vaccini nell’ambito del programma Covax.

La delusione Covax

Nell’aprile 2020 sotto l’egida dell’Organizzazione mondiale della sanità venne istituito il
Covax (Covid-19 vaccines
global access
), un organismo che aveva il compito di coordinare gli acquisti dei vaccini a livello mondiale in modo da evitare che i più ricchi facessero la parte del leone lasciando i più poveri a bocca asciutta.
L’organismo doveva anche raccogliere fondi per permettere ai paesi più poveri di poter comprare le dosi necessarie ai loro bisogni.

Sappiamo com’è finita: i paesi ricchi hanno acquistato i loro vaccini tramite contratti diretti  con le case farmaceutiche fino ad assorbire il 49% dei quali prodotti dalle imprese occidentali. Più precisamente, nel 2021 Moderna ha venduto ai paesi ricchi il 93,5% delle sue dosi, Pfizer (con BioNTech) il 67%, Johnson & Johnson l’87%, AstraZeneca il 32,5%. Eppure i paesi ricchi ospitano appena il 16% della popolazione mondiale.

In conclusione, all’agosto 2021 le dosi transitate per il Covax, a beneficio di 140 paesi, erano appena 205 milioni su un totale auspicato di due miliardi. Quanto ai fondi per assistere i paesi più poveri, il fabbisogno era stato stimato in 34 miliardi di dollari, ma la cifra realmente raccolta al dicembre 2021 si era fermata a 18 miliardi. Un’altra occasione mancata per avere giustizia e solidarietà.

Francesco Gesualdi

 




Lavoro, globalizzazione e un salario senza dignità


La competizione esasperata tra multinazionali costringe a ridurre i prezzi di merci e servizi. Per mantenere i profitti, i datori di lavoro diminuiscono i salari. Ecco perché i lavoratori sono sempre più vittime del sistema. In Italia, si stima che gli occupati poveri siano 5,2 milioni.

Da qualche tempo anche in Italia si parla della necessità di istituire il salario minimo legale, una soglia salariale fissata per legge al di sotto della quale nessun rapporto di lavoro può scendere (1). L’esigenza nasce dalla constatazione che ormai anche da noi i rapporti di lavoro sono diventati una giungla dove ognuno fa ciò che vuole. O meglio dove i forti, ossia i datori di lavoro, possono imporre le condizioni che vogliono.

La cronaca riporta casi limite di operai pagati anche due euro l’ora come è stato scoperto presso la Venus Ark, un’impresa di confezioni di Prato, i cui titolari sono stati arrestati per sfruttamento nel settembre 2021. Ma senza arrivare ai casi di totale illegalità, più vicini alla schiavitù che allo sfruttamento, si possono prendere come riferimento le paghe dei rider (2) che, secondo una ricerca della Banca d’Italia del 2018, si aggirano attorno ai 6 euro l’ora.

Sempre meno tutele

In Italia, come nel resto d’Europa, il numero di lavoratori con un alto tasso di tutele si sta assottigliando sempre di più. A cominciare dal tipo di assunzione. Negli anni Ottanta del secolo scorso, l’assunzione abituale era a tempo indeterminato senza possibilità di licenziamento in assenza di giusta causa determinata dalla legge. Tutto ha cominciato a sgretolarsi con la globalizzazione, quel processo avviato negli anni Novanta teso a trasformare il mondo intero in un unico grande mercato nel quale merci e capitali possono spostarsi da una nazione all’altra senza vincoli o limitazioni di sorta. Un traguardo fortemente voluto dalle multinazionali che, per le dimensioni raggiunte, non potevano più accontentarsi di rimanere confinate nelle loro nazioni di origine.

La prima grande vittoria l’hanno ottenuta nel 1995 con l’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio, una sorta di super governo mondiale che regola i rapporti commerciali fra paesi tenendo conto dei soli interessi delle grandi imprese. Tuttavia, proprio quando la globalizzazione ha cominciato a diventare realtà, le multinazionali hanno scoperto che il grande mercato mondiale che sognavano non esiste. Semplicemente perché le persone capaci di comprare i loro prodotti non vanno oltre il 30-40% della popolazione mondiale. Tutti gli altri sono solo zavorra, persone che a causa della loro povertà non entrano mai in un supermercato.

Così, tante multinazionali (all’incirca un milione) si stanno contendendo un mercato, tutto sommato, limitato che non ha possibilità di espansione immediata. Ne è venuta fuori una concorrenza all’ultimo sangue giocata essenzialmente sulla diminuzione dei prezzi. Ma ogni volta che questi vengono ritoccati, bisogna trovare il modo di ridurre anche i costi di produzione, altrimenti i profitti soffrono. Ecco perché, nell’epoca della globalizzazione, il lavoro è finito sotto assedio. Finché le economie erano organizzate su base nazionale, la via classica di riduzione del costo del lavoro era l’automazione, ma, in un sistema totalmente aperto, le imprese hanno scoperto anche la via della delocalizzazione, il trasferimento delle attività produttive in paesi dove la povertà morde così tanto da rendere i lavoratori disponibili a svolgere le stesse mansioni dei loro colleghi europei o nordamericani per salari anche trenta volte più bassi.

Sono sempre di più i «working poor», i lavoratori senza un salario «vivibile». Foto John R.Perry – Pixabay.

Il lavoro secondo l’Ocse

Nessuno sa quanti posti di lavoro siano stati persi nei paesi di prima industrializzazione, a causa dei trasferimenti produttivi nei paesi a bassi salari. Ma è un fatto che molti settori continuano a perdere addetti. I recenti casi di Gkn e Whirpool in Italia lo testimoniano. Già nel 1994, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il centro studi dei paesi industrializzati incaricato di elaborare strategie economiche, suonò il campanello d’allarme con la pubblicazione del Jobs study, un rapporto sullo stato dell’occupazione nei paesi industrializzati. Fin dalle prime righe non faceva mistero della gravità del problema: «La disoccupazione è il fenomeno del nostro tempo che mette più paura. Ci sono 35 milioni di disoccupati nei paesi aderenti all’Ocse, mentre altri 15 hanno smesso di cercare lavoro oppure hanno accettato, contro la loro volontà, un lavoro part time. Almeno un terzo dei giovani è senza lavoro». Ma lungi dal voler rimettere in discussione la globalizzazione, la ricetta dell’Ocse si chiamava riforma del lavoro. Il ragionamento era semplice. I paesi di nuova industrializzazione attirano le imprese perché offrono costi di produzione più bassi. Dunque, se vuole fare tornare le imprese in casa propria, il Nord deve creare condizioni altrettanto allettanti. È la legge della competitività, bellezza. Ed ecco i suggerimenti: ridurre le tasse sui profitti, ridurre il peso per oneri sociali, rendere il lavoro più flessibile, ossia più disponibile ad adattarsi alle esigenze della produzione.

Lavoratori vulnerabili

Ancora oggi tutti i governi, siano essi di destra o di sinistra, usano queste misure come stella polare. E per farle digerire ai cittadini, la mettono sempre sul piano del meno peggio: «Preferite essere disoccupati che non guadagnano niente o sottoccupati che almeno 500 euro al mese li prendono?». E ponendoci sempre di fronte al dilemma della sopravvivenza, alla fine ottengono non solo il consenso dei cittadini, ma anche i loro ringraziamenti.

Secondo i calcoli dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil), i lavoratori «vulnerabili», ossia precari, malpagati e in situazioni a rischio, nel mondo sono quasi un miliardo e mezzo, il 42% di tutti gli occupati. La metà di loro sono definiti working poors, lavoratori poveri, perché percepiscono compensi al di sotto dei tre dollari al giorno, la soglia limite della povertà.

Lavoratori, ma poveri

La novità è che ora i working poors abitano anche fra noi. I loro tratti distintivi sono paghe basse, discontinuità lavorativa, scarse ore di lavoro. A seconda che si prenda in considerazione un solo criterio o la combinazione di più elementi, si ottengono risultati diversi sul numero dei working poors di casa nostra. Prendendo a riferimento la sola  paga oraria, l’Istat preferisce parlare di sperequazione retributiva piuttosto che di povertà. Posta la mediana nazionale a 11,21 euro l’ora, l’Istat definisce a bassa paga chiunque riceva meno di 7,47 euro l’ora, che corrispondono a due terzi della media nazionale. Il Cnel stima che i lavoratori a bassa paga siano oltre tre milioni, il 17,9% di tutti i lavoratori dipendenti, principalmente lavoratori domestici, dell’agricoltura, delle costruzioni. Ma anche della piccola industria considerato che in settori come l’abbigliamento si applicano contratti collettivi di comodo che, per le categorie più basse, prevedono salari orari al di sotto dei 7 euro.

Un caso è rappresentato dal contratto 2015-2018 firmato fra Fedimprese e Snapel per le aziende façon (operanti per conto terzi). Un settore a prevalente presenza femminile che conferma come l’ingiustizia retributiva colpisca soprattutto le donne.

Se moltiplichiamo la paga oraria per le ore lavorate, otteniamo i compensi mensili e annuali che ci danno un’idea più compiuta delle disponibilità monetarie dei lavoratori e quindi della loro condizione economica. Ed è proprio il reddito annuale il parametro utilizzato per stabilire chi sono i lavoratori poveri, ricorrendo ancora una volta al confronto, piuttosto che ai concetti assoluti. Il valore preso a riferimento è il reddito familiare mediano che, in Italia, corrisponde a 25mila euro. Per convenzione, si definisce lavoratore povero chiunque guadagni meno del 60% di tale importo, ossia meno di 15mila euro l’anno. Quanti siano con esattezza è difficile dirlo. Secondo il Cnel (anno 2018) sono 5 milioni e 247mila, il 31% di tutti gli occupati.

Costituzione italiana e dichiarazione

Ora, però, il gioco al ribasso si sta mostrando pericoloso per il sistema stesso, e la politica, da sempre al servizio dell’economia, sta cercando un exit strategy. Ed ecco il salario minimo come via d’uscita, che però è vera soluzione solo se rispetta certi criteri. Altrimenti si trasforma in farsa come succede in molti paesi dove è fissato addirittura sotto la soglia della povertà assoluta. Valgano come esempio Haiti o il Burkina Faso dove esso si trova a meno di 50 centesimi di euro l’ora. E non va certo meglio in alcuni paesi dell’Unione europea, come la Romania dove è fissato a 2,8 euro l’ora o la Bulgaria dove si trova a 2 euro l’ora. Per contro in Germania è fissato a 9,50 euro l’ora, mentre in Lussemburgo varia dai 9,50 euro per gli apprendisti ai 15,27 per gli specializzati. Il punto è che il salario minimo non è un elemento neutro: a seconda di dove viene posizionato avvantaggia i lavoratori o le imprese, riduce le disuguaglianze o le acuisce, colma le lacune sociali o le aggrava. E poiché anche nelle democrazie, il potere è detenuto dalle classi agiate piuttosto che da quelle umili, difficilmente il salario minimo è definito secondo criteri di dignità e rispetto. Piuttosto è concepito come strumento di contenimento dell’esasperazione sociale. Prova ne sia che anche nell’Unione europea l’orientamento dominante è di fissarlo al 60% del salario mediano nazionale che è la linea di confine del lavoro in povertà.

L’alternativa è prendere sul serio l’articolo 36 della Costituzione italiana che recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Affermazione che fa il paio con l’articolo 23 della Dichiarazione universale dei Diritti umani, secondo il quale il lavoratore «ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale».

Sono sempre di più i «working poor», i lavoratori senza un salario «vivibile». Foto Brian Odwar – Pixabay.

Il salario «vivibile»

È proprio a partire da questi principi che sta avanzando l’idea di un salario minimo inteso come salario vivibile. Un salario, cioè, che con 40 ore di lavoro settimanale permetta al singolo lavoratore e ai suoi familiari di far fronte ai bisogni di base individuati in cibo, alloggio, vestiario, sanità, energia, trasporti, istruzione. Un conteggio sicuramente non facile perché, oltre alla composizione del nucleo familiare, la vivibilità del salario dipende anche dal tipo di clima in cui si vive, dal livello degli affitti, dalla quantità di servizi gratuiti offerti dallo stato. Tuttavia, alcune organizzazioni, fra cui la Clean clothes campaign, rappresentata in Italia dalla «Campagna abiti puliti», stanno mettendo a punto dei metodi di calcolo di salario vivibile che, pur  nella loro parzialità, offrono buoni livelli di affidabilità.
Per l’Italia i calcoli sono ancora in corso, ma si profilano cifre ben al di sopra degli attuali minimi contrattuali, almeno in alcuni settori. Del resto i contratti non sono il frutto di ciò che è giusto, ma di ciò che è possibile in base alla forza di cui si dispone. E in un momento in cui la forza sindacale è in calo a causa di alti tassi di disoccupazione e di una legislazione accomodante per le imprese, sarebbe estremamente utile per i sindacati poter contare su un salario minimo legale fissato secondo criteri di vivibilità. Non tutti, però, la pensano così, e anzi c’è chi interpreta l’intervento del legislatore   come un’indebita intromissione in un ambito di esclusiva competenza sindacale. E forse hanno ragione, ma nella storia bisogna anche saper rivedere le proprie strategie in base al mutare dei rapporti di forza: dove non possono la morale e l’etica, sono i fallimenti a indicare la strada più giusta da intraprendere.

Francesco Gesualdi

(1) Questo articolo va ad aggiornare «Per un salario dignitoso (nell’era della disoccupazione)», pubblicato su MC a novembre 2019.

(2) Sui riders si legga «Il capitalismo delle piattaforme digitali», MC, luglio 2020.




Ripresa e resilienza,

quale Italia ci aspetta?

testo di Francesco Gesualdi |


Al nostro paese stanno arrivando i soldi dell’Ue. La domanda è: come utilizzarli? Riprendere la strada della vecchia economia o cercare una vera svolta verso l’equità e la sostenibilità?

In Italia, il piano messo a punto per poter ricevere e spendere i soldi resi disponibili dall’Unione europea, nell’ambito del progetto Next generation Eu, è stato battezzato «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in sigla Pnrr. E, per dargli un tocco di patriottismo, è stato sottotitolato: «Italia domani».

Il documento non è di facile lettura, non foss’altro per la sua lunghezza: ben 269 pagine. Del resto, la posta in gioco è alta: dalle sue scelte dipenderà l’assetto dell’economia e della società italiana dei prossimi decenni. Non a caso la stesura del piano è stata la pietra d’inciampo che ha fatto cadere il governo Conte 2.

Ripresa e resilienza, crescita e sostenibilità

Troppi soldi in ballo che hanno inevitabilmente acceso appetiti e divergenze non solo finanziarie, ma anche ideologiche, perché quei soldi potrebbero essere utilizzati per rafforzare l’economia produttivista, vecchia maniera, o per imprimere una svolta in una logica di equità e sostenibilità.

La copertina del documento sul Pnrr, scaricabile dal web.

Una contrapposizione riportata nel titolo stesso del piano tramite le due parole «ripresa e resilienza». Dove per ripresa si intende il rilancio dell’economia intesa come crescita di produzione, Pil, vendite, affari, esportazioni; per resilienza si intende l’introduzione di tutti quei cambiamenti utili ad arrestare il deterioramento della situazione ambientale. La pretesa del piano, tuttavia, è di aver saputo affrontare i due aspetti non come esigenze in contrapposizione fra loro, ma come due percorsi  complementari che si sostengono a vicenda.  Sarà davvero così? Il sistema si illude di poter tenere insieme crescita e sostenibilità, ma può farlo perché dimentica l’equità. In realtà, quando pensa a un «mondo verde», tiene a mente solo il miliardo di persone che popola i paesi del Nord. Senza dichiararlo, la sua idea di sostenibilità è quella dell’apartheid, un mondo nel quale le poche risorse e gli scarsi spazi ambientali esistenti sono messi al servizio esclusivo di una minoranza di cui i paesi del Nord sono la componente pigliatutto, mentre tutti gli altri non sono neppure presi in considerazione.

Per questo possiamo fantasticare di mobilità basata sull’auto elettrica per chiunque, senza pensare che se il poco cobalto, nickel, litio, esistente sul pianeta ce lo prendiamo tutto noi, gli altri non potranno neanche disporre di un pannello solare per accendere il frigorifero. Purtroppo, solo il tempo potrà stabilire se certe previsioni rientrano nella categoria del catastrofismo o del realismo. Ma allora sarà troppo tardi, esattamente come è successo per gli avvertimenti relativi ai cambiamenti climatici: gli scienziati più attenti hanno cominciato a segnalare il problema attorno agli anni Settanta del secolo scorso, ma i governi hanno riconosciuto l’esistenza del fenomeno solo attorno al 2010.

Sia come sia, è comunque certo che la stesura del Next generation Eu non è stato il massimo della partecipazione democratica. Nella fretta di passare alla fase esecutiva, la Commissione europea ha imposto tempi di presentazione del progetto troppo brevi che la concomitante caduta del governo ha ulteriormente corroso. Fatto sta che nel paese non c’è stato dibattito e neanche il Parlamento ha avuto la possibilità di dire la sua. L’unico progettista è stato il governo, prima sotto la guida di Conte, poi di Draghi, mentre il Parlamento si è limitato a una funzione poco più che notarile con tempi di discussione che hanno permesso solo dichiarazioni di voto.

I fondi in gioco: 236 miliardi di euro

Alla fine, i soldi complessivi che il Pnrr conta di spendere entro il 2026, ammontano a 236 miliardi di euro, 44 in più di quelli messi a disposizione dall’Unione europea tramite il Recovery fund. Un’aggiunta, in parte finanziata da prestiti ottenuti direttamente dal sistema bancario e finanziario (Fondo complementare), in parte da ulteriori sostegni offerti dall’Unione europea attingendo a un fondo speciale denominato React.

Volendo ricapitolare, le fonti di finanziamento si possono analizzare sotto due grandi profili: la provenienza e la natura. Dal punto di vista della provenienza, l’87% giunge dall’Unione europea, il rimanente 13% dal sistema creditizio privato. Dal punto di vista della natura, si tratta per il 65% di prestiti e per il 35% di somme a fondo perduto. In termini monetari, mettendo insieme i soldi provenienti dal Recovery fund e quelli ottenuti dal fondo React, le sovvenzioni a fondo perduto sono 82 miliardi. Ma sarebbe sbagliato considerarli tutti in entrata perché l’Unione europea conta di recuperare i soldi che regalerà tramite un aumento di contribuzione da parte degli stati membri. Sulla reale entità della somma netta incassata dall’Italia esistono numerosi calcoli molto diversi fra loro. Alcuni danno un’entrata netta di circa di 10 miliardi di euro, altri di una quarantina di miliardi. La verità è che le incognite sono ancora troppo ampie per azzardare ipotesi fondate.

Le riforme: quali e per chi?

Va precisato subito che nessuno distribuisce pasti gratis e, analizzando meglio l’offerta dell’Unione europea, si scopre che essa condiziona il proprio sostegno alla realizzazione di una serie di riforme che, a suo avviso, i singoli paesi devono adottare per migliorare la propria situazione e di riflesso quella dell’Unione europea. Non a caso il Pnrr elenca un numero indefinito di riforme che lo stato italiano si impegna a realizzare in ambiti che spaziano dalla giustizia al fisco, dalla pubblica amministrazione alla concorrenza. Tutte con ottimi propositi considerato che, secondo il Pnrr servono per garantire al paese equità, efficienza, celerità. Parole rassicuranti, ma finché gli annunci non si trasformano in proposte di legge rimane difficile capire dove andremo davvero a parare e se si tratta di modifiche condivisibili.

A gettare acqua sulle aspettative c’è che il Pnrr pone troppa enfasi sulla crescita dandoci la sensazione che le riforme siano finalizzate solo a creare un contesto attraente per gli investitori e a rendere più spediti i progetti di investimento.

In questa prospettiva, ad esempio, si possono leggere la riforma della giustizia e degli appalti. Da tempo tutti gli organismi internazionali denunciano che la lentezza della giustizia italiana tiene alla larga gli investitori stranieri che non sopportano l’idea di dover aspettare anni per risolvere eventuali liti commerciali con i propri clienti, fornitori o concorrenti. Pertanto, quando si parla di riforma della giustizia si pensa soprattutto a rendere più spediti i contenziosi civili in cui le imprese incappano con grande frequenza. E se, nel caso della giustizia, la preoccupazione è che la riforma possa essere solo parziale, nel caso degli appalti il timore è che, pur di accelerare i lavori, si indeboliscano i controlli sull’impatto ambientale delle opere, sulla correttezza contabile delle imprese, sulle loro eventuali connessioni con soggetti mafiosi, sul rispetto dei diritti dei lavoratori. Del resto, già in passato abbiamo visto come il concetto di riforma fosse tutto impostato in chiave pro imprese e pro investimenti, trasformandosi, di fatto, in un processo di demolizione dei diritti dei lavoratori nel campo delle assunzioni, dei licenziamenti, della sicurezza, dell’attività sindacale. Dunque, è meglio drizzare le orecchie quando sentiamo pronunciare la parola «riforme».

Le sei «missioni» del piano

Mappa tricolore dell’Italia. Foto MMedia – Pixabay.

Volendoci focalizzare sulle spese previste dal Pnrr, che poi rappresentano l’argomento forte del piano, si possono analizzare sotto vari profili: per finalità, per settori, per ripartizione geografica, per ricaduta sociale per ricaduta ambientale. Ma volendo seguire l’ordine espositivo utilizzato dal Pnrr, si può senz’altro cominciare dicendo che le spese sono suddivise in sei grandi capitoli, più religiosamente definiti «missioni»: innovazione, transizione ecologica, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute.

L’innovazione assorbe 50 miliardi, il 21% della spesa complessiva, e serve in gran parte a potenziare il processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione, ma soprattutto del settore produttivo privato che assorbirà i 4/5 della spesa.

La transizione ecologica assorbe 70 miliardi, il 30% della spesa complessiva, ed è finalizzata a interventi per promuovere l’economia circolare, per mitigare la produzione di anidride carbonica, per potenziare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. In questo capitolo ricadono anche le spese per il superamento dei veicoli a motore e per la riqualificazione energetica degli edifici.

La cosiddetta mobilità sostenibile assorbe 31 miliardi, il 13% della spesa complessiva e si riferisce in gran parte all’ammodernamento del sistema ferroviario (alta velocità), autostradale, portuale. Per tale ragione aveva più senso chiamare questa sezione «ammodernamento infrastrutturale».

Istruzione e ricerca assorbono 34 miliardi di euro, il 15% della spesa complessiva ed è suddivisa in due grandi capitoli: istruzione pubblica e ricerca al servizio delle imprese.

L’inclusione e coesione assorbe 30 miliardi, il 13% della spesa complessiva ed è finalizzata a migliorare gli uffici di collocamento, ad assistere l’imprenditorialità giovanile e femminile, a fornire protezione sociale a chi subisce contraccolpi occupazionali a causa dell’innovazione tecnologica.

Infine, la sanità assorbe 20 miliardi, l’8% della spesa complessiva, ed è finalizzata a potenziare la medicina del territorio e altre infrastrutture sanitarie.

Il senso del limite e l’ottica della sobrietà

Il Pnrr è stato molto elogiato dalle imprese e molto criticato dalle associazioni ambientaliste. Alle imprese è piaciuto perché prevede molti soldi per loro. Va detto, infatti, che non tutte le spese preventivate dal piano saranno eseguite direttamente dal governo o dagli enti locali. Parte di esse saranno delegate a famiglie e imprese. Le famiglie, ad esempio, riceveranno soldi per interventi di miglioramento energetico alle proprie abitazioni. Le imprese, invece, per l’ammodernamento energetico, informatico o ambientale delle proprie attività produttive. Per quale importo, il piano non lo dice con precisione: verosimilmente oltre i 40 miliardi di euro che poi rappresentano il 17% dell’intero stanziamento.

Gli ambientalisti contestano al piano di non impegnarsi abbastanza per limitare la produzione di rifiuti e di CO2, ma solo di volerne ridurre gli effetti. Gli rimproverano di concentrarsi troppo sui trasporti di lunga distanza e poco su quelli locali, di non spendere abbastanza per la difesa del territorio.

In una parola gli contestano di non fare nessun tentativo per invertire il senso di marcia verso una società che faccia i conti con il senso del limite, una società che cioè tenti di riorganizzare produzione, consumo, mobilità rifiuti, edifici, servizi pubblici in un’ottica di sobrietà che però garantisca a tutti di vivere dignitosamente nel rispetto della piena inclusione lavorativa.

«Transizione» non significa «conversione»

Questa prospettiva avrebbe richiesto non solo più investimenti verso l’energia elettrica di tipo rinnovabile, verso la mobilità pubblica locale di tipo sostenibile, verso un programma integrale di recupero e riciclaggio di tutti i rifiuti, verso la ristrutturazione edilizia generalizzata finalizzata al risparmio energetico, ma anche più impegno per la messa in sicurezza del territorio indebolito da decenni di cementificazione selvaggia e di abbandono delle zone montane. Più impegno per organizzare una formazione scolastica capace di mettere i cittadini in condizione di saper badare a se stessi tramite la «prosumazione» (consumazione di ciò che si produce) ossia ricorrendo il meno possibile agli acquisti. Più impegno per potenziare i servizi pubblici gratuiti specie nelle periferie e nelle zone più disagiate con il duplice compito di promuovere il ripopolamento delle zone abbandonate e di evitare lunghi ed estenuanti spostamenti per il semplice godimento di servizi essenziali. Interventi, insomma, per evitare che la stretta sui carburanti si trasformi in un castigo per i più poveri. Ed è con questa attenzione di tipo sociale che gli ambientalisti ci richiamano alla necessità di non limitarci a una pura e semplice «transizione tecnologica», ma di procedere verso una vera e propria «conversione ecologica». Più di un cambio di tecnologia, un cambio dell’essere.

Francesco Gesualdi

 




Disastro Afghanistan,

un istruttivo fallimento

testo di Francesco Gesualdi |


Prima una guerra assurda, cruenta e costosa, poi vent’anni di occupazione. Oggi, nel paese asiatico, siamo di nuovo al punto di partenza: i Talebani al potere. Con le stesse barbe e le stesse idee.

Ad agosto, l’Afghanistan è tornato alla ribalta della cronaca mondiale per la decisione degli Stati Uniti e dei loro alleati di abbandonare repentinamente il paese. Ritiro che ha coinciso con la ripresa del potere da parte dei Talebani (Taliban), la stessa formazione politica che governava nel 2001 quando gli americani invasero il paese asiatico. Invasione che poi si trasformò in un’occupazione durata venti anni, con la collaborazione di vari altri eserciti dell’alleanza Nato, compreso quello italiano.

La guerra in Afghanistan ha sorpreso l’opinione pubblica mondiale due volte: quando è iniziata e quando è finita: all’inizio perché non se ne capivano le ragioni; alla fine perché niente di quanto era stato dichiarato è stato realizzato. Era stato detto che l’obiettivo era stroncare il terrorismo, introdurre la democrazia e garantire i diritti delle donne. Ma il terrorismo ha continuato a colpire, mentre il paese è stato di nuovo consegnato nelle mani di coloro che si era detto di voler combattere perché nemici della democrazia e delle donne.

Il punto è che le guerre sono odiose per tutti, non solo per le popolazioni che le subiscono, ma anche per quelle dei paesi che le scatenano e ogni volta i potenti debbono farle digerire ai propri cittadini. Non di rado la strategia prescelta è il ricorso a motivazioni nobili che, con il tempo, però, si dimostrano fake news. Per questo i cittadini più critici non si fidano più delle notizie che ricevono e in occasione di ogni conflitto continuano a chiedersi se sia stata raccontata la verità o delle frottole. Un metodo infallibile per uscire dal dilemma non esiste, ma l’assunzione di un supplemento di informazioni è di fondamentale importanza, stando attenti ad approfondire almeno tre aspetti: gli antefatti, il contesto geopolitico, la realtà economica. Anche se va da sé che, sullo sfondo di ogni guerra, c’è sempre l’interesse per la vendita di armi da parte dell’industria bellica.

1979-1989: i russi e i mujhaidin

L’anno da cui conviene partire è il 1979, quando l’Unione Sovietica, a quel tempo nazione confinante, invase l’Afghanistan per sostenere un governo comunista intenzionato, fra l’altro, a imprimere una svolta laica al paese. Ma l’invasione provocò l’opposizione armata da parte di una molteplicità di gruppi locali,  tutti genericamente definiti mujahidin («combattenti»), in realtà tutti diversi l’uno dall’altro per etnia, appartenenza religiosa, impostazione politica.

In effetti, l’Afghanistan è una realtà complessa formata da una quindicina di etnie, in particolare Pashtun, Tajik, Uzbek, Hazara. E benché tutte siano di fede islamica, hanno modi diversi d’interpretare la tradizione e i testi sacri.

I Talebani e Bin Laden

È di questo periodo l’emergere di un gruppo che, vivendo il progetto di secolarizzazione perseguito dal governo filorusso come una forma di colonizzazione, virò verso un’interpretazione rigida dei precetti coranici, ormai caricati non solo di valore religioso ma anche politico, perché rivendicati come tratti essenziali dell’identità afghana. Il movimento, che era capeggiato dal Mullah Omar, prese il nome di Talebani (da «talib», studente in arabo, «taliban» significa due studenti), perché aveva fatto proseliti soprattutto fra i giovani afghani cresciuti nei campi profughi del Pakistan, che avevano trovato nelle scuole coraniche la sola possibilità d’istruzione. Ed è molto probabile che il nascente movimento dei Talebani abbia anche goduto di denaro elargito dagli Stati Uniti che, tramite la cosiddetta «Operazione ciclone», sostenevano la lotta dei mujahidin contro i sovietici. Soldi probabilmente goduti anche da Osama Bin Laden il quale, benché cittadino dell’Arabia Saudita, era corso in Afghanistan per combattere le truppe dell’Unione Sovietica viste come nemiche dell’Islam.

I russi se ne andarono nel 1989. Seguì un periodo di instabilità e di lotte intestine che si concluse nel 1996 con l’ascesa al governo dei Talebani che erano stati capaci di assicurarsi un buon appoggio popolare grazie alle alleanze con i capi locali e alla prospettiva di porre fine alla guerra per bande, alla corruzione e all’illegalità dilagante. Ma all’estero il governo dei Talebani non trovò uguale accoglienza a causa dei suoi metodi repressivi contro le donne e della sua politica decisamente contraria ai diritti umani.

Arrivarono gli attentati dell’11 settembre 2001 che procurarono la morte a quasi tremila persone. Attentati prontamente attribuiti a Bin Laden che, nonostante la vittoria sull’Unione Sovietica, era rimasto in Afghanistan per condurre una nuova lotta, questa volta contro l’Occidente, ritenuto anch’esso responsabile di comportamenti oltraggiosi nei confronti dell’Islam.

Non era passato neanche un mese dall’attacco alle Torri gemelle che le bombe americane già piovevano su Kabul. La colpa dei Talebani era di non aver consegnato Bin Laden, non si sa se per incapacità di catturarlo o per mancanza di volontà. In ogni caso, i politici statunitensi sostenevano che l’incursione contro l’Afghanistan sarebbe stata di breve durata. «Cinque giorni, cinque settimane, magari cinque mesi, non di più. Di certo non sarà una terza guerra mondiale», dichiarò solennemente l’allora ministro della difesa Donald Rumsfeld. In realtà, la cattura di Bin Laden avvenne in Pakistan dieci anni dopo, mentre l’occupazione dell’Afghanistan è durata venti. Errori di calcolo o utile catena di fallimenti funzionali a permettere agli Stati Uniti di rimanere in Afghanistan il più a lungo possibile? Solo i documenti segreti della Cia ci potrebbero dare le risposte, ma un’analisi della situazione geopolitica può aiutare.

Iran, Iraq e Siria

Studiando la carta geografica si nota che l’Afghanistan si trova nel cuore dell’Asia, al centro di un cerchio che in periferia comprende Russia e Cina, due superpotenze che prima della globalizzazione capitalistica erano considerate nemiche, poi solo concorrenti, ma pur sempre rivali. La possibilità di mantenere una presenza militare ravvicinata forniva agli Stati Uniti un vantaggio non trascurabile. Ma ciò che più contava per i contenziosi del tempo, è che l’Afghanistan si trova alle spalle dell’Iran, un paese che dopo la cacciata dello shah era stato inserito nella lista degli «stati canaglia» da parte degli Stati Uniti. E più avanti, verso il Golfo Persico, c’è l’Iraq, altro paese che gli Stati Uniti consideravano nemico. Messi assieme, Iran, Iraq e Siria, formavano quella che George Bush chiamava «l’asse del male», a suo dire un covo di terroristi che andava soppresso. Tuttavia, il paese verso il quale venne messa in atto la strategia più diretta fu l’Iraq. Inventandosi l’esistenza nel paese di armi di distruzione di massa, mai dimostrata, nel marzo 2003 gli Stati Uniti lo invasero facendo cadere Saddam Hussein e lo abbandonarono solo nel 2011, pur mantenendo un contingente di 2.500 marines col compito dichiarato di aiutare le forze locali a sconfiggere l’Isis.

Nello stesso anno in cui le truppe Usa abbandonavano l’Iraq, la Siria piombava in una guerra civile, ancora non conclusa, che in dieci anni ha prodotto 600mila morti e 12 milioni di sfollati di cui la metà rifugiati all’estero. Un vero e proprio inferno nel quale si sono inserite forze di ogni genere, interessate ad assumere il controllo di un pezzo di territorio o a utilizzare un terreno terzo per regolare conti in sospeso fra loro. Fra esse molti eserciti regolari compresi quelli russo, turco, statunitense, quest’ultimo con una presenza di 900 berretti verdi.

Quanto all’Iran, il terzo componente dell’asse del male, era un paese troppo grande e soprattutto troppo armato e organizzato per essere aggredito direttamente o per essere fatto implodere dall’interno. Ma l’idea di stringerlo a tenaglia fra tre paesi alleati degli Stati Uniti (Iraq, Afghanistan, Pakistan) deve essere stata seducente, quantunque l’arma più utilizzata per piegare l’Iran ai voleri delle potenze occidentali siano state le sanzioni economiche. E qui veniamo al terzo ambito d’indagine, quello economico, che va analizzato ogni volta che ci si trova di fronte a un conflitto armato.

Mappa dell’oleodotti TAPI

L’oleodotto Tapi

Al tempo in cui venne invaso, l’Afghanistan non presentava un grande interesse da un punto di vista economico. Paese montuoso di difficile accesso, la sua popolazione è dedita principalmente alla pastorizia e solo nelle zone meno aspre della parte occidentale pratica anche l’agricoltura (con una spiccata predilezione per la coltivazione del papavero da oppio). Si sapeva che nel suo sottosuolo era presente anche del gas, ma non in misura così cospicua da meritare l’esplorazione. Situazione ben diversa da quella dei paesi confinanti, in particolare l’Iran e il Turkmenistan che tutt’oggi si collocano rispettivamente al secondo e al sesto posto per riserve mondiali di gas naturale.

Ma il gas è vera ricchezza solo se si può fare arrivare ai paesi consumatori. Un problema sentito in particolare dal Turkmenistan, incastrato fra il Mar Caspio e le montagne. Per questo sul finire del secolo scorso il Turkmenistan aveva stretto un accordo con l’Afghanistan e il Pakistan per costruire un oleodotto, battezzato «Tapi» (dalle iniziali di Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India), che portasse il gas verso il Mare Arabico. E subito le imprese petrolifere di tutto il mondo avevano sgomitato fra loro per aggiudicarsi l’esecuzione dell’opera. Il match venne vinto da Unocal, un’impresa americana che però si ritirò quando cominciarono a moltiplicarsi gli attacchi terroristici che facevano puntare il dito contro il governo dei Talebani. La somma da investire era così alta che Unocal affermò di essere disposta a mettersi in gioco solo se l’Afghanistan avesse dato garanzia di stabilità. In un’audizione al Congresso dichiarò: «Il progetto esige finanziamenti internazionali, accordi fra governi e accordi fra governi e consorzio. Dunque, non potremo iniziare la costruzione dell’oleodotto finché l’Afghanistan non sarà amministrato da un governo riconosciuto internazionalmente». E a rassicurarla che il governo degli Stari Uniti aveva recepito il messaggio, nel settembre 2001, pochi giorni prima dell’attacco alle Torri gemelle, il portavoce del dipartimento governativo dell’energia dichiarava: «L’importanza dell’Afghanistan da un punto di vista energetico deriva dalla sua posizione geografica: è l’unico passaggio possibile per fare arrivare il gas dal Mar Caspio al Mare Arabico». In realtà anche l’Iran era un’opzione, almeno da un punto di vista geografico. Ma non lo era da un punto di vista politico, e l’unico modo per permettere alle multinazionali petrolifere americane di condurre i loro affari in Asia Centrale era l’addomesticamento dell’Afghanistan tramite la soppressione dei Talebani e l’instaurazione di un governo amico. Congetture? Può darsi. È un fatto, tuttavia, che nell’ottobre 2001 l’Afghanistan venne invaso, prima con sole bombe, poi anche con truppe, fino a raggiungere una presenza a terra di 110mila uomini nel 2011. Ma le cose non andarono per il verso voluto e l’oleodotto rimase congelato per una diecina di anni. Poi ripartì ma senza le multinazionali americane che, nel frattempo, avevano perso qualsiasi interesse per quell’area geografica. Per di più Unocal, la protagonista principale, era caduta in disgrazia. Travolta da un processo per violazione dei diritti umani a causa di una collaborazione con il regime militare del Myanmar, nel 2005 venne fagocitata da Chevron e scomparve per sempre.

Largo a Cina e Russia

Del resto con la crisi climatica ormai conclamata, il futuro dei combustibili fossili ha i giorni contati mentre altri minerali stanno assumendo importanza.  Fra questi il rame, il litio, le terre rare, di cui l’Afghanistan sembra avere riserve importanti. Ma dopo 20 anni di occupazione militare, che in soldi è costata varie migliaia di miliardi di dollari (5.400 solo agli Stati Uniti), e in vite umane è costata la perdita di 47mila civili e 125mila soldati, di cui 6.300 americani, gli Stati Uniti hanno deciso che era meglio ritirarsi dall’Afghanistan e accettare che altri, magari la Cina o la Russia, traggano vantaggio da tali ricchezze.

La dimostrazione che, dove non può la morale, sono i fallimenti a indicare la strada più giusta da intraprendere.

Francesco Gesualdi

 




Recovery plan: speranze e dubbi

testo di Francesco Gesualdi |


La tragedia del Covid si è trasformata nell’occasione per ripensare il ruolo dell’Unione europea. Il «Next generation Eu» prevede un intervento da 750 miliardi di euro per la ripresa e la resilienza. Tuttavia, l’ideologia economica non viene toccata.

Il Covid è stato una tragedia per le sofferenze e le morti che ha provocato, ma per qualcuno è stato come il formaggio sui maccheroni perché gli ha permesso di togliersi qualche castagna dal fuoco.

È successo, ad esempio, alla dirigenza europea che ha potuto invertire la direzione di marcia della propria politica economica senza dover ammettere nessuna colpa. La direzione abbandonata si chiama «austerità», quella intrapresa si chiama «politica espansiva». La motivazione ufficiale è superare la crisi provocata dal Covid. Quella reale è uscire dal pantano provocato da un’impostazione economica al servizio esclusivo di banche e finanza. I fatti sono noti, ma conviene riassumerli.

Finanza contro stati

Nel periodo 2008-2011 molti governi europei ampliarono il proprio debito per salvare gli istituti bancari sull’orlo della bancarotta a causa di scelte azzardate e fallimentari. Ma, invece di ringraziare per il soccorso ricevuto, la finanza approfittò per speculare sulla situazione di difficoltà in cui si erano cacciati i governi. Le vittime predilette furono Grecia e Italia, i paesi tradizionalmente più indebitati. La finanza decise di scommettere sul crollo del valore dei loro titoli di debito pubblico e si organizzò per provocarlo. Così gli italiani dovettero imparare il termine spread che, pur rimanendo misterioso nelle sue dinamiche, comunicava per certo che quando esso saliva le cose andavano male, quando scendeva andavano meglio.

Nel biennio 2010-2012 la situazione divenne catastrofica: la finanza avanzava nel proprio intento speculativo, complici i governi che, pur avendo i mezzi per poterla fermare, avevano la testa troppo intrisa di mercantilismo per utilizzarli. Convinti che le regole di mercato dovessero trionfare sopra qualsiasi altra esigenza, si guardarono bene dal porre regole, divieti e disincentivi per fermare l’offensiva posta in atto dalla grande finanza contro i titoli del debito pubblico. Così, nel tentativo di recuperare fiducia da parte dei mercati, l’unica strategia di difesa che i governi seppero mettere in campo fu quella di autoimporsi regole di finanza pubblica sempre più severe per dimostrare di saper essere debitori affidabili. Del resto, la vera preoccupazione dei governi non era cosa sarebbe potuto accadere sul piano sociale, ma i rischi che avrebbe potuto correre l’euro se anche solo uno dei paesi aderenti all’eurozona avesse dichiarato di non essere in grado di pagare gli interessi o di restituire le quote di capitale in scadenza. Un caso del genere avrebbe potuto indurre la finanza internazionale a fare di ogni erba un fascio e, prendendo le distanze da tutti i paesi che utilizzavano l’euro, avrebbe potuto provocare una svalutazione importante del valore della moneta comune.

Ricordando la Grecia

Nel 2010 la Grecia era sull’orlo della bancarotta e, per evitare che l’euro finisse nel vortice del suo dissesto, l’Unione europea decise di farsi carico dei suoi debiti. Nel contempo, però, le impose delle condizioni draconiane che la strangolavano sul piano sociale. Il patto era chiaro: l’Unione europea le avrebbe concesso nuovi prestiti per permetterle di pagare gli interessi e le rate in scadenza, ma in cambio la Grecia doveva adottare una politica rigorosissima di risparmi per risanare i propri bilanci. Con prezzi sociali altissimi. In nome del pagamento del debito la Grecia venne costretta a operare tagli drastici alla sanità, alla scuola, alle pensioni, agli stipendi stessi dei dipendenti pubblici. Gli effetti furono ospedali senza farmaci di base, masse di bimbi che andavano a scuola senza mangiare, un numero crescente di poveri, di senza tetto e di senza lavoro che potevano sopravvivere solo grazie all’intervento delle agenzie caritatevoli. In una parola era la tragedia sociale. Ma niente sembrava scuotere l’inflessibilità dei fanatici dell’austerità, in particolare i governanti dei paesi dell’Europa del Nord: Germania, Olanda, Austria. Pur di dimostrare al mondo della finanza che la priorità dell’Unione europea era la difesa dei creditori, nel corso degli anni vennero approvati una serie di provvedimenti che accrescevano il ruolo di gendarmeria assegnato all’Unione europea che ora poteva sindacare sulle scelte di bilancio effettuate dai singoli governi con diritto di veto, se non fossero state ritenute coerenti con le attese di riscossione da parte dei creditori. Ma un tarlo cominciava a insinuarsi nella fede incrollabile riposta nel rigore finanziario.

Foto Capri23auto – Pixabay.

Gli effetti dell’austerità

La minaccia avvertita si chiamava stagnazione, la consapevolezza che il taglio eccessivo delle spese governative e familiari avrebbe portato a una caduta importante della domanda, tale da fare imballare il sistema. Del resto il capitalismo è un sistema di mercato il cui epicentro è rappresentato dalle imprese, strutture produttive organizzate per la vendita: se vendono ciò che producono hanno qualche probabilità di crescere e assumere; se non vendono, interrompono la produzione e di sicuro non assumono, addirittura licenziano. Difatti le strette di bilancio si accompagnarono a un blocco della crescita del Pil, se non a una sua riduzione, specialmente fino al 2012. Assieme al blocco della produzione, ci fu anche un aumento della disoccupazione. La situazione cominciò a sbloccarsi solo dopo il 2015, ma non al ritmo voluto. Le politiche di austerità iniziavano quindi a essere viste con sospetto da parte di qualche politico, ma senza poterlo dire apertamente per paura di essere tacciato come eretico. Tuttavia, anche un’altra esigenza cominciava a farsi pressante, ma non poteva trovare attuazione finché prevaleva l’ideologia del rigore finanziario. La nuova esigenza si chiamava (e si chiama) cambio dell’infrastruttura energetica per provare ad arrestare i cambiamenti climatici. Una trasformazione che richiede investimenti per decine di miliardi, che, se dovessero essere reperiti tramite la normale via fiscale, richiederebbero un innalzamento della pressione fiscale che nessuna comunità nazionale accetterebbe. Stretta fra i due fuochi la classe politica europea rischiava la paralisi, finché non è arrivato il Covid che, con i suoi lockdown, nel 2020 ha provocato un arretramento del Pil all’Unione europea nell’ordine del 7,4%. La pandemia è, quindi, stata presa a pretesto da tutti per operare un cambio di direzione di marcia senza bisogno di lasciarsi andare a una sconfessione ideologica.

Per un’Unione europea di nuova generazione

Oggi anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca centrale europea (Bce) reputano il debito una necessità per il rilancio delle economie messe in crisi dal Covid. Occasione presa al balzo da Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea che, durante il suo discorso sullo «Stato dell’Unione» del 16 settembre 2020, ha formulato la sua proposta di rilancio europeo battezzandolo Next Generation Eu, ossia «Unione europea di nuova generazione». Un rilancio finalizzato a due grandi obiettivi: la transizione ecologica e il ritorno alla crescita economica. E come strategia ha proposto la costituzione di un fondo europeo (recovery fund) del valore di 750 miliardi di euro da mettere a disposizione degli stati membri, per la realizzazione delle loro opere di rilancio. Un piano ambizioso, facile da enunciare, ma pieno di nodi da sciogliere per renderlo operativo.

La provenienza dei soldi

Per cominciare, la costituzione del fondo: con quali soldi formarlo? L’indicazione della Commissione europea è stata di finanziarlo con soldi presi a prestito sul mercato finanziario. Una proposta insolita per l’Unione europea, ma ancora più rivoluzionaria considerato che ad essere indicato come intestatario del debito non sono i singoli stati, ma la Commissione stessa. Un vero salto di qualità sulla strada dell’integrazione europea perché è la prima volta che l’Unione europea accetta di indebitarsi in maniera collettiva. Individuata la via del debito condiviso come forma di finanziamento, si trattava di stabilire con quali risorse restituire i prestiti ottenuti. La proposta della Commissione è stata duplice: contribuzione e tassazione. Da una parte ha ipotizzato di innalzare la contribuzione annuale dei singoli stati al bilancio comunitario, facendola passare dall’attuale 1,6% del Pil fino al 2%. Dall’altra ha proposto di innalzare alcune tasse tradizionali a beneficio esclusivo della Commissione europea, o di introdurne di nuove. Fra esse una tassa sulle imprese del web, un’imposta sulle transazioni finanziarie, un nuovo dazio doganale sui livelli di anidride carbonica connessi ai prodotti importati.

Ripartizione e utilizzo

Il terzo nodo da sciogliere era la ripartizione dei fondi tra i paesi membri. Nodo che in realtà è duplice: come determinare la somma complessiva da assegnare a ogni stato membro e sotto quale forma. Per il primo aspetto si è deciso di utilizzare un mix di criteri che comprendono l’estensione della popolazione, la situazione sociale e la situazione economica. Per il secondo aspetto si è deciso che parte dei fondi sarebbero stati assegnati a fondo perduto, parte sotto forma di prestito, gravato di interessi, da restituire nel giro di un trentennio. Riferito all’Italia la conclusione è che il totale a cui può accedere corrisponde a 191,4 miliardi di euro per il 64% (122,5 miliardi) sotto forma di prestiti e il 36% (68,9 miliardi) a fondo perduto.

Il quarto nodo da sciogliere era a quali condizioni elargire i fondi agli stati richiedenti. Il regolamento approvato dal Parlamento europeo il 10 febbraio 2021 pone alcuni vincoli sia rispetto al modo di spendere i soldi ricevuti, che agli obblighi contabili e amministrativi. Rispetto all’utilizzo dei soldi, due capisaldi sono che almeno il 37% deve essere speso per investimenti utili ad abbattere l’anidride carbonica, mentre un altro 20% deve essere speso per la transizione digitale (art. 16). Quanto alla gestione contabile, il regolamento consente alla Commissione europea di sospendere i pagamenti qualora si registrino ritardi, inefficienze o altre inadempienze da parte dei paesi riceventi (art. 24).

Foto Wolfgang Eckert – Pixabay.

Positività e vecchi errori

I paesi interessati hanno fatto arrivare le loro richieste di finanziamento alla Commissione europea. La proposta italiana è stata spedita il 30 aprile e formalmente accettata il 22 giugno con la visita a Roma della presidente Von der Leyen.

Rimandiamo alla prossima puntata l’analisi del piano dell’Italia, che è stato battezzato «Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnrr). Intanto, però, è possibile avanzare alcune valutazioni sull’idea complessiva del Next generation lanciata dall’Unione europea. In particolare ne emergono tre, di cui una positiva, una parzialmente positiva e una negativa.

Quella positiva è il cambio di prospettiva della Ue. Finalmente non più gelida ragioniera attenta solo ai pareggi di bilancio e agli impegni verso i creditori, ma sensibile alle condizioni di vita dei suoi cittadini: salute, lavoro, prospettive di vita. Altrettanto positiva è la determinazione con la quale l’Unione europea conduce la sua lotta contro le emissioni di anidride carbonica. Ma questa positività è offuscata dall’uguale enfasi posta sulla ricerca ossessiva della crescita del Pil, come se la transizione ecologica fosse solo una questione di tecnologia e non una necessità molto più profonda che coinvolge la necessità di ridimensionare i nostri consumi per alleggerire la nostra pressione complessiva sul pianeta in un’ottica di equità internazionale.

Per questo ritengo che gli obiettivi del Next generation siano positivi solo parzialmente. Mentre si può definire negativa la scelta di finanziare il piano tramite prestiti. L’alternativa era ottenere quel denaro direttamente dalla Banca centrale europea (Bce), anche se ciò avrebbe richiesto una revisione dei trattati affinché la moneta, al pari dei vaccini, sia gestita come un bene comune al servizio della piena occupazione, della promozione dei servizi pubblici e della tutela della natura. Il solo modo per sfuggire alla trappola del debito e mettersi definitivamente al riparo dall’austerità che l’Unione europea ha sospeso, ma non accantonato.

Francesco Gesualdi

 




Debiti e debitori: l’avarizia non conviene

testo di Francesco Gesualdi |


Il debito pubblico italiano continua a crescere, ma la questione non riguarda soltanto il nostro paese. Tutti hanno i loro debiti: gli stati, le imprese, le famiglie. Il debito può essere il motore del capitalismo. O il generatore delle sue crisi.

Secondo l’Institute of international finance, nel 2020 il debito mondiale è cresciuto di 24mila miliardi di dollari, per oltre la metà imputabile ai governi che hanno dovuto affrontare la triplice crisi sanitaria, sociale ed economica provocata dal Covid. Solo in Italia, il debito pubblico è cresciuto di 160 miliardi di euro passando da 2.410 miliardi, nel dicembre 2019, a 2.570 miliardi al 31 dicembre 2020 (e 2.700 a giugno 2021). A livello europeo, l’aumento si colloca attorno ai mille miliardi di euro, mentre negli Stati Uniti supera i 4mila miliardi di dollari.

I nuovi deficit, aggiunti ai debiti preesistenti, hanno portato il debito cumulativo dei 190 governi mondiali a 82mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non ci fa dormire la notte, se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce, se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. In effetti, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti. Messi tutti assieme, i debiti esistenti a livello mondiale, a fine 2020, ammontano a 281mila miliardi di dollari, ma quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 29%. Allo stesso livello troviamo le imprese non finanziarie che registrano un debito complessivo di 81mila miliardi. Al terzo posto, si collocano le imprese finanziarie (banche, assicurazioni e quant’altro), indebitate per 68mila miliardi di dollari pari al 24% del totale. Per ultime, arrivano le famiglie, che contribuiscono per il 18% con 51mila miliardi di debito.

Debiti e mercato

Potremmo dire che il debito è il motore del capitalismo: è la benzina della sua crescita perché permette alle aziende di espandersi anche quando non hanno i soldi per farlo. È il meccanismo che mette il sistema al riparo dal rischio di fallimento perché gli permette di vendere tutto ciò che produce, anche quando la ricchezza è distribuita talmente male da mettere miliardi di persone fuori mercato.   E non è certo un caso se in un momento in cui il 50% della ricchezza mondiale è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione, il debito totale sia diventato un mostro grande tre volte e mezzo il Prodotto lordo mondiale.

Banche e Finanza

Il debito può tenere il sistema in piedi, e aiutarlo a correre nonostante i suoi squilibri, solo se i debitori pagano. Altrimenti si trasforma in un meccanismo alla rovescia che inceppa tutto. Ne abbiamo avuto una dimostrazione nel 2008, quando negli Stati Uniti l’incapacità delle famiglie più povere di ripagare i propri mutui provocò una delle più drammatiche crisi conosciute dal capitalismo a livello globale. Anche se va detto che il sassolino provocò la frana per colpa di una finanza creativa che aveva usato i mutui come matrice per fabbricare una montagna di prodotti fantasiosi più simili a scommesse che a investimenti finanziari. Ma, al di là delle degenerazioni, la massiva insolvenza debitoria si trasforma in crisi economica perché il sistema bancario è il cuore pulsante dell’economia capitalista. Ricordandoci che i prestiti sono elargiti anche da altre strutture finanziarie che, pur non essendo banche, usano l’attività creditizia come forma di investimento. Se i prestiti non rientrano, le prime a subirne le conseguenze sono le strutture creditizie, ma a catena anche i risparmiatori che hanno messo a disposizione i propri soldi e in subordine le imprese produttive che dalle banche ricevono copertura quotidiana per le proprie esigenze finanziarie. In condizioni normali, le banche rispondono alle richieste di finanziamento delle imprese, ma non quando si trovano a corto di denaro. Così, le crisi debitorie producono i loro effetti sul sistema produttivo che, in assenza di un adeguata lubrificazione finanziaria, va anch’esso incontro a crisi.

Due aree critiche

Oggi due sono i comparti che destano maggiore preoccupazione in rapporto ai loro debiti: le imprese produttive e i governi del Sud del mondo. Nel mondo della finanza è stato coniato il termine «zombie companies» a indicare tutte quelle imprese sovraindebitate che hanno difficoltà con gli interessi e la restituzione del capitale. Secondo uno studio della International bank of settlements su 14 paesi occidentali, le imprese zombie sono passate dal 2% nel 1990 al 12% nel 2016. Un’accelerazione dovuta in larga misura al basso costo del denaro che ha spinto anche le imprese più deboli a indebitarsi. E, nel 2020, si è aggiunto il Covid. Dall’inizio della pandemia negli Stati Uniti la lista delle grandi imprese zombie si è allungata di altre 200 unità fra cui Boeing, Carnival Corp, Delta Air Lines, Exxon Mobil. Del resto Bloomberg conferma: quasi un quarto delle 3mila grandi società quotate in borsa negli Stati Uniti rientrano fra le imprese zombie. E il recente fallimento dell’impresa mineraria statale Yongcheng mostra che il problema esiste anche in Cina. Intanto uno studio della Banca mondiale informa che, tra il 1991 e il 2014, il ricorso al debito da parte delle imprese operanti nei così detti mercati emergenti (Africa, Asia e America Latina per intenderci) è cresciuto 30 volte con prestiti ottenuti non solo sui mercati locali, ma anche internazionali.

Foto Gerd Altmann-Pixabay.

I debiti in dollari ed euro

L’Institute of international finance stima che nel 2021 la spesa dei paesi emergenti per il debito (interessi e restituzione del capitale in scadenza) sarà di circa 7mila miliardi di dollari e per il 15% sarà in valuta estera.  Il che allarma la Banca mondiale che, nel suo studio, precisa: «Questa rapida crescita del debito solleva preoccupazioni perché le crisi finanziarie nei paesi emergenti sono spesso precedute da alti livelli di indebitamento da parte delle imprese. Specie se si tratta di debiti contratti in valuta estera, perché può bastare una svalutazione per aggravare la loro situazione debitoria». Come è successo a molte imprese turche che, nel corso del 2020, hanno visto la moneta del proprio paese svalutarsi del 30% rispetto al dollaro. Molte di loro non sono fallite solo grazie ai sostegni finanziari e fiscali concessi dal governo. Uno scenario analogo potrebbe ripetersi in Pakistan, Argentina, Marocco, Egitto, ma non si sa con quale esito dal momento che i governi stessi sono fortemente indebitati.

Va detto che in rapporto ai rispettivi Pil, i governi del Sud   sono mediamente meno indebitati di quelli del Nord. Ciò non di meno devono compiere uno sforzo maggiore non solo perché sono più deboli, ma anche perché devono pagare tassi di interesse più elevati. Nei paesi emergenti il debito cumulativo di tutti i governi corrisponde al 60% del Pil complessivo, nei paesi maturi al 131%. Ma lo sforzo dei primi è doppio rispetto ai secondi considerato che nei paesi emergenti la spesa per interessi assorbe il 10% delle entrate fiscali, nei paesi a economia matura il 4%. E si tratta di medie. Analizzando i casi specifici si trova che, in alcuni paesi (come Ghana e Sri Lanka, ad esempio), la spesa per interessi assorbe percentuali che variano fra il 30 e il 40%. Peggio di tutti il Libano che, nel 2019, ha speso per interessi il 50% delle proprie entrate fiscali. Ed è notizia del novembre 2020 che il governo dello Zambia ha dovuto dichiarare default non avendo di che pagare la rata di un prestito denominato in euro.

Il debito dei paesi poveri

In questo scenario, una notizia positiva è la decisione dei governi del G20 di sospendere, per la durata della pandemia, la riscossione dei pagamenti relativi ai prestiti che essi hanno concesso ai paesi più poveri, per intendersi quelli con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno. In ambito ufficiale, essi sono anche detti «paesi Ida», in ragione del fatto che sono ammessi a godere dei prestiti agevolati elargiti dall’agenzia della Banca mondiale denominata International development assistance. In tutto si tratta di 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale.

Secondo gli ultimi dati disponibili, riferiti al 2019, complessivamente i governi dei paesi Ida detengono un debito di 523 miliardi di dollari, ma solo il 34% è bilaterale, ossia è nei confronti di altri governi. Il resto è verso organismi multilaterali come Banca mondiale e Fondo monetario internazionale (46%) e    verso banche commerciali e altri soggetti privati (20%). Pertanto, la sospensione si applica solo a un terzo degli importi, quelli riferibili al debito bilaterale che è l’unica parte su cui i governi del G20 hanno potere decisionale. A conti fatti, si tratta di 27,4 miliardi di euro per il biennio 2020-2021.

L’aspetto bizzarro è che solo una quarantina di paesi ha chiesto di poter beneficiare della sospensione. Fra i motivi avanzati dagli esperti per spiegare una risposta così poca entusiastica, c’è la circostanza che le cifre sospese dovranno essere rimborsate fra il 2022 e il 2024. Un periodo molto breve che rischia di creare un sovraccarico di esborsi che a molti paesi fa paura. Considerato che una buona metà dei paesi più poveri è già in stato di insolvenza, o è vicina a diventarlo, è abbastanza comprensibile che molti di loro non vogliano sottoscrivere patti che sanno di non poter onorare. Del resto, mancano informazioni sulle contropartite che i governi debitori dovrebbero dare in cambio delle sospensioni, né si sa quali misure scatterebbero in caso di inadempienze. Considerato che la consulenza è del Fondo monetario internazionale, non ci sarebbe da sorprendersi se l’offerta fosse condizionata al rispetto di regole che, in passato, si sono rivelate altamente destabilizzanti sul piano sociale e politico.

Senza lungimiranza

Il che conferma che l’unica strada da perseguire per liberare i paesi più poveri dalle catene del bisogno è l’annullamento del loro debito, esattamente come ha ribadito papa Francesco nella lettera che ha inviato l’8 aprile scorso alla Banca mondiale: «Lo spirito di solidarietà globale impone di ridurre in maniera significativa il    debito delle nazioni più povere, un peso che la pandemia ha ulteriormente esacerbato. Scegliendo di alleggerire il loro debito compiremmo un gesto di grande umanità perché permetteremmo a quelle popolazioni di accedere ai vaccini, alla sanità e all’istruzione».

Generalmente, si invoca il senso di generosità per indurre a comportamenti di rinuncia, ma in questo caso basterebbe appellarsi alla lungimiranza perché l’avarizia non conviene a nessuno in un momento in cui basta un focolaio di non vaccinati per fare divampare di nuovo la pandemia a livello globale.

Francesco Gesualdi

Foto Gerd Altmann-Pixabay.

 




Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale


Sul mercato gli individui non sono tutti eguali. La soluzione non è però il «capitalismo compassionevole». È compito dello stato correggere le distorsioni con l’imposizione fiscale. Soltanto così è possibile perseguire la giustizia sociale.

La generosità è un valore, ma quanto è sano affidare la soluzione dei problemi sociali alla libera generosità dei cittadini? È una domanda che vale la pena porsi perché si fa sempre più marcata la tendenza a trasformare la solidarietà in un optional.

L’optional ci piace, ci dà un senso di libertà che ci imprime leggerezza. Del resto, questo è il sogno che il mercato ci trasmette: i mercanti offrono, i consumatori scelgono. In piena libertà. Se vogliono prendono, altrimenti lasciano. Almeno così va l’adagio. In realtà, c’è anche la situazione in cui si vorrebbe comprare, ma non si può perché non si hanno i soldi per farlo. Questo tipo di impossibilità materiale, al mercato non interessa. Eppure, è proprio questa non libertà, altrimenti chiamata miseria, che dobbiamo prefiggerci di eliminare tramite ciò che Rousseau ha chiamato «Contratto sociale»: la rinuncia da parte di tutti di un frammento di libertà individuale per costruire una libertà collettiva più ampia. La libertà più ampia si chiama «giustizia sociale». Il frammento di libertà individuale ridotta si chiama «imposizione fiscale».

Ricchi e poveri

L’umanità, almeno quella occidentale, ci ha messo qualche millennio per guardare ai poveri come a persone ferite nella loro dignità. Fino a qualche secolo fa eravamo talmente barbari da considerare legittima la schiavitù e la servitù della gleba. Complici le espressioni religiose, compresa quella cristiana, che per vari secoli ha avallato l’ordine costituito comprendente la schiavitù.

È famoso l’invito contenuto nella terza lettera di Paolo ai Colossesi: «Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore». Posizioni riprese da importanti esponenti ecclesiastici successivi che invitavano i poveri ad accettare con rassegnazione la propria posizione di sofferenza. Nel contempo, però, si rivolgevano anche ai ricchi affinché sapessero essere caritatevoli.

Una combinazione comportamentale poco comprensibile sul piano sociale, forse con una sua giustificazione escatologica se concepiamo la miseria, e più in generale la sofferenza, come un’opportunità di prova al servizio di un tribunale celeste la cui funzione principale è quella di giudicare l’umanità. Ognuno secondo la propria posizione: i miseri messi alla prova rispetto alla capacità di accettare la sofferenza, i benestanti messi alla prova rispetto alla capacità di attivare sentimenti di pietà. Da cui l’imperativo ai miseri di accettare la propria condizione di sofferenti e ai benestanti di destinare parte delle proprie fortune in beneficienza per sollevare le sorti dei miseri. Impostazione che, nel Medioevo, permise la crescita di ospedali, mense, ricoveri, gestiti dalla Chiesa con i soldi messi a disposizione dalla nascente classe mercantile che aveva incluso la beneficienza nei propri bilanci economici sotto la voce «conto di messer Domeneddio». Primordi di quel capitalismo compassionevole che la tradizione protestante rafforzerà ulteriormente.

È un mondo costruito attorno ai soldi. Foto Pixabay.

L’affermazione dei diritti

L’idea di liberazione totale dalla miseria, e più in generale dalla sofferenza, inizia a farsi strada a fine Settecento quando l’illuminismo introduce il concetto di diritto. Una condizione positiva e inviolabile che deve essere garantita ad ogni essere umano per il fatto stesso di esistere. Un principio che, essendo stato coniato dalla classe borghese, inizialmente era limitato ad alcuni diritti civili: libertà di pensiero, proprietà privata, tutela giuridica. Più tardi, però, i movimenti socialisti riuscirono ad estendere il concetto di diritto anche ad aspetti sociali. E la completezza si raggiunse nel 1948 con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo da parte dell’Onu che all’art. 25 recita: «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

Affermati i diritti, la domanda che dobbiamo porci è chi deve garantirli. Di sicuro, non la solidarietà individuale per sua natura incerta e precaria. I diritti si pretendono dalla comunità, la quale deve farsene carico attraverso un patto di solidarietà collettiva. Esattamente come prevede la nostra Costituzione, che nello stesso articolo, il numero 2, richiama i diritti e istituisce il dovere di solidarietà: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E poiché viviamo in un sistema basato sul denaro, uno degli strumenti cardine della solidarietà è quello fiscale a cui «tutti devono concorrere in ragione della propria capacità contributiva».

Così afferma l’articolo 53 della Costituzione, che aggiunge: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Un criterio che potrebbe essere riassunto con la massima: quanto più guadagni, tanto più devi essere disponibile a pagare aliquote più alte.

Nel secondo dopoguerra, quando la scena era dominata da un forte movimento operaio, in tutta Europa venne raggiunto un alto livello di welfare finanziato da un sistema fiscale che colpiva in maniera particolare le classi ricche. Perfino negli Stati Uniti nel 1963 l’aliquota oltre i due milioni di dollari (rivalutati ad oggi) era al 91%. In Italia la riforma fiscale del 1974 organizzò l’imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef) su 32 scaglioni con l’ultima aliquota al 72% oltre i 258mila euro. Ma non passò molto tempo che già si cominciò ad attenuare la progressività riducendo gli scaglioni e modificando le aliquote fiscali con innalzamento di quelle sui redditi medio bassi e riduzione su quelli alti.

Patrimoniale? «Sì, grazie»

Ormai stava soffiando un nuovo vento, il vento neoliberista, riassumibile in tre parole chiave: più mercato, più profitti, meno stato. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati nove, con l’aliquota più bassa al 18% e quella più alta al 65%, nel 2007 gli scaglioni li troviamo a cinque con l’aliquota più bassa al 23% fino a 15mila euro e la più alta al 43% oltre 75mila euro.

La conclusione è che su un reddito di 3 milioni di euro (secondo il valore di oggi) nel 1974 lo stato si sarebbe preso 1 milione e 713mila euro (57,1%), oggi se ne prende solo 1 milione e 283mila (42,7%). Da una ricerca condotta da Cadtm (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi), si apprende che fra il 1983 e il 2017 i favori accordati alle classi ricche hanno procurato allo stato un mancato incasso stimabile in 146 miliardi. Ammanco che ha prodotto due risultati: aumento del debito pubblico e meno diritti.

Ad esempio, nel suo rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) del 2021, l’Istat certifica che «tra il 2010 e il 2018, l’offerta ospedaliera è andata modificandosi, con una riduzione delle strutture e dei posti letto. In particolare, il numero di questi ultimi è diminuito in media dell’1,8% l’anno, fino ad arrivare, nel 2018, a una dotazione di 3,49 posti letto – ordinari e in day hospital – ogni 1.000 abitanti».

A giudicare dall’intensità con cui si raccolgono fondi, la ricerca sembra uno dei settori meno sostenuti dalla mano pubblica. Ogni anno la Rai indice la settimana di raccolta fondi per Telethon, la fondazione che finanzia la ricerca a favore delle malattie rare. Identicamente anche la fondazione Firc-Airc s’inventa ogni sorta di iniziativa per raccogliere fondi a favore della ricerca sul cancro. La rivista Vita che elabora i dati forniti dal ministero dell’Economia e delle Finanze sulle detrazioni e deduzioni per erogazioni liberali, stima che nel 2019 l’insieme delle donazioni versate dagli italiani, ammonti a 5,3 miliardi di euro, che rappresenta quasi il 3% del gettito Irpef incassato dallo stato.

Basterebbe aumentare di qualche punto l’aliquota sui redditi alti e lo stato potrebbe incassare ciò che serve per garantire i fondi ad attività essenziali come la ricerca, il miglioramento della sanità, l’assistenza a fasce fragili oggi lasciate alla benevolenza. E ancora di più potrebbe essere raccolto se si introducesse una patrimoniale, ossia una tassazione sull’insieme della ricchezza posseduta. Che è una proposta fatta nel dicembre 2020 da alcuni parlamentari di Leu e del Pd che prevedeva l’introduzione di quattro scaglioni d’imposta. Partendo da un’aliquota dello 0,2% su un patrimonio complessivo di 500mila euro, l’aliquota sarebbe dovuta salire allo 0,5% al raggiungimento di un milione di euro, per andare all’1% sopra i 5 milioni e finire al 2% oltre i 50 milioni. Percentuali tutto sommato modeste, che però non hanno trovato il consenso del parlamento che ha bocciato l’intera proposta.

Dollari. Foto Rabe-Pixabay.

Paradisi e perdite fiscali

Perfino l’Ocse, l’istituto dei paesi occidentali addetto alle analisi economiche, ammette che disuguaglianze e dissesto sociale sono fenomeni aggravati da un sistema fiscale sempre più accomodante con i ricchi. E cita al riguardo la tassazione dei redditi d’impresa scesa mediamente dal 32,5% nel 2000 al 23,9% nel 2018. Non contente molte imprese globali ricorrono ai paradisi fiscali per occultare i propri guadagni e non avere da pagarci sopra un bel niente. Tax justice network stima che lo spostamento di profitti e ricchezze nei paradisi fiscali abbia provocato agli stati una perdita fiscale di 427 miliardi di dollari nel 2020. E in prima fila, fra i furbetti dell’evasione (tax avoidance, per dirla all’inglese), si trovano i colossi del web, gli stessi che permettono ai propri amministratori delegati di comparire ai primi posti per donazioni: Jeff Bezos patron di Amazon, MacKenzie Scott moglie dello stesso, Jack Dorsie patron di Twitter, Charles Schwa patron di Netflix. Aziende queste che, tra l’altro, non brillano neanche per rispetto dei diritti dei lavoratori.

Strana logica quella di arricchirsi alle spalle dei lavoratori e delle casse pubbliche e poi mostrarsi buoni versando qualche briciola in beneficienza. Strana in una prospettiva morale, ma perfettamente coerente in una prospettiva di potere. Perché, alla fine, di questo si tratta: mostrare un po’ di bontà di facciata con il duplice scopo di ottenere consenso attorno a uno dei peggiori sistemi economici che l’umanità abbia partorito e controllare punti strategici del sistema.

Tipico quello dei vaccini, su cui la fondazione Bill Gates (ex patron di Microsoft) ha investito somme altissime, e quello delle Nazioni Unite finanziata a piene mani da privati fra cui Ted Turner (cofondatore della Tv globale Cnn). Del resto, il secondo finanziatore dell’Organizzazione mondiale della sanità è proprio la Fondazione Bill Gates che contribuisce per il 10% circa. «Dopo tutto – per dirla con le parole di Nicoletta Dentico, autrice di Ricchi e buoni? (si veda Dietro la bontà del capitalismo, MC gennaio-febbraio) – una mano lava l’altra. La ricchezza delle aziende permette la filantropia, la filantropia apre nuovi mercati alle aziende. Il filantrocapitalismo non ci rimette mai. La democrazia, sì».

Francesco Gesualdi

 




Se l’acqua dipende dai «futures»

testo di Francesco Gesualdi |


I «futures» sono scommesse di borsa per speculare sulle variazioni di prezzo di una merce. Un’idea (perversa) di quell’economia finanziaria che ora ha preso di mira anche l’acqua, cioè un bene e un diritto essenziale.

Si sono aperte le scommesse anche sul prezzo dell’acqua. Si tratta di una minaccia non solo economica, ma pure politica. Al momento succede solo negli Stati Uniti per iniziativa della Chicago mercantile exchange (Cme), la più potente società mondiale specializzata nell’intermediazione di prodotti finanziari connessi alle commodities: minerali, prodotti agricoli, prodotti energetici e ora anche l’acqua. Oltre a innumerevoli piattaforme informatiche, il gruppo Cme gestisce quattro borse valori di dimensione internazionale: due a Chicago e due a New York. Il compito di Cme è fare incontrare ogni giorno milioni di attori interessati a stipulare contratti di acquisto o di vendita con consegna a data futura secondo prezzi concordati nel tempo presente. Operazioni spesso svolte senza l’interesse reale a vendere o comprare ciò che è stato pattuito, ma con la speranza di trarre vantaggio dalle variazioni di prezzo che, secondo le proprie previsioni, dovrebbero intervenire fra il momento della firma e la consegna. Genericamente tali contratti vanno sotto il nome di futures, alla lettera «futuri».

Contrattazioni

I futures nacquero a metà Ottocento assieme alla borsa di Chicago, lo spazio mercantile creato per favorire lo scambio di derrate agricole. Un luogo di contrattazione di livello nazionale dove i grandi produttori agricoli potevano incontrare i grandi mercanti di derrate alimentari per concludere accordi di compravendita.

Inizialmente si trattava di un mercato spot, un luogo cioè in cui si trattavano quantità fisiche giacenti nei magazzini. Potevano essere sacchi di grano, di mais, di riso, di zucchero, che gli acquirenti si sarebbero portati via una volta concluso l’accordo. Ma, andando avanti, subentrò anche l’abitudine di avviare contrattazioni su quantità ancora da raccogliere. Forse per interesse di entrambe le parti: di chi comprava per garantirsi la continuità delle forniture e di chi vendeva per avere la certezza che i suoi raccolti sarebbero stati venduti. Ma anche per avere garanzie rispetto ai prezzi. In fondo l’agricoltura è sempre piena di incognite: basta una pioggia in più o in meno, lo sviluppo di insetti di un tipo o di un altro e si può avere un raccolto scarso o abbondante con inevitabili ripercussioni sul prezzo: in crescita se i raccolti sono scarsi, in diminuzione se sono abbondanti. Comprare in anticipo a prezzo prefissato mette entrambe le parti al sicuro, anche se qualora dovessero intervenire variazioni importanti, una delle parti contraenti si mangerà le mani per la perdita potenziale subita, l’altra se le fregherà per lo scampato pericolo.

Sia come sia, i futures si affermarono così tanto che vennero addirittura accettati dalle banche come forme di garanzia per i prestiti che concedevano. In fondo se si trattava di futures di vendita la banca aveva la garanzia che, alla data prestabilita, sarebbe arrivato del denaro. Se si trattava di un future di acquisto la banca aveva la garanzia che sarebbe arrivato un carico di raccolto. Ma il vero elemento di novità che venne avanti con l’affermarsi dei futures fu l’entrata in campo degli speculatori, soggetti che non sono interessati a comprare e vendere nessun tipo di merce, ma solo a scommettere sull’andamento del suo prezzo in modo da guadagnare nel caso si sia visto giusto. Tradizionalmente le scommesse si fanno rispetto a delle gare, siano esse sportive, politiche, o di altro tipo, ed hanno come parti lo scommettitore e il botteghino che tiene il banco. Lo scommettitore punta una certa somma sulla vittoria di un giocatore e, in caso di successo, il banco si impegna a restituire la somma versata maggiorata di un premio. In caso di sconfitta, lo scommettitore perde tutto a vantaggio del botteghino.

L’acqua non è una merce da contrattare alla Borsa valori. Foto Gerd Altmann-Pixabay.

Scommesse dannose

Le scommesse attuate nell’ambito della speculazione finanziaria funzionano diversamente. Per cominciare, il rapporto si tiene fra due soggetti e si concretizza tramite un contratto di compravendita a consegna futura. L’abilità delle due parti sta nella capacità di indovinare come si muoverà il prezzo e, a seconda delle proprie previsioni, collocarsi nella posizione di compratore o di venditore. Chi avrà visto giusto guadagnerà, chi avrà visto sbagliato perderà. Per una migliore comprensione del meccanismo si vedano i semplici esempi contenuti nel box qui a sinistra.

La scommessa è una forma di gioco d’azzardo altamente discutibile da un punto di vista morale e sicuramente dannosa da un punto di vista umano e sociale. Ma quando si viene alla speculazione finanziaria, molti pensano che possiamo disinteressarcene perché riguarda solo i ricchi. Della serie: che si derubino pure fra loro, tanto noi non ne siamo toccati. Ma non è così. Le conseguenze delle scommesse realizzate tramite futures difficilmente rimangono confinate alle due parti contraenti, molto più spesso ricadono su tutti perché alcuni soggetti finanziari hanno una tale potenza di fuoco da poter spingere, con le proprie scelte, i prezzi nella direzione voluta. Così i mercati finanziari determinano le sorti dell’economia reale. Varie volte in passato i prezzi del petrolio hanno subìto bruschi rialzi o ribassi a causa delle scelte effettuate dagli speculatori. Lo stesso dicasi per il caffè, un settore che ogni anno vede la stipula di contratti a scopo puramente finanziario per volumi di merci anche venti volte più alti di quelli stipulati a scopo commerciale. Con somma gioia di chi gestisce le borse perché l’attività di intermediazione rende bene: complessivamente nel 2019 Cme ha registrato una media quotidiana di 19 milioni di contratti che le hanno procurato commissioni per quasi cinque miliardi di dollari. Detratte le spese e le tasse, i suoi azionisti, principalmente fondi di investimento come Capital Research & Management, Vanguard, BlackRock, si sono spartiti profitti per oltre due miliardi di dollari.

Penuria e tariffe

L’idea di promuovere i futures sull’acqua, a Cme è venuta in mente osservando la penuria di acqua che, da qualche tempo, colpisce la California. Uno dei periodi di maggior siccità è stato quello fra il 2012 e il 2016, durante il quale molte parti della Central Valley sono sprofondate anche di 60 centimetri come risultato della scarsità di piogge e della sete insaziabile di acqua da parte degli agricoltori. Per decenni le aziende agricole hanno pompato acqua in maniera indiscriminata fino a provocare un tale abbassamento delle falde acquifere da fare sprofondare strade, ponti, edifici. Ora lo stato della California ha deciso di proteggere i suoi acquiferi tramite una tripla strategia: migliore irreggimentazione delle acque piovane, limiti ai prelievi da parte dei pozzi privati, aumento dei prezzi applicati sull’acqua prelevata dai corsi d’acqua superficiali. Il tutto tenendo presente che anche negli Stati Uniti, come in molti altri paesi, le acque di fiumi e laghi sono gestiti da autorità pubbliche che però consentono, a chi ne fa richiesta, di prelevare acqua in cambio di una concessione a pagamento. Solitamente le richieste sono avanzate da imprese (siano esse pubbliche o private) che gestiscono i servizi idrici urbani, da industrie e centrali elettriche o anche da aziende private che poi rivendono l’acqua agli agricoltori a scopo irriguo. In California, la tariffa di concessione per il prelievo di acqua è passata approssimativamente da 224 dollari ogni mille metri cubi, nel 2009, a 446 nel 2015. E, dopo alcuni mesi di retrocessione, nel luglio 2020 la tariffa è tornata a impennarsi raggiungendo 703 dollari ogni mille metri cubi.

L’acqua è un diritto

Un andamento che ha attirato l’attenzione degli esperti finanziari di Cme i quali si sono convinti che l’acqua è ormai entrata in una fase di scarsità che la destina a un aumento costante del prezzo, seppur con lievi contrazioni transitorie interpretabili come le classiche eccezioni che confermano la regola. E sono giunti alla conclusione che i tempi erano maturi per avviare un mercato dei futures dedicato all’acqua, perché quando i prezzi si fanno instabili, emergono due gruppi di attori che si rivolgono al mercato dei futures: le aziende commerciali in cerca di meccanismi di stabilità e gli speculatori che sperano di guadagnare dai prezzi in movimento.

Così nel dicembre 2020 Cme ha inaugurato il mercato dei futures per l’acqua. Ma l’iniziativa non è piaciuta a tutti. Fra i critici Pedro Arrojo-Agudo, rappresentante speciale della Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite con delega particolare all’attuazione del diritto all’acqua potabile. In una nota dell’11 dicembre afferma con forza che «l’acqua non si può quotare a Wall Street alla stregua dell’oro o del rame. L’acqua è di tutti, è un bene comune. È direttamente connessa alle nostre vite e al nostro benessere». E ha continuato: «Sul mercato dei futures operano anche banche e fondi speculativi che usano i futures come strumento di scommessa. Se il loro interesse dovesse essere quello di spingere il prezzo dell’acqua sempre più su, si assisterebbe a una bolla speculativa come si ebbe nel mercato dei cereali nel 2008. Se dovesse succedere, milioni di famiglie e di piccoli agricoltori perderebbero l’accesso ad un diritto fondamentale come l’acqua».

Non è una merce

L’iniziativa di Cme minaccia l’acqua come diritto non solo per le ripercussioni economiche, ma anche per quelle culturali e politiche. Visto da questo punto di vista, il mercato dei futures è un altro tassello aggiunto al castello delle privatizzazioni, affinché pezzo dopo pezzo ci abituiamo a considerare l’acqua una merce qualsiasi da fare gestire al mercato. Tanto più che il mercato si presenta come il migliore gestore delle risorse scarse. E qui scopriamo che oltre all’inganno c’è anche la beffa perché lo stato di crisi profonda in cui si trova l’acqua non è dovuto solo ai cambiamenti climatici, ma anche al sovra sfruttamento e all’inquinamento che ha reso l’acqua inservibile. L’acqua, insomma, è una delle tante vittime di una concezione economica che dando valore solo a ciò che ha prezzo, maltratta tutto ciò che è comune semplicemente perché è gratuito. Ma, ciliegina sulla torta, dopo aver trasformato le risorse abbondanti in risorse scarse, il mercato pretende di essere lui a gestirle, sostenendo di essere l’unico a disporre dei mezzi per farlo. Il mezzo è quello del prezzo, altamente classista, perché dà non a chi ha bisogno, ma a chi ha denaro da spendere. L’unica alternativa possibile è quella di papa Francesco che, al punto 158 della Laudato si’, scrive: «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante ingiustizie e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri».

 Francesco Gesualdi