Vivere di Dio (Es 20,18-23,19)


Il decalogo (Es 20,1-17) non è il riassunto o la conclusione della legge, ma semmai il suo sfondo, quasi la sua «costituzione». Evidentemente, però, le leggi non possono esaurirsi in una presentazione profonda e sintetica (quasi solo dei titoli), ma poco dettagliata. E in effetti il libro dell’Esodo fa seguire le dieci parole da quasi tre capitoli di regole più specifiche e precise, che possono tuttavia causarci qualche problema, anche se, secondo alcuni, essi sono solo il primo commento e applicazione dei «comandamenti».

La prima raccolta di leggi ebraiche

Le nuove parole divine, che iniziano in Es 20,22, sono estremamente concrete, puntano a regolamentare una vita reale, quindi una vita ambientata in un tempo storico preciso. Ecco perché, ad esempio, non solo accettano l’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo e anche la schiavitù (che nei tempi biblici non vediamo mai sparire), ma danno anche per scontato che il tempio non sia uno solo, e ve ne sia, invece, uno in ogni cittadina o addirittura in ogni casa (cfr. 21,6). Questo è un tema che diventerà fondamentale nel libro del Deuteronomio. In questi capitoli abbiamo, quindi, una raccolta di leggi e norme piuttosto antica, che tradisce il suo essere nata in un contesto contadino arcaico.

In questa raccolta si parte dalle questioni riguardanti il culto (20,23-28) per poi passare ad alcune regole sugli schiavi (21,1-8) e sulle donne (21,6-11, con una certa sovrapposizione dei temi), per poi giungere ai casi di omicidio e lesioni fisiche (21,12-36), anche qualora a perpetrarle siano animali, tanto che, per affinità di tema, si arriva a contemplare il caso di furto di bestiame (21,37). A sua volta, quest’ultimo argomento porta l’attenzione più generale sulla tutela delle proprietà (22,1-14). Quindi, si prende in carico la difesa dei deboli (22,15-26) e di Dio (22,19.27-30). Si passa poi a diverse norme relative al rapporto con il prossimo, anche nel caso della gestione di animali (23,1-9), e, infine, nuovamente, a questioni religiose: l’anno sabbatico (23,10-12) e alcune feste (23,13-19).

Il tutto si chiude rinnovando la garanzia dell’assistenza permanente da parte di Dio (23,20-33), che lega il nostro brano con ciò che segue e che analizzeremo con più calma nella prossima puntata.

Alcuni casi particolari

Omicidio. Può essere interessante riprendere in particolare alcune delle norme inserite in questi capitoli.

Si stabilisce, ad esempio, che chi uccide un uomo vada messo a morte (21,12-14), anche se questi può rifugiarsi in alcune città specifiche, qualora l’omicidio non sia intenzionale (21,13; cfr. Nm 35; Gs 21). Qui l’omicida non può essere arrestato, sempre che non abbia ucciso con inganno, nel qual caso può anche essere strappato via dall’altare del tempio dove si è rifugiato (Es 21,14). Il senso generale pare abbastanza chiaro: la tutela della vita è qualcosa di imprescindibile (cfr. Gen 9,5), al punto che persino quando l’omicidio non è intenzionale, va perseguito. Nello stesso tempo, occorre prevedere delle vie di scampo legittime per chi davvero non ha cercato la morte del fratello. La vita è sacra al di là di ogni intenzione omicida, ma anche la vita dell’omicida è da tutelare.

Questa raccolta di leggi recupera poi anche la norma del taglione, «occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede…» (21,21). Questa consuetudine, che a noi oggi sembra crudele, era in origine un limite alle faide e a vendette sproporzionate. Come vedremo tra poco, non dobbiamo dimenticarci che si tratta di regole antiche, che sarebbero state superate già durante l’elaborazione del Primo Testamento.

Donne e spose. È questo contesto arcaico a spiegare anche norme che oggi, fortunatamente, ci paiono disumane e insensate, come quella che equipara sostanzialmente una donna vergine al valore economico che ha per la sua famiglia nel caso che la sua verginità sia violata prima del matrimonio (cfr. Es 22,15-16): si parla di rimborsi, come fosse un costo che lo sposo o il violatore deve pareggiare. Il contesto culturale era quello, incapace di cogliere nella giovane una persona, autonoma e sensibile, benché questa dimensione sia poi pienamente colta in Gen 1-2, testi che vengono scritti probabilmente secoli dopo.

Maghe. Questo stesso spirito «arcaico» si muove nelle condanne a morte delle maghe (22,17) e di chi compie atti di bestialità (22,18). Il motivo di punizioni così gravi è probabilmente da identificare in ragioni religiose: in Egitto si veneravano diversi animali come dèi, e il rapporto con il Dio d’Israele non sopporta manipolazioni magiche, che non coinvolgono la persona ma che lasciano intendere che di Dio ci si possa servire come di uno strumento.

Anno sabbatico. Peraltro, non abbiamo certezze che queste misure così dure siano mai state applicate, così come è rimasto sempre un bel progetto mai applicato quello dell’anno sabbatico (23,10-11). Succede anche a noi oggi, quando offriamo il racconto della nostra vita, e certamente accadeva per i testi biblici, di descrivere come una realtà quello che invece era un desiderio o un progetto che ritenevamo giusto e bello da realizzare. Sono incoerenze che da una parte dicono il limite umano nel non riuscire a tradurre in realtà ciò che è solo ideale, e dall’altra mostrano la capacità di cogliere con onestà che l’ideale è altro rispetto a ciò che si fa.

Il senso nel contesto

Qual è il senso di questi capitoli, allora?

La prima impressione che proviamo di fronte a questi testi è quella di un certo straniamento. Essi sembrano incoerenti con il contesto degli altri capitoli.

Fino a ora, infatti, il libro dell’Esodo ha presentato un poderoso cammino di fede, sia pure in modi e forme narrative inconsuete per noi. Un percorso di approfondimento nella conoscenza e nell’intimità con Dio, nella fiducia in un Signore che si prende carico delle vite umane.

Lo stesso decalogo, come abbiamo visto, lungi dall’essere un elenco di regole, è quasi un manuale d’istruzioni per l’esistenza, criteri di fondo per poter vivere una vita bella e piena.

Qui, invece, improvvisamente, ci troviamo in un testo arido, formale, legalista, che ci parrebbe completamente fuori luogo in un libro tanto ricco.

L’intuizione spirituale antichissima che lo ispira, però, è che i moti profondi dello spirito esigono di essere tradotti in misure pratiche. Una coppia che inizi una vita insieme dovrà mettersi d’accordo su chi fa la spesa, chi cucina, chi pulisce, chi pensa alla posta e alle bollette: tutti questi accordi pratici non sono la ragione per cui si sta insieme, ma la incarnano. Si vive insieme per amore, per dedizione reciproca, cosa che ha un valore spirituale profondissimo, ma che si deve concretizzare in scelte pratiche e minute. Anzi, si dovrebbe addirittura dire che proprio perché ha un valore spirituale profondo si incarna in scelte pratiche.

Il mondo cristiano dovrebbe essere consapevole che non si dà conoscenza di Dio se non nell’umano, non si vive di spirito se non nella carne, non si rende reale un’intuizione dell’animo se non dentro al corpo: anche di questo parla l’incarnazione del Verbo. Ma qui intuiamo che tale percezione profonda era già presente negli autori antichi, che hanno contribuito a formare il Primo Testamento.

Una fede incarnata

Se si vuole essere fedeli al Dio creatore e salvatore, occorre iniziare dal rispetto di norme esteriori e poco importanti in sé, ma che incarnano scelte di vita e di fede fondamentali. Anche riportare al padrone un bue smarrito (Es 23,4) è uno dei tanti modi concreti con cui esprimere la propria fede nel Dio liberatore che ha fatto uscire il popolo dall’Egitto. In questo senso, tutte le norme elencate nei capitoli dal 20 al 23, norme che non sono sicuramente centrali, costituiscono tuttavia la conseguenza pratica dell’adesione all’alleanza.

Per tornare all’esempio della vita di coppia, non è tanto importante chi porti fuori da casa la spazzatura, ma che in quel gesto molto semplice si ribadisce l’intenzione di tenere in piedi e rendere viva un’unione spirituale decisa tempo prima. Il gesto in sé può essere trascurabile, ma è espressione di amore.

Ecco perché queste norme, sicuramente datate e limitate, vengono inserite nella Bibbia, e in una posizione importante. Che non siano regole eterne è dimostrato dal fatto che verranno riprese e modificate almeno altre due volte (nel «codice deuteronomico», Dt 12-26, e nella «legge di santità», Lv 17-26). Qualunque interpretazione letterale di queste norme («Bisogna fare così perché nella Bibbia è scritto così») è una forma di integralismo che non tiene conto del fatto che agli stessi problemi la Bibbia ha risposto nel tempo con leggi diverse incarnate in nuovi contesti di vita.

Detto questo, però, ci è utile capire che nel contesto e nel tempo in cui sono state formulate, quelle regole erano il modo preciso con cui accogliere l’alleanza con Dio. Mantengono un valore autentico di «parola di Dio» per lo spirito profondo che le abita, anche se la lettera è superata dal tempo.

È anche per questo motivo che tali leggi possono, in fondo, restare incompiute. Non è neppure lontanamente ipotizzabile che questo «corpo legale» possa regolamentare la vita di una società intera. Di fatto, si riprendono soltanto alcune questioni, e forse neppure le più importanti.

Non sappiamo se la società ebraica avesse prodotto raccolte di leggi complete (se l’ha fatto, non ci sono arrivate). A chi ha redatto l’Esodo, di certo, questo non importava: bastavano alcuni esempi, non esaustivi, che ricordassero a tutti i fedeli che i grandi moti dell’anima esigono una traduzione corporea.

Al centro c’è l’essere umano

Queste regole incomplete sono attraversate comunque da un’attenzione che era già presente nel decalogo e che è diffusa in tutto il Primo Testamento: ciò che sta a cuore a Dio è la vita dell’uomo.

Possiamo infatti notare che per alcune colpe si prevede addirittura la pena di morte, per altre delle sanzioni che sembrano delle semplici multe. E quasi sempre la pena di morte è prevista per chi ha ucciso altri esseri umani. Per chi ha rubato o danneggiato i beni altrui, sono previste anche pene importanti, ma sempre senza andare a toccare la vita.

Questi capitoli suggeriscono che i beni, il buon nome delle persone, le stesse norme liturgiche, sono tutte cose importanti, ma per Dio lo sono meno della vita delle sue creature. L’essere umano viene prima di tutto, anche prima della legge divina. Questa intuizione, in forme diversissime tra di loro, attraversa tutta la Bibbia. Mai il Dio che impone delle regole si mostra più interessato al rispetto di queste piuttosto che all’esistenza autentica delle persone.

È un’attenzione che si coglie tra le righe in diverse norme: ad esempio, si prevede un limite al tempo in cui uno schiavo può restare tale (21,2-4), salvo che sia lui a non voler essere liberato (21,5-6); una ragazza può essere anche venduta schiava, ma va trattata quasi fosse una moglie (21,7-11); e sono originali e commoventi, nel contesto del Vicino Oriente Antico, le norme che vanno a proteggere orfani, vedove e forestieri, ossia coloro che, in quel mondo culturale, basato sul clan, non avrebbero avuto nessuno che li proteggesse (22,20-23). Alla base di tutto non c’è la gestione ordinata di una società, magari, come spesso succede, allo scopo di tutelare ricchi e potenti, quanto l’attenzione paterna nei confronti di ogni singolo essere umano.

Il rispetto dell’alleanza con Dio comporta insomma di intraprendere percorsi concreti tramite i quali esprimere la scelta religiosa di fondo. Percorsi che sono situati in un tempo e in un contesto, che invecchieranno e saranno superati, ma che continuano a indicare un modo possibile con cui accogliere e rispondere con coerenza all’amore di Dio Padre. Ecco perché il loro valore materiale decade, ma quello spirituale dura sempre, e vengono inseriti nel libro dell’Esodo.

Angelo Fracchia
(Esodo 13 – continua)




Decalogo: istruzioni per vivere (Es 20,1-17)


Solo dopo che il popolo ha affermato di voler vivere insieme al suo Dio, riconosciuto come Signore (Es 19,8), riceve la legge: una sorta di sintesi scritta di ciò che Dio si aspetta dai suoi: un documento che si apre con un testo assolutamente centrale per la vita del popolo, tanto è vero che verrà citato da Gesù (Mc 10,19; Lc 18,20), da san Paolo (Rom 13,9) e addirittura ripreso quasi alla lettera in un altro brano del Primo Testamento (in Dt 5,6-21). Non è frequente che due passi biblici siano uguali: il Deuteronomio riprende la rivelazione e la ridice in un altro modo, ma quando arriva al Decalogo preferisce usare quasi le stesse parole, salvo pochi cambiamenti. Uno scrittore che si comportava così, nell’antichità, lasciava intendere che non si sarebbe potuto riscrivere meglio il testo, che restava quindi intatto. Non è un plagio, è un omaggio.

Un modello di morale?

Nella tradizione ebraica e cristiana il Decalogo è diventato la sintesi delle norme morali, da insegnare al catechismo e da utilizzare per l’esame di coscienza. L’impressione era, infatti, che raccogliesse tutto ciò che Dio «comandava» agli esseri umani. Intorno al Decalogo si è spesso strutturata la morale. Esso è servito come strumento d’ordine di tutti i doveri e i divieti, religiosi e non, a volte elaborati anche al di là del suo stretto contenuto.

Una lettura un po’ attenta ci aiuta però ad accorgerci che dentro al testo del Dealogo c’è qualcos’altro. Qualcosa di più prezioso di un codice di comportamento etico.

Nelle nostre presentazioni del Decalogo spesso si parla di due parti (d’altronde, Es 34,29 parla di due tavole di pietra), una prima riguardante le relazioni con Dio, che coprono tre comandi, e l’altra sui rapporti con gli altri uomini. Nei secoli di elaborazione da parte della Chiesa, poi, gli ultimi comandamenti hanno finito con l’essere molto ampliati (a essere onesti soprattutto il sesto) dando l’impressione che essi avessero un peso maggiore. Possiamo però notare che nell’antichità, lo scrittore faceva come oggi fanno spesso gli insegnanti: dava maggiore spazio a ciò che riteneva più importante, a costo di ripetersi. Possiamo allora notare che ai primi tre comandamenti nel testo dell’Esodo sono dedicati dieci versetti, per un totale di 134 parole (in ebraico), mentre gli altri sette coprono nove versetti, ma solo 44 parole. La prima parte, insomma, è decisamente più ampia, perché evidentemente chi l’ha scritta la considerava molto più importante.

Ma anche un altro particolare ci stimola a ripensare il senso del Decalogo. La prima affermazione del testo, infatti, può sembrare strana per un elenco di norme (Es 20,2: «Io sono il Signore, tuo Dio»): non ordina niente. Sembra piuttosto una presentazione, quasi una premessa, in cui Dio spiega chi è. In effetti le tradizioni catechistiche l’hanno trattata come un’introduzione, che però nel testo è un’altra, al versetto 1 («Dio pronunciò tutte queste parole:»). In più, si tratta di un’autopresentazione ampia, in cui Dio si definisce con il suo nome proprio, poi aggiunge che si tratta del «tuo Dio», precisando di essere colui che ha fatto uscire il popolo dalla terra d’Egitto, «dalla condizione servile». Non si tratta semplicemente di una carta d’identità, ma della spiegazione della relazione che lo lega a Israele. E questa relazione è di salvezza, di liberazione, di legame interiore con qualcosa di nuovo. «Io sono il tuo Dio»: tu hai un Dio, non sei abbandonato, non sei solo, non rimani senza custodia e accompagnamento. Pensavi di essere solo, ma non lo sei; di più, hai accanto a te un Dio, che è tuo.

Un’intuizione e le sue conseguenze

Se lo ripensiamo così, il Decalogo acquisisce subito un’intonazione diversa. Non si tratta più di dover rispettare delle regole, magari specificando quali punizioni o conseguenze ci saranno per i trasgressori. Si tratta invece, come intuizione di partenza, di renderci conto che non siamo soli.

Israele, questo popolo che ancora non ha scoperto di essere un popolo, ha un Dio. E non nel senso che abbia qualcuno da venerare, per il quale faticare, a cui presentare offerte. Ha un Dio perché colui che lo lega a sé lo ha già liberato, lo ha fatto uscire dall’Egitto che era una terra di schiavitù.

Quella che ci sembrava una pallida introduzione ai comandamenti, è in realtà il cuore pulsante di tutta questa pagina: il popolo ebraico, e chiunque vorrà mettersi su quella strada, non è solo. Non siamo soli. C’è un Dio pronto a mettersi dalla nostra parte e a muoversi per primo, rendendoci liberi. Perché non è un Dio che cerchi schiavi, ma persone autonome che decidano di legarsi a lui non per costrizione ma per amore, non servi ma amici, o addirittura sposi (cfr. Os 2,21-22; Is 61,10-11; Ez 23; Gv 15,15).

Al primo versetto del nostro testo, Dio si presenta al suo popolo, ma per presentarsi non usa una definizione filosofica, non dice «Io sono l’essere perfettissimo…». Al contrario, si presenta in relazione: «Io sono il tuo Dio, io ti ho fatto uscire dall’Egitto». Non si presenta in astratto, ma in rapporto con coloro con cui parla. Non è l’amore, è l’amante.

Letta così, la prima frase non può essere una semplice introduzione, ma l’intuizione di fondo. Israele non è solo, noi non siamo soli. Dio c’è, ed è in relazione con loro, con noi. Il resto, in fondo, sono conseguenze.

Se Dio c’è, ed è in relazione con Israele, perché andare a cercare altri dèi («Non avrai altri dèi di fronte a me», Es 20,3)? Non ce n’è bisogno. Dio c’è già.

Ma non solo non c’è bisogno di cercare degli dèi. Bisogna anche evitare di trasformare il Dio d’Israele in un amuleto, in qualcosa di oggettivato, di fisso, di rigido, di «sicuramente nostro». Anche questo dice il versetto 4 («Non ti farai idolo né immagine alcuna…»), che è stato inteso nella tradizione ebraica come invito a evitare di farsi una qualunque immagine di Dio (anche perché l’immagine di Dio, nel mondo, esiste già, ed è l’uomo che vive: cfr. Gen 1,26; S. Ireneo dirà che «gloria di Dio è l’uomo vivente»). Ma in più c’è l’intuizione, colta plasticamente nell’episodio del vitello d’oro (Es 32), che in assenza di Dio non si sia più liberi, ma si diventi servi di altro, oltre tutto di qualcosa che non è superiore all’uomo. Chi ha Dio come Signore, invece, non ha altri signori.

Un sostituto di Dio, poi, può essere, sì, un idolo, ma anche la tentazione di ridurre il Dio vivente a un’immagine sola, a un’idea sola. Es 20,4 ci dice che Dio continuerà a sorprenderci, pur continuando a essere affidabile. È vivo, non è un ritratto o una statua, non è un’idea sempre rigida e fissa. Potrà anche essere imprevedibile, arrabbiarsi e castigare, anche se promette già che manterrà l’ira per tre o quattro generazioni, ma la bontà per mille (Es 20,5-6).

A cerchi sempre più larghi

Il testo del Decalogo parte da questo discorso di fondo e lo sviluppa come una serie di conseguenze man mano più ampie.

Se JHWH è il nostro Dio, non c’è bisogno di cercarne altri. Ma a questo punto, come ulteriore conseguenza, occorre evitare di appellarci a Dio per ciò che non è da Dio (v. 7). È inutile pretendere che possa salvaguardarci e vivere al posto nostro, sostituirsi alle nostre decisioni, cambiare il mondo compiendo ciò che sarebbe affidato a noi. Sarebbe un «invocare Dio invano», perché se ne ridurrebbe il ruolo a qualcosa di infimo e marginale; come sposarsi per avere a disposizione una cuoca o uno spaccalegna. Dio si propone come nostro compagno, come garanzia ed esito della speranza, non come tappabuchi alle cose che, nella nostra vita, potrebbero non funzionare.

E ancora, e sempre di conseguenza: se Dio può essere questo elemento centrale della vita umana, occorre trovare tempo per lui. Lui per primo è consapevole che la nostra vita si muove tra moltissimi impegni e urgenze. Ma se riconosciamo che qualcosa è centrale nella nostra esistenza, sentiremo il bisogno di donargli tempi e spazi. Non necessariamente la parte maggiore del tempo, di certo, ma la più importante. «Tempo di qualità», diremmo noi oggi, senza però aver inventato l’idea. Secondo l’intuizione dell’Esodo, si tratta di un giorno su sette, destinato a recuperare ciò che ci fa autenticamente esseri umani, anzi creature, se è vero che al riposo settimanale sono richiamati non solo tutti gli esseri liberi, ma anche gli schiavi e il forestiero e addirittura il bestiame (v. 10: «il settimo giorno è il sabato, in onore del Signore»). Di più, persino Dio si è fermato il settimo giorno (20,11), perché il ritorno all’essenziale della nostra esistenza, indipendentemente da tutto il lavoro più urgente che dobbiamo accollarci, è un’esigenza dei viventi tutti.

Fino a coinvolgere gli altri

I cerchi non si fermano. Il v. 12 («Onora tuo padre e tua madre») sembra quasi collegare la dimensione divina con quella umana. Invita a «dare peso» ai genitori, che rappresentano ciò da cui veniamo senza averlo deciso, il dono di una vita che è in nostra gestione ma non ci siamo guadagnati. Non si toglie l’autonomia alle persone libere, non si dice che occorra ubbidire a ogni ordine dei «padri», ma che va concessa loro importanza, rilievo, peso. Non ci siamo fatti da noi, occorre riconoscerlo.

Nei primi «comandi», quelli fondamentali, il testo offre anche delle motivazioni. Qui lo fa per l’ultima volta, indicando, più che la ragione, lo scopo: «perché si prolunghino i tuoi giorni». Il verbo ebraico può essere tradotto «allungarsi» («prolunghino» nella traduzione Cei), come fanno tutte le versioni moderne, ma anche «approfondirsi», come se la percezione di ciò da cui veniamo, la consapevolezza di dover essere grati per un dono che non ci siamo cercati, permetta non solo di allungare il tempo della nostra vita, ma (soprattutto?) di viverlo in profondità, conoscendone il pregio. È diverso il nostro rapporto con un oggetto che ci siamo comprati da quello che abbiamo con un regalo ricevuto.

Gli altri comandamenti, più veloci e secchi, si pongono a questo punto ancora come conseguenza dell’intuizione di fondo iniziale.

Dal momento che conosco il pregio della mia vita, rispetterò anche quella altrui («Non uccidere», v. 13).

Anzi, non mi limiterò a rispettare la vita fisica, ma anche quella dimensione di speranza e costruzione di vita che è soprattutto il legame di coppia: «Non commettere adulterio» (v. 14). Questo comandamento nella tradizione si è ampliato a tutti i reati sessuali, ma non è così nel testo biblico, il quale non sembra tanto interessato al sesso in sé, quanto alla relazione tra persone.

Ma sono a servizio della vita anche i possedimenti altrui («Non rubare», v. 15), e il buon nome che tutela una piena vivibilità dell’esperienza umana («Non risponderai contro il tuo prossimo una testimonianza falsa»: v. 16).

All’ultimo cerchio concentrico troviamo anche il semplice desiderio dei beni degli altri, perché sentirsi minacciati nelle proprie «cose» rende precaria la vita. L’elenco del v. 17 («Non desidererai la casa del tuo prossimo», la moglie, lo schiavo, il bue, l’asino, ecc.) risente di una cultura contadina arcaica, nei fatti molto maschilista e pronta non solo a considerare la moglie uno dei tanti beni, ma a metterla in un ordine approssimativamente di costo economico: per questo viene dopo la casa, anche se prima del bue… (v. 17).

È come se, progressivamente, si cogliessero, una per volta, le conseguenze del passo precedente. Al centro di tutto, però, come causa prima delle nuove intuizioni, c’è la percezione che non siamo soli, che Dio è con noi, che è in relazione con noi, che intende salvarci. Tutto il resto è conseguenza. E non tanto comando, ordine, quanto, per così dire, percorso per assomigliare sempre più a Dio, istruzioni per vivere bene questa relazione con lui che trasforma la nostra vita.

Angelo Fracchia
(Esodo 12 – continua)




Alleanza (Es 19)


Lo abbiamo già detto: nel nostro immaginario, condizionato ad esempio dalle riduzioni cinematografiche, la vicenda dell’Esodo, spesso, si concentra e si conclude sul passaggio del Mar Rosso, miracoloso e spettacolare.

Se seguiamo, però, la logica del racconto biblico, il cuore della vicenda non sta nel passaggio del mare, ma in ciò che succede più avanti, nel capitolo 19, il punto di svolta decisivo.

Il popolo d’Israele, fidandosi in modo progressivamente sempre più intenso e radicale, si è lasciato condurre da Dio fuori dall’Egitto, al di là del mare. È stato nutrito dalla manna, dall’acqua, dalle quaglie; ha vagato nel deserto, sostenuto da un Dio che si è mostrato guida di giorno, sotto forma di colonna di nubi, e protezione di notte, come colonna di fuoco; ha imparato a collaborare con Mosè scegliendosi giudici che ne alleggerissero in parte il lavoro. Ma ancora vaga nel deserto senza un punto fermo. È giunto quindi il momento di porne uno in modo definitivo.

Le radici nel passato (ES 19,1-4)

Diversi commentatori moderni hanno richiamato l’attenzione sulle incoerenze del testo, che in questi capitoli sembra faticare a presentarci spostamenti ed eventi in modo lineare. Di solito, questo è un segno di abbondanti riletture e riscritture, e quindi di quanto, lungo i secoli, si siano ritenuti centrali questi episodi.

I biblisti spesso amano indagare queste incoerenze per capire le caratteristiche delle aggiunte e delle correzioni, e poi stabilire se è più importante la versione di partenza o il testo di arrivo. Qui non si intende negare l’importanza di tali indagini e ricostruzioni, noi lettori ci troviamo però davanti a un libro offerto a noi in una forma definitiva, l’unica a disposizione del nostro ascolto e della nostra meditazione. Chi ha composto la versione finale del libro, in ultimo, era convinto che fosse sufficientemente comprensibile e significativo. Per questo, senza disprezzarli, tralasciamo tutti i pur preziosi tentativi di ricostruzione storica e cronologica, evitando di addentrarci con troppa pignoleria sui tempi e glispostamenti delle vicende raccontate.

Così facendo, peraltro, siamo coinvolti in un percorso che è particolarmente significativo anche per noi, per i nostri cammini di fede moderni.

È vero che in Genesi ci troviamo davanti un’esperienza di fede limpida come quella di Abramo, pronto a stare al gioco divino senza argomenti e motivazioni, e semplicemente fidandosi. Chi ha composto l’Esodo, invece, pare dire che, senza nulla togliere a quella fede eccezionale, il percorso degli uomini è di solito diverso.

Lo stesso Mosè ha titubato non poco di fronte alla chiamata di Dio (Es 3-4), prima di farsi suo portavoce coraggioso e deciso. Gli ebrei sembrano aver dapprima assistito quasi passivamente allo scontro tra Mosè e il faraone (Es 5-10), ma poi hanno dovuto decidere da che parte stare, «denunciarsi» come ebrei nella notte di Pasqua, partire all’avventura (Es 11), affrontare la minaccia angosciante e mortale del mare (Es 12) e poi il deserto.

Su ali d’aquila

Ora, al capitolo 19, dopo tante settimane o mesi di percorso, Dio li invita a guardarsi indietro, a ricordarsi della schiavitù e di come ne sono venuti fuori, «come sulle ali» di un rapace. Di un’«aquila», dicono le nostre traduzioni del salmo 90. Alcuni propongono, con qualche ragione, che il salmo si riferisca piuttosto a un «avvoltoio», uccello – è vero – impuro, ma che gli ebrei ammiravano non solo per il suo volo tanto controllato, ma anche per la cura che presta ai suoi piccoli. Non è raro che non riusciamo a ricostruire il senso preciso, esatto, di un termine ebraico nella Bibbia, ma comunque è chiaro il messaggio: il salmista pensa a un uccello in grado di volare sicuro, padrone dell’aria, e mosso da un esemplare affetto da genitore.

Si potrebbe obiettare che in realtà il cammino del popolo nel deserto non sia stato per nulla come un volo su ali d’aquila. È stato, anzi, difficile, tra ansie, rimpianti, fatiche, fame e sete, calura, incertezze. Il testo biblico, però, molto spesso non pretende di essere un resoconto formale, ma piuttosto il racconto di un innamorato. Dio non assomiglia a un poliziotto che redige un verbale, ma a un amante che ricorda gli inizi della sua storia di coppia. E per lui, dal momento che il cammino nel deserto ha portato all’incontro decisivo nel quale può finalmente porre al suo amato Israele la domanda fatidica, è un cammino buono, compiuto come in volo. Fatica e tempo non contano, perché finalmente si è insieme.

C’è poi un elemento essenziale, in questa presentazione. Spesso gli esseri umani immaginano di dover dare qualcosa a Dio, convincerlo, sedurlo, per averne qualcosa in cambio. Qui, invece, il primo a dare, a mettersi in gioco, è l’Altissimo, e non l’uomo. Prima Dio agisce, e solo dopo offre all’uomo di entrare in una relazione più stabile. Anche questa, peraltro, non viene imposta all’uomo, quasi fosse un pagamento obbligatorio per la salvezza, ma gli è offerta come proposta, come possibilità a cui l’essere umano è chiamato a rispondere liberamente.

Tutto fa pensare non a un rapporto tra padrone e servo, ma a una relazione tra amanti. Dio spera e desidera di essere scelto liberamente, di essere amato. Non pensa di avere diritto a pretendere dall’uomo di essere onorato.

Alleanza come matrimonio

Quello che Dio prospetta al popolo, qualora esso decida di sceglierlo come suo Signore, ha in effetti a che vedere con un legame personale più che con un servizio formale. Dio propone un’alleanza, un patto che si stringe solo tra chi si considera alla pari (anche quando, come in questo caso, i due non sono affatto allo stesso livello). L’uomo può rifiutarsi di accogliere la relazione.

Da parte sua, però, Dio può proporla consapevolmente e in modo non superficiale perché, spiega, «mia è tutta la terra» (Es 19,5). Se avesse voluto, avrebbe potuto andare a prendere il suo popolo ovunque. Il fatto di scegliere proprio Israele è, per il popolo, la garanzia che il Signore vuole restargli vicino e fedele sempre, perché non ci sono poteri esterni che possano separarli. Tra i vari popoli di tutta l’umanità, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ha deciso di restare fedele al gruppo guidato da Mosè, e si pone davanti a lui in attesa di una risposta. Gli prospetta di farne una «proprietà particolare», una «cosa sua».

L’espressione potrebbe in teoria far pensare a un possesso, se non fosse accompagnato da tutte queste formule che, insieme alla libertà di scelta, rimandano a un legame personale, quasi come fosse un matrimonio. Non però un matrimonio come lo si viveva al tempo di Mosè, dove gli sposi a volte non avevano grande libertà di scelta (e quasi nessuna ne aveva la donna!), ma come lo concepiamo noi, tra due libertà che decidono di vincolarsi a vicenda perché si riconoscono reciprocamente come promessa di vita piena. E se una prospettiva di questo tipo è comprensibile per l’uomo, non può che stupirci che anche Dio attenda del bene dalla sua relazione con l’essere umano.

Certo, in seguito a questa decisione anche umana, il Signore potrà presentarsi come «Dio geloso» (Es 20,5; 34,14), ma parliamo della gelosia di un amante equilibrato, che sa di dover custodire con cura la relazione più importante della sua vita, quella che costituisce per lui qualcosa di unico, insostituibile. Potrebbero dirlo gli uomini, ma lo dice anche Dio.

Una missione comune (Es 19,6)

Come un fidanzato che prospetta alla su futura sposa come sarà la vita insieme, così Dio spiega al suo popolo, da cui attende una risposta, quali progetti ha su di lui: «Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa».

A noi la parola «regno» non evoca quello che diceva ai lettori antichi. A noi, guardando soprattutto alle esperienze delle monarchie assolute dei secoli passati, richiama inevitabilmente l’opposto di repubblica e l’idea del dominio di uno sugli altri. Nell’antichità non era così: le popolazioni potevano strutturarsi in clan disordinati, spesso nomadi, o in regni. Il re era colui che imponeva la direzione di fondo a una comunità organizzata di persone, era concepito come l’ordine in mezzo al caos.

E Dio indica anche la direzione generale che immagina prenderà questo suo regno: sarà una nazione «di sacerdoti». Il sacerdote era colui che mediava tra l’umanità e Dio, tra il cielo e la terra. Faceva salire al cielo le offerte e ne faceva discendere la volontà divina, garantendo così l’ordine nell’universo, perché assicurava la comunicazione tra le sue due entità più significative.

Quello che Dio prefigura, insomma, è che gli ebrei, riconoscendolo come Dio, avrebbero potuto far dialogare la storia e l’eterno, il trascendente e il mondano, a beneficio di tutti (un sacerdote non si limita mai a mediare solo per sé). Dio sta sognando un suo rapporto con tutti gli uomini, garantito dagli ebrei. Li chiama a collaborare alla sua opera di vita e salvezza per tutti.

Per questo può dire loro che saranno una «nazione» messa da parte, riservata, «santa».

Gli ebrei, nei secoli, distingueranno il loro ruolo (di «popolo») da quello di tutti gli altri (che sono definiti «nazioni», «genti»). Qui Dio usa il termine che solitamente si utilizzava per indicare «gli altri» applicandolo agli ebrei. Parola accompagnata però dall’aggettivo «santo». Il «santo» non indicava, come poi si è inteso nella storia più recente, una persona dalla vita vissuta in modo esemplare e perfetto, bensì uno che era messo da parte, riservato, solitamente, per Dio. Con questo Egli riconosce che i discendenti di Giacobbe sono una nazione come le altre, ma che diventerà speciale agli occhi dell’Altissimo, esattamente come una fidanzata riconosce che esistono tanti uomini nel mondo, ma ha occhi solo per il suo amato.

La risposta umana

Per fortuna ci manca il tempo per metterci a fantasticare sulla possibile ansia divina nell’attendere la risposta degli ebrei. E anche il libro dell’Esodo risolve in fretta la risposta umana. Tutto, nel testo, lascia però intendere che davvero Dio lasci pienamente liberi coloro che ha strappato dalla schiavitù dell’Egitto.

Certo, l’antichità non pensava alla libertà del singolo e insisteva sulla dimensione comunitaria (saranno poi i profeti a cogliere che davanti a Dio siamo più propriamente individui). Ma la libertà di scelta è garantita, difesa, voluta da Dio, che non cerca servi, ma amici (cfr. Gv 15,15).

Cogliamo forse adesso quello che evidentemente era già chiaro a Dio fin dall’inizio (Es 3,12): il percorso di liberazione poteva essere compiuto solo arrivando qui, per essere non più schiavi del faraone, ma servi del Signore, in un rapporto di esclusività che sia però scelto consapevolmente, e non subìto come imposizione. È la differenza che passa tra servire per ubbidienza o per amore.

E la risposta del popolo arriva veloce: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (Es 19,8). La successiva visione di Dio che avvolge il monte è quasi la festa davanti al «sì» del popolo.

Angelo Fracchia
(Esodo 11 – continua)




Collaborare (Es 18) nella «normalità»


Il popolo d’Israele è libero, al di là del mare, fuori dalla casa di schiavitù. Ha già sperimentato la nostalgia del passato e il sostegno di Dio (con la manna, l’acqua e persino con un dono che sembra parlare dell’eccezionalità di una festa, le quaglie). Tutto sembrerebbe risolto, ma il percorso in realtà non è finito.

Ora, l’attenzione si sposta su Mosè, chiamato a fare un altro passo, questa volta nella direzione della gestione del quotidiano. Alcune situazioni sono vissute prima da lui, poi vengono vissute in modo simile dall’intero popolo. Tocca ora alla guida di Israele aggiungere un altro mattone.

Una famiglia (18,1-12)

Quando in Esodo 2,15-22 abbiamo incontrato Ietro, il sacerdote madianita divenuto suocero di Mosè, pensavamo che servisse semplicemente a introdurre la moglie, o forse addirittura il figlio. Ma Ietro ora ritorna in scena, imprevisto, e si comporta come se si trovasse di fronte a un popolo stanziale. Infatti si reca in visita dal genero, riportandogli moglie e figli.

In questa veloce annotazione ci sono molti particolari che ci stupiscono. Intanto, non sapevamo che a Mosè fosse nato un secondo figlio, Elièzer. Poi, se Sipporà e i suoi figli vengono condotti nell’accampamento ebraico, significa che non erano con Mosè in Egitto.

Noi lettori sappiamo diverse cose sulle vicende vissute da Mosè e dal suo popolo. Come quest’ultimo avesse dapprima assistito allo scontro con il faraone quasi da spettatore, ma poi aveva dovuto prendere posizione e ogni famiglia aveva dovuto esplicitare la sua identità ebrea (Es 12,7), partire in fretta di notte con carri e bestiame, anziani e bambini, lasciandosi alle spalle gli egiziani in lutto per la morte dei primogeniti. Sappiamo anche che gli egiziani li hanno inseguiti con un esercito veloce e agguerrito. Non sappiamo però quanto tempo trascorre dal primo scontro tra Mosè e il faraone e l’uscita di Israele dall’Egitto. Potrebbero essere trascorsi mesi, oppure poche settimane o addirittura giorni.

In quel tempo Mosè ha rischiato la propria vita esponendosi in prima persona. Il testo ci dice tutte queste cose. Ma che Mosè non avesse portato con sé in Egitto moglie e figli non ce lo dice, e in effetti non ce lo aspettavamo. Li ha lasciati fuori dall’Egitto per precauzione? Come garanzia per il suo ritorno fuori dall’Egitto?

Enigmi

Colpisce, poi, che l’Esodo narri l’accoglienza calorosa che Mosè riserva a Ietro, ma non dica niente riguardo a come abbia ricevuto la moglie e i figli. Certo, possiamo spiegarci questa cosa con il fatto che il mondo culturale da cui il libro dell’Esodo proviene e, ancor di più, quello che intende storicamente narrare, erano contesti fortemente patriarcali e maschilisti, dove inoltre i figli rappresentavano semplicemente la garanzia di continuità del clan, ma non erano valorizzati in sé. È però vero che, nonostante questo retroterra, spesso, nei racconti biblici, le donne vengono presentate con fisionomie nette, con progetti, sogni e frustrazioni proprie, come autentiche protagoniste delle storie che coinvolgono i loro mariti. E nel caso di Sipporà questo non succede.

La figlia del sacerdote madianita aveva agito autonomamente, salvando Mosè, nell’enigmatico episodio in cui, mentre tornavano verso l’Egitto dopo la chiamata divina, aveva salvato la vita del marito circoncidendo il figlio (Es 4,24-26). Ma quel racconto, nel quale peraltro pare che la coppia avesse un figlio solo e che stesse andando in Egitto unita, è l’unico nel quale Esodo parla di Sipporà in modo significativo. E ora, invece, veniamo a sapere che non è stata in Egitto con il marito.

Ciò potrebbe significare che dopo la circoncisione del primogenito Gersom, Mosè ha rimandato alla casa paterna la propria famiglia. Però l’assenza, in quel contesto, del secondo figlio (il cui nome, Elièzer, in Es 18,4, è spiegato alludendo alla liberazione dal faraone) può lasciare intendere che solo dopo un periodo in Egitto, moglie e figli sarebbero stati fatti tornare. Se così fosse, le vicende dello scontro con il faraone sarebbero durate molto più a lungo di quanto il racconto spieghi.

Non lo sappiamo. Come succede spesso nei racconti biblici, ci troviamo di fronte a molte meno informazioni di quelle che noi riterremmo necessarie. Ma, proprio per questo, le notizie che troviamo sono significative. È come se l’autore ci dicesse che non è importante il perché Mosè avesse mandato via la propria famiglia, ma il fatto che ora vi si riunisce.

Una vita normale?

Dopo le vicende epiche dell’uscita dall’Egitto, e le cadute vergognose del deserto, ora Mosè, come il suo popolo, riprende una vita normale. La famiglia è simbolo di ordinarietà, anche per chi in una famiglia non vive (e magari se la ricrea con abitudini, animali o piante «di casa»).

Questa ordinarietà ci restituisce un Mosè non perfetto. Abramo, Elkana (1 Sam 1, il padre di Samuele, più grande profeta-sacerdote d’Israele), lo stesso Giacobbe, avevano avuto con le mogli una relazione intensa, di scambio e di affetto. Mosè, invece, no. O almeno, il testo dell’Esodo non ce ne parla. Sembrerebbe ricadere nel più scontato cliché patriarcale. Esso fa da sfondo ai racconti biblici, ma non è il modello da imitare. Ancora una volta, come nei casi dell’uccisione della guardia egizia (Es 2,12), del matrimonio con una madianita o delle incertezze davanti alla chiamata divina (Es 3-4), la vicenda umana di Mosè sembra perfettibile.

I più grandi modelli di cammino con Dio non sono necessariamente persone del tutto esemplari. A contare non è la loro perfezione, ma la relazione con l’Altissimo. Questo parla, di rimbalzo, anche a noi oggi: la «normalità», la banalità, e, spesso, anche l’imperfezione della vita di ognuno di noi, non sono un impedimento a una relazione intensissima e profonda con Dio.

Nessun integralismo

La stessa sensazione di imperfezione e, in fondo, di normale vita umana, è sucitata anche da un altro particolare: Ietro riconosce le grandi opere compiute dal Signore (chiamato JHWH, il «nome proprio» del Dio d’Israele: Es 18,9), ma poi lo celebra facendo «olocausto e sacrifici a Elohim», chiamando Dio con il suo «nome comune». Siamo sicuri che sia un sacrificio al «Dio giusto»?

Ancora una volta, non siamo certi di nulla. Si può immaginare e sostenere che, dopo aver lodato il Dio d’Israele, Ietro lo onori con il suo sacrificio. Ma d’altra parte non possiamo dimenticare che lui è un sacerdote madianita, incaricato di sacrificare ai suoi dèi, e che non ha ancora una conoscenza profonda del Dio di Mosè.

D’altra parte, Elohim, grammaticalmente, è un plurale. Se è vero che molto spesso nella Bibbia ebraica indica genericamente «Dio», in una forma plurale che è di onore, quello resta comunque un nome generico, che potrebbe anche indicare un sacrificio non a un dio singolo, ma a diverse divinità. Come spesso accade in questo racconto così centrale per la fede ebraica e cristiana, dobbiamo sopportare l’ambiguità.

Alcuni elementi sono tuttavia chiari: la Bibbia, nonostante alcune apparenze e qualche passaggio diverso, non è integralista, e infiltra in molti brani l’impressione di un culto, una morale e una vita che non sono proprio immacolati e limpidi: se restano esemplari è perché si pongono sempre in relazione con Dio, non perché rispettino alla lettera norme e regole.

Un popolo (Es 18,13-27)

Il suocero di Mosè non ha però finito di immischiarsi nell’opera del genero. Si ferma qualche giorno da ospite e, nel frattempo, guarda che cosa succede. Vede che ogni mattina tanta gente va da Mosè per regolare le proprie questioni. La guida del popolo ascolta, valuta, fa capire quale sia la volontà di Dio e passa al caso successivo. Ietro scuote il capo, e spiega al genero che non approva: «Così non va bene! Hai un popolo numeroso, non puoi pensare di provvedere a tutto tu! Stabilisci invece degli anziani che giudichino le questioni ordinarie, e lascia che ti inoltrino soltanto quelle più difficili!» (Es 18,17-23).

Un consiglio di buon senso, semplice da elaborare, a cui Mosè, ci viene da pensare, sarebbe potuto arrivare anche da solo. Eppure, c’è bisogno che glielo fornisca il suocero, sacerdote di quei madianiti con cui gli ebrei avrebbero in futuro fatto più volte la guerra (cfr. Nm 25; Gdc 6-7; ricordiamo che erano madianiti anche i mercanti a cui Giuseppe fu venduto dai propri fratelli: Gen 37,28-36).

Il capo del popolo liberato dall’Egitto, l’uomo che parlava faccia a faccia con Dio (Es 33,11), ha bisogno del consiglio, peraltro non particolarmente geniale, del suocero, per imparare a gestire convenientemente il proprio popolo. E deve imparare a delegare, a farsi da parte, a lasciare che altri lavorino al posto suo, a non avere tutto sotto controllo.

Quale insegnamento per noi?

Noi siamo abituati a spiegazioni didattiche o morali molto esplicite, capaci di dirci con parole chiare che cosa fare e non fare, cosa è bene e cosa è male. In fondo, cerchiamo questo (magari persino per contestarlo) in tutte le tradizioni religiose o legali. Ma le forme religiose, soprattutto quelle più antiche, preferiscono raccontare, e comunicare contenuti attraverso narrazioni e storie.

Il Primo Testamento, per lo più, non fa eccezione: nella storia di Abramo è in realtà contenuta la spiegazione del modo ideale con cui rapportarsi con Dio, così come i primi tre capitoli di Genesi, che apparentemente sono una storiella carina e senza pretese, sono un condensato intensissimo della concezione dell’essere umano, e così via. Non fa eccezione l’Esodo, dove il racconto chiarisce il modo con cui relazionarsi con il Dio d’Israele attraverso un percorso lungo e articolato, nel quale all’iniziale interesse e stupore (Es 3-4) segue l’attento contemplare e soppesare dell’opera di Dio (Es 7-10), fino al momento in cui occorre prendere posizione (Es 11) e addirittura decidere di buttarsi, rischiando la propria vita sulla fiducia di una semplice promessa (Es 14).

Ci si poteva forse immaginare che il percorso fosse finito qui, ma in realtà si tratta ancora di investire fiducia e ascolto in una promessa che non si presenta con manifestazioni eccezionali ma passa attraverso le fatiche e i rimpianti della vita «normale» (Es 15-17).

Questo capitolo ci lancia verso un contesto ancora nuovo. Possiamo essere tentati di ridurre il cammino con Dio alle occasioni eccezionali, eroiche, ma queste sono soltanto un momento, un’introduzione o una svolta, di un percorso che passa dalla vita consueta, quotidiana, fatta di incertezze, tentazioni, ritorni indietro, e anche di mediazioni, di suggerimenti magari banali, di percezione del proprio limite e trucchi per superarlo, persino di piccole o grandi miserie e fragilità.

Nel cammino con il Dio d’Israele non è richiesta l’eccezionalità o la perfezione, ma solo di mettersi in cammino.

Angelo Fracchia
(Esodo 10 – continua)




Mangiare e bere (Es 15,22-17,16)

testo di Angelo Fracchia


Il popolo oppresso è stato liberato, ed è fuori dall’Egitto, vivo, mentre il faraone e il suo esercito sono stati coperti dal mare. L’impresa eroica è stata compiuta (da Dio), la storia può chiudersi sulla sigla finale. O almeno, è ciò che vedremmo in un film.

Gli autori del libro dell’Esodo, però, non volevano raccontarci una bella avventura di cui inorgoglirsi. Il loro obiettivo ultimo era di indicare ai lettori un percorso di fede nel quale avventurarsi: un percorso che cresce sempre, di fiducia in fiducia, di affidamento in affidamento, fino a un passaggio che può essere lancinante, che sembra minacciare la promessa stessa di vita che sta dietro e dentro alla relazione con Dio. Eppure quel passaggio, attraverso ciò che pare indicare la morte, conduce alla libertà.

E poi? La vita è finita? «Vissero tutti felici e contenti»? No, e chi ha scritto il libro sa che la vita è poi fatta di quotidianità banale e insieme faticosa, anche svilente rispetto a quei grandi sogni simboleggiati dal passaggio del mare. Una vita in cui ci si può persino chiedere se quello che abbiamo vissuto non ce lo siamo inventato, o se non abbiamo sbagliato tutto. E in cui ci sembra che a prometterci gioia e vita sia la nostalgia, il passato e il voltarci indietro a guardare ai tempi nei quali (ci sembra) non stavamo poi così male.

Le fatiche e le mormorazioni

E davvero questo libro antico si mostra più intelligente, profondo e acuto di tante nostre produzioni moderne. All’entusiasmo del «cavallo e cavaliere gettati nel mare!» (Es 15,21) segue il racconto di tre giorni di cammino nel deserto, senza acqua. Quando poi la si trova, è imbevibile (15,22-24). Quando poi, dissetati da acque risanate e rifocillati da una nuova oasi finalmente ricca, il popolo si rimette in cammino, arriva il rimpianto per la schiavitù: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra

d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà!» (16,3).

È la fragilità umana che tende ad abbellire i ricordi e a far sedere nel rimpianto, anziché camminare in avanti. In questa prospettiva, le pagine dell’Esodo parlano anche a noi e alle situazioni che viviamo, quelle nelle quali ci succede qualcosa di straordinario (la decisione di intraprendere un percorso di formazione, una vita diversa, una relazione profonda), ma il nostro entusiasmo iniziale lascia un po’ per volta spazio alla fatica del quotidiano, alla noia del lavoro arido e pesante, alle sofferenze del cammino di tutti i giorni. E subentra la nostalgia del passato, di quando ci sembrava di essere più liberi, con più possibilità davanti.

Ogni episodio del cammino di Israele nel deserto, quindi, è anche un suggerimento e un’istruzione per noi e per il nostro cammino di fede (fede in Dio, ma anche fiducia nelle persone che abbiamo accanto e persino in noi e nelle nostre scelte).

La «Amara» (Es 15,22-27)

Dopo tre giorni di cammino nel deserto, ad accompagnare il popolo è la sete. Quando finalmente si giunge a un’oasi, la sua acqua è però amara, non bevibile. Il testo insiste talmente tanto sull’amarezza del posto (chiamato proprio così: «Mara», che in ebraico significa «Amara») che non può trattarsi di un caso.

Abbiamo faticato per prendere la decisione di fidarci, ci siamo buttati, ci aspettavamo di essere trascinati solo dall’entusiasmo e siamo invece presi dalla sete, dalla fatica, e vediamo che i nostri sforzi non sembrano portare frutto. Subentra lo sconforto di chi sta male e pensa di essersi ingannato. L’acqua è imbevibile.

Mosè si rivolge a Dio, il quale gli fa gettare nell’acqua un legno. Questa scena fa ricordare il bastone steso sulle acque del mare per dividerle. Questa volta viene divisa l’acqua sana, che fa vivere, dall’amaro che conteneva. Potrebbe quasi sembrare un gesto con echi magici. Dobbiamo però ricordarci che le realtà più profonde e autentiche che viviamo, più spirituali, hanno bisogno di segni materiali per essere espresse: l’amore che lega due persone si incarna in regole di vita insieme ed è simboleggiato da un anello, la dedizione agli altri, magari, si incasella dentro norme protocollari e si esprime in una divisa da inferniere, da vigile del fuoco, e così via. Anche la religione non sfugge a questa dinamica: l’intento è di dirsi e pensarsi in comunione con Dio, e per farlo passiamo attraverso formule, gesti e riti che, a prima vista, parrebbero la negazione di una vita spontanea.

E il rischio c’è. Il bacio, che univa una coppia all’inizio del loro percorso in una promessa quotidiana, può diventare semplice routine, come quella di prendere chiavi di casa e portafogli prima di uscire. Il rischio esiste anche nella religione, e non è un caso che il gesto di Mosè sia preceduto dall’appello a Dio, dalla richiesta e risposta divina, che si fa gesto rituale (il legno sulle acque) e norme («il Signore impose al popolo una legge e un diritto»: 15,25).

Viviamo dentro a riti e regole, che restano autentici e vitali finché si mantengono collegati a ciò che esprimono, a una relazione vitalizzante con colui che ci libera sempre, non solo all’inizio. Il senso del rito, in fondo, è questo: rimandarci a un’esperienza di relazione che si è dimostrata affidabile, per trovare la forza di fidarci ancora.

E può essere confortante, per quanto marginale, l’annotazione di Esodo che, dopo la Amara (divenuta però dolce), ci sarà ad accogliere il popolo un’altra oasi, con ben dodici sorgenti (15,27): il cammino è faticoso e duro, ma non privo di sorprese anche positive, di inattesi (e non promessi) squarci di respiro.

Quaglie e manna (Es 16)

Dall’oasi paradisiaca bisogna però ripartire, e presto si fanno sentire di nuovo la fame e la sete, insieme alla paura di soffrirne, che forse è persino peggio. E allora, di nuovo, spunta la nostalgia per le «cipolle d’Egitto».

La risposta divina è particolare. Dio si lamenta della sua durezza di cuore e della poca fiducia del suo popolo, ma intanto si prende cura di lui, fa cadere a terra, nell’accampamento, quaglie da mangiare (16,13). In più, al mattino, è presente una «cosa fine e granulosa» che lascia perplessi gli Israeliti (secondo l’autore biblico la domanda «che cos’è? – man hu?», avrebbe portato al nome di «manna»). Sarà il loro cibo per quaranta anni, un cibo dalle caratteristiche molto speciali.

Si forma intorno all’accampamento ogni mattina. Chi si fa prendere dall’ansia e dall’accaparramento e ne raccoglie più di quanto gli serve, ne riempie comunque solo un omer, una misura prestabilita (non ci è neppure chiaro a quanto equivalga), mentre chi non riesce a raccoglierne tanta, ne avrà comunque un omer (16,16-18). Chi poi, preoccupandosi che forse il giorno dopo non ne avrebbe trovata, ha deciso di tenerne un po’ da parte, la trova marcita (16,20). Solo al sabato la manna non si presenta, ma quella del venerdì, raccolta in quantità doppia, non marcisce il giorno dopo (16,22-27). Infine, quella che non era raccolta al mattino presto, con il crescere della temperatura svanisce (16,21).

Da sempre i commentatori ebrei hanno pensato che una descrizione così particolareggiata intendesse parlare anche d’altro, del nutrimento che gli esseri umani possono cercare e ottenere in Dio, quello che potremmo definire la forza di affrontare il quotidiano, la prospettiva di speranza, le riserve di serenità e gioia.

Niente di tutto ciò può essere accumulato: non mi è possibile oggi raccogliere il doppio di amore allo scopo di averne anche per domani. Non mi basta la fiducia e la serenità che avevo ieri per vivere oggi. Ogni giorno ha bisogno del suo nutrimento, occorre sempre pensare al momento presente, rimandando al futuro ciò che accadrà.

E questo è anche il senso della preghiera di Gesù, che nell’invitare i discepoli a chiedere al Padre il proprio pane quotidiano (Mt 6,11; Lc 11,3) sembra ricollegarsi alla manna invitando a invocare il nutrimento per l’adesso, per il giorno presente, confidando che Dio ne donerà ancora per i giorni a venire.

Scoprire che il nutrimento fondamentale per la nostra vita non può essere accumulato, ci predispone di nuovo all’atteggiamento ideale da tenere non solo verso Dio, ma in fondo anche verso tutto ciò che ci fa vivere e sorridere: tenersi lontani dall’accaparramento ci spinge alla fiducia, al confidare nel fatto che verra anche domani quello che ci è stato garantito oggi. Ciò che nella vita più conta, e che non è certo il cibo, non può essere chiuso in una dispensa: bisogna sperare e confidare che ci verrà donato giorno dopo giorno.

I nemici in battaglia (Es 17)

Il senso profondo di questi episodi è richiamato dall’ultimo in elenco, la battaglia contro Amalék, che potrebbe sembrare il meno prodigioso e miracoloso. Capita che nel Sinai le quaglie in transito cadano al suolo. Il fatto che passino così vicine e ne cadano così tante da sfamare un popolo proprio quando questo chiede da mangiare, sembra una coincidenza miracolosa. La descrizione della manna fa pensare alla resina della tamerice o a una secrezione di alcuni insetti che vi vivono sopra, ma la sua quantità e regolarità possono stupire.

Meno miracolosa appare la vittoria sui nemici. Che nel deserto vivano tribù di seminomadi, combattive ma poco numerose, infatti, non è mai stata una novità, e un popolo così numeroso come quello ebraico poteva immaginare di batterle senza problemi.

Ma proprio qui si svela che a fare sopravvivere il popolo non è la sua stessa forza, il suo numero o la sua capacità, bensì la presenza di Dio. Lo si ribadisce in un modo che potremmo definire quasi ingenuo e «magico», perché Israele, nella battaglia contro Amalék, ha la meglio solo fino a quando Mosè riesce a impetrare da Dio la salvezza tenendo le braccia sollevate al cielo, e perde quando Mosè, stanco, abbassa le braccia. Finché non arrivano Aronne e Cur a tenergliele sollevate, fino alla vittoria (17,12).

La nostra sensibilità resta infastidita da tali scene di battaglia, spesso condite dallo sterminio dei sopravvissuti (17,13), ma dobbiamo ricordarci che qui è ampia la nostra distanza culturale da chi ha scritto e leggeva queste pagine. Quel mondo era abituato a vedere e subire crudeltà e violenza, e probabilmente percepiva che nello sterminio finale c’era più cliché e narrazione stereotipata che descrizione storica di un massacro realmente avvenuto.

A essere significativo e centrale, nel racconto non è tanto la vittoria del popolo, ma come essa avvenga, cioè grazie all’intervento di Dio. In fondo questa scena chiarisce, in modo molto visivo e apparentemente un po’ ingenuo, quello che nel corso del libro si dice regolarmente, ossia che a far vivere gli ebrei non è l’intelligenza o la forza umana, ma la relazione con un Signore che li ha liberati e, in più, non cessa mai di prendersene cura, offrendo acqua, cibo, sopravvivenza e sicurezza.

E che in cambio chiede solo di fidarsi di lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 9 – continua)




Il mare (Es 14,1-15,21)

testo di Angelo Fracchia |


All’inizio del quattordicesimo capitolo del libro dell’Esodo troviamo il popolo ebraico in una situazione scomodissima: durante la tragica notte in cui sono morti i primogeniti egiziani e si è celebrata la prima pasqua, tutti sono partiti per fuggire dalla «terra di schiavitù». Tutti: uomini, donne, bambini, anziani, bestiame… non può certo trattarsi di una carovana veloce. Sappiamo soltanto che, dopo quella che potrebbe sembrare una peregrinazione senza meta (Es 14,2-3), il popolo si trova stretto tra due minacce: davanti il mare, alle spalle il faraone, che si è pentito di averli lasciati partire e ha deciso di inseguirli per ricondurli in schiavitù o sterminarli.

Non sembra esserci via di scampo.

Senza scampo?

Conosciamo bene questa pagina, che si risolverà con l’apertura delle acque del mare da parte di Mosè, con il popolo che attraversa i suoi fondali all’asciutto e con l’esercito egizio che, mentre insegue, viene travolto dalle acque che tornano al loro posto.

È una scena grandiosa, epica, anche crudele, che non a caso conclude quasi sempre le presentazioni «cinematografiche» della vicenda di Mosè.

Il fatto però che, giunti a questo punto della vicenda, il libro dell’Esodo non sia ancora arrivato a metà, suggerisce che il ragionamento biblico è probabilmente più complesso e meno superficiale, e prende in considerazione che la libertà miracolosamente donata non è e non può essere l’ultima parola.

Ma su questo torneremo più avanti. Intanto leggiamo come avviene l’evento poderoso.

Che cosa accadde davvero?

Tanto poderoso e solenne che non può che far sorgere la domanda su che cosa sia davvero, storicamente, accaduto.

Davvero possono essere fuggite dall’Egitto e aver peregrinato nel deserto per quaranta anni seicentomila persone (Es 12,37: e senza contare i bambini)?

Facile per gli archeologi far notare che avrebbero dovuto lasciare qualche traccia in una terra che, con la poca pioggia che riceve, cancella solo molto lentamente i segni di ciò che subisce.

Davvero possono essersi aperte le acque di un mare profondo, per far passare un intero, numeroso (e lento) popolo, mentre l’esercito che lo inseguiva vi moriva? C’è chi giustamente segnala che quello che noi traduciamo come «Mar Rosso» è in ebraico «Mare delle canne», il che farebbe pensare piuttosto a qualche acquitrino poco profondo.

Non sarebbe impossibile immaginare, a quel punto, che il «forte vento da oriente» (Es 14,21) possa essere lo khamsin, una specie di scirocco caldo e secco che in Egitto si alza tra marzo e giugno. In questo caso, però, a essere poco probabile è l’annegamento dell’esercito egiziano.

Come succede per il percorso esatto seguito dagli ebrei nel deserto e nel Sinai, o per la localizzazione precisa del Sinai stesso, dobbiamo accontentarci di ipotesi, alcune delle quali più convincenti, ma che devono essere tutte subordinate alla convinzione che, per chi ha scritto il libro, non era importante cosa era accaduto storicamente e come, ma il senso della vicenda.

A questo punto, possiamo anche continuare a leggere ipotesi e argomentazioni (alcune molto interessanti), ma sapendo che, per interpretare correttamente il libro, dobbiamo fare attenzione a ben altro.

L’ora decisiva

Il libro dell’Esodo racconta questa vicenda come centrale per il popolo d’Israele, ma non la narra al solo scopo di far conoscere a Israele il suo passato, piuttosto per mostrare che la dinamica di quello che avvenne nell’uscita dall’Egitto è vera sempre, nella vita di ogni credente. Verrebbe da pensare, addirittura, che sia una dinamica vera non solo per i credenti nel Dio biblico, ma per chiunque si fidi di qualcuno o qualcosa.

Il popolo ebreo ha assistito, dapprima quasi da spettatore, alle vicende di Mosè. Certo, era dalla sua parte, non era un pubblico neutrale, però sostanzialmente non aveva neppure offerto a Mosè un grande sostegno.

Nella notte di pasqua aveva, invece, dovuto prendere una decisione. Dapprima più «leggera», radunandosi a celebrare la pasqua spargendo il sangue dell’agnello sugli stipiti delle porte, denunciandosi così come quegli schiavi che si stavano preparando ad abbandonare il paese. E poi una più «pesante», con la scelta di partire, di abbandonare la «casa di schiavitù».

Ognuna di queste scelte richiede fiducia, non alla cieca, ma sulla base dell’affidabilità divina, «dimostrata» dalle decisioni precedenti. Ogni scelta, però, non diventa materiale di «prova», ma solo conferma di un’affidabilità. Non si esce mai dalla fiducia, fino alla fine. Anzi, pare che ogni scelta di fidarsi rilanci verso un’altra ancora più grande.

Fino a quella definitiva, decisiva. Perché quella parola che invitava a fidarsi chiede di entrare nel mare. Che si è aperto, è vero, ma quanto può essere affidabile o pericoloso?

Mare, mondo del caos

Aggiungiamoci ancora che, per il mondo semita in genere, il mare è il mondo del caos, del disordine, del male, della morte. Secondo la tradizione ebraica Dio, nella creazione, mette ordine, divide le acque tra di loro, e poi dalla terra (Gen 1,6-10).

Nella struttura ideale ebraica, riprendendo antiche costruzioni mentali sumere, chi divide garantisce la vita. Anche nell’organizzazione del popolo ebraico, Israele è separato dalle genti, e al suo interno una tribù, quella di Levi, è distinta dalle altre (non possiede terra) e una delle sue famiglie (quella dei discendenti di Aronne) è ulteriormente separata allo scopo di servire con il sacerdozio.

Ma il mare è il luogo in cui non si possono tracciare confini, righe, divisioni. Ecco perché è sempre stato ritenuto il luogo più minaccioso tra tutti quelli naturali.

E Dio chiede di entrarvi, di addentrarsi in ciò che più si teme, nella paura anche irrazionale. Non offre garanzie, assicurazioni. C’è solo una parola a chiamare alla libertà al di là del mare.

 Fidarsi

Arriva un momento in cui la chiamata al bene, alla vita, sembra assumere la forma di ciò che la nega: sarà il matrimonio per due innamorati, la consacrazione per altri, ma anche la scelta definitiva e irrevocabile in una professione, e altro ancora, saranno tutte quelle sfide e scelte che ognuno di noi conosce e che a volte sfuggono persino a chi ci è vicino.

Su tutto ciò, Esodo ribadisce in modo netto che ci sarà bisogno di dare fiducia a ciò che (e a chi) ci promette vita. Non abbiamo garanzie o assicurazioni. E questa certezza, che già non sarebbe poco, si accompagna al chiarimento di altre coordinate che parlano di che cosa succede al credente di ogni tempo quando si avventura nella relazione con Dio, ma in fondo spiegano anche che cosa accade a chiunque si fidi.

Fidarsi resta l’avventura più straordinaria e umanizzante delle vicende di tutti.

Il senso della pasqua

Proviamo a mettere un po’ in ordine queste coordinate, così come scaturiscono dal racconto.

  1. a) Attraversare, non aggirare. Il mare che ci sfida, che ci minaccia, che pare negare la promessa, può essere vinto soltanto attraversandolo. Non aggirandolo, evitandolo, venendo miracolosamente attratti da un’altra parte. L’abisso si vince guardandolo negli occhi. Gesù verrà liberato dalla morte morendo.
  2. b) Chiamata e relazione. Si può decidere di attraversare questo mare solo perché chiamati da una voce a passare all’altra sponda. Non è frutto di calcolo (nessuna delle questioni importanti della nostra vita può essere semplicemente calcolata, esigono tutte che ci fidiamo), ma neppure di solo senso del dovere. C’è una relazione personale alla base. Chi si sposa, non lo fa per difendere il matrimonio, ma per amare quella persona lì; il genitore che si sacrifica in un lavoro lontano da casa, non lo fa perché è doveroso mantenere i figli, ma perché quei figli hanno dei nomi e delle storie. Non è la mappa a portare al di là del mare, è il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe» a invitare a fidarsi e a passare di là.
  3. c) La salvezza, la libertà, la vita, non consistono nel tornare indietro. Tornare indietro è la tentazione del popolo nel deserto, ed è molto spesso la nostra tentazione: quella di voltare le spalle alla meta, di vivere di nostalgia e di rimpianti. La vita autentica non sta nel passato, ma può essere raggiunta solo andando avanti, procedendo. Il passato può essere conferma di affidabilità di chi chiama o consapevolezza di schiavitù, ma non può tornare.
  4. d) Davanti c’è una promessa. Non una garanzia, un progetto, ma una parola personale che chiama. Il futuro resta incerto e ambiguo, ma non lo vivremo da soli.
  5. e) Una bozza, non un progetto definitivo. Nulla è già inserito in un piano dettagliato. Anche nella storia religiosa spesso lo si è immaginato, sognato. Le apocalissi ritenevano che Dio avesse già deciso tutto il piano del suo intervento. Nel percorso di Esodo, però, tanti passaggi sembrano casuali, imprevisti e imprevedibili. Ma tutti si svolgono alla presenza di Dio, che non ha progettato tutto, eppure garantisce che non abbandonerà nessuno. Già all’inizio della storia, quando Mosè aveva chiesto a Dio di presentarsi, non aveva risposto con una definizione o un progetto, ma con l’assicurazione che non sarebbe sparito (Es 3,14).
  6. f) Un paradosso: scelta di amore e libertà. Questo pone il credente nel Dio della Bibbia in una posizione apparentemente paradossale. La storia non è già scritta, Dio non l’ha già in mano e non conosce il futuro. Se così fosse, l’uomo non sarebbe libero. Una delle caratteristiche costanti di tutta la Bibbia (e tantissimo di Esodo), invece, è che Dio ricerca la relazione con l’uomo, una relazione di affetto e libera. Quindi, una relazione che esige la piena libertà dell’altro. Non può esistere affetto senza libertà: anche chi vorrebbe legare l’amato per non farlo andar via, in realtà vorrebbe che l’amato, pur potendosene andare, non lo voglia fare. Dio è così, rispetta la libertà umana e quindi non sa che cosa risponderà l’uomo.

Un «senso» da scoprire

Dio ha tutto in mano e rende pieno di senso il percorso di ogni uomo; ma, nello stesso tempo, decide di ritrarsi, per lasciare piena libertà a ogni singolo essere umano. In tal modo, Dio perde la possibilità di indirizzare la storia su binari sensati. Questo, di cui spesso ci lamentiamo («Oh, se solo Dio punisse i malvagi! Ma perché permette tutto questo?»), è il segreto della piena libertà e dignità nostra. Dio non ci tratta da bambini piccoli, ma da adulti che possono responsabilmente e autonomamente decidere. Ciò restituisce alle vicende storiche tutta la loro incertezza.

No, non tutto è sensato, nella grande storia dell’umanità e nella nostra personale, ma Dio promette che tutto verrà raccolto, alla fine, in un grande quadro di senso e di vita piena.

Per una volta, lasciamo che a chiudere la riflessione sul passaggio del mare siano le parole di un bravo biblista, Paolo De Benedetti, parole pesate e precisissime, che già hanno ispirato molto di quello che c’è scritto in queste pagine: «Il senso dell’Esodo è che la terra promessa c’è, ed è avanti. Ciò non significa che la storia abbia senso, probabilmente non ce l’ha, ma (è questo il paradosso del credente) le verrà dato».

Angelo Fracchia
(Esodo 08 – continua)




Il Passaggio (Es 12-13)

testo di Angelo Fracchia – illustrazione di Marco Francescato |


Nelle narrazioni, così come nelle nostre vite, ci sono interi periodi che si possono riassumere in un pugno di frasi, e ci sono singoli eventi che richiedono ampi racconti. Si possono descrivere, ad esempio, quarant’anni in pochissime parole e, allo stesso tempo, essere costretti a narrare una sola notte in diversi capitoli. È ciò che succede con la narrazione della notte di Pasqua. Ci sono momenti che non hanno lo stesso peso degli altri, e meritano di essere affrontati con ampiezza.

Il mese scorso abbiamo già mostrato come confluiscano nella tradizione pasquale e nel suo racconto tre tipi di festa (una pastorale, una agricola e una storica), e abbiamo affrontato lo spinoso tema del male inflitto da Dio agli Egizi. Qui ci concentriamo su quello che il racconto dice, cercando di evidenziarne alcuni contenuti.

La prima pasqua

Le modalità che il Signore indica a Mosè per celebrare la festa di Pasqua sono una legge vera e propria, con suggerimenti precisi che indicano il senso di ciò che si dovrà celebrare. Il Signore affida questa legge a Mosè, ma non solo a lui, anche ad Aronne (12,1), e la offre loro «nella terra d’Egitto». Quasi tutte le leggi citate nell’Esodo vengono consegnate da Dio a Mosè sul Sinai. Tra le eccezioni c’è la circoncisione, che però era già stata praticata da Abramo, apparentemente dimenticata e poi recuperata (sembra) tramite il curioso e inquietante racconto di Es 4,24-26.

La circoncisione e la Pasqua sono norme radicali, fondamentali. La prima è un segno di alleanza che era stato affidato a uomini che non sapevano dove avrebbero dormito, chi li avrebbe tutelati, dove sarebbero stati sepolti. È un gesto di fiducia nella presenza di un Dio-persona che non abbandona.

La Pasqua nasce in un ambiente straniero, ostile, da cui si sta per fuggire. Non c’è più l’inquietudine di chi teme pericoli per sé e per i propri cari, ma la consapevolezza di chi sa che i pericoli esistono, li ha già subiti e ne vede di più grandi all’orizzonte. Non è la paura un po’ vaga dei bambini, è la consapevolezza degli adulti che decidono di fidarsi pur sapendo che in tal modo perderanno comunque qualcosa, che la scelta è rischiosa, che in palio c’è la libertà, ma anche il rischio della morte.

In entrambi i casi, la fiducia non dipende dalle proprie capacità o da un’assicurazione scritta, bensì da una parola di promessa, una relazione. Prima di tutte le leggi, nella Bibbia, c’è il rapporto con Dio. Fuori da questo, le leggi non hanno senso.

L’invito fatto dal Signore per celebrare la Pasqua è ad allestire una cena. I nostri pasti non servono mai soltanto a nutrirci.

Diverso è mangiare con tutta la famiglia riunita, nelle sue varie generazioni, magari cucinando piatti tradizionali, antichi, con calma, al modo con cui si facevano una volta, insegnandoli ai nipoti (dando un enorme rilievo alla continuità nella e della famiglia – e non a caso sono pochi i pasti di questo tipo -), oppure andare con gli amici nel locale più alla moda, o nel quale ci servono più in fretta oppure si possono gustare piatti nuovi (anche questa non è una scelta neutra: è decidere di concentrarsi nel presente, a volte rifiutando volutamente il passato).

Una cosa è lasciare che ognuno si prenda una scatola di biscotti e si rifugi nella propria camera, un’altra è cucinare insieme una grigliata in cui non ci sono posti fissi e tutti gli invitati portano qualcosa.

Ogni stile di pasto comunica qualcosa, sottintende qualcosa. Il problema dei sottintesi però è che possono essere fraintesi, e se fraintesi, possono far nascere sentimenti ancora più forti e violenti di quelli che nascerebbero dalle parole.

Non a caso, quando nelle famiglie si litiga, tutto il rituale che sottintende armonia (pensiamo al tempo di Natale) diventa faticoso e logorante, perché diventa falso, comunica ciò che non si vive.

Lo stile della festa

Agli ebrei Dio indica lo stile della festa: ognuno si troverà in una famiglia che sia autosufficiente, che riesca a mangiare uno o più agnelli per intero. Una famiglia, ossia un ambiente umano al cuore del quale ci sono le relazioni, non l’età o la professione o le idee. Ma non il nucleo ristretto fatto di padre, madre e figli: le indicazioni esplicitano che nei nuclei singoli si è troppo pochi, ci si deve unire ad altri. Un gruppo umano legato dalla parentela, ma abbastanza grande da consumare almeno un agnello intero, e non così piccolo da essere facilmente spazzato via.

Il cibo ricorda la provvisorietà della vita dei pastori: non bisogna avanzare niente, si cuocerà l’agnello alla brace (il modo più semplice, per chi è in cammino, senza stoviglie, senza condimenti speciali…), lo si accompagnerà con pane non lievitato (quello usato allora era il lievito madre, messo da parte dalla massa e tenuto per la volta dopo, con la necessità di tempi lunghi di lievitazione e dispense fresche e buie) ed erbe amare (cioè quelle che crescono spontaneamente nei campi, e non quelle coltivate, più dolci). In più, l’allestimento, soprattutto guardando al dettaglio dell’agnello «maschio, perfetto, nato nell’anno», da cuocere arrosto, sembra rimandare ai sacrifici: ciò che accadrà questa notte coinvolge Dio.

Se non bastasse il menù, si precisa che bisogna mangiarlo con i sandali ai piedi e la cintura ai fianchi, come se si fosse pronti a partire, e «in fretta», con una parola che non viene quasi mai usata nella Bibbia, e che, quando viene usata (in Dt 16,3 e Is 52,12), succede in due brani che parlano della Pasqua. Esprime una trepidazione unica, peculiare, che non può confondersi con nessun’altra. È l’ansia dello studente prima dell’esame di maturità, di due sposi la sera prima del matrimonio: paura, mescolata a speranza, insieme alla consapevolezza che da domani nulla sarà più come prima.

Il sangue alle porte

Insieme agli elementi che rimandano a un rito, che sia più pastorale (l’agnello) o agricolo (gli azzimi), ce ne sono altri che rinviano alla storia, ad esempio l’invito a bagnare col sangue dell’agnello gli stipiti delle porte.

In questo invito particolare, possiamo intravedere, mescolati tra loro, almeno quattro messaggi che il testo probabilmente vuole trasmetterci.

1) Il sangue è la sede della vita. La vita è di Dio. Non è un caso che agli ebrei resterà vietato cibarsi di sangue, perché significherebbe oltrepassare i propri confini e mettersi al posto di Dio, quasi si fosse signori della vita (cfr. Lv 17,12-14). L’aspersione con il sangue non è soltanto un gesto apotropaico, ossia un gesto che vuole scaramanticamente tenere lontano il male evocandolo (come quando ci auguriamo «in bocca al lupo»): è Dio stesso che si pone sulle porte. Dio è coinvolto, e non è neutrale.

2) L’aspersione è un gesto antichissimo, «copia» un rito già esistente. Nella tradizione vicino orientale, le porte della casa, il luogo di comunicazione con l’esterno e quindi il più fragile, il più esposto anche al malocchio, deve essere difeso da amuleti. Il sangue può essere uno di questi. Non è un rito ebraico. Nessuno di noi, però, viene dal nulla, siamo sempre figli di tradizioni e abitudini che risalgono a prima di noi e ci condizionano. A volte i «puristi» (e ogni tanto lo siamo stati tutti) vorrebbero eliminare dalle tradizioni ciò che le precede, perché siano senza mescolanze. Ma nulla nella vita umana è totalmente puro. Quando Dio si incarna, non si vergogna di questa «mescolanza», che è la normale condizione umana, e vi entra anche lui, la accoglie, la fa sua. Anche se non a ogni costo e in ogni caso. In quel rito di aspersione, che esisteva già prima degli ebrei, solitamente si difendevano tutti i lati del passaggio (i tre stipiti e la soglia), e quindi anche la soglia (nella nostra tradizione, a volte, la soglia di casa non si deve calpestare: eredità superstiziose antichissime). In Esodo, Dio invita a non prenderla in considerazione. Come a dire che la relazione con il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe resta aperta all’incertezza, al non tutto deciso, quindi alla fiducia.

3) Il sangue sugli stipiti, poi, è anche un segno visibile all’esterno. Chi passa per strada può riconoscere che lì dentro ci sono ebrei, ed ebrei che hanno deciso di ascoltare la voce di Dio. Finora, nello scontro tra Mosè (o Dio) e il faraone, il popolo sembra quasi essersi messo da parte, come uno spettatore. Viene però un momento in cui non si può più rimanere fuori, occorre mettersi in gioco, decidere da che parte stare. È questo il momento.

Una tradizione intrecciata

4) L’ultimo aspetto merita di essere trattato un po’ più a fondo, perché riguarda tutto il Primo Testamento. Nel capitolo 12 di Esodo troviamo accenni alla Pasqua «pastorale», alla Pasqua «agricola» e alla Pasqua «storica» (questa emerge con più chiarezza negli stipiti bagnati di sangue ma fa anche da cornice a tutto il racconto).

I tre aspetti vengono intrecciati, mescolati, quasi confusi, anche a costo di perdere un po’ in coerenza narrativa. Ma è l’approccio normale della Bibbia.

Noi uomini del nostro tempo tendiamo a distinguere, separare e analizzare. Il mondo biblico sa che la vita umana è interconnessa, intricata, persino confusa. E chi scrive, anche se si trova davanti tre tradizioni diverse, distinte e separate, le unisce come nella vita. In tal modo «costringe» ognuno a riconoscere dignità anche alle tradizioni diverse. Il contadino che ha sempre celebrato la Pasqua come festa stagionale, con gli azzimi e la mietitura dell’orzo, riconosce Es 12 come brano fondamentale per comprendere la propria festa. Quel passo, però, è anche centrale e fondamentale per il pastore che celebra la pasqua dell’agnello, delle erbe amare e dei sandali ai piedi. Anche il cittadino riconosce in quella tradizione soprattutto la storia del popolo. Ognuno ritrova le altre tradizioni nel «proprio» testo e impara ad accoglierle e rispettarle come affidabili, autentiche. E capisce che non è semplicemente un mettere insieme solo ciò che è comune, ma un unire e ampliare le tradizioni di ognuno. Ciascuno, quindi, non solo si ritrova a casa propria, ma anche insieme a dei compagni di casa che forse non immaginava di avere.

Un’unica storia

Chi parte dall’Egitto porta con sé un bottino (Es 12,34-36), quasi fosse un esercito vincitore. Ma questo esercito, che si rassegna a prendere la strada più lunga, per non far scoraggiare nessuno di fronte ai pericoli (13,17-18), è composto da carri, vecchi, bambini, donne incinte, bestiame, e si ritrova in una marcia che non può che essere lenta e fragile.

Gli Ebrei portano con sé le ossa di Giuseppe, per non lasciare nulla in Egitto: i ponti con la «casa di schiavitù» saranno tagliati in modo definitivo. E si guarda già avanti, alla celebrazione del «memoriale»: non un semplice ricordo, ma la ragione delle proprie scelte in ogni tempo, anche oggi (Es 13), come due sposi che rivivano insieme la memoria di come si sono conosciuti sessanta anni prima.

Il numero di coloro che abbandonano l’Egitto è fissato in seicentomila uomini adulti (12,37), cifra assolutamente inverosimile, secondo alcuni raggiunta forse nel momento di massimo splendore dei regni di Israele. L’idea è che in quella schiera che fugge sono già raccolti tutti i futuri credenti, i quali infatti saranno chiamati a riconoscersi nel Dio
d’Israele rievocando quel «passaggio» fatto di fiducia in una parola di promessa divina.

Non è un caso che l’etimologia della parola «Pasqua», abbastanza oscura, venga fatta risalire volentieri, dalla Bibbia e dalla tradizione ebraica, a «passaggio». L’angelo della morte «passa» attraverso l’Egitto, «passando oltre» le case degli ebrei, ma loro stessi sono chiamati a «passare fuori» dall’Egitto, decidendo, finalmente, di «passare» dalla parte di Dio. Non c’è nulla di statico, nulla di assicurato, è una vita in corso, fatta di promesse e fiducia.

Dio, in cambio, sarà per loro colonna di nubi che guida durante il giorno, e colonna di fuoco che protegge dalle incognite del buio durante la notte (13,21-22).

La storia non è finita, il popolo non è salvo. Ma ha preso una decisione. E, anche se questa verrà rimpianta e contestata, resta un primo passo deciso nella direzione della fiducia in Dio.

Angelo Fracchia
(Esodo 07 – continua)




L’angelo della morte (Es 11)

testo di Angelo Fracchia – illustrazione di Marco Francescato |


Il racconto della Pasqua è il centro del libro dell’Esodo, di cui copre direttamente quattro capitoli. Essi a volte si fanno un po’ contorti, anche perché non sono solo delle narrazioni, ma il fondamento della vita liturgica e della preghiera di Israele. In particolare, fondano liturgicamente una festa assolutamente centrale, che nel tempo ha raccolto in sé diverse celebrazioni nate precedentemente in tempi e luoghi differenti.

Le tre feste

  1. La Pasqua nomade.

Da una parte c’è una festa che si celebra in un giorno preciso dell’anno, il 14 del mese di Nisan. I mesi ebraici sono basati sui ritmi della luna: il primo giorno del mese coincide con il novilunio, per cui a metà mese splende la luna piena. Per evitare che, col tempo (e come accade con il calendario lunare islamico), i mesi finiscano con lo scivolare fuori dal loro contesto stagionale, il calendario ebraico riadatta la scansione lunare a quella solare tramite un complesso sistema di integrazioni, un po’ come succede con i nostri anni bisestili.

Questa festa «a data» (anche se sembra che in origine potesse essere celebrata solo quando la luna piena effettivamente si vedeva, cioè con cielo sereno) segnava per i pastori l’uscita dagli accampamenti invernali, più sicuri ma ormai sporchi e con poco cibo. Era il momento di partire in transumanza, confidando che nei pascoli del «deserto» fosse piovuto e ci fosse quindi speranza di vita ed erba fresca. Era un passaggio segnato dall’incertezza e dalla paura di brutte sorprese lungo il viaggio e all’arrivo. Spesso l’umanità esorcizza la paura anticipandola, quasi pagando un prezzo alla sfortuna. Per questo, prima di partire, i pastori sacrificavano un agnello nato nell’anno, simbolo della speranza di vita, quasi a garantirsi di aver pagato il conto con la morte. E poi consumavano il pasto che avrebbero mangiato per mesi da nomadi: senza comodità, finendo tutto quello che cucinavano, con erbe «amare» (cioè selvatiche, non coltivate), pronti a ripartire subito.

  1. La Pasqua sedentaria.

I contadini celebravano una festa diversa, al momento della mietitura dell’orzo. L’orzo nel Vicino Oriente matura tra marzo e inizio aprile, dipende molto dalle piogge invernali ma non viene minacciato dal calore dell’estate. È il primo cereale a spezzare il digiuno invernale. Non garantisce cibo per tutto l’anno (per quello diventa prezioso il grano di maggio-giugno), ma costituisce in qualche modo la promessa che il cibo ci sarà. Ecco perché in primavera la consuetudine è di purificare le madie, gettando tutti i cereali e le farine vecchie, per evitare che vi si annidino funghi e germi pericolosi per la salute. Ecco la celebrazione degli «azzimi».

Anche i contadini sono coscienti che questo buttare il cibo vecchio, che pure è passaggio di sanificazione doveroso, è un gesto rischioso, che chiede fiducia nel futuro. La festa col primo raccolto è già reale, ma rimanda a una festa maggiore, che si compirà, più o meno, cinquanta giorni più tardi, alla mietitura del nuovo frumento.

  1. La Pasqua storica.

In questo contesto si inserisce un terzo ricordo festoso, che non richiama i cicli della natura, ma un evento storico nel quale almeno alcuni gruppi di ebrei avevano vissuto un’esperienza di liberazione da un’oppressione mortale, dalla quale erano stati liberati dovendosi fidare di una promessa che li invitava ad attraversare i rischi della morte per approdare alla libertà. È il racconto principale dell’Esodo, che raccoglie intorno a sé, come sintesi, anche le altre esperienze.

Queste, che erano da tempo celebrate in autonomia, a un certo punto inizieranno a essere festeggiate insieme alla terza, con una certa forzatura da parte di tutte, ma anche con un reciproco riconoscimento: cioè che la logica di fondo restava la stessa, quella di una fiducia oltre i timori, in vista di un «di più» di vita. Chi le ha unite ha colto che, nella varietà delle esperienze che testimoniavano, condividevano lo stesso approccio di fiducia in una parola che chiamava a vivere.

L’ombra della morte

Su tutto questo si affaccia la presenza particolarmente inquietante e fastidiosa della morte. Non solo della morte che colpisce i nemici della vita, ma anche della morte degli innocenti.

Ancora una volta, e prima di avere qualche indicazione interpretativa in più, dobbiamo ricordarci che leggiamo testi che vengono da culture lontane dalla nostra.

Tutte le generazioni umane, da che ne abbiamo memoria, lamentano la decadenza dei tempi e la degenerazione dei costumi, rimpiangendo quando si era giovani e il mondo andava molto meglio. È una lamentela che troviamo già su manoscritti di cinquemila anni fa. Chi però guarda la storia umana un po’ più dall’alto, deve ammettere che questo pessimismo è sufficientemente infondato. Il nostro tempo è gonfio di ingiustizie, di violenze, di sopraffazioni, di morti innocenti e di ingiustizie non sanate. Ma parole come la dichiarazione dei diritti dell’uomo, che non accetta distinzioni per ragioni di sesso, di etnia, di età, di formazione, di convinzioni, sono parole che non erano state mai scritte fino a pochi decenni fa. Un tribunale internazionale che processi crimini contro l’umanità (anche nel rispetto delle leggi del proprio stato) è esperienza storicamente recente. Nel Vicino Oriente antico, chi veniva sconfitto sapeva di non avere nessuna legge internazionale a cui appellarsi, neanche solo a livello teorico. A livello aneddotico, una lingua povera di termini come l’ebraico biblico (circa 6.000 vocaboli) ha una ventina di sinonimi che indicano l’«avere paura». La presenza della morte era incombente sempre, ed era anche più facile da accettare nei confronti dei «nemici». Anche il percorso dei credenti ha faticato e ha avuto bisogno di tempo per cogliere che Dio non poteva amare solo una parte di umanità.

Il confronto tra Mosè e il faraone (ma sarebbe meglio dire tra il Dio d’Israele e il presunto dio in terra degli egizi) si presenta anche come uno scontro militare, e già all’inizio Dio aveva promesso agli ebrei che ne avrebbero riportato un bottino (Es 3,21-22), e così sarà (11,1-3).

Ma c’è una ragione in più che giustifica la morte dei primogeniti d’Egitto, agli occhi antichi.

Un mondo culturale diverso

Mentre leggiamo questi testi antichi, che pretendono di avere valore ancora per noi oggi, non dobbiamo mai dimenticarci che siamo costretti a fare ricorso a delle traduzioni. Non solo nel senso che quei testi sono scritti in una lingua che la maggior parte di noi non riesce a leggere, ma anche nel senso che vengono da un mondo culturale che non è il nostro. Pensiamoci: noi italiani siamo in grado di leggere la Divina Commedia senza traduzioni. Ma per lo più non la capiamo. Comprendiamo le parole, intendiamo le frasi, ma per penetrarne il senso abbiamo bisogno di note che ci spieghino quale modello teologico avesse presente Dante, a quali riferimenti letterari e simbolici si rifacesse, a quali sottintesi politici e contemporanei alludesse, solo allora possiamo cogliere meglio che cosa dica. Anche se parliamo la stessa lingua, non condividiamo più la stessa cultura, e questo rende la comprensione faticosa.

Il nostro approccio culturale, anche quando parliamo di spirito e di anima, è tendenzialmente razionale. Abbiamo bisogno di ragioni, di argomenti, magari anche di prove. Intuiamo che non tutto si esaurisce nella razionalità (abbiamo passioni, timori, speranze, e sappiamo che muovono gran parte di noi), ma il nostro approccio di fondo resta razionale. I più profondi tra noi riescono a mantenere, dentro a un’impostazione razionale e logica, lo sguardo di chi mira in alto, e ci affascinano; altri, che perdono il contatto con la concretezza, li pensiamo sognatori… o anche un po’ pazzi.

Il mondo del Vicino Oriente antico ragiona invece per simboli, per quadri ideali, per grandi sistemi. Le spiegazioni razionali lo lasciano freddo, se non si inseriscono in un contesto simbolico coerente.

Non siamo sbagliati noi o loro. Siamo diversi. E, per poterci capire, dobbiamo renderci conto che parliamo lingue culturali diverse. Il vero errore sarebbe pensare che quegli autori antichi scrivano come scriveremmo noi.

Ebbene, in quel contesto simbolico, la questione dei primogeniti assume un valore diverso.

Dio libera tutti?

Uno dei principi che attraversa il Primo Testamento è la consapevolezza che la vita è dono di Dio. L’uomo non ne ha il dominio. Ecco perché, quando all’umanità venne concesso di uccidere per nutrirsi (a partire da Gen 9), Dio stabilì che, simbolicamente, ci si dovesse astenere dal cibarsi di sangue, ritenuto la sede della vita (cfr. Lv 17,10-14; Dt 12,15-16). Un altro elemento simbolico che ricordava che Dio era il Signore della vita era il richiamo che ogni primizia, delle piante o degli animali, apparteneva a Dio. Per questo i primi frutti dell’anno erano dati in offerta a Dio (ad es. Nm 15,20-21; Dt 26,2) e anche i primogeniti degli animali, i quali potevano essere offerti in sacrificio o, a seconda della specie, essere riscattati con altri doni (ad es. Es 13,12-13). Solo l’uomo doveva obbligatoriamente essere riscattato, perché la sua vita è sacra.

Il riscatto comportava l’idea di entrare in una sorta di scambio di favori. Il primogenito avrebbe dovuto essere di Dio, che però lo lasciava vivere in cambio di un’offerta più piccola che in qualche modo manteneva il beneficiato in una condizione di privilegio. È il segreto dello scambio commerciale vicinorientale, nel quale la compravendita è soltanto una parte della relazione personale che si viene a creare. Pagare completamente un commerciante significherebbe concludere lo scambio, decidere di chiudere la relazione e di non avere più nulla a che fare con lui.

È questo il modo con cui un lettore vicinorientale antico avrebbe colto la morte dei primogeniti d’Egitto: certo, è un atto di guerra, crudele come in tutte le guerre. Ma è anche l’atto con cui Dio riconosce all’Egitto la sua libertà di regolamentarsi senza Dio. Il Dio d’Israele se ne va dall’Egitto senza lasciare debiti né crediti, prendendosi semplicemente il suo. E il suo è rappresentato dai primogeniti. Con la loro morte, Dio riconosce di non avere più conti aperti, l’Egitto è libero di fare la sua vita senza di lui.

A noi suona una crudeltà inutile, alle menti antiche risuonava come una forma, magari cruda, con cui Dio riconosceva la libertà degli altri, e non imponeva loro la sua presenza. Persino ai nemici.

Angelo Fracchia
(Esodo 06 – continua)




Mosè e il Faraone (Es 7-10)


Per avere un’idea abbastanza precisa di una qualunque esperienza, di solito è sufficiente viverne il primo quarto. Con la tappa di questa puntata del nostro percorso nell’Esodo giungiamo proprio al primo quarto del libro.

Finora tutto si è incentrato su Mosè e sulla sua complessa e imperfetta risposta alla chiamata: ebreo cresciuto nella famiglia del faraone, assassino, fuggitivo, genero di un sacerdote madianita (Es 2), chiamato dal Dio degli ebrei in un confronto lungo e complicato (Es 3-4), torna in Egitto dove sembra coalizzare intorno a sé il popolo oppresso (4,29-31) e inizia a scontrarsi con il faraone (Es 5-6).

Ormai la scena è preparata: il grande scontro tra il re d’Egitto e la guida del popolo ebraico, o, per meglio dire, tra l’uomo che pretende di essere dio e il profeta che parla a nome del Dio vero, ha inizio. Si potrebbe precisare ulteriormente dicendo: ha inizio il confronto tra colui che, pur essendo umano, si arroga privilegi divini e il vero Dio, JHWH (il teragramma del nome di Dio, ndr).

La lotta

Questo scontro prende la forma di dieci «piaghe», o «colpi», che Mosè e Aronne fanno calare sull’Egitto, per ordine divino. È un tipo di racconto che ci chiederà di schiarirci le idee su qualche concetto di fondo. Intanto, però, ripercorriamolo.

Si presentano davanti al faraone Mosè, rappresentante di Dio, e Aronne, rappresentante di Mosè. Può sembrarci un’inutile complicazione, ma da subito siamo messi davanti allo stile dell’intervento divino, che chiede di essere fatto proprio anche dall’umanità: nessuno agisce da solo. Dio è il vero protagonista dello scontro con il faraone, ma non opera in prima persona, bensì tramite Mosè. Costui potrebbe rischiare di essere considerato un vice di Dio, ma anche lui non può fare nulla in autonomia: ha bisogno di Aronne che non balbetta come lui. Il Dio degli ebrei non è un Dio per solitari, per autosufficienti. Esige e stimola collaborazione.

Di fronte ai due ebrei si staglia il faraone, il dio in terra degli egizi, l’imperatore assoluto della sua terra. A suo riguardo si ripete molte volte che «Dio indurì il suo cuore». È una formula che ci è semplice fraintendere.

Il primo fraintendimento è il seguente: se è stato Dio a indurire il cuore del faraone, quest’ultimo non può essere ritenuto responsabile.

Qui è all’opera l’approccio mentale semita antico, non solo biblico, secondo il quale ciò che accade nel mondo è voluto da forze esterne (ad esempio Dio), non visibili. Questo approccio, che di per sé non sarebbe condiviso dal mondo biblico, si trova nella cultura e nel linguaggio del tempo in cui i testi biblici sono scritti, cristallizzato in formule linguistiche, in espressioni idiomatiche che precedono il mondo ebraico e restano presenti nel modo di parlare. Capita a tutti i popoli in tutte le epoche: anche noi usiamo espressioni come, ad esempio, «avere testa e cuore in conflitto», ma non pensiamo davvero che i sentimenti stiano fuori dalla testa o che nel cuore ci sia un secondo cervello più emotivo. Ci esprimiamo però così, riempiamo fogli e messaggi di cuoricini, perché sono formule entrate nella lingua tanti secoli fa e sono capite da chi le legge.

Il mondo biblico sa benissimo che le persone sono autonome e responsabili, ma continua a dire che se qualcosa è successo, è perché Dio l’ha voluto così.

Ne troviamo un esempio limpido nel capitolo 33 del libro di Ezechiele, in cui si dice che il profeta è come una sentinella per il popolo: se è mandato a dire all’empio di convertirsi e non va, la morte dell’empio è colpa del profeta, ma se va, lo avverte, e quello non si converte, la colpa è della persona avvertita; così, se il profeta è mandato al giusto, e non ci va, la morte del giusto è responsabilità del profeta, mentre in caso contrario il giusto si salverà.

Noi moderni occidentali ci chiediamo perché l’empio non potrebbe convertirsi: un ebreo antico replicherebbe che se si converte è un giusto, ma il profeta non sa chi è giusto e chi empio, e quindi va da entrambi. Ezechiele ha sostanzialmente detto che le persone sono autonome, che Dio stesso non sa come risponderanno, ma lo ha detto in modo diverso da come avremmo fatto noi.

Il secondo fraintendimento riguarda il «cuore indurito»: per noi è sinonimo di crudeltà, mentre per il mondo biblico indica più l’inflessibilità e la coerenza ostinata (il cuore per i semiti non è il centro delle emozioni, ma delle decisioni).

Queste pagine, insomma, sembrano dire che l’agire senza piegarsi, senza adattarsi, magari fidandosi di una rivelazione che è venuta a una persona sola, senza aiuti né confronti, porta alla morte. La persona fedele al Dio della Bibbia non è rigorosa e inflessibile, ma sa cogliere le situazioni diverse, le occasioni, sa mettersi sempre in discussione.

Le piaghe

Il racconto, a questo punto, si fa quasi favolistico, con la descrizione di una serie di sfide che sembrano ripetersi uguali a se stesse, ma in realtà mostrano un loro sviluppo.

Inizialmente i maghi egizi riescono a ripetere i gesti di Mosè e Aronne: trasformano anche loro i bastoni in serpenti (Es 7,9-13, benché propriamente questa non sia una piaga), anche se i loro vengono mangiati dal serpente-bastone di Aronne; poi trasformano l’acqua in sangue (7,14-25) e fanno uscire rane dal Nilo (8,1-11). Dalla piaga delle zanzare (8,12-15) in poi, però, non riescono più a rinnovare i prodigi, e ammettono che «C’è il dito di Dio, qui!» (8,15).

Delle piaghe delle mosche o tafani (8,16-28) e della pestilenza sul bestiame (9,1-7) si dice che colpiscono solo gli egizi. Per la prima volta il faraone si dimostra disposto a minime concessioni che però poi si rimangia sempre (eccola l’inflessibilità, che non cede se non momentaneamente e poi torna sulle proprie posizioni).

Dalla piaga delle ulcere (9,8-12) sono colpiti anche i maghi egizi. Dopo quella della grandine (9,13-35), il faraone fa penitenza e di nuovo concede l’uscita del popolo ebraico (9,27-28), ancora una volta senza mantenere la parola. Dopo la piaga delle cavallette (10,1-20) anche i dignitari e il popolo intorno al faraone fanno pressione perché lasci uscire gli schiavi salvando l’Egitto (10,7).

In seguito alla penultima piaga, i tre giorni di tenebra (10,21-29), la proposta è che gli ebrei vadano nel deserto, ma lasciando il bestiame in Egitto. Come in precedenza il faraone si era detto disposto a concedere che partissero solo gli uomini adulti (10,8-11) o, ancor prima, che offrissero sacrifici a Dio lì dove erano (8,21), anche adesso, il suo tentativo è di mantenere il dominio sugli ebrei, trattenendo degli «ostaggi». Non si lascia cioè mettere in discussione, non rinuncia alla centralità del proprio potere ed economia, non riconosce davanti a sé delle persone. Mantiene il cuore indurito.

A questo punto, le trattative sono finite (10,29, anche se in realtà Mosè vedrà ancora il volto del faraone), ma ormai non c’è più spazio per la discussione di proposte.

A proposito di storia e geografia

Abbiamo già affrontato a marzo (vedi Mc 3/2021, pag. 34) la questione della storicità degli avvenimenti narrati nel libro dell’Esodo. Possiamo tornarci ora con qualche elemento in più. Ma prima di questo, è il caso di affrontare la questione riguardante la storia del testo.

Da secoli si è notato che il racconto dell’intero Pentateuco, e in particolare dell’Esodo, è pieno di incoerenze, contraddizioni piccole e grandi, cambi repentini di clima e di stile, modi diversi di citare il nome di Dio. Si è pensato di spiegare l’aspetto composito del testo che abbiamo oggi attraverso l’ipotesi di una fusione in un unico libro di alcuni testi precedenti, diversi tra loro, scritti in epoche e anche con teologie differenti. Ancora mezzo secolo fa si dava per assodato che all’origine dei primi cinque libri della Bibbia ci fossero state quattro fasi, o fonti. Tale teoria è oggi contestata da tanti e difesa da altri.

In questo commento si è preferito trascurarla, sia perché nessuna risposta finora si è dimostrata tanto convincente da essere quella definitiva, sia perché, alla fine dei conti, i credenti si trovano a confrontarsi con il testo definitivo, che è da leggere e cercare di capire fino in fondo anche nelle sue incoerenze.

Sono discussioni importanti e anche molto intriganti ben presenti a chi scrive, ma non necessarie per il nostro percorso. Le lasciamo sullo sfondo per non distrarre l’occhio di chi legge da ciò che è davvero importante.

Lo stesso si potrebbe dire dei tentativi di ricostruire delle coordinate storiche più precise. Sotto quale faraone si sarebbe verificata la fuga degli ebrei? Quanti erano davvero? Che strada percorsero per allontanarsi dall’Egitto e poi nel deserto? Come e dove hanno attraversato il «Mar Rosso»? Dove era il monte su cui Mosè ricevette le tavole della legge?

Sono esse tutte domande legittime, stimolanti, che hanno suscitato e continuano a suscitare un ampio e accalorato dibattito. Pur nel loro fascino, sono però domande che non sfiorano il cuore del discorso, che per il libro dell’Esodo non è l’epopea storica del popolo, ma il suo tragitto di fede.

In che senso, una favola?

Una volta che abbiamo rinunciato a delineare queste precisazioni, possiamo allora tornare al testo ammettendo che ha il procedimento narrativo tipico della favola: la ripetizione dei gesti, delle parole, l’insistenza sulla dinamica di fondo (Mosè chiede, il faraone rifiuta, arriva il castigo…).

Le favole, come i miti, nel nostro mondo e nella nostra cultura sono considerate cose infantili, da bambini piccoli. Ma se proviamo ad allargare un po’ lo sguardo, innanzitutto notiamo che altre culture non si comportano allo stesso modo, e poi, soprattutto, capiamo che le favole non sono raccontini che servono solo ad addormentare i bambini, ma narrazioni piene di sapienza che trasmettono idee del mondo, avvertimenti, consigli… insomma, contenuti importanti e «per adulti».

Il mondo della Bibbia si muove a suo agio più con questi strumenti che con le definizioni dogmatiche le quali, infatti, sono rare e comunque sfuggenti: ben difficilmente riterremmo la formula, spesso ripetuta, «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (Es 3,6.16; Nm 32,11; Dt 9,5; Mt 22,32…), una vera e propria formula di fede. Quasi ovunque, nei libri che compongono la nostra Bibbia, Dio preferisce mostrare chi è attraverso una storia, a volte anche inventata, come quelle dei libretti di Giona, di Tobia e di Ester che raccontano eventi sicuramente non storici, ma non per questo privi di contenuto spirituale importante, e quindi di verità. Siamo sinceri, anche noi, nel nostro mondo razionale e rigoroso, condividiamo sui social frasi celebri, episodi noti e racconti edificanti che hanno poca probabilità di essere veri, ma che fanno del gran bene affermando verità autentiche.

Questo stile di racconto, che noi utilizziamo ancora, anche se con un po’ di vergogna, nell’antichità non era ritenuto vergognoso. Il libro dell’Esodo, per i lettori antichi, sarebbe falso e ingannevole se la fiducia in Dio di cui parla fosse infondata, non se si dimostrasse che dall’Egitto non possono essere uscite seicentomila persone (Es 12,37).

Il messaggio che il racconto delle piaghe d’Egitto lascia è che Dio è davvero presente e punta a rendere liberi i suoi fedeli, ma non arriva miracolosamente dal cielo, e non fa a meno della collaborazione umana. Chiede la nostra risposta piena e fiduciosa, ma non ci lascia soli. E quanto più ci mettiamo a disposizione, più grandi sono le cose che può operare per nostro tramite.

Resta aperta la domanda sul senso del male subito dal popolo egiziano che non ha certo avuto voce in capitolo nelle scelte del faraone. Ma su questo torneremo il prossimo mese.

Angelo Fracchia
(Esodo 05-continua)




Mosè in Egitto (Es 4,18-7,7)

Mosè è fuggito dall’Egitto e si è sposato con la figlia di un sacerdote madianita. Mentre ne porta il gregge al pascolo, incontra Dio, che lo invia a liberare il popolo ebraico dall’oppressione egizia.

È già iniziato per Mosè un percorso che in queste pagine dell’Esodo viene proposto come modello di un cammino di fede per tutti.

Mosè si mette in moto per curiosità. La meraviglia, però, comporta anche la disponibilità a lasciarsi scomodare, e Mosè, sia pure con tutti i suoi difetti e tentennamenti (che non contraddicono, ma semmai danno profondità alla fede), decide, alla fine, di partire.

Dopo averne chiesto al suocero il permesso, presi moglie e figli, ritorna verso il Nilo (Es 4,18-20).

Può sembrare una (piccola) carovana di nomadi, ma Mosè non vaga senza meta, percorre a ritroso la stessa strada che ha percorso molti anni prima. Allora era da solo e a piedi, oggi è con la sua famiglia e viaggia a dorso d’asino. Soprattutto, allora era un fuggiasco spaventato verso luoghi sconosciuti, ora viaggia con un obiettivo: parlare con il faraone e convincerlo a lasciare espatriare un popolo di schiavi. Un compito affidatogli da Dio, che gli ha anche fornito argomenti e strumenti per portarlo a termine (4,21-23): riuscirà nella missione?

Un episodio enigmatico

Proprio all’inizio del cammino di Mosè verso l’Egitto per compiere la missione ricevuta, si colloca un episodio enigmatico che tanto ha fatto scrivere ai commentatori: «Mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne contro e cercò di farlo morire. Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: “Tu sei per me uno sposo di sangue”. Allora si ritirò da lui. Essa aveva detto sposo di sangue a causa della circoncisione».

Sembra che Dio cerchi di far morire il suo inviato, che viene salvato dalla moglie tramite la circoncisione del figlio (Es 4,24-26). Qui rinunciamo a prendere posizione sulle decine di spiegazioni possibili di questo brano, nessuna delle quali abbastanza convincente da imporsi sulle altre. Ci limitiamo a quattro considerazioni.

a) Un uomo in «debito»

Mosè sarà presentato più avanti come la guida, il punto di riferimento, il riassunto della legge. Si corre il rischio di esaltarlo troppo. Per questo, il libro dell’Esodo, che pure lo tiene sempre al centro della scena, sottolinea come lui non agisca da solo, non sia perfetto, come abbiamo già fatto notare, e debba riconoscere il proprio debito nei confronti di altri: la propria sorella e la figlia del faraone alla nascita, un compatriota che (per liberarsene) lo mette in guardia sul fatto che il suo assassinio è conosciuto, un sacerdote madianita, e ora la moglie.

b) Tra dubbio e fiducia

Non tutto riusciamo a capire, nella nostra vita. Neppure in quelle circostanze che più sembrano guidate dalla volontà di Dio. Occorre accettare che ci siano aspetti e particolari della nostra esperienza che restano apparentemente staccati dal quadro generale. Anche le vicende che più sembrano muoversi in un orizzonte chiaro, definito, sostenuto dalla grazia divina, restano segnate dall’incertezza, dal dubbio, dal sospetto. Continuano a chiamarci alla fiducia, a metterci in gioco, sapendo che non tutto dipende da noi. E che molto non riusciamo neppure a capirlo.

c) Fidarsi della «promessa»

Ci potrebbe anche essere un invito a non fidarci troppo di coincidenze e calcoli. Se Mosè fosse superstizioso, potrebbe dire che quel suo viaggio di ritorno inizia sotto pessimi auspici, e che farebbe bene a tornare indietro. Ma Mosè non si fida di brutti segni, si fida di una parola che gli ha promesso grandi cose, anche se la promessa non garantisce dagli inciampi. L’essere umano compiuto deve restare lontano da scaramanzie e presagi, che sono ingannevoli. Dio non passa da quelli, ma da promesse e appelli alla ragionevolezza umana. Certo, non ci invita ad affidarci semplicemente al calcolo e alla ragione (ad esempio, c’è poco di ragionevole nelle relazioni e negli affetti, che pure ci danno da vivere), ma di sicuro Dio non parla per enigmi: si rivolge al nostro «io» più autentico e completo, ragionevolmente padrone di sé.

d) Legame con Abramo

La circoncisione è segno dell’alleanza tra Dio e Abramo. Dio aveva chiesto ad Abramo che circoncidesse i figli. Mosè tornava al suo popolo Israele senza averlo fatto. Non è che Dio punisca Mosè, ma simbolicamente, l’episodio sottolinea il legame tra la vita e missione di Mosè e la promessa fatta ad Abramo. Nell’ottica dei redattori finali del Pentateuco è, inoltre, anche un modo per legare il ciclo di Mosè con quello dei patriarchi che, in origine, erano due cicli narrativi separati.

Al punto di partenza

Nel suo cammino verso l’Egitto, sul monte di Dio, Mosè ritrova Aronne, di cui noi lettori abbiamo sentito parlare per la prima volta in Es 4,14, nell’episodio del roveto ardente, e che forse abbiamo immaginato più giovane di Mosè. Invece Es 6,20 ci informerà che è Aronne il primogenito, e sappiamo da Es 2,4 che anche Maria, la sorella, è più vecchia di Mosè. Questi, insomma, è il più giovane dei tre.

Quello che sarà il grande condottiero del popolo, colui che parlerà faccia a faccia con Dio, per il momento ci è presentato come assassino, pavido, incerto, balbuziente, nonché il più giovane della sua famiglia.

Come in molti altri casi nella Bibbia, Dio non ha paura di fare grandi cose con persone che noi uomini magari non sceglieremmo (tipici i casi di Giuseppe e poi di Davide). E questo non per insinuare che l’umanità non conta niente (Dio, infatti, non fa nulla senza Mosè), ma, al contrario, per indicare che anche chi si reputa scarso, insieme a Lui, può raggiungere grandissimi risultati.

Aronne, chiamato dal Signore, va incontro a Mosè, il quale gli spiega tutto ciò che gli è successo. I due vanno dagli anziani del popolo di Israele, coloro che detengono la sapienza e sono chiamati a guidare la propria gente, e questi li ascoltano e credono in Dio (Es 4,27-31). Ci troviamo di fronte a una situazione che sarà rarissima nel resto dell’Esodo. Come succederà ben poche volte in futuro, Mosè, Dio e il popolo sono in accordo, in piena sintonia. Tutto sembra risolto, deciso, chiaro.

Anche se, in verità, nulla è ancora fatto e compiuto, anche se quell’armonia è destinata a rovinarsi presto.

Primi inciampi

Mosè e Aronne, a questo punto, si presentano al faraone. Questi, come è stato preannunciato da Dio a Mosè, oppone il suo rifiuto alle richieste. Non solo, però, non acconsente al progetto divino di lasciare uscire il popolo, ma dichiara di non conoscere per nulla quel dio che ne avrebbe ordinato l’uscita, e stabilisce di appesantire le condizioni di lavoro degli ebrei, che da ora dovranno consegnare lo stesso numero di mattoni senza averne a disposizione le materie prime (Es 5,1-11).

Il faraone, comprensibilmente, fa il proprio interesse, puntando a delegittimare il sedicente capopopolo davanti agli ebrei. E ci riesce, tanto che questi iniziano a rimproverare Mosè per la nuova peggiorata condizione (Es 5,20-21).

Mosè, d’altronde, non fa quello che il popolo si aspettava: ha convocato gli anziani, le persone più sagge ed esperte, i rappresentanti di tutto il popolo, ma poi non li ha portati davanti al faraone, dove è andato, invece, accompagnato dal solo Aronne. In più, non ha riferito al faraone ciò che Dio gli aveva suggerito di dire, né si è premurato di operare quei prodigi che gli erano stati consigliati (Es 4,21-23). Semplice disattenzione o mancanza?

Di fronte alla contestazione degli anziani, poi, Mosè sembra prendersela con Dio, riversando su di lui la responsabilità dell’accaduto e accusandolo di non aver ancora fatto niente (Es 5,22-23). Come succede in tanti altri passi, Mosè non sembra proprio essere l’eroe senza macchia e senza paura che ci si poteva aspettare.

Eppure, Dio si appoggia a lui, si fa rappresentare proprio da lui.

Il discorso di Dio

È a questo punto (Es 6,1) che Dio reagisce e conforta Mosè rivolgendogli un altro discorso. Immaginiamoci al suo posto: se fossimo Dio e dovessimo rassicurare il nostro inviato, probabilmente sottolineeremmo la nostra forza davanti alla debolezza del faraone, destinata a essere sconfitta. Dio però non parla così. Lascia da parte la forza, e insiste su altre due ragioni per cui Mosè può fidarsi: la prima è la promessa di una discendenza e di una terra fatta ad Abramo, Isacco e Giacobbe, la seconda è l’oppressione degli ebrei.

Entrambe le ragioni si muovono sul filo delle relazioni personali. Per Dio l’unico motivo di saldezza è il credere alla sua promessa, che non è radicata nella sua forza, ma nella sua fedeltà.

È quasi un invito a Mosè e al popolo a cambiare modo di pensare: non è perché Dio è più forte del faraone che gli israeliti possono essere sereni. Questa è un’osservazione vera (di fatto, Dio è più forte del faraone), ma non è quella più significativa. Se il centro dell’azione di Dio fosse la sua forza, gli ebrei passerebbero da una schiavitù a un’altra (e, in un certo senso, è proprio quello che continueranno sempre a desiderare). Essi possono invece fidarsi di Dio, perché lui ha conosciuto i loro antenati, ha percorso un tratto di strada con loro, li ha accompagnati e ha rivolto loro una promessa. E ora vede i loro discendenti oppressi.

A guidare i pensieri di Dio non è la potenza o l’orgoglio, ma l’amore. Dio si muove perché gli ebrei stanno male, e perché ha garantito ai loro antenati che ciò non sarebbe successo.

Così inizia a cambiare il modo di ragionare di Mosè e dei suoi compatrioti, con un appello che continua a parlare anche a noi. Dio non cerca un popolo che lo lodi o gli offra sacrifici. Dio vuole la relazione, e vuole che questo popolo viva bene. Dio non ha bisogno delle nostre preghiere, ma di noi, del legame con noi. Quello che vuole stringere con l’umanità non è un contratto, ma una relazione di amicizia profonda. Potremmo addirittura dire che persino Dio non sia libero, perché è legato dall’affetto: non può tirarsene fuori!

Mosè… e noi

Chissà se è questo che Mosè intuisce quando si definisce, per ben due volte, «uomo dalle labbra incirconcise» (Es 6,12.30). La circoncisione era un segno del patto con Dio, del fatto di essere riservati per lui. Quando Mosè dice di avere le labbra non circoncise, può forse semplicemente ricordare che non è un buon oratore, e che anzi balbetta (cfr. Es 4,10). Ma questa interpretazione sembra superficiale e incoerente confrontata con tanta insistenza, e proprio in questo punto.

Si direbbe quasi che Mosè ammetta di non aver ancora capito fino in fondo qual è la relazione di Dio con il suo popolo, di non saperla spiegare. È vero che Dio gli suggerisce, di nuovo, di mandare Aronne a parlare al posto suo (Es 7,1), ma è come se Mosè, pur essendo ormai coinvolto nel progetto, riconoscesse di non averlo ancora compreso fino in fondo.

Perché i progetti di vita, le interpretazioni esistenziali, la relazione con Dio, non funzionano come una professione, per la quale devo essere stato promosso all’esame di laurea e a quello abilitante per poterla esercitare. La vita (ma in realtà è così persino per le professioni), la si capisce, se va bene, mentre la si vive, non prima. E più spesso dopo.

Questo però non toglie che il percorso possa essere fruttuoso, utile, e possa cambiare la vita anche agli altri. Mosè non ha capito ancora tutto, ma ha capito la cosa fondamentale: che la via d’uscita dalla situazione pesante in cui sono lui e il popolo si trova ascoltando Dio, fidandosi di lui. Allo stesso tempo, sente di non avere ancora imparato, lui per primo, a fidarsi fino in fondo, ma sa che, persino così, Dio gli concede di essere una guida per gli altri: incerta, limitata, ma autentica.

Perché Dio non fa nulla senza l’uomo, ma accompagna e sostiene l’uomo che è disposto a collaborare con lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 04 – continua)