La parabola del «figliol prodigo» (8)

Il padre spezza la sua vita tra i due figli

L a parabola del figliol prodigo si divide in due parti: a) vv. 12-24: il figlio minore; b) vv. 12-25: il figlio maggiore. Il padre è il peo attorno a cui ruotano tutti e due, anche a loro insaputa. Molti sarebbero i modi di accostarci al testo, scegliamo quello lineare, seguendo l’ordine dei versetti come proposti da Lc.

1a parte: il figlio «più giovane» (vv. 12-24)
Dividiamo questa prima parte che si compone di 13 versetti in 6 piccoli frammenti letterari, così sintetizzati:
1) vv. 11-15: morte come distacco     ovvero rifiuto della famiglia
2) vv. 16-17: morte come condizione    ovvero mancanza della famiglia
3) vv. 18-19: coscienza della morte     ovvero desiderio della famiglia
4) vv. 20-21: decisione contro la morte     ovvero famiglia come progetto
5) vv. 22-23: morte sconfitta     ovvero rinascita nella famiglia
6) vv. 23-24: morte trasformata in vita     ovvero famiglia in festa
Di ogni unità riporteremo il testo integrale nella versione della Cei; ma nel commento seguiremo il testo originario greco e, quando sarà necessario suggeriremo, una traduzione quasi letterale che ci permetta di fare un confronto, ma anche di andare più a fondo, con lo scopo di alimentare in noi il desiderio di «ruminare» la scrittura, che non si esaurisce in un solo significato.
Di questa parabola, che costituisce «il vangelo del vangelo», con l’aiuto dello Spirito cercheremo di assaporare parola per parola, cercando di sentirne la dolcezza come il profeta Ezechiele dopo avere mangiato il rotolo della parola di Dio: «Mangiai e accadde che nella mia bocca fu dolce come il miele» (Ez 3,3).

V. 11b: «Un uomo aveva due figli»
Nel numero di febbraio di MC abbiamo iniziato a commentare la 1a parte del 1° versetto della parabola lucana (v.11a) «E disse», che ci ha permesso di mettere in evidenza in modo particolare l’importanza della «Parola» in sé nel contesto dell’anonimato delle persone protagoniste della parabola: «Un uomo aveva due figli» (v. 11b). Di questa espressione avevamo già anticipato sia l’anonimato che la struttura circolare, dandone anche lo schema circolare o a chiasmo che riprendiamo.
L’espressione generica, infatti, ci lascia così stupiti da pensare che sia una scelta consapevole dell’evangelista per darci un messaggio particolare. L’indicazione lucana non descrive una relazione affettiva, ma evidenzia una contrapposizione d’interessi. Riprendiamo lo schema osservando la posizione dei singoli termini:
 L’uomo anonimo, solo dopo l’intervento dei figli acquisisce la dimensione esistenziale di padre. Nessuno è chi è per se stesso, senza rapporto a un altro. La nostra identità dipende dalla relazione costitutiva del nostro essere.
L’immobilità del possesso del verbo «aveva» si rapporta alla dinamicità del verbo «disse», che movimenta il cammino del figlio verso il padre. Il nucleo centrale di questa breve frase di presentazione è dominato dalla presenza, anch’essa anonima, dei due figli, di cui uno resta sullo sfondo (assente-presente incluso nei due figli), mentre immediatamente entra in scena «il più giovane».
Luca è unico nel NT a usare l’espressione «ànthropos tis» che si può tradurre con «un uomo», ma anche e forse meglio in senso più indefinito «un tale», perché fa riferimento al genere umano indistinto (cf 10,30; 12,16; 14,2.16; 15,11; 16,1; 19,12; 20,9; At 9,33).
In greco esiste un’altra espressione più individualizzante e precisa: «anêr tis – un uomo» (Lc 8,27; At 5,1; 8,9; 10,1; 13,6; 16,9; 17,5;25,14) oppure «tis anêr» (At 3,2; 14,8; 17,34), che Lc usa da ottimo conoscitore della lingua greca. Questa seconda espressione, pur anonima, mette in evidenza la caratteristica sessuata dell’uomo, come dirimpettaio della donna e sarebbe stata più idonea a definire un padre. Lc preferisce la prima alla seconda forma, più logica, forse perché la riceve da una fonte precedente, che vuole fare risaltare, attraverso l’anonimato estremo, la vera ricchezza di quest’uomo: non è definito da sé, ma è identificato subito dopo dai due figli: egli è padre.

Il padre crocifisso tra due figli-ladroni
Quale ne è il senso? Solo nel versetto successivo (v. 12) quest’uomo è definito «padre» in rapporto al figlio «più giovane»: i figli definiscono se stessi in rapporto al «padre», perché senza di lui essi non esistono. Un padre/madre senza il riconoscimento della loro pateità/mateità da parte dei figli restano anonimi: «un tale». Figlio e padre esistono solo nella relazione. Il padre «aveva due figli», ma resta «un tale», senza nome: un innominato perché i due figli non hanno un padre.
Possiamo intuire che quest’uomo è «già» morto prima ancora che inizi la storia: immediatamente infatti siamo immessi in una storia di morte e di morti. I figli sono morti al padre e il padre è morto per i figli. Il padre è «crocifisso» con i due figli che lo sorvegliano, ciascuno da un lato, ma ambedue assetati della morte del padre.
Il minore lo uccide anzitempo per appropriarsi dell’eredità prima della morte del padre: «Dammi la parte del patrimonio che mi spetta» (v. 12). È come se dicesse: «Tu per me sei morto».
Il maggiore non è da meno, perché mette il padre sotto processo e lo giudica con una severità veemente, condannandolo inesorabilmente senza appello: «Egli s’indignò… tu non mi hai dato… questo tuo figlio» (vv. 28. 30).
Si potrebbe intitolare questa prima parte della parabola come «la parabola della morte preventiva». Quale tragedia per questo «uomo», che in un attimo apre gli occhi e si sveglia da un sogno per prendere coscienza di avere fallito tutto nella sua vita che ha dedicato ai suoi due figli, i quali ora gli negano la sua stessa «natura»: i figli hanno il potere di trasformare il «padre» in «un tale».

Nota. In Oriente, al tempo di Gesù (il costume esiste ancora oggi presso i palestinesi) quando nasce un figlio, sia il padre che la madre perdono il nome proprio per acquistare quello della pateità/mateità. Facciamo l’esempio di Gesù. Il padre legale, Giuseppe, e la madre, Maria, mantengono i loro nomi fino alla nascita del figlio e per tutti sono Giuseppe e Maria. Dal momento della nascita del figlio maschio (che eredita non solo i beni, ma anche il nome e quindi il casato), Giuseppe diventa per tutti «il padre di Gesù» (‘ab Jehoshuà; in arabo: abù Issàh) e Maria perde il suo nome proprio e diventa per tutta la vita «la madre di Gesù» (‘em Jehoshuà; in arabo: ummùn Issàh: Gv 2,1.3; 19,25; At 1,14). Il figlio determina la natura e la funzione del padre e della madre.
Vale anche il contrario: di norma i figli non vengono chiamati con il nome personale, ma con il nome che indica la relazione generativa, per cui Gesù non è il «figlio di Giuseppe» (Lc 3,23; 4,22; Gv 1,45; 6,42) oppure «il figlio di Maria» (Mc 6,3).
 
L’anonimato estremo della parabola mette in risalto in modo drammatico la tragedia di questo padre: «aveva» solo due figli, che erano tutta la sua vita e la sua ricchezza; ha vissuto per loro credendo di essere una vita donata. Un istante e tutto crolla; senza identità, senza funzione, senza più figli: una pateità strozzata, vilipesa e uccisa.
È il sentimento comune a tanti padri e madri che davanti all’autonomia dei figli, che prendono strade diverse da quelle che essi vorrebbero, si abbandonano allo sconforto e pensano di avere fallito tutto nella loro vita o di non essere stati capaci di trasmettere ai figli quel bagaglio necessario ad affrontare il viaggio dell’esistenza, mentre i figli pretendono il diritto di sbagliare da soli, attraverso le loro esperienze.
A questi padri e madri, piombati nell’anonimato della sterilità non resta che assumere questo stato innaturale e trasformarlo in un punto di forza, come fa il padre della parabola lucana: è un padre negato che non nega né rinnega i suoi figli. I figli lo uccidono lasciandolo ancora respirare, ma egli non rinuncia alla sua pateità generativa e continua ad amarli perché a un padre e a una madre nessuno può impedire di amare e continuare a generare i figli, anche contro la loro volontà, anche se non ne sono coscienti. Un figlio può rinnegare il padre; il padre non può rinnegare mai il figlio: padre e madre «sono condannati» a partorire i figli sempre. In questo contesto si capisce e si spiega l’espressione che tante volte abbiamo richiamato: «Dio è giusto perché salva, perché perdona».

V. 12b-c: 12bPadre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. 12cIl padre divise tra loro le sostanze
Il vocativo «padre» farebbe supporre un grado d’intimità confidenziale, invece mette ancor più in evidenza lo stridore tra questa parola pregna di affetto e la richiesta del figlio, che si rivolge al padre con un imperativo. Lc usa l’imperativo aoristo (dòs – dammi), che in greco esprime un comando che deve essere eseguito una sola volta, per cui potremmo tradurre: «dammi una volta per tutte/una buona volta» oppure «dammi definitivamente».
Usando il verbo in questo tempo il figlio vuole chiudere la partita col padre una volta per sempre, segno che la sua richiesta è frutto di una lunga gestazione e macchinazione. Forse da molto tempo fa le prove, ma non ha mai trovato il coraggio di affrontare il padre, mentre ora entra nella logica della rottura definitiva e quindi della lacerazione: «Padre, dammi…» nel senso di «facciamo i conti». Lo circuisce con una finta affettività (padre) per assestargli il colpo di grazia senza scampo (dammi).
Già nella quarta parola di libertà della Toràh (comandamento), Dio aveva scritto sulla pietra che una condizione per accedere all’alleanza era l’onore dei genitori: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dá il Signore, tuo Dio» (Es 20,12; cf Dt 5,16). La sanzione per chi non osserva questo obbligo è la morte: «Chiunque maltratta suo padre o sua madre dovrà essere messo a morte; ha maltrattato suo padre o sua madre: il suo sangue ricadrà su di lui» (Lv 20,9; cf Es 21,17). Il libro dei Proverbi caratterizza la fisionomia del figlio saggio e intelligente e quella del figlio stolto e disonorato: il primo onora il padre (Pr 15,20; 28,7; 10,1) il secondo lo rattrista (Pr 19,13.26; 17,25).
Il figlio più giovane con una sola parola (dammi)  abolisce la Legge, la Sapienza e qualsiasi principio che si basi sul dovere: abolisce semplicemente l’intera Toràh di Mosè. Egli è impaziente e in quanto giovanissimo non ha tempo per aspettare il suo tempo: accecato da se stesso, vuole il buio attorno a sé e tutto deve piombare nel silenzio della morte: «Dammi!». La figura del figlio più giovane risalta ancora di più, se messa a confronto con due simboli eccellenti di tutta la tradizione biblica giudaico e cristiana: Isacco e Gesù, i due figli esemplari.
 In Gen 22 incontriamo Isacco che sale accanto al padre Abramo verso la cima del monte Moira, dove egli figlio «unigenito» dovrà essere sacrificato. Lungo il cammino padre e figlio dialogano con intensità fino a identificarsi entrambi nell’obbedienza al loro Dio esigente. Isacco si rivolge ad Abramo, invocandolo con la dolce espressione «Padre mio!», a cui fa eco la risposta calda e traboccante di affettività del padre: «Eccomi, figlio mio» (v. 7).
Nel NT Gesù di Nazareth che la tradizione cristiana vede prefigurato in Isacco, nel momento supremo della sua morte, prende tutta la sua vita e la getta nel cuore del Padre: «Padre nelle tue mani depongo/affido (da paratìthemi) il mio spirito» (Lc 23,46). Isacco e Gesù hanno il rispettivo padre come mèta e fondamento della propria esistenza. Il «figlio più giovane» della parabola invece esige: «dammi» (da dìdomi); egli ha come scopo e confine della sua esistenza solo ed esclusivamente se stesso: egli vuole, esige e pretende. Il verbo greco dìdomi significa dare/donare/offrire, ma anche pagare (cf Lc 20,22; 23,2) per cui c’è una richiesta esigente, come se riscuotesse un pagamento.

«La parte del patrimonio che mi spetta»
La traduzione letterale quasi meccanica è: «Padre dammi la parte che è posta sopra della sostanza», perché esprime l’idea di una divisione e per dividere bisogna prima contare e quindi «porre sopra» il tavolo e fare i calcoli di quanto spetta a uno e quanto all’altro. Lc per indicare «il patrimonio» usa il sostantivo femminile «ousìa», derivato dal verbo eimì (io sono), che significa «sostanza/essenza/bene/patrimonio»; ma nel greco del 1° secolo (Platone e Plotino) significa anche «natura/esistenza», cioè la consistenza dell’essere. Il figlio non chiede solo «la roba» o il patrimonio, ma vuole di più: egli pretende la «natura» del padre suo, cioè la sua vita.
Il padre, infatti, capisce perfettamente la richiesta del figlio, perché l’evangelista si premura di dire che «divise tra loro» non le sostanze, come dice la traduzione della Cei, ma «ton bìon – la vita». Il padre prende la sua vita e la distribuisce, la divide, la spezza tra i due figli. Chiedere la vita del padre insieme agli averi, senza aspettare la morte naturale, significa volee la morte in anticipo. Con la sua richiesta il «figlio più giovane» uccide il padre in nome della sua autonomia e libertà.

Una vita… «a perdere»
Non si parla della reazione emotiva del padre, ma di ciò che fece: sa che come padre non ha una vita propria perché, avendo generato lui i due figli, spetta a lui dare loro la sua vita. Sono i padri che devono «donare» la vita ai figli e non viceversa: «Il padre divise tra loro la (sua) vita».
Nell’ultima cena Gesù compie lo stesso gesto: prese il pane, lo spezzò, lo diede (in greco dal verbo dìdomi) loro e disse: è il mio corpo… è il mio sangue (cf Lc 22,19). Chi ama oltre se stesso, dà la vita senza calcoli e senza misura. Solo Dio può fare questo e solo un padre/una madre sulla terra possono imitare Dio nel dare la vita «a perdere». Il padre avrebbe potuto appellarsi alla Legge e farlo condannare, metterlo in riga, diseredarlo, imporre la sua volontà e, se avesse voluto, avrebbe potuto distruggerlo, portandolo in giudizio ed esigendone la condanna: «Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce… suo padre e sua madre… lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita… Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà» (Dt 21,18-21). Invece di avvalersi del suo diritto, il padre non solo vi rinuncia, ma divide la sua vita.
Con questo gesto il padre non dà solo la sua vita, ma annulla e svuota la richiesta e l’azione del figlio, perché adesso non è più il figlio che pretende, ma è il padre che «offre/dà» la sua vita. La situazione è capovolta. Se il padre avesse punito il figlio, lo avrebbe inchiodato alla sua responsabilità oscena, perdendolo per sempre e uccidendolo; ma svuotando il suo «imperativo» (dammi), spezzando la propria vita e donandola senza nulla pretendere ai figli, egli li salva ancora una volta preventivamente e li mette al riparo da se stessi, perché li custodisce al caldo della sua vita che ora è data per sempre perché data per amore.

Il padre «spezzato», figura di Abramo
Non è più l’uomo qualunque, «un tale», ora è a tutti gli effetti «il padre» e non tradisce la sua «natura», quella che il più giovane chiede per sé come garanzia della sua autonomia, perché la «natura» del padre è quella di essere «vita» per i figli: «divise la [sua] vita».
Il comportamento di questo padre «spezzato» è lo stesso di quello di Abramo, quando Dio lo chiama e gli ingiunge una separazione dolorosa, una frattura irreversibile con tutta la sua vita: Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria, da tuo padre (Gen 12,1-4): Abramo deve lasciare la sicurezza (paese), la storia (patria) e gli affetti (padri); con sé deve portare solo la sua sterilità, perché possa sperimentare che la vita donata è un dono ancora più grande, perché non dipende dalla sua virilità, ma dalla grazia di Dio.
Il redattore di Genesi fissa in un gesto la risposta di Abramo: «E Abramo partì» (Gen 12,4). La risposta degli uomini di Dio è sempre un gesto che dice più di qualsiasi parola. Lo stesso atteggiamento troviamo nel «padre» del figlio più giovane: «divise la [sua] vita». Non si limita a dare le sostanze del patrimonio a cui forse nemmeno pensa, ma dà tutto ciò che è: il suo essere padre non appartiene a lui, ma appartiene solo ai figli. Non un rimprovero, non un appunto né recriminazione, ma semplicemente un dono gratuito della sua vita.
Al padre interessa solo una cosa: salvare il figlio; per questo, invece di rischiare di mandarlo da solo, gli dà la sua vita come compagna di viaggio e la vita del padre lo custodirà e proteggerà anche contro la sua volontà e a sua insaputa: «Il padre divise la vita».                  (continua – 8)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (7)

Dio Padre è giiusto perché misericordioso

Con questa 7a puntata iniziamo la spiegazione, versetto per versetto, della parabola raccontata da Lc 15,11-32, a cominciare dal titolo.
Il più diffuso è: «Parabola del figliol prodigo»1. L’espressione non appartiene al testo biblico, ma è messo dagli editori come sintesi del brano. Non è un titolo sbagliato, ma è impreciso e povero, perché riduce l’immensa ricchezza della parabola a un solo aspetto, per altro marginale: la prodigalità spensierata del figlio lontano da casa.
Sono stati proposti molti titoli per questa parabola, che però non si lascia imbrigliare in una definizione sintetica. La prima edizione della Bibbia della Cei del 1971 titola: «Il figlio perduto e il figlio fedele: il “figlio prodigo”», cercando di salvare e superare al tempo stesso il titolo tradizionale, ma  travisando così la figura del figlio maggiore, che non è affatto un figlio fedele. La seconda edizione del 1997, infatti, cambia il titolo nel più comprensibile «Parabola del padre misericordioso», mettendo in evidenza il cuore del racconto, ma lasciando in ombra l’elemento della «giustizia», che è essenziale nel pensiero lucano.
Bruno Corsani e Carlo Buzzetti nella edizione bilingue (greco-italiano) del NT titolano: «Parabola del figlio ritrovato»3, che è parzialmente vera, ma non dice il cuore della parabola. Helmut Gollwitzer  titola «La gioia di Dio»4 e in questo modo sintetizza tutto il capitolo alla luce del tema della gioia (gr.: charà/chàirê) presente espressamente 6 volte in tutto il capitolo 15 (vv.5.6.7.9.10.32; cf anche v. 23). Gérard Rossé sceglie un titolo neutro, da scoprire: «La parabola del padre e dei suoi due figli»5, senza alcuna implicazione preventiva. Noi proponiamo di chiamarla: «La parabola di Dio Padre giusto perché misericordioso». È un titolo lungo, ma offre la chiave di lettura per entrare nel cuore di Dio il cui mestiere è il perdono. Sappiamo, però, che si continuerà a chiamarla per abitudine e comodità «parabola del figliol prodigo».

La sezione della «giustizia»

Prima di cominciare l’analisi dei versetti, è necessario ribadire che quando si legge questa parabola bisogna avere ben presente l’inizio e la fine della sezione in cui Lc colloca il racconto: la sezione comprende da 15,1 fino a 17,10 e tratta della «giustizia di Dio», in contrapposizione a quella degli uomini. Questi emettono sentenze e condanne secondo criteri di eguaglianza, per lo più di convenienza; Dio al contrario esercita la giustizia di Padre e di Madre per recuperare sempre i figli del suo amore.
In Lc 15,1 come abbiamo già visto più volte, si legge il contesto di riferimento: «Si avvicinavano poi a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo, mentre mormoravano [sott. contro di lui] i farisei e gli scribi, dicendo». A conclusione della sezione in Lc 17,1-10 leggiamo che bisogna perdonare il fratello che si pente (v. 3); bisogna perdonare sempre: «Anche se [tuo fratello] peccasse sette volte al giorno contro di te e per sette volte ti dicesse: Mi pento. Tu gli perdonerai» (v. 4).
Dall’inizio alla fine, l’orizzonte è dominato dai pubblicani, dai peccatori e dal perdono senza condizioni e senza misura. Perdonare è soltanto amare a perdere, senza chiedere nulla in cambio. Un perdono che pone una condizione (ti perdono, se fai questo o quello… se ti comporti così… se non lo fai più…) non è un perdono, perché manca la caratteristica della gratuità: non ti perdono perché lo meriti, ma perché io ho sperimentato la misericordia di Dio e la rendo visibile, le do un corpo offrendolo a te, realizzando così la preghiera del Padre nostro: «Padre, … perdona a noi i nostri peccati affinché anche noi possiamo perdonare a ogni nostro debitore» (Lc 11,4).
Il perdono di Dio diventa fondamento del perdono reciproco degli uomini e il perdono vicendevole degli uomini diventa il «sacramento» visibile della misericordia di Dio. A differenza di Lc, Mt userà una prospettiva diversa: «Padre, …perdona a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (6,12): impegniamo il perdono di Dio a condizione che «prima» noi abbiamo già perdonato. Le due prospettive s’integrano e si rafforzano.

Le coppie in contrasto

L’orizzonte in cui si colloca la parabola è duplice: da una parte la coscienza di essere peccatori (Lc 15,1-2) e dall’altra la certezza della misericordia (Lc 17,3-4). Gesù non fa un discorso morale né assume l’atteggiamento di giudice. Egli guarda al cuore della persona e cerca ogni mezzo perché entri nella dinamica della tenerezza di Dio, «perché nulla vada perduto di ciò che mi ha dato» (Gv 6,39).
La parabola, in quanto modello letterario, veicola un insegnamento generale, per cui il suo messaggio è valido sempre, anche per noi oggi. Sia l’inizio che la fine dell’intera sezione della «giustizia» mettono in contrapposizione due gruppi di persone con i loro atteggiamenti e sentimenti. I vv. 1-2 hanno una struttura incatenata:

1Si avvicinavano a lui    tutti i pubblicani e peccatori    per ascoltarlo,
2mentre mormoravano    i farisei e gli scribi,     dicendo…
  (sott. contro di lui)

Due vv. appena per mettere in evidenza tre contrasti: 1) pubblicani-peccatori si contrappongono a farisei-scribi;
2) i primi sono considerati lontani e impuri, ma si avvicinano a lui, mentre farisei-scribi, che dovrebbero essere vicini (almeno per professione), sono molto lontani e mormorano contro di lui, perché agisce fuori dai loro schemi: non sanno superare il loro limite; 3) i pubblicani-peccatori si dispongono ad ascoltare, cioè a entrare in sintonia di cuore e di anima; al contrario dei farisei-scribi, che parlano per condannare e disprezzare, «dicendo: Costui riceve i peccatori e mangia con loro» (v. 2).
È il capovolgimento radicale delle situazioni: chi crede di credere è ateo, chi è stato giudicato ateo e gettato fuori invece è credente, è parte della chiesa. Lo stesso atteggiamento troviamo in Mc 3,31-35, quando Gesù accredita come «sua famiglia» non quella di sangue, ma quella di «elezione»: «Giunsero sua madre e i suoi fratelli, e stando fuori, lo mandarono a chiamare… Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno [cioè dentro], disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre». Anche qui la contrapposizione è tra «fuori» e «seduti (dentro)».
Lo stesso clima si respira alla fine della sezione dove la contrapposizione è tra chi ascolta e chi deve ricevere il perdono: «Anche se [tuo fratello] peccasse sette volte al giorno contro di te e per sette volte ti dicesse: Mi pento. Tu perdonalo/gli perdonerai» (17,4). Gesù usa l’imperativo alla 2a  persona singolare, allo stesso modo di Yhwh quando trasmette i comandamenti a Mosè sul Sinai (Es 20,2-17; Dt 5,6-21).
Il perdono non è una pia pratica di pietà né un atteggiamento ascetico di purificazione in vista di una ricompensa futura, ma assume la veste solenne di un comandamento. Il perdono, infatti, non è facoltativo, ma è un imperativo che adempie l’Alleanza nuova. Il perdono è la rivelazione della vera natura di Dio, che chi crede deve rendere visibile e sperimentabile. Perdonare significa aiutare gli altri a «toccare il Verbo della vita» (cf 1Gv 1,1) perché è la vera novità dell’evento Gesù Cristo.
Solo all’interno di questo clima possiamo accostarci alla rilettura della parabola prendendo coscienza che essa è stata scritta apposta per ciascuno di noi e ora la ri-leggiamo come se fosse la prima volta. Non ci limitiamo solo a una esegesi fredda e scientifica, ma cercheremo di danzare insieme alla Parola, evocando tutto ciò che essa suscita in noi, per la nostra vita spirituale e di preghiera.

V. 11a: «E disse»

L’espressione solenne e maestosa, propria del verbo principe della narrativa, «e disse» apre la parabola come al v. 3 apriva quella del pastore e della donna. Il soggetto sottinteso di tale verbo è Gesù, che è nominato in 14,16 e poi si passa direttamente a 17,11: in tutto il capitolo 15 Gesù non è mai nominato nemmeno come «narratore».
Questa assenza letteraria mette maggiormente in evidenza la sua Presenza come «Parola» che annuncia il «vangelo della misericordia giusta» di Dio, quasi a volerci insegnare che non dobbiamo fermarci mai alle apparenze, se vogliamo cogliere il cuore dell’altro. Dio è «Assente-Presente», discreto e silenzioso, che solo nel più intimo del più profondo di noi stessi e degli altri possiamo incontrare e «vedere». Anche sulla barca in mezzo alla tempesta sembrava dormire, ma al momento opportuno, la sua «Parola» domina le acque e i venti tempestosi (cf Mc 4,35-41).

Nel segno della coerenza. L’espressione «e disse», sia nella linea narrativa principale (come è qui in Lc) sia nella linea secondaria di commento aggiuntivo, nella bibbia ebraica ricorre 2.084 volte, nella bibbia greca della Lxx 2.337 volte, nel NT 125 volte. Una cifra impressionante che mette in evidenza la centralità della «Parola» in tutta la storia della salvezza.
Le due parabole di Lc 15 sono «Parola di Dio», proclamata dal Lògos stesso per dare compimento alla profezia di Isaia, che Gesù fa sua nella sinagoga di Cafaao, quando si appropria della sua personalità di messia della nuova Alleanza: «Mi ha consacrato con l’unzione (= sono il messia) per annunziare ai poveri il vangelo e proclamare un anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19; cf Is 61,1-2). I poveri a cui va annunciato il vangelo sono i peccatori, reprobi,  assassini, ladri, immorali, impuri, gli esclusi, le prostitute e tutte le categorie di persone che il perbenismo di ogni tempo condanna come fecero gli scribi e farisei.

Dabar: parola e fatto. È Dio che parla e annuncia la salvezza del perdono, ma non come proposito od obiettivo, ma come evento che si compie nel momento stesso in cui Lui «dice». Dio, quando parla, crea e realizza quello che dice, come evidenzia il 1° capitolo della Genesi, dove per 10 volte Dio parla «facendo» la creazione: «E disse Dio: “Sia la luce”. E la luce fu» (Gen 1,3; cf vv. 6.9.11.14.20. 24.26.28.29). Dio parla agendo e agisce parlando, perché in lui la parola è fatto, fino all’incarnazione inaspettata del Figlio: «Il Lògos (Parola) carne fu fatto» (Gv 1,14).
È ciò che sperimentiamo nell’eucaristia, dove la Parola che ascoltiamo diventa il pane del nutrimento e il sangue della vita. In ebraico c’è un termine «dabar» che è verbo e sostantivo: significa contemporaneamente sia «parlare/parola» che «fatto/avvenimento». Parola efficace: «Così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritoerà a me senza effetto, senza avere operato ciò che desidero e senza avere compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11; cf Dt 32,2; Zc 1,6).
Per gli uomini spesso le parole sono suoni vacui e anche muti: si pronunciano quantità enormi di parole senza dire nulla. Si parla e si resta muti. Si parla, si parla e crolla la comunicazione: «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’anima nel silenzio» (Tagore). La chiacchiera ha preso il sopravvento. Tutti parlano al telefonino, sempre, e ognuno è sempre più solo e isolato.

La parola nasce se qualcuno ascolta. «E disse», posto all’inizio assoluto della parabola, esige un atteggiamento di ascolto profondo, perché la parabola non è un racconto edificante per suscitare pii desideri, ma è la proclamazione della volontà di Dio, che con una parabola annuncia «il vangelo del vangelo», definendo la sua natura di Dio e descrivendo la natura della sua nuova alleanza. Nel momento in cui Dio «dice» la parabola è Lui che sta davanti a noi e ci supplica, ci prega di essere presenti con l’ascolto delle orecchie del cuore.
«E disse» provoca in noi l’eco di Dt 6,4: «Ascolta, Israele!», dove è Dio stesso che «prega» il suo popolo. Ascoltare la Parola è vedere Dio che prega noi perché lo ascoltiamo. Dio che parla la parabola significa lasciarsi sedurre dalla sua «voce», come l’amante del cantico dei cantici, che cerca la «voce» dell’amato e non ha pace finché non si unisce a lui: «Una voce! Il mio diletto! Ora parla il mio diletto e mi dice… fammi sentire la tua voce perché la tua voce è soave…» (Ct 2,8.10.14). Il Targum del Cantico (2,14) mette in bocca a Dio queste parole: «Tu, assemblea d’Israele, che sei come una colomba pura… fammi vedere il tuo volto e le tue opere rette, fammi udire la tua voce! Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, è bello il tuo volto nelle opere buone».
La parabola che Gesù annuncia è un «vangelo», cioè la giorniosa notizia che Dio viene a salvare quello che poteva andare perduto. Quando Dio parla, e Dio parla in Gesù, non è per giudicare e condannare, ma sempre per salvare. Per questo ascoltare Dio è pregare lo stesso Dio che prega noi di fargli «udire» la nostra voce.

vv. 11b-12a: Un uomo aveva due figli.
        Il più giovane disse al padre

Questi due brevi vv. hanno una struttura circolare, a chiasmo, cioè a incrocio, perché la prima parola richiama l’ultima, la seconda la penultima, ecc.

Protagonisti anonimi. «Un uomo aveva due figli» (v. 11b). Il quadro è immediatamente definito dai protagonisti. Sappiamo che c’è «un uomo» anonimo, come è abituale nel vangelo, dove tutti i personaggi delle parabole o dei miracoli sono anonimi, tranne il mendicante Lazzaro (in ebr. Dio aiuta; cf Lc 16,20) e il cieco Bartimeo (in aramaico Figlio di Timeo; cf Mc 10,46). L’unica volta in cui nel vangelo di Lc si nomina qualcuno, questi è un povero, un mendicante a cui «Dio viene in aiuto» per rendergli quella «beatitudine» che gli spetta di diritto: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20). Tutti gli altri personaggi sono anonimi, come il pastore che trova la pecora o la donna che ritrova la moneta. È veramente significativo che il vangelo riporti solo il nome di poveri esclusi e ne perpetui la memoria.
L’uomo anonimo della parabola ha due figli e dunque è padre. Un altro padre e due figli troviamo in Mt 21,38, dove s’invertono apparenza e realtà: quello che dice no fa la volontà del padre, mentre quello che dice sì, non la fa. La relazione non è solo contatto, ma condivisione di volontà, di progetti, di sogni, di vita.
Quando si è padri e madri non si è più anonimi, perché i figli sono il nome della nuova identità. Presso gli ebrei quando nasce un figlio, padre e madre perdono il loro nome proprio e vengono indicati e chiamati in riferimento al figlio: «Padre e madre di…» (cf Mc 6,3). Qui è assente la madre, di cui non si fa cenno; ma forse è dietro la tenda che la nasconde come è uso in oriente.
Nella «parabola di Dio Padre giusto perché misericordioso»  l’anonimato s’incarna immediatamente in una relazione: «Il più giovane disse al padre». Nulla di straordinario se un figlio parla col padre e il padre col figlio, se non fosse per ciò che sappiamo sta per succedere. L’accenno al «più giovane», infatti, è un campanello d’allarme, quasi un anticipo che stiamo entrando in un abisso d’iniquità che cercherà la morte della pateità e distruzione della relazione.

La salvezza si fa storia. Chi è questo uomo che è anche «padre»? L’uomo innominato, come avviene in quasi tutte le parabole (Lc 10,30; 13,6; 14,16; 16,1; 19,12; 20,9), è l’immagine di Dio. Qui ha due figli come rappresentanti di tutta l’umanità: gli ebrei, simboleggiati dal figlio più grande, per ora assente, e tutti gli altri popoli, qui rappresentati dal «più giovane». La parabola ha un respiro universale perché riguarda tutta l’umanità.
Prima che scoppi il dramma e si giunga alla conclusione di salvezza, l’evangelista tiene a dirci che siamo «figli» perché quello che sta per succedere riguarda ciascuno di noi. La parabola è per noi e forse è il momento che iniziamo a prendere coscienza di cosa significhi per noi essere figli, prima di immergerci nel mistero che sta davanti a noi. L’anonimato del padre non è casuale, ma induce chiunque legga o ascolti a riempire il vuoto del nome mancante con il proprio nome e identificarsi con uno dei protagonisti, costringendoci a prendere coscienza del nostro cammino di fede: in ciascuno di noi vi sono due figli… il minore… e il maggiore.
Leggiamo nella Mishna giudaica: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore: con le due tendenze, il bene e il male» (Berakot [Benedizioni] 9,5)6.
La parabola del Padre giusto perché misericordioso è la parabola della pateità e della figliolanza che è dentro ciascuno di noi: la parabola infatti narra la storia della salvezza, o meglio annuncia il vangelo della salvezza che si fa storia nella vita di ciascuno di noi e nella storia di tutti i popoli.                          (continua – 7)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (6)

La Legge dell’impossibilità
«Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1Cor 1,27)

Il confronto presentato il mese scorso tra la parabola del «figliol prodigo» e quella del pubblicano e fariseo al tempio insegna che i vangeli devono essere letti non a pezzetti o brani separati, ma nel loro contesto e visione globale. Tale confronto mette in luce che Lc 15 e Lc 18 (così pure il confronto tra il fariseo Simone e l’anonima prostituta in Lc 7,36-50) sono due modi per spiegare ai cristiani la teologia paolina della giustificazione: cuore di tutto il NT e  nodo cruciale per i cristiani della prima e seconda generazione. I primi cristiani, in quanto ebrei, si consideravano depositari esclusivi della salvezza, ma entrarono in crisi quando videro che Dio accoglieva i pagani e su di essi effondeva lo Spirito senza differenza alcuna (cf At 10).
È un momento drammatico. L’accettazione nella comunità giudaico-cristiana dei pagani provenienti in massima parte dal mondo greco non fu pacifica né semplice. Ne fece le spese Paolo, che per tutta la vita si portò conficcata nel fianco «la spina» (cf 2Cor 12,7) del sospetto e del rifiuto da parte della comunità cristiana di Gerusalemme.
Fu uno scontro durissimo tra due correnti teologiche:  da una parte Paolo, aperto al futuro e alla libertà; dall’altra Giacomo (all’inizio anche Pietro), che pretendeva che i pagani, prima di diventare cristiani, si convertissero al giudaismo, praticando la circoncisione e sottomettendosi ai precetti della Toràh. Vinse la linea di Paolo, assunta ben presto anche da Pietro (cf At 10; Gal 2).

Quando il «no» diventa «sì»
Vi sono nella scrittura vari esempi riguardanti coppie di fratelli o gemelli con i quali può essere confrontata la parabola del «figliol prodigo» per assaporae una profondità maggiore. La prima coppia riguarda due fratelli che il padre manda a lavorare nella vigna: essi si comportano in modo opposto alle parole che dicono: uno dice di sì e poi non ubbidisce, l’altro dice di no e poi, «pentito», ubbidisce.

«28Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. 29Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. 30Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Dicono: “L’ultimo”. E Gesù disse loro: “In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”» (Mt 21, 28-31).
Anche qui abbiamo due figli e due comportamenti: quello apparentemente obbediente, alla fine è disobbediente; quello esteamente appare ribelle, alla fine ubbidisce al padre. Il figlio che dice di sì e non va è il figlio maggiore di Lc 15 e il fariseo di Lc 18 e Lc 7; mentre il figlio che dice di no e poi esegue la volontà del padre è il figlio minore di Lc 15 e il pubblicano di Lc 18 e la prostituta di Lc 7.
Gesù commenta tale comportamento come schizofrenico: «Perché mi chiamate: Signore, Signore, e poi non fate ciò che dico?» (Lc 6,46). Mt dice che le parole non bastano per fare di noi i figli di Dio; solo l’identità con la sua volontà ci introduce nel mistero del suo cielo: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).

Stare «in» casa o essere «nella» casa
La specularità tra la coppia dei fratelli di Mt e quella dei fratelli di Lc è ancora più profonda perché svela la vera natura di ciascuno, al di là delle apparenze. Il maggiore afferma di avere detto sempre di sì nella sua vita: «Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando» (Lc 15,29), mentre in realtà ha sempre onorato il padre «con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mt 15,8; cf Is 29,13). Egli è sempre stato materialmente «in» casa di suo padre, ma non è mai stato «nella» casa del padre e con il padre, perché chiuso nel suo egoismo e vigliaccheria. Non si è neppure accorto che ogni giorno se ne andava molto più lontano del fratello minore, andato via da casa a vivere «da dissoluto» (v. 14). L’ossessione dalla «roba» ancora oggi gli preclude ogni possibilità di conversione.
Al contrario, il figlio minore ha abbandonato il padre e la casa materialmente, ma in fondo al cuore il padre è rimasto sempre presente; la decisione del ritorno gli viene dalla «memoria» del padre, della cui accoglienza egli non dubita: «Rientrò in se stesso e disse… Mi leverò e andrò da mio padre» (vv.15,17.18). Il minore non è «in casa», ma è sempre rimasto «nella» casa con suo padre e, trovandosi in «un paese lontano» (v. 13) ne sente nostalgia e mancanza (v. 17).

Peccato per difetto o per eccesso
Ancora una volta si capovolgono le situazioni: il «lontano» diventa «vicino»; chi crede di stare dentro la casa si trova fuori, estraneo. Tutti e due i figli peccano nei confronti del padre; ma mentre il minore, assillato da un bisogno errato di libertà, pecca per eccesso e per esuberanza, il fratello maggiore, accecato dall’egoismo, pecca per difetto, cioè per grettezza, perché dominato dalla paura e dalla religione del dovere, cioè da una religiosità basata sul tornaconto.
Chi pecca per eccesso, spesso lo fa per amore, mentre chi pecca per grettezza, lo fa sempre per interesse. La parabola dei due figli «incoerenti» in Mt precede immediatamente quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-46) e anche la versione lucana dei vignaioli (Lc 20, 9-29) segue il racconto del «figliol prodigo». La conclusione sia di Mt che di Lc è inevitabile: quando il Figlio dell’uomo verrà, «affiderà ad altri la vigna» (Lc 20,16) perché i vignaioli che si era scelti sono risultati indegni. Scribi e sommi sacerdoti «avevano capito che quella parabola l’aveva detta per loro» (Lc 20,19). La parabola dei due fratelli di Mt si conclude con lo stesso insegnamento di Lc: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31).
La conclusione a cui arriva Mt è dura per gli orecchi pudichi dei benpensanti che hanno passato la vita a fare calcoli e confronti tra quanto hanno dato a Dio e quanto hanno ricevuto in cambio, tra la loro integerrima facciata di perbenismo e la pretesa di essere annoverati tra i giusti: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31). I pubblicani li abbiamo incontrati nel versetto iniziale della parabola: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo», che corrisponde nel contenuto a «pubblicani e prostitute» di Mt. Gli uni e gli altri sono impuri e Gesù, se vuole essere fedele osservante della Toràh e della morale religiosa, deve allontanarli da sé perché diventerebbe impuro anche lui. Gesù invece mangia con loro (Mt 9,11).

La persona prima della norma
Al tempo di Gesù, il giudeo era ossessionato dall’osservanza della Toràh che la tradizione aveva codificato in 613 precetti: era il primato della norma sulla persona. Gesù con le sue parabole (pastore/donna e padre con i due figli; i due figli incoerenti, i vignaioli, ecc.) opera un radicale cambiamento di prospettiva e annuncia la novità del suo messaggio, che si può sintetizzare nel principio nuovo che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,2). Gesù non esita a disubbidire alla norma e trasgredire i precetti, pur di salvare coloro che erano esclusi dalla convivenza civile e religiosa. Gli specialisti del sacro e della religione non si sporcano le mani, come il sacerdote e lo scriba che, incontrando un povero mezzo morto, pur di non toccarlo cambiano marciapiede (Lc 10,31-32).
«Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?» (Lc 5,30). Non sono più i comportamenti esteriori che contano, ma la disponibilità del cuore e la coerenza nella verità. Ora nessuno può più dire che per lui non c’è salvezza: gli affamati sono invitati alla mensa e gli esclusi entrano a fare parte del Regno. In Lc 15,1 abbiamo già commentato il verbo «si avvicinavano», riferito ai pubblicani e ai peccatori. Ora però possiamo immaginae la scena più concretamente, terribile per quel tempo e affascinante nella sua prospettiva: reprobi e condannati dalla società religiosa, pieni di paura e circospezione, consapevoli di essere disprezzati per la loro innata impurità, passo dopo passo «si avvicinano» all’Uomo che pronuncia parole nuove e dense di una speranza mai udita: «Un uomo aveva due figli…» (Lc 15,11).

Il vangelo del grembo
Egli parla per loro, parla solo a loro, è venuto esclusivamente a cercare i peccatori, pubblicani e prostitute, per i quali era  «come chi solleva un bimbo alla sua guancia» (Os 11,4) e ai quali ha portato il «vangelo del grembo»:  voi siete generati e amati da Dio; voi peccatori ed esclusi siete prediletti da Dio; voi disprezzati e reietti dalla società dei finti religiosi siete i beniamini di Dio; voi che siete scappati dalla casa del Padre per paura o per pudore, tornate nel grembo di Dio, che non vi ha mai abbandonato, perché «mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore (Lc 4,18-19).
Il padre della parabola lucana accoglie il figlio minore che, secondo la giustizia umana, non ne aveva diritto e invece è di nuovo reintegrato nell’«anno di grazia» e per lui ricomincia la vita e l’avventura dell’amore: «Gesù rispose: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”» (Lc 5,31-32). Ora è compiuto per sempre l’anelito del salmista che desiderava partecipare all’incontro della misericordia con la fedeltà e vedere la giustizia mentre bacia la pace (cf Sal 85/84,11).

La voglia di andarsene lontano
Un Midrash ebraico descrive la storia della salvezza come un costante e progressivo allontanamento dell’uomo da Dio: «Più li chiamavo, più si allontanavano da me» (Os 11,2). Da Adamo il ribelle a Caino l’assassino, da Lamech l’immorale agli uomini di Sodoma e Gomorra, alla generazione della torre di Babele e lungo tutta la storia, l’uomo ha camminato in direzione opposta a quella del giardino di Eden. Per ogni generazione che pecca e provoca l’allontanamento della Dimora/Shekinàh  di Dio dalla terra, sorge una generazione giusta che avvicina la Presenza alla terra:

«Quando peccò il primo uomo, la Dimora salì al primo cielo; peccò Caino e salì al secondo cielo; con la generazione di Enoch al terzo; con la generazione del Diluvio al quarto; con la generazione della torre di Babele al quinto; con i sodomiti al sesto e con gli egiziani ai giorni di Abramo al settimo. Al contrario, vi furono sette giusti: Abramo, Isacco, Giacobbe, Levi, Keat, Amram, Mosè con il quale la Dimora discese di nuovo sulla terra, al Sinai, come era sulla terra, all’Eden, prima del peccato (di Adam)» (cf Midrash Numeri Rabbà XIII,4; Genesi Rabbà XIX, 13 =Cantico Rabbà, V,1).
Questi insegnamenti Gesù respirò fin da bambino: coloro che si ritenevano giusti o pii erano soddisfatti di se stessi perché contribuivano a portare la Dimora di Dio sulla terra. Allontanare empi e impuri dalla loro vista e dalla vita era opera meritoria, un atto di culto.
Gesù sconvolge ogni prospettiva e modo di pensare, perché ora è Dio stesso che stabilisce definitivamente la sua dimora in mezzo agli uomini: «Il Lògos (Verbo, Parola) carne (fragilità, debolezza) fu fatto e si attendò (piantò la sua tenda) in mezzo a noi» (Gv 1,14). Veramente strano questo Dio di Gesù Cristo, che non si diverte affatto a condannare le persone, ma non si dà pace finché non li salva, specialmente se sono incapaci anche di meritarlo.
Il perdono di Dio, che è il suo unico modo di essere giusto, non si limita a cancellare il male, ma rigenera la persona a nuova vita come se rinascesse nuovamente (cf Gv 3,3-8). «Donna… nessuno ti ha condannata? Nessuno, Signore… Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,10-11). Lc nella parabola descrive il padre che «commosso, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (15,20) con una serie di quattro azioni in un rapporto di crescendo musicale, dal piano al fortissimo che  travolge il lettore in una dimensione di puro amore.

Il perdono fonte di gioia
La parabola lucana, abbiamo detto, potrebbe essere catalogata come il «vangelo del grembo», perché in ebraico il termine misericordia deriva dalla parola rahamìm che richiama l’utero materno nell’atto di generare alla vita (cf Sal 51/50,3). Il termine «commosso» usato dalla traduzione italiana è troppo povero per esprimere la densità e intensità del greco «esplanchnìsthê», che traduce a sua volta l’ebraico «rachàm», che significa «grembo/utero» materno, sottolineando che la misericordia non è una concessione benevola, ma un atto che genera e riporta alla vita. Quando si è afferrati dal perdono di Dio si scoppia di vita e questa zampilla di gioia.
Questo è il cristianesimo nel suo ideale supremo. Questo dovrebbe essere il cattolicesimo. Questa dovrebbe essere la vita e testimonianza dei credenti. Da quando Gesù è morto sulla croce, giudizio, condanne, moralismo, perbenismo, tutto è morto con lui, perché da quella croce, nuovo monte Sinai della Nuova Alleanza, scendono non più due tavole di pietra, ma il grembo e la tenerezza che hanno il volto umano e divino dell’Uomo Gesù.

Una costante: lo schema «maggiore/minore»
Nella puntata n. 3 (MC 6-7, 2006, p. 63) abbiamo accennato allo schema del fratello minore che subentra al fratello maggiore nella linea della discendenza o dell’eredità, o semplicemente nella linea della storia della salvezza, perché il minore che ha sperperato la sua parte di eredità viene riammesso di nuovo nel diritto di ereditare alla morte del padre (v. simbolismo dell’anello al v. 22).
Questo schema costituisce una «legge», una costante invariabile di tutta la rivelazione e che noi codifichiamo così: Dio sceglie ciò che agli occhi della logica umana è impossibile per realizzare il suo progetto di salvezza.
Questa norma, descritta attraverso i comportamenti nell’AT, giunge a diventare espressamente «parola rivelata» nel NT con Paolo: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-29). Ne rileviamo alcuni esempi, tra i più rilevanti.

a) Fratelli insanguinati. In Gen 4,1-20 si narra del fratricidio del fratello maggiore, Caino, che uccide il fratello minore Abele. Anche qui un conflitto tra due mondi: un contadino (sedentario) e un pastore (seminomade) vivono in perenne conflitto e reciproca gelosia. L’insegnamento del racconto è semplice: chi non accetta la dipendenza da Dio e non ne riconosce la pateità, non può riconoscere la frateità, che invece vede come impedimento e ostacolo da eliminare. Il figlio maggiore di Lc 15 non accoglie il fratello perché è lontano dal loro padre.

b) L’inganno: Esaù/Giacobbe. In Gen 25,19-34 si narra che Dio si ricordò di Rebecca, sposa sterile di Isacco, ed ella rimase incinta di due gemelli che sarebbero stati capi di due popoli. Dio disse a Rebecca: «Un popolo prevarrà sull’altro, il maggiore servirà il minore» (Gen 25,23c). Il maggiore, partorito per primo, è Esaù; il minore, partorito per secondo, è Giacobbe (Gen 25,26). Secondo il diritto Esaù avrebbe dovuto continuare la discendenza di Isacco e invece egli vende la sua primogenitura al fratello minore Giacobbe che con uno stratagemma imbroglia il padre e il fratello (Gen 27,146).

c) L’incesto: Rerach/Perez. In Gen 38 si narra la storia dell’incesto di Tamar, che pur di ottenere giustizia secondo la Toràh (Dt 25,5), non esita a travestirsi da prostituta per concepire da suo suocero che, senza saperlo, la lascia incinta di due gemelli: Perez e Zerach (Gen 38,30). Zerach avrebbe dovuto essere il primogenito; invece al momento della nascita è soppiantato dal gemello Perez che ritroveremo nella genealogia di Mt come antenato di Gesù con il nome di Fares (Mt 1,3; Lc 3,33). Un altro fratello minore che soppianta il maggiore.

d) Lo scambio: Manasse/Efraim. In Gen 48, si narra di Giacobbe che, ospite di suo figlio Giuseppe, vice re d’Egitto, ormai vecchio e cieco, vuole benedire i due figli che Giuseppe ebbe dalla moglie egiziana Asenèt: Manasse il primogenito ed Efraim il secondogenito. Giuseppe colloca il figlio maggiore davanti alla mano destra di Giacobbe e il minore davanti alla mano sinistra, affinché il vecchio padre possa compiere il rito della trasmissione secondo la legge. Ma al momento di benedire Giacobbe incrocia le braccia e inverte la benedizione: «Israele stese la sua mano destra e la pose sul capo di Efraim, che pure era il più giovane, e la sua sinistra sul capo di Manasse, incrociando le braccia, benché Manasse fosse il primogenito… Così pose Efraim prima di Manasse» (Gen 48,14.20c). Dio guida la storia secondo suoi criteri per noi inverosimili.

e) L’ultimo sarà il primo: Davide e i 7 fratelli. In 1Sam 16,1-13 si narra che Dio manda il profeta Samuele a cercare il successore del re Saul tra i figli di Iesse. Il profeta fa venire i primi sette uno ad uno; vorrebbe consacrare Eliab, il primogenito. Dio lo scarta, come gli altri sei. Rimane l’ultimo, «il più piccolo che ora sta pascolando il gregge» e a cui nessuno presta attenzione, tanto che non è stato nemmeno invitato. Dio, invece, sceglie lui, il più piccolo e dimenticato che diventerà il re Davide, il consacrato dal cui casato discenderà il Messia d’Israele.
Tutti questi avvenimenti hanno in comune la legge dell’impossibilità: coloro che non hanno diritto sono scelti per proseguire la discendenza di Abramo fino al Messia, mentre coloro che ne hanno il diritto naturale lo perdono. Nella logica di Dio tutto si capovolge, perché in lui non c’è la giustizia come misura tra eguali, ma l’amore senza confini, la cui misura è l’accoglienza come premessa per un amore più grande e senza condizioni.

A scuola di Maria di Nazareth
È la stessa logica che domina e dirige il comportamento del padre della parabola lucana: egli ama il figlio minore non meno del figlio maggiore, ma tra i due non fa le parti uguali: ama secondo il bisogno e la necessità di ciascuno, senza togliere con questo nulla all’altro.
La logica del padre misericordioso che accoglie il figlio minore, nonostante l’opposizione del maggiore l’ha bene capita Maria di Nazareth, l’ultima degli ‘anawin/poveri di Yhwh di cui si fa portavoce e garanzia: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53).
È la stessa logica che Lc illustra nelle beatitudini della pianura, quando il Figlio di Maria di Nazareth darà agli altri lo stesso nutrimento che egli ha ricevuto da sua madre: «Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Beati voi che ora piangete, perché riderete. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete» (Lc 6, 21-25). [continua – 6]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (5)

Il mestiere di Dio: è il perdono, sempre e comunque
«Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno» sal 53

Se guardiamo attentamente i comportamenti dei due figli della parabola lucana, ci accorgiamo subito che ci svelano due figure speculari che si integrano e si illuminano a vicenda: l’uno mette in risalto la figura dell’altro e tutti e due insieme fanno da sfondo e contrasto a quella del padre.

Amore sconfinato e insufficiente
Ma il padre, nonostante i suoi sforzi, non riesce a fare incontrare i due fratelli, che, stando alla parabola, non si riconciliano; non riesce a farli abbracciare e vede incrinata la gioia che aveva nel cuore, pregustando il sapore di una famiglia di nuovo riunita e felice.
La parabola, infatti, resta sospesa sull’atteggiamento del padre che è giornioso di avere recuperato il figlio che credeva morto; ma è atterrito dall’atteggiamento del figlio maggiore, che gli è sempre stato accanto, ma da estraneo, interessato solo all’eredità e geloso del fratello minore, di cui avrebbe preferito la morte. L’amore immenso del padre resta come un macigno tra i due fratelli; ma specialmente il maggiore non sa o non vuole approfittare del momento di grazia.
Per essere capace di amare, bisogna lasciarsi amare e perdersi tra le braccia di un amore gratuito. Il minore, schiacciato dalla colpa, si lascia travolgere dall’amore del padre; il maggiore non può: è troppo pieno di sé e della sua presunzione di essere sempre stato «il figlio buono».

Per eccesso o per difetto
Per ragioni diverse tutti e due i figli hanno impostato la vita attorno alla «roba», lasciandosi abitare da falsi problemi o, peggio, «da cose»; non si sono accorti che il tempo passava e il vuoto aumentava e tutti e due si allontanavano dal padre: uno andandosene lontano e l’altro restando in casa.
Non basta stare fisicamente in una casa per essere famiglia; non è sufficiente essere in un gruppo per fare comunità. Famiglia e comunità sono eventi del cuore, scelte dell’anima, non meccanismi per risolvere i problemi personali. Si può stare insieme agli altri ed essere soli; fare folla senza condividere nulla. Si può vivere in una comunità una vita intera e restare isolati nel proprio egoismo.
Se si dovesse dare una misura di colpevolezza, sarebbe difficile dire chi dei due figli sia più colpevole, almeno inizialmente, perché alla fine della parabola la colpa del figlio maggiore supera di gran lunga quella del figlio minore. I due fratelli di sangue, ma non di anima, hanno un elemento in comune: di fronte alla scelta tra la vita e la morte, tutti e due hanno preferito la morte, il giovane scambiandola per la vita indipendente, il maggiore per grettezza ed egoismo. In loro si realizza alla lettera la parola della scrittura che dice: «Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,17; cf Dt 30,15.19; Ger 21,8).
È sempre meglio non peccare; ma se uno pecca è preferibile chi pecca per eccesso di colui che pecca per difetto. Il primo pecca per errore di valutazione e comunque per amore debordante, anche se sbagliato; il secondo pecca per grettezza e insufficienza di anima, perché incatenato alla golosità del suo egoismo.

Da Adamo a Davide
Allargando lo sguardo alla scrittura nel suo complesso, vediamo che il comportamento dei due figli in Lc non è una «sindrome» isolata, ma un’epidemia che segna la storia della salvezza fin dalle origini. Già nel giardino di Eden, Adamo ed Eva si accusano a vicenda, scaricandosi addosso reciprocamente il barile delle proprie responsabilità e tutti e due «disobbediscono» a Dio, loro padre (Gen 12,13), fino a nascondersi dalla sua presenza (Gen 3,10), con la conseguenza che sono cacciati «fuori» dal giardino della pateità (Gen 3,23-24).
L’esempio dei genitori cade a valanga: Caino e Abele arrivano fino alla morte per gelosia (Gen 4,8). Anche il primo omicidio si compie «nei campi», fuori dalla pateità.
I fratelli di Giuseppe sono gelosi del fratello minore, che considerano un arrogante concorrente per l’eredità, e arrivano a concepire un fratricidio pur di disfarsene; ma poi ripiegano su altra soluzione: lo vendono a mercanti madianiti che lo portano «fuori» in terra straniera, in Egitto per venderlo come schiavo (Gen 27,28-29).
Nella lotta per la successione a Isacco, il figlio minore Giacobbe riesce a ingannare il fratello Esaù, primogenito a cui la legge riconosce il diritto di erede (cf Gen 27).
Tamar, l’incestuosa nuora di Giuda e antenata di Gesù (Mt 1,3), partorisce due figli, ma il secondo, Perez, già nel grembo materno soppianta il fratello Zerach, che avrebbe il diritto legale di essere il primogenito (cf Gen 38,27-30).
Per la successione al trono del re Saul, tra otto fratelli, Dio non sceglie il primogenito, il più prestante o appariscente, ma il giovane Davide, l’ultimogenito, mite e innocuo pastorello. Egli addirittura è scelto mentre non è assente alla cerimonia d’investitura (cf 1Sam 16,1-13).
Tutti questi personaggi hanno in comune un dato con la parabola lucana: il figlio minore prevale sul fratello maggiore, anche contro il diritto e consuetudine. Non è il diritto che conduce la storia della salvezza, ma la gratuità con cui Dio sceglie i suoi inviati, attraverso criteri che esulano da quelli umani. Il comportamento di Dio può apparire ingiusto agli occhi degli uomini, perché questi agiscono in base a un principio cieco di diritto, mentre Dio guarda alle ragioni del cuore e consistenza dell’anima.
Il figlio maggiore della parabola lucana appare il «figlio buono», perché è rimasto in casa accanto al padre, mentre agli occhi del mondo il figlio minore è una pecora nera, perché ha abbandonato il padre, spezzandogli il cuore. A guardare bene però, con gli occhi della verità dell’esistenza di ciascuno, la situazione si capovolge: il figlio che è «fuori» ha il padre nel cuore, mentre il figlio che è «dentro» ha il cuore nella «roba».

Disperde i superbi, innalza gli umili
In questo contesto, la parabola lucana è una cartina di tornasole della storia della «nuova alleanza»: descrive e illustra che Gesù è venuto ad abolire la distinzione tra «dentro» e «fuori» per dare diritto di figliolanza a tutti coloro che ne sono esclusi dalle leggi di purità, dai pregiudizi religiosi o dalla presunzione di chi si ritiene «puro» e considera se stesso come l’ombelico del mondo.
Così pensa e agisce il figlio maggiore, quando rispondendo al padre dice sprezzante: «Ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso» (Lc 15,30). Non è «suo fratello», ma solo figlio di suo padre. Il «puro» che presume di essere giusto non ha nulla da spartire con uno che è andato a prostitute, non vuole sporcarsi con il fratello che reputa «peccatore immondo». Non si accorge che, mentre il fratello minore ha lasciato le prostitute nel «paese lontano», egli, il «puro», porta nel suo cuore il virus della prostituzione, perché è tutta la sua vita a essere prostituita.
È il capovolgimento della situazione descritta nel Magnificat: «Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1,53). Il comportamento di Dio è la rivoluzione dei sistemi su cui si regge il mondo degli uomini: chi non ha diritto, è accolto; chi è escluso, è accettato; chi è condannato, è salvato; chi non conta vale; chi crede di contare è espulso.
Con questa parabola Lc descrive il comportamento «scandaloso» di Gesù, che accoglie gli avanzi della società: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» e volutamente lo oppone all’atteggiamento dei farisei e scribi, che «mormoravano: costui riceve i peccatori e mangia con loro» (vv. 1-2; cf Mt 9,11).
Nulla c’è della logica umana nel comportamento del Figlio dell’uomo, venuto perché nulla si perda di quanto il Padre ha affidato alla sua tenerezza (Gv 6,39). Se da una parte il figlio minore rappresenta l’umanità marginale, che istituzioni e potere escludono anche dall’orizzonte di Dio, perché confondono la propria miseria con la volontà di Dio, il figlio maggiore è il degno rappresentante di chi crede in un Dio costruito a propria immagine e somiglianza e usato come strumento di discriminazione ed esclusione per fare della chiesa una sètta di puri, cioè di senza Dio.

Novità del dio scandaloso
La parabola dei due figli è parallela a quella del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Essi si recano al tempio per pregare, ma ritornano a casa a ruoli invertiti: l’atteggiamento del fariseo corrisponde a quello del figlio maggiore, mentre quello del pubblicano è identico a quello del figlio minore. Ne leggiamo il testo:
«Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri. Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi toò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,10-14).
Nell’interpretazione di questa parabola, molti si fermano alla superficie. Non si tratta, come potrebbe apparire a prima vista di un insegnamento sulla preghiera, che deve essere umile e non presuntuosa. C’è anche questo sullo sfondo, ma non deve oscurare l’insegnamento primario che è la proclamazione di una costante nell’agire di Dio in quanto Dio. Gesù non viene ad annunciare un «Dio nuovo», diverso da Yhwh, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (Es 3,6); ma viene a rivelare, a raccontare (Gv 1,18) la natura intima di questo Dio, i cui comportamenti sono molto diversi da quelli dell’uomo.
La parabola espone in modo drammatico il concetto di giustizia come viene applicato da Dio: Dio è giusto perché salva. In Dio giustizia e misericordia s’identificano, tanto da potere dire che Dio è giusto perché salva e salva perché è giusto. Tale «natura» di Dio, che la scrittura aveva codificato (Sal 33,5; 36,11; 40,11; 85,11; 88,15; 103,17; Sir 35,23), si è offuscata nel corso della storia mano a mano che l’uomo si allontanava da lui e si faceva un’immagine di Dio sempre più conforme alle sue idee e al suo immaginario.

Fariseo/figlio maggiore,
figlio minore/pubblicano
La parabola del fariseo e pubblicano è ambientata al tempio, simbolo di Dio stesso, quasi a dire che lo stesso Dio si fa garante dell’autenticità dell’insegnamento di Gesù, «nuovo» e sconvolgente per il contesto in cui viene fatto: un peccatore che si pente è più gradito a Dio di un superbo che si crede giusto e frequenta il tempio, fa offerte generose e si dedica alla beneficenza. Dio non si può comprare perché nessuno lo può vendere.
Dietro al pubblicano pentito in fondo al tempio e al fariseo gradasso davanti alla balaustra si oppongono due concetti di giustizia: quella umana e quella di Dio. Il principio è codificato dallo stesso Lc nel criterio generale: «Egli disse (ai farisei): voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio» (Lc 16,15). Osservare tutte le prescrizioni religiose, partecipare ai riti di culto, dare denaro in beneficenza non rende necessariamente giusti davanti a Dio. A volte aumenta il peccato.
Il fariseo non chiede nulla; apparentemente ringrazia solo e dichiara la sua gratitudine a Dio per la sua benevolenza e benedizione. È lo stesso atteggiamento del figlio maggiore che dichiara di avere dedicato tutta la vita al servizio del padre, senza chiedere neppure un capretto per fare festa con gli amici. Chi potrebbe condannare un simile atteggiamento? Il fariseo del tempio è il figlio maggiore.
Al contrario, il figlio minore è scappato di casa, ha peccato, ha dissolto il suo patrimonio, è diventato impuro tra gli impuri; torna e, secondo la giustizia umana, non avrebbe diritto a nulla. Egli stesso pensa di essere escluso dalla giustizia patea, quando dice nel suo intimo: «Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni» (Lc 15,18-19). Il figlio minore ha coscienza di essere diventato servo, cioè uomo senza diritti. Non ha diritto alla giustizia e se il padre lo cacciasse di sua iniziativa lontano da sé, chi potrebbe condannarlo?
Allo stesso modo il pubblicano nel tempio non osa avvicinarsi a Dio; consapevole della sua Presenza, se ne sta in fondo, quasi che il suo stato di peccato possa contaminare il tempio stesso. Egli è impuro e rende impuro tutto ciò che tocca. Non ha diritto di stare nel tempio (cf Lv 10,10; 13,46). La sua preghiera è disperata, simile a quella di Davide dopo l’omicidio di Uria l’Hittita e l’adulterio con la moglie di lui, Bersabea (2 Sam 12,9): «Abbi pietà di me, o Dio, nella tua chesed (amore di tenerezza), secondo l’abbondanza delle tue rahamìm (grembo materno) cancella il mio peccato» (Sal 51,3).
Il pubblicano del tempio è il figlio minore che si butta ai piedi della giustizia di Dio, abbandonando lì la stessa speranza di essere salvato. Secondo la logica umana, il fariseo nel tempio e il figlio maggiore in casa sono modelli di vita e di fede, mentre il figlio minore e il pubblicano sono la faccia peggiore dell’umanità. L’uomo si crede giusto quando fa le parti uguali; Dio è giusto quando tra diseguali sceglie il più svantaggiato.

il mestiere di dio è perdonare sempre
Nelle due parabole Luca espone la dottrina della giustificazione di Paolo (Rm 1-9; Ef 2,8-10), che si fonda sulla fede e non sulle opere umane, se è vero che «il giusto cade sette volte al giorno» (Pr 24,16); ma è qui che si rivela e si celebra la grandezza di Dio, che chiama ciascuno di noi a imitarlo nel suo comportamento: se tuo fratello «pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: mi pento, tu gli perdonerai» (Lc 17,4).
Dio è giusto perché perdona senza tenere conto di meriti e demeriti perché la sua misericordia è radicata nel cuore stesso di Dio. Con una frase a effetto si potrebbe dire che il mestiere di Dio è il perdono. È la teologia della croce la sorgente di questa «novità». Su quel legno di morte Cristo insieme a sé ha crocifisso anche il peccato dell’umanità (Rm 5,19; cf 3,24-25; Gal 2,21), inaugurando «l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,19), che consiste nel dare la giustificazione a coloro che non possono accedervi (Rm 3,23-25; 4,4-8; 5,9-21), perché non hanno nemmeno la forza di alzarsi dalla loro debolezza.
Alla luce di questa spiegazione che allarga la visuale della parabola del figliol prodigo, trasferendola da storia familiare a simbolo della storia della salvezza o della giustificazione, possiamo meglio comprendere le corrispondenze delle due parabole lucane, osservandole in sinossi, assaporandone il testo:
Simmetrie e contrasti sono evidenti. Il fariseo nutre lo stesso disprezzo «morale» che il figlio maggiore riserva verso «questo tuo figlio», che pertanto disconosce come «suo» fratello, nonostante il padre glielo ricordi espressamente: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (v. 32).
Il pubblicano e il figlio minore non perdono tempo a «giudicare» il comportamento degli altri, ma vivono la pesantezza della loro situazione e offrono quello che hanno: cioè nulla, solo il loro peccato e «distanza» da Dio. Alla fine il fariseo, che «stava in piedi» davanti a Dio, e il figlio maggiore, che non sa accogliere il fratello corrotto, si ritrovano lontanissimi da Dio e aggravati da un altro peccato; mentre il figlio minore e il pubblicano, che avevano coscienza del loro peccato, si ritrovano accanto a Dio che li accoglie e li «risuscita», per fae uomini nuovi.
I primi hanno perso tempo a guardare la pagliuzza nell’occhio dei fratelli, senza curarsi della trave che c’era nei loro (Lc 6,41-42); gli altri hanno «gettato» letteralmente il loro peso su di Dio, affidandogli la loro cecità e rimettendosi alla sua misericordia: «Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno» (Sal 55/54,23) [continua – 5].

Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo»

La parabola del "figliol prodigo" (4)
Il vangelo della gioia genera la comunità
e uomini e donne liberi

"Egli deve crescere e io invece diminuire" (Gv 3,30)

Ripercorriamo il capitolo 15 di Luca mettendo in evidenza in modo particolare il vocabolario in relazione alla vita di ogni giorno. È un vocabolario circolare, perché vi sono parole e concetti che ritornano come un ritornello, quasi che l’autore sia preoccupato che i suoi lettori imparino bene la lezione di vita.

VOCABOLARIO CIRCOLARE

Abbiamo sottolineato più volte che ci troviamo di fronte non a tre, ma a due parabole, ciascuna delle quali è prolungata o raddoppiata con un nuovo personaggio che mette ancora di più in luce l’argomento della prima. Leggendo in parallelo la prima parabola (vv. 4-7) e il suo prolungamento (vv. 8-10) scopriamo "visivamente" che vocabolario e messaggio sono gli stessi.
La parabola vera e propria (l’uomo/pastore) è composta di quattro versetti, per un totale, in greco, di 81 parole, mentre il commento illustrativo (la donna) si compone di tre versetti, per un totale di 51 parole, cioè 28 in meno, rispettando così anche un rapporto proporzionale tra parabola primaria e aggiunta di rafforzamento.
Il messaggio della prima parabola è dunque quella dell’esclusività di ciascuno di noi che Lc indirizza sia al mondo maschile che a quello femminile: nessuno deve sentirsi escluso dall’attenzione di Dio.
Sia la parabola (pastore) che il suo prolungamento (donna) cominciano con un interrogativo ipotetico, che esige la risposta: "Nessuno". Nessuno infatti abbandona una pecora nel deserto e nessuna donna fa finta di nulla se perde una moneta preziosa.
Luca stesso ci aveva preparato a questa svolta, quando, nel contesto della preghiera, ci aveva già anticipato che Dio non si rassegna di fronte alle esigenze dei suoi figli e nessun padre dà al figlio pietra per pane o serpe per pesce o scorpione per uovo (Lc 11,11-13). Ora ci dice che a maggior ragione Dio non si rassegna alla morte dei suoi figli, per quanto peccatori e ribelli essi possano essere. Pateità/mateità e figliolanza non si possono mai rinnegare senza annullare la propria identità e Dio "ricorda sempre la sua alleanza: parola data per mille generazioni" (Sal 105/104,8).

UN UOMO E UNA DONNA PER LA STESSA IMITAZIONE

Appare subito evidente che il secondo esempio è un doppione del primo, che non ha senso nella logica della parabola, ma trova un motivo nel fatto che Lc ricostruisce in forma letteraria un parallelismo, tanto caro alla cultura ebraica: si afferma lo stesso concetto, ripetendolo due volte, in positivo e in negativo o mettendo in evidenza gli opposti, come in questo caso: maschile e femminile.
L’introduzione narrativa del v. 3 è illuminante, come abbiamo già sottolineato, perché parla al singolare di "questa parabola" e poi passa a illustrare due esempi. In questo contesto si evidenzia l’intenzione dell’autore di rimarcare l’insegnamento del primo racconto, ma sotto la prospettiva femminile.
Mettendo come protagonisti dell’unica parabola, un uomo e una donna, l’autore espone la sua intenzione di dire che nessuno, uomo o donna, possa e debba dirsi esentato dall’imitare il comportamento di Dio. La prova che questa sia la volontà dell’evangelista, si trova al v. 4 dove non si parla di "pastore", ma alla lettera (dal greco): "Quale uomo tra di voi…", che trova il suo corrispettivo al v. 8 nella specularità opposta: "Oppure quale donna…".
Lc non è nuovo a questo procedimento, perché, pur non essendo ebreo, è l’evangelista che più di tutti imita lo stile ebraico, in modo particolare quello della bibbia greca dell’AT, detta la Lxx. Gli studiosi hanno contato circa 83 septuagentismi (frasi e modi di dire cioè costruiti sullo stile della Lxx).
Secondo la tradizione ebraica, ogni Israelita per adempiere la toràh doveva osservare 613 precetti: 365 negativi (uno per ogni giorno dell’anno) e 248 positivi (uno per ogni articolazione, nervo e osso che compongono il corpo umano). Le donne erano dispensate dall’osservare i 248 precetti positivi, mentre erano obbligate a rispettare quelli negativi.
In questo contesto, narrare una parabola mettendo sullo stesso piano sia un uomo che una donna, significa riconoscere anche alla donna il diritto di imitare Dio né più né meno come l’uomo: è la dichiarazione dell’uguaglianza dei figli di Dio.
Lc è veramente il discepolo di Paolo che aveva spezzato ogni catena di discriminazione in nome della fede: "Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,26-28).

LA COMUNITA’ LUOGO DELLA GIOIA

Un altro elemento di corrispondenza è l’opposizione che intravediamo nei due ambienti diversi dove agiscono l’uomo e la donna: il primo si trova "nel deserto" (v. 4), la seconda invece in "casa" (v. 8), che in qualche modo ci prefigurano quanto succederà nella seconda parte dove si descriverà un allontanamento dalla casa patea verso "un paese lontano" (v. 13), che non è solo il deserto, ma qualcosa di peggio: è la negazione della santità della casa, perché il figlio minore andrà in una regione impura, popolata da porci (v. 15).
Sia l’uomo/pastore che la donna/casalinga della prima parabola hanno la stessa reazione e provano gli stessi sentimenti di fronte al ritrovamento, forse insperato, della pecora e della moneta: ambedue chiamano amici e vicini per condividere la gioia che li pervade.
Quando l’arcangelo Gabriele visita Maria di Nazareth, entrando da lei la saluta dicendo: "Chàire-Gioisci" (Lc 1,28), che è lo stesso verbo che usano il pastore e la donna quando convocano gli amici, ma rafforzato dalla preposizione di compagnia: "Synchàrete-con-giornite" (Lc 15,6.9). È il bisogno della condivisione del cuore. È la logica della comunità, come luogo naturale della gioia e dell’amore, mentre la tristezza spinge alla chiusura e all’isolamento. Quando si scoppia di gioia, si è naturalmente contagiosi e si cerca una comunità dove potere partecipare i sentimenti di vita.
Forse qui c’è un discreto accenno alla comunità/chiesa, che è tale solo se condivide e partecipa la vocazione alla imitazione del Padre che sbocca nella gioia. Non basta andare in chiesa, bisogna essere chiesa. Va in chiesa chi deve adempiere un obbligo, chi deve pagare un pedaggio.
È chiesa chi invece risponde a una vocazione con il desiderio di incontrare uomini e donne con cui partecipare la gioia di essere ritrovati, con cui condividere il vangelo della gioia, espresso dall’uomo e dalla donna della prima parabola e dal padre della seconda parabola che ora ci accingiamo a studiare insieme.

UN UOMO AVEVA DUE FIGLI, ED ERA SOLO

La 2a parabola, rigorosamente parlando, è limitata ai vv. 11-24: la parte relativa al padre e al figlio minore. La seconda parte (vv. 25-32), che riguarda il padre e il figlio maggiore, è un prolungamento della prima, osservata da una prospettiva opposta. In essa si ripete lo stesso insegnamento della prima, ma da un angolo di visuale diversa. Che sia la seconda parabola lo rileviamo dal v. 11, dove ritroviamo per la seconda volta il verbo narrativo "e disse" che fa coppia con "egli disse" del v. 3.
Se la prima parabola è illustrata dall’esempio di un uomo e una donna, la seconda è dominata da due figure: un uomo e due figli (v. 11) che l’autore divide in due parti:
a) il padre e il figlio più giovane (vv. 12-24),
b) il padre e il figlio maggiore (v. 25).
Il padre fa da peo ai due figli, che sono speculari e l’uno non può esistere senza l’altro, perché ciascuno è sfondo e premessa per l’altro.
Sia nella parabola essenziale (figlio minore) che nel suo prolungamento (figlio maggiore) la figura centrale è il padre: tutto ruota attorno a lui; e mentre i figli fanno i propri interessi, ciascuno dal proprio punto di vista, il padre è in continuo movimento: corre (v. 20), si getta addosso al figlio (v. 20), esce incontro al maggiore (v. 28), mentre i figli e i servi, che pure hanno ricevuto l’ordine di fare in fretta (v. 22), sembrano immobilizzati e incapaci di essere protagonisti e di affrancarsi dalla pateità che li sostiene.

DALL’ESPERIENZA ALLA STORIA DELLA SALVEZZA

La parabola in sé riguarda le scelte e il comportamento del "più giovane" (v. 12), mentre il comportamento del figlio maggiore fa da contrasto e ci permette di accostarci alla figura del padre in modo più pieno e profondo. Il confronto tra la parabola del figlio minore in relazione con suo padre e il suo prolungamento, cioè del figlio maggiore in rapporto con suo padre, non è un doppione vero e proprio, come nella prima parabola del pastore/donna, ma l’altra faccia della stessa medaglia.
Questa seconda parabola illustra il tema della misericordia sullo sfondo della storia della salvezza come si è realizzata, mettendo a confronto Israele e la chiesa.
Esaminiamo le corrispondenze tra la parabola vera e propria (vv. 11-24) e la seconda parte (vv. 25-32), riportando solo i temi e non il testo che occuperebbe molto spazio:
I due figli, il più giovane e il maggiore sono simboli di due atteggiamenti: un abisso li separa dal padre; ma anche tra di loro vi è una somiglianza nonostante non esista alcuna comunicazione del figlio minore con il fratello maggiore e di questi con il fratello minore. Sono stranieri in "casa", la negazione della frateità pur vivendo insieme al padre.

APPLICAZIONE: A QUALE DEI DUE FIGLI ASSOMIGLIAMO

Non conosciamo il motivo per cui il figlio minore vuole andarsene via di casa, ma possiamo intuirlo, perché il testo ci offre qualcosa di più di un semplice sospetto.
Viene un tempo nell’adolescenza, in cui i genitori sono colpevoli di tutto: in essi l’adolescente identifica tutte le cause di tutte le sue insoddisfazioni che riguardano il corpo (nessun adolescente "si piace"), la fatica di vivere, lo stile di vita, la casa, la famiglia. Il "figlio più giovane", come tutti gli adolescenti, vuole essere "più grande" di quanto non sia, mentre sperimenta ogni giorno di essere trattato come l’adolescente che è. Il conflitto con tutto ciò che ostacola il suo "essere grande" è inevitabile, il confronto con il fratello maggiore è una sfida che degenera in guerra. Si sogna di scappare di casa, come soluzione della propria irrequietezza. A questa età si sogna la morte dei genitori e si odiano i fratelli e sorelle, perché "loro sono grandi, mentre io a quin-di-ci-an-ni sono trattato/a ancora da bambino-bambina".
Chiunque è stato genitore ha vissuto questi problemi. I fratelli maggiori si divertono alle spalle dei fratelli minori e non perdono occasione per mettere in ridicolo le manifestazioni della loro crescita e del loro sviluppo. Da un lato l’adolescente "sente" di non potere vivere una sua propria vita se non "uccide" (psicologicamente) i genitori, mettendo così in atto quel desiderio inconscio di eliminare qualunque principio di autorità.
In psicologia questo principio è codificato nell’espressione: "Uccidi il Budda che incontri per strada", dove Budda sta per qualsiasi forma di autorità (padre, madre, maestro, direttore spirituale, ecc.). Per ritrovare l’autorità come sostegno di servizio alla crescita, bisogna sapersene separare, altrimenti c’è il rischio di vivere sempre sottomessi a una autorità che diventa sostitutiva e per questo deleteria.
Il figlio minore volle uccidere suo padre per affrancarsi dalla dipendenza, ma non è ancora giunto il suo tempo di maturità; il figlio maggiore non aveva tagliato il cordone ombelicale, ma non era affatto cresciuto, perché si era rintanato nel suo egoismo possessivo, fino a essere geloso del ritorno del fratello, che vede come antagonista e concorrente.
È l’atteggiamento di fondo per vivere una relazione matura e armonica in ogni ambiente, in ogni condizione. Ciò vale per il figlio nei confronti del padre e della madre, per il monaco nei confronti del superiore, per la suora nei confronti della superiora, per il prete nei confronti del vescovo, per la moglie nei confronti del marito, per il marito nei confronti della moglie, per gli alunni nei confronti dei maestri.
Tutti coloro che esercitano una qualche forma di autorità devono diminuire se vogliono che gli altri affidati alla loro responsabilità crescano liberi, pieni, maturi e diventino adulti (Gv 3,30).
Col padre e i suoi due figli, tutti dobbiamo fare i conti e prima lo facciamo meglio è per noi [continua – 4].

Paolo Farinella

Allora egli disse loro QUESTA PARABOLA

Uomo
4 "Quale uomo di voi
se ha cento pecore
e ne perde una,
non lascia le novantanove
nel deserto
e va dietro a quella perduta,
finché non la ritrova?
5 Ritrovatala,
se la carica sulle sue spalle
tutto contento,
6 va a casa,
chiama gli amici e i vicini
e dice loro:
“Rallegratevi con me,
perché ho ritrovato
la mia pecora perduta”.
7 Io vi dico che così
vi sarà gioia
in cielo
per un solo peccatore
che si converte,
che per novantanove giusti
che non hanno bisogno
di conversione".

Donna
8 "Oppure quale donna,
se ha dieci dramme
e ne perde una,
non accende la lucerna
e spazza la casa
e cerca attentamente
finché non la ritrova?
9 E dopo averla trovata,
chiama le amiche e vicine
dicendo:
“Rallegratevi con me,
perché ho ritrovato
la dramma perduta”.
10 Così, io vi dico,
vi è gioia
davanti agli angeli di Dio
per un solo peccatore
che si converte".

Figlio giovane
In casa
Lascia la casa
Va in un paese lontano
Commensale dei porci

Il padre gli corse incontro
Padre, ho peccato contro di te
Il padre fa festa
perché "questo mio figlio"
* da morto è tornato in vita
* da perduto è ritrovato

Figlio maggiore

È nei campi
Toa a casa
Non entra, ma resta "vicino"
Tu sei sempre con me
(dice il padre)
Il padre uscì a chiamarlo
Non mi hai mai dato un capretto
Il padre invita alla festa
perché "questo tuo fratello"
* da morto è tornato in vita
* da perduto è ritrovato

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo»

Un midrash di Geremia 31? (3)

«Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito… Mi sono vergognato e ne provo confusione» (Ger 31,19)
«Allora rientrò in se stesso e disse: … Mi leverò e andrò da mio padre» (Lc 15,17-18).

Mentre Marco parla ai catecumeni che per la prima volta incontrano Gesù, Matteo ai catechisti che educano alla fede e Giovanni ai contemplativi della «Gloria», Luca scrive il suo vangelo come una catechesi per i discepoli, coloro che dal catecumenato sono passati alla scelta di testimoni del Risorto. Non c’è fede senza imitazione.

IMITAZIONE DI DIO

I l capitolo 15 di Lc è una proposta, descrizione di una vocazione: con le due parabole del pastore più la donna (vv. 4-10) e del padre che accoglie il figlio, i due figli (vv. 11-32), Gesù «chiama» i suoi uditori a imitare il comportamento di Dio e fae il fondamento del proprio. Tutto il vangelo di Lc ruota attorno all’idea del discepolo che segue il Maestro. Nessuno può vedere Dio (1Gv 4,12), ma ognuno può renderlo visibile vivendone il comportamento negli atteggiamenti e nello stile del cuore e della vita.
Matteo ci aveva prospettato la perfezione di Dio come orizzonte del vivere cristiano e Dio non è una qualsiasi mèta morale o ascetica, ma è la sua stessa natura che è sorgente e roccia della vita di chi crede: «Siate voi perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48).
Lc fa un passo avanti, definendo il «discepolo» di Gesù come colui che è chiamato a vivere la sua vita come espressione visibile di quella di Dio. L’atteggiamento dell’uomo/pastore (completato dalla figura della donna) e quello del padre nei confronti del figlio minore (e anche del figlio maggiore) non sono un gesto sporadico di accoglienza, ma l’essenza stessa della natura di Dio. O Dio agisce come il pastore/donna e il padre dei due figli o non è Dio. O i credenti «imitano» nella loro esistenza il Dio che fa festa «per un solo peccatore che si converte» (v. 7. 10) o non sono credenti in Gesù Cristo. Potranno forse essere religiosi, ma non saranno mai credenti nel Dio di Gesù Cristo.
Lc 15 descrive e definisce la natura intima di Dio verso i peccatori, coloro che sono già morti perché esclusi dalla benedizione della toràh e dal vivere civile. Sono condannati a morte che camminano. Questa attitudine divina si chiama misericordia nel senso etimologico ebraico di generare di nuovo.

L’ANNO DI GRAZIE E DI VENDETTA

Lc fa iniziare il ministero di Gesù nella sinagoga di Cafaao con una citazione di Isaia, da cui però omette volutamente parte di un versetto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che avete udita con i vostri orecchi”» (Lc 4,18-21; cf Is 61,1-2).
La citazione di Lc è molto importante non solo per quello che dice, ma specialmente per quello che non dice. Il v. 2 di Isaia (= v. 19 di Lc), infatti, dice testualmente «a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio». Lc omette la seconda parte del versetto (un giorno di vendetta per il nostro Dio), per evidenziare l’atteggiamento favorevole con cui Dio in Gesù Cristo viene incontro agli esclusi dalla mensa della pienezza della vita.
Il primo atto pubblico di Gesù è un discorso programmatico di misericordia verso coloro che la società, religione, potere e perbenismo, anche in nome di Dio, giudicano feccia e spazzatura del mondo. Il mondo di oggi parlerebbe di perdenti per niente furbi.

LA MISERICORDIA COME SPERANZA DI VITA

Lc 15 descrive le due parabole (più le due aggiunte) come l’attuazione nella storia della chiesa del progetto programmatico di Dio, centrato su un nuovo ordine di giustizia. La misericordia è il nome nuovo della giustizia di Dio (Sal 33/32,5; 36/35,11); essa segna tutta la vita e il vangelo di Gesù:
– Gesù perdona e accoglie i peccatori (Lc 7,36-50: la peccatrice in casa del fariseo Simone; 22,48.61: Giuda e Pietro; 23,34. 43: i suoi crocifissori e il ladrone morente);
– Gesù accoglie poveri ed emarginati (Lc 6,20-24: beatitudini; 8,2-3: donne indemoniate; 10,30-35: il povero viandante soccorso dal samaritano; 11,14: il muto indemoniato; 13,12: la donna ricurva; 18,22: il ricco invitato a dare tutto ai poveri; 19,9: Zaccheo);
– Gesù accoglie le donne, emarginate, disprezzate (Lc 7,1∑-15.36-50; 8,2-3; 10,38-42; 13,10-17; 18,1-5; 23,27-28).
– Gesù accoglie i bambini e li presenta come modello (Lc 9,48; 18,15-17).
La vita di Gesù è una esemplare imitazione del Padre: non frequenta i salotti buoni della società del suo tempo, anche se accetta gli inviti dei ricchi, non per assecondarli nella loro ingiusta ricchezza (Lc 16,9-11), ma per proporre loro il cambiamento della vita (19,2-9: Zaccheo, il capo dei pubblicani; 7, 36-50: Simone il fariseo). Lui che non esita a svuotarsi di sé (Fil 2,7), dedica la sua vita e insegnamento a tutti coloro che la società del tempo giudica insalvabili, perduti, scomunicati, impuri.
Al tempo di Gesù, gli stessi farisei, che pure gli erano vicini, ritenevano che il popolo non potesse salvarsi perché la maggior parte della gente semplice era incapace di osservare tutti i 613 precetti prescritti dalla tradizione scritta e orale. In questo ambiente di disperazione diffusa e collettiva, Gesù si butta nella mischia della vita e si sporca non solo le mani e i piedi con le malattie e l’impurità rituale, ma si tuffa nell’orrido della vita, percorre i bassi della morale, penetra nei tuguri dell’indegnità, mangia con i contaminati, diventa impuro egli stesso, si lascia ungere dalle prostitute, si scontra con l’ipocrisia di una religione di facciata, fino a diventare «maledizione», per riscattare i maledetti dalla toràh e dalle convenienze sociali e religiose degli uomini (cf Gal 3,13).

Lc 15 UN «MIDRASH»?

Per trasmettere questo messaggio, Lc struttura il cap. 15 del vangelo come un commento al capitolo 31 del profeta Geremia, vissuto nel sec. vii a.C. e noto per la sua delicatezza d’animo e per essere stato la figura che ha ispirato in parte la vicenda del Servo di Yhwh descritta da Isaia (42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Gesù non rompe con la tradizione biblica, ma la riporta alla sua genuina interpretazione.
Lc 15 ha solo un parziale parallelo in Mt, che riporta solo la parabola del pastore che va in cerca della pecora smarrita (18,12-24). La parabola della donna con la dramma e quella del padre con i due figli sono esclusivi di Lc, ma non sono «invenzione» lucana, perché l’evangelista s’inserisce nella più ampia strategia della alleanza nuova, preannunciata da Geremia 31, a cui Gesù ha dato un disegno e una prospettiva definitivi: la «misericordia» come cifra del regno di Dio che Cristo inaugura, rivelando il volto del Padre (Gv 1,18).
Leggendo l’AT i primi cristiani annotavano in margine riferimenti alla vita di Gesù e al suo insegnamento e applicavano le conoscenze e i metodi usati dall’esegesi giudaica. Uno di questi metodi è il «midrash», che in parole semplici si può definire: il metodo che spiega la scrittura con la scrittura.
In ebraico midrash (plurale midrashim) deriva dal verbo daràsh, che nell’AT e a Qumrân significa ricercare, scrutare, esaminare, studiare. La tradizione rabbinica poi l’ha utilizzato come metodo d’interpretazione della scrittura: si parte dal senso letterale per giungere a quello profondo e nascosto per attualizzarlo, adattandolo ai bisogni nuovi e trae applicazioni pratiche per la vita.
In altre parole, si legge la sacra scrittura alla luce della situazione nuova che si viene a creare attraverso il richiamo di una parola, di un detto.
Lc 15 è dunque un midrash di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che commenta il testo profetico. La comunità cristiana delle origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù, tanto che l’evangelista nel redigere il capitolo, ha mantenuto lo stesso ordine dei personaggi come si trovano nel profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio. Per potersi rendere pienamente conto di quanto profondo e attualizzante sia il rapporto tra Lc 15 e Ger 31, è necessario leggere il testo del profeta Geremia e quello di Lc in sinossi, cioè in modo speculare, come riportato di seguito.

IL PASTORE OVVERO LA GIOIA DEI RADUNATI

Ger 31,10-14 presenta il Signore come un pastore premuroso alla ricerca delle pecore «disperse», per radunarle in un solo ovile con un cambiamento radicale della situazione: il lutto è cambiato in gioia e tutti partecipano al nuovo «Eden» (Ger 31,12).
Ispirandosi a questo testo Lc 15,4-7 parla di un pastore che va alla ricerca di una pecora perduta, per riportarla nel gregge messa al sicuro. Nel profeta e in Lc esplode la gioia dei radunati (Ger 31,12) e del pastore che festeggia la salvezza della pecora ritrovata e l’unità del suo gregge. Ecco i due testi a confronto:

UNA MADRE PIANGE, UNA DONNA GIOISCE

Il profeta parla della matriarca Rachele che piange i suoi figli perduti come esuli in terra d’esilio, dove moriranno. Il disegno di Dio, però, non è questo: i figli dispersi ritoeranno e compiranno così la speranza della madre: rivederli di nuovo dentro i confini della casa/Israele. L’immagine di afflizione disperata diventa in Lc la donna che perde un «tesoro», ma non dispera di ritrovarlo fino a quando non lo avrà trovato.

DUE FIGLI PER UN PADRE

Il profeta Geremia parla di Efraim, il figlio minore di Giuseppe e Asenèt, sua sposa egiziana (Gen 41,52; 46,20; Nu 26,28). Efraim riceve la primogenitura al posto del fratello maggiore Manasse (Gen 48,1-22, specialmente vv. 14.17-19). Questo procedimento secondo cui il figlio minore subentra al fratello maggiore, ribaltando i diritti naturali della primogenitura, è una costante nella bibbia, da formae una ossatura (esamineremo questo aspetto più avanti, nel commento della parabola del padre e dei due figli). Inoltre Efraim dichiara il suo smarrimento e il desiderio di ritornare, pieno di vergogna e confusione. A tutto ciò Dio-Padre risponde con accenti di tenerezza, dichiarandolo non solo «figlio prediletto» (v. 20), ma evidenziando la commozione delle sue viscere.
Allo stesso modo il figlio minore della parabola lucana si pente, si vergogna e ritorna alla casa patea, mentre il padre, alla vista del figlio ancora lontano, sente dentro di sé lo scuotimento delle viscere che quel figlio hanno generato (v. 20b).

In Geremia la conclusione di questo nuovo modo di agire di Dio porta a una alleanza nuova (Ger 31,31), perché non più scritta sulla freddezza della pietra, ma dentro il calore del cuore, l’unico che sappia cogliere la novità della vita e l’aspetto sponsale dell’amore: «Io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo» (Ger 31,33); un amore generante e liberante che non solo dà la vita, ma la ridona anche a coloro che l’hanno perduta, perché l’amore è generativo o è solo una mano di vernice buonista che oggi c’è e domani scompare:
«Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31,31-34).
Lc per spiegarci l’agire di Dio come è descritto in Ger 31 e per prospettarci che anche noi siamo parte della predilezione di Dio, qualunque sia lo stato della nostra condizione, ci ha regalato il capitolo 15 del suo vangelo, la perla del NT, il monumento al Dio giusto perché ama.

Ger 31,10-14

10bChi ha disperso Israele lo raduna e lo custodisce come un pastore il suo gregge, 11perché il Signore ha redento Giacobbe, lo ha riscattato dalle mani del più forte di lui.

12Verranno e canteranno inni sull’altura di Sion… Essi saranno come un giardino irrigato, non languiranno più. 13Allora si allieterà la vergine della danza; i giovani e i vecchi giorniranno.

Io cambierò il loro lutto in gioia, li consolerò e li renderò felici, senza afflizioni.
14Sazierò di delizie l’anima dei sacerdoti e il mio popolo abbonderà dei miei beni.

Lc 15,4-7

4Quale uomo di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?

5Ritrovatala, se la carica sulle sue spalle tutto contento, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora perduta».

7Io vi dico che così vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.

Ger 31,15-17

15Una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più.

16Dice il Signore: «Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene;

essi toeranno dal paese nemico.

17C’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritoeranno entro i loro confini».

Lc 15 8-10

8 Oppure quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine dicendo:

«Rallegratevi con me,

perché ho ritrovato la dramma perduta».

10 Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

Ger 31,15-17

18Ho udito Efraim rammaricarsi: Tu mi hai castigato e io ho subito il castigo come un giovenco non domato. Fammi ritornare e io ritoerò, perché tu sei il Signore mio Dio.

19Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; dopo essermi ravveduto, mi sono battuto l’anca. Mi sono vergognato e ne provo confusione, perché porto l’infamia della mia giovinezza.

20«Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre più vivamente.

Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza». Oracolo del Signore.

Lc 15 8-10

12Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.

17Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.

22Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. 23Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.

20b Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.

Di Paolo Farinella
(3 – continua)

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo»

Nessuno è escluso dalla tenerezza di Dio (2)

Il capitolo 15 del vangelo di Luca riporta (si dice comunemente) le «tre parabole della misericordia»: il pastore che ritrova la pecora perduta (vv. 4-7), la donna che ritrova la moneta smarrita (vv. 8-10) e infine il padre che ritrova i due figli perduti (vv. 11-32). Vedremo che le parabole non sono «tre», ma «due», ciascuna delle quali si prolunga in un doppione con un significato particolare. Ma procediamo però per gradi.
Il capitolo si apre con una introduzione ambientale: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» (v. 1). Luca sembra che voglia esagerare, parlando di «tutti» i pubblicani e peccatori. Questa forma sintetica esagerata è costante nei vangeli, quasi a sottolineare che Gesù aveva in sé una forza attrattiva che non lasciava indifferenti, ma al contrario attirava con forza a sé quanti erano esclusi ed emarginati dal perbenismo religioso e sociale del suo tempo. Gesù attira i pubblicani e i peccatori come in Mc «accorreva (a Giovanni) tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme per farsi battezzare» (Mc 1,5), o come agli inizi della sua attività missionaria gli apostoli gli dicono entusiasti: «Tutti ti cercano» (Mc 1,37; cf Mt 12,23, ecc.).
Nessuno può esimersi dal fascino e «singolarità» di Gesù, che porta una parola tanto «nuova» e tanto attesa, che «tutti» la percepiscono come personale. Potremmo dire che con tale espressione gli evangelisti ci offrono un criterio di pastorale missionaria, che può codificarsi così: l’annuncio del vangelo non può mai essere «generalizzato» e «generalizzante» da divenire anonimo e amorfo; al contrario, esso deve essere sempre talmente «unico» che ciascuno deve sentirlo come rivolto soltanto a sé.
Lc ci vuol dire che i pubblicani e peccatori davanti a Gesù si sentivano «unici» e importanti: sapevano che Gesù parlava a ciascuno di loro con la libertà di chi non giudica e non condanna, ma si avvicina per chiamare e convincere. L’evangelista, infatti, sottolinea che pubblicani e peccatori si avvicinavano con lo scopo «di ascoltarlo» (v. 1), cioè, entrare in relazione vitale con lui, per lasciarsi coinvolgere dalla sua proposta rivoluzionaria e sconvolgente. L’espressione pubblicani e peccatori nei vangeli è quasi un modo di dire tecnico, per presentare due categorie di persone, considerate come la feccia della società dell’epoca, la cui sola vicinanza rendeva impuri: le persone religiose e pie si tenevano pertanto a debita distanza (Mt 9,9-13; 11,19; 21,31-32; Mc 2,13-17; Lc 5,27-32; 7,34; 15,1).
Di fronte a Gesù però, come è abituale nei vangeli, questi schemi sociali saltano. Pubblicani e peccatori, infatti, all’apparire di Gesù compiono due azioni: si avvicinano e ascoltano. I poveri e gli esclusi hanno le antenne pronte per captare il segnale della misericordia e dell’accoglienza, perché intuiscono che l’uomo Gesù non è un uomo qualsiasi, ma qualcuno che porta loro un annuncio folle: Dio è venuto per loro. Chi può venire apposta per un pubblicano? Chi può dire all’emarginato dal perbenismo religioso e sociale che egli è un «valore» fino al punto che Dio ha perso la testa per lui, peccatore o pubblicano?
Lo stesso Lc nel racconto della chiamata/conversione di Levi (5,32) fa dire a Gesù: «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi»; e in quello di Zaccheo (19,10) dichiara espressamente che «il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto». In Lc 15 tale concetto centrale si trova 4 volte, come un ritornello che ritma le due doppie parabole:
– v 6: «perché ho ritrovato la mia pecora perduta»;
– v 9: «perché ho ritrovato la mia moneta perduta»;
– v 24: «questo mio figlio era perduto ed è stato ritrovato»
– v 32: «questo tuo fratello era perduto ed è stato ritrovato».

A l comportamento, abituale per Gesù, di stare con gente poco raccomandabile del v. 1, corrisponde un clima di opposizione da parte dell’autorità ufficiale del tempio: «I farisei e gli scribi mormoravano: costui riceve i peccatori e mangia con loro» (v. 2).
Questo contesto di opposizione è espresso dal «mormorio» di coloro che avrebbero dovuto invece «ascoltare» la novità di Dio perché sono «scribi e farisei», cioè i capi, i responsabili della formazione e crescita del popolo e gli specialisti della parola di Dio: essi infatti sono membri del sinedrio, che sovrintende la vita sociale e religiosa del popolo d’Israele. Solo le guide e maestri d’Israele, eppure non sanno riconoscere la novità di Dio (Gv 3,10) e mormorano. È il mistero della salvezza che si fa storia: coloro che dovrebbero «vedere» diventano ciechi e coloro che sono ciechi invece vedono/ascoltano (cf Lc 8,10). Ci troviamo di fronte al capovolgimento delle situazioni già descritto nel «Magnificat» di Maria (Lc 1,51-53) o nelle beatitudini (Lc 6, 20-26).
Per descrivere l’atteggiamento interiore degli scribi e farisei, Lc usa il verbo onomatopeico diegòngyzon che alla lettera significa borbottare/mormorare: si riferisce a colui che brontola sottovoce in malafede contro qualcuno per non farsi sentire, ma in modo che l’altro possa percepire il borbottio. Borbotta chi trama nell’oscurità. Lo stesso verbo e la stessa espressione si trovano in Lc 5,30: «I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?». In Lc 7,34 Gesù è accusato da farisei e dottori di essere «un mangione e beone, amico dei pubblicani e peccatori».
A gli occhi dei benpensanti del tempo (e di ogni epoca), Gesù appariva scandaloso, irritante, pericoloso: il suo atteggiamento di accoglienza verso i «delinquenti», immorali e deviati lo rivelava come un sovversivo dell’ordine costituito o, si direbbe oggi, del sistema.
Nell’Italia di oggi qualcuno lo avrebbe accusato di essere un pericoloso «comunista» e come tale bandito e crocifisso. Se vivesse fisicamente oggi, Gesù non starebbe certamente nei salotti buoni della borghesia, ma andrebbe per tutte le suburre della sua città, nei tuguri degli immigrati senza permesso di soggiorno, dormirebbe dietro i cancelli dei Cpt (Centri di prima accoglienza), radunerebbe tutte le vittime di qualsiasi ingiustizia e, senza cambiare una virgola, rifarebbe lo stesso discorso che fece trasalire i suoi compaesani nella sinagoga di Cafaao, tanto che lo costrinsero ad andarsene dal suo paese: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore… Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4,18-20).
Poveri, prigionieri, ciechi, oppressi e ora pubblicani e peccatori. In Mt 21,31-32 addirittura pubblicani e prostitute sono portati a modello di fede e hanno la precedenza nel regno di Dio; in Mc 2,15 pubblicani e peccatori mangiano seduti a mensa con lui e, come al solito, le persone perbene e di buona educazione s’indignano per tale comportamento sconveniente.
«È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli» (Lc 7,34-35). Il vangelo della misericordia che Lc annuncia nel capitolo 15 è tutto qui: nessuno può dire di essere escluso dalla tenerezza di Dio. Nessun peccato è più grande di Dio (1Gv 3,20), nessun peccatore può giudicare se stesso più severamente di quanto non faccia Dio, che viene apposta per cercare la pecorella, per trovare la dramma, per salvare i figli perduti. Nessuno. Se qualcuno pensasse ciò, commetterebbe sì l’unico peccato imperdonabile in cielo e in terra: contro lo Spirito Santo (Lc 12,10).
Il tempo della chiesa, dice Lc, è il tempo «dell’anno di grazia del Signore», un prolungamento di tempo per dare a tutti e a ciascuno la possibilità di ritornare, l’occasione di farsi trovare. Allora e solo allora ci ritroveremo figli della sapienza (Pr 8,22), che sanno riconoscere la fonte della giustizia che in Dio si chiama misericordia.
Dai primi due versetti di Lc 15 dovremmo già sapere che l’evangelista ci vuole portare a scoprire la follia di Dio: abbandona, infatti, 99 pecore per andare a cercarne una sola perduta, così come mette sottosopra la casa per trovare una moneta smarrita. Nella seconda parabola abbiamo un padre che si lascia squartare da due figli pur di farli vivere attraverso la sua stessa vita e recuperarli a sé stesso e tra di loro.

A bbiamo detto che le parabole non sono «tre», ma «due». La narrazione vera e propria, infatti, inizia con il v. 3: «Ed egli disse loro questa parabola». Si usa il verbo narrativo per eccellenza (il passato remoto «disse») e subito dopo si usa il singolare «questa parabola», a cui seguono di fatto due racconti: il pastore e la pecora (15,4-7), la donna casalinga e la moneta (15,8-10).
La parabola è unica, ma è illustrata da due esempi. Dopo avere introdotto, infatti, al v. 4 il primo esempio del pastore che perde e trova la pecora con una domanda interrogativa: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia…», l’autore prosegue lo stesso ragionamento al v. 8 con un’alternativa: «Oppure quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende…». Letterariamente vi è una precisa corrispondenza tra i due esempi: chi di voi… oppure quale donna? L’evangelista descrive una sola parabola a due membri o un doppio esempio, uno maschile e uno femminile, dello stesso insegnamento. Un uomo e una donna, cioè la totalità del genere umano, perché nessuno può essere escluso o può escludersi dalla salvezza che Gesù porta in dono a nome del Padre.
Al v. 11 ritroviamo di nuovo per la seconda e ultima volta il verbo narrativo (sempre al passato remoto) «e disse», che introduce la seconda parte del capitolo. Questo duplice uso dello stesso verbo narrativo «disse» è un indizio notevole che per Lc le parabole sono due e non tre.

I l verbo introduce la seconda parabola: del padre e figlio minore (15,11-24), prolungata nella relazione dello stesso padre con il figlio maggiore (15,25-32).
Anche qui abbiamo una parabola a due membri, in cui i protagonisti sono tre uomini: un uomo anonimo e due figli. L’insegnamento è lo stesso della prima parabola, ma prospettato da due angolature diverse: la prospettiva del figlio minore e quella del figlio maggiore, ambedue collegati dalla figura del padre. I due figli nella parabola non s’incontrano mai, non si parlano, sono estranei: l’unico collegamento tra loro è il padre: anche quando i fratelli sono distanti tra loro o addirittura nemici e nessun dialogo intercorre tra loro, essi continuano a comunicare attraverso la vita del padre, attraverso cioè un canale che li supera e li contiene.
Questo vale in ogni circostanza per ciascuno di noi, nella propria esperienza di vita. Ma vale anche a livello geopolitico, riguardo ai tre popoli che si richiamano idealmente al comune padre Abramo: ebrei, musulmani e cristiani. C’è chi vuole la guerra di religione anche attraverso il terrore di uomini-bomba, c’è chi vuole una nuova crociata in difesa di un concetto di civiltà inesistente e c’è chi vuole che il cristianesimo si presti a fare da baluardo contro gli immigrati, specialmente i musulmani, brandendo il crocifisso come simbolo di una identità nazionale che è la negazione dell’universalità di quel simbolo.
In questo contesto, poiché tutti e tre i popoli fanno riferimento ad Abramo e al suo Dio, anche senza saperlo e senza volerlo, essi sono in comunione tra loro perché ogni volta che attaccano gli altri, anche uccidendo, essi ne diventano sempre più parte, sempre più intimi. Essi non sanno che possono agitarsi, possono armarsi, possono uccidersi, ma il loro destino è già segnato: sono condannati a ritrovarsi figli dello stesso Padre, il quale nonostante le apparenze li sta guidando verso un percorso che si concluderà con il riconoscimento reciproco della propria figliolanza e della propria frateità.
Non si può credere in Dio ed essere estranei agli altri. Non si può essere figli di Dio e non riconoscere negli altri i propri fratelli, cioè la carne della propria carne e il sangue del proprio sangue. La pateità è la roccia su cui poggia la frateità e la frateità non può escludere del tutto la pateità, perché il figlio è figlio solo perché c’è un padre e un fratello può anche rinnegare il fratello, ma non del tutto, perché verrà un giorno in cui la pateità avrà il sopravvento e rigenererà i fratelli riportandoli alla stessa mensa della vita.
La parabola del padre e i due figli è la parabola dell’umanità intera di ieri e di oggi; se oggi Lc fosse tra noi scriverebbe la stessa parabola per dare una risposta agli immani problemi che assillano l’umanità a causa della stupidità dei fratelli che perdono tempo a uccidersi, sapendo che prima o poi dovranno ritrovarsi, convivere e aiutarsi.
Il capitolo 15 ha un orizzonte grande, ampio, universale; l’applicazione della sua catechesi non ha confini. Essa si rivolge a uomini e donne in qualsiasi situazione si trovino, in qualsiasi ambiente tentino di realizzare la propria vita:
– c’è un uomo, il pastore, e c’è una donna, la casalinga;
– c’è un animale, la pecora, e c’è una cosa, la moneta;
– c’è il fuori del deserto e c’è il dentro della casa;
– c’è un uomo che è padre anonimo e ci sono due figli anonimi;
– c’è il figlio minore che uccide il padre e il figlio maggiore che odia il padre e il fratello;
– c’è un paese lontano che è l’esilio e c’è la coscienza dell’abiezione che sono i porci;
– c’è il ritorno del figlio minore e l’accoglienza senza misura del padre;
– c’è la gioia e anche la festa in terra insieme all’allegria del cielo.
Le due doppie parabole non sono scritte da Lc per edificarci a buoni sentimenti; al contrario, sono scritte per noi, per chi legge, per l’uomo e la donna di tutti i tempi, di ogni tempo, per me qui e ora, stimolati a essere felici di gioia nell’impegno di una disperata ricerca di cose perdute e trovate. L’uomo-pastore-pecora-deserto fa da parallelo alla donna-moneta-casa, quasi a dire che nessuna situazione della vita può estraniarsi dalla presenza di Dio che viene a fare le cose più impensabili, come rischiare la vita stessa pur di salvare una sola pecora. Il padre non tiene conto del suo patrimonio, perché egli dà la sua stessa vita per i figli, anche se ribelli.
Le due parabole sono anche una esasperazione che contrappongono il comportamento di Dio a quello degli uomini. Questi hanno un concetto di giustizia feroce: non puntano a salvare l’uomo, ma solo a punirlo, secondo il principio apparentemente corretto che chi sbaglia deve pagare. Dio, al contrario, ha un senso di giustizia diverso, opposto a quello dell’uomo: chi sbaglia deve essere salvato, a ogni costo.
Il motivo risiede nella natura stessa di Dio, il quale è Dio non è uomo: «Sono Dio non uomo, sono il Santo in mezzo a te» (Os 11,9). In Dio, infatti la giustizia s’identifica con la misericordia perché il Dio di Gesù Cristo che non ha esitato ad abbandonare il Figlio sulla croce per salvare l’umanità (Mc 15,34) è il Dio giusto perché perdona. [continua-2]

Paolo Farinella

PUBBLICANI

Il termine pubblicano (in greco telônês) è un latinismo che designa il funzionario dell’amministrazione: pubblicanus, cioè agente commerciale privato, che aveva in appalto la riscossione delle tasse per conto del governo romano. Per esercitare il diritto di riscuotere le tasse in una data regione, egli riceveva una somma fissa annua, calcolata sulla previsione delle entrate, valutate al ribasso per dare all’esattore/pubblicano lo stimolo e la convenienza.
Egli aveva tutto l’interesse a riscuotere «ogni» tassa perché, doveva dare allo stato solo quanto aveva pattuito e quindi teneva per sé tutta l’eccedenza dell’incasso. In questo sistema gli abusi erano frequenti.
Accanto ai pubblicani ufficiali, vi erano esattori di grado inferiore, di norma arruolati presso le stesse popolazioni tassate: essi erano dei subaltei in sub-appalto, che avevano interesse a fare pagare quanto più potevano per guadagnare anche loro.
Nel vangelo solo Zaccheo (Lc 19,2) non è un subalterno, ma un capo degli esattori (architelônês). Questi esattori erano odiati dal popolo, sia in quanto esattori e sia in quanto truffatori e ladri, ma specialmente perché erano collaborazionisti del nemico oppressore. Matteo (Mt 9,9) e/o Levi (Mc 2,14; Lc 5,27), uno del gruppo dei dodici era un pubblicano chiamato direttamente mentre raccoglieva le imposte (Mt 10,3).

SCRIBI, FARISEI E SINEDRIO

Gli scribi al tempo di Gesù erano gli studiosi del giudaismo ufficiale tramandato nella Toràh scritta (bibbia) e nella Toràh orale (la tradizione dei saggi, che verrà raccolta per iscritto nella Mishnàh e Talmud solo tra il ii e il iv secolo d.C.). Formavano la categoria degli intellettuali dell’epoca, coloro che sapevano leggere e scrivere e, pur non appartenendo a nessuna setta particolare, erano molto vicini alla corrente dei farisei, gli interpreti rigidi del giudaismo.
Essi avevano il titolo di rabbi-maestro/guida e svolgevano anche la funzione di giureconsulti, giudici e consiglieri: seduti nel porticato del tempio, dirimevano problemi e questioni legali che la gente portava alla loro attenzione.
Mt 7,29 dice che Gesù, anch’egli rabbi, ma itinerante, insegnava con autorità, ma non come gli scribi, per dire che l’insegnamento di Gesù non si fondava su una scuola, anche se antica, ma era personale, nuovo e originale come si può osservare nel discorso della montagna di Mt, dove Gesù stesso per ben sei volte contrappone il suo insegnamento a quello della tradizione: «Vi è stato detto… ma io vi dico» (Mt 5,21-22. 27-28.31-32.33-34.38-39.43-44).

I farisei (ebr. perushìm; aram. perishayyàh = separati). La loro origine risale al sec. i a.C. al tempo dei Maccabei. Sono citati da Giuseppe Flavio come la prima delle tre correnti filosofiche accanto ai sadducei e agli esseni (Guerra Giudaica, ii,8,2,119; Antichità Giudaiche, xiii,v,9,171). Lo stesso Flavio dice che essi insorsero contro il re Giovanni Ircano (135-104 a.C.), che svolgeva anche il ruolo di sommo sacerdote e per questo considerato un usurpatore: «Tanto grande era il loro influsso tra la folla che anche quando parlano contro un re o contro un sommo sacerdote hanno credito immediatamente» (A.G, xiii,x,5,288).
Sono laici e non svolgono funzioni sacerdotali di alcun genere, ma insieme alla casta sacerdotale, i sadducei, fanno parte del sinedrio. Dopo la distruzione del Tempio e l’interdizione agli ebrei di risiedere in Gerusalemme e in Giudea (70 e 135 d.C.), fu l’unica corrente di pensiero sopravvissuta che continua ancora oggi nell’ebraismo moderno.

Il sinedrio (gr. synèdrion) è il supremo consiglio che governa Israele come autorità religiosa e civile, sotto il periodo della dominazione greco-romana. Nell’AT è citato nei libri dei Maccabei che sono databili al sec. i a.C. (1Mcc 11,23; 12,6; 14,28; 2Mcc 1,10; 4,4; 11,27). Al tempo di Gesù era formato da tre classi: gli anziani, ossia i più anziani tra i capi famiglia e tribù; i sadducei che foivano i sommi sacerdoti, gli scribi e farisei; vi appartenevano di diritto gli ex sommi sacerdoti. Era formato da 71 membri, compreso il sommo sacerdote in carica, che durava un anno e svolgeva la funzione di presidente.
Al tempo di Gesù la sua giurisdizione era limitata alla Giudea (sud Palestina), mentre la Galilea (nord Palestina) ne era esclusa. Il sinedrio aveva una certa autorità anche sotto il dominio romano: poteva imporre tasse proprie, emanare leggi e condannare anche a morte, ma non aveva il potere di eseguire la condanna (ius gladii, potere della spada) che era riservata solo ai romani. Il sinedrio vide in Gesù e nella sua predicazione un pericolo per la sopravvivenza stessa del giudaismo.

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo»

La salvezza diventa storia di ciascuno (1)

Un nostro lettore, il dott. Giorgio Lacquaniti di Frosinone, mi scrive ponendo alcune domande sulla parabola del «figliol prodigo» (Luca 15,11-32). All’età di 12 anni egli ha «incocciato» la parabola lucana e non se n’è più liberato; con essa continua a fare i conti anche oggi, sebbene siano trascorsi 65 anni.
Ecco le domande: «Da dove Lc ha attinto questa parabola, non essendo apostolo? Come spunta questa meravigliosa “perla”, visto che è esclusiva di Lc e non compare nei sinottici (Mt e Mc) e in Giovanni? L’ha pronunciata veramente Cristo? Possibile che, oltre Luca, nessuno l’abbia raccolta? Si può dire che sia stata rivelata a Luca dal Maestro per “ispirazione dello Spirito Santo”?». Secondo il sig. Lacquaniti, se esistesse un “Premio Nobel del vangelo”, bisognerebbe darlo senza ombra di dubbio a questa parabola, perché essa «contempla l’unica soluzione apprezzabile e possibile tra il finito e l’infinito e l’unico rapporto autentico e possibile tra Dio (necessario) e la creatura (contingente)».
La rubrica «Così sta scritto» è nata per gettare qualche supplemento di comprensione sulla Parola di Dio per aiutare i lettori che non dispongono di strumenti adeguati ad assaporare i risultati della ricerca biblica. Essi hanno il diritto d’intervenire e suggerire gli argomenti che più possono interessare o che possono apparire più difficili (cf in MC 5, 2005, pp.16-17, l’intervento di una nostra lettrice sul Salmo 137/136). Ho pensato non di dare risposte in pillole al nostro amico Giorgio, ma di fare un discorso organico sull’intero capitolo 15 di Lc, dedicandovi diverse puntate, senza la pretesa di esaurirla. Il metodo che userò parte dal testo così come lo possediamo e avrà un andamento dal generale al particolare, dal grande al piccolo, per cui una visione completa si potrà avere solo alla fine.

Ricerca di un titolo: imbarazzo della scelta

L’espressione «figliol prodigo» è un titolo convenzionale che non appare nel testo. I codici antichi greci erano scritti a mano e con le parole tutte attaccate l’una all’altra senza spazi intermedi, senza titolo e senza divisioni in capitoli e versetti. Non esisteva la carta: papiri e pergamene erano un materiale da scrivere molto costoso.
La divisione in capitoli e versetti inizia con Johann Gänsfleisch detto Gutenberg (1390ca.-1468), quando il 23 febbraio 1455 pubblica la prima Bibbia stampata, detta a «42 linee». Per facilitare la consultazione del testo, egli divise il testo in capitoli (corrispondenti a una pagina di stampa) e versetti (corrispondenti più o meno a una frase compiuta): è la divisione mantenuta ancora oggi, sebbene non corrisponda alla struttura letteraria del testo secondo la modea scienza biblica.
Le edizioni successive per facilitare la lettura cominciarono a introdurre nel testo i titoli-spia alla luce dei contenuti che pertanto non fanno parte della «Parola di Dio» ispirata, ma sono solo aggiunte editoriali. Queste notizie storico-letterarie servono per spiegare la varietà dei titoli dati alla parabola di Lc 15,11-32. Ogni titolo non è «neutro», ma è una sintesi che esprime una valutazione e offre una prospettiva di lettura o di osservazione dell’intero racconto.
La parabola è tradizionalmente conosciuta come la parabola «del figliol prodigo»; la Bibbia della Cei (ed. 1997, ufficiale per la chiesa italiana) titola: «Parabola del padre misericordioso», mentre la Bibbia di Gerusalemme (ed. 1984) offre un titolo diverso: «Il figlio perduto e il figlio fedele: il figlio prodigo», raggruppando in un solo titolo «tradizioni» interpretative diverse.
L’esegeta Roland Meynet nel suo Vangelo secondo Luca. Analisi retorica (Bologna 2003) parla di «Due figli smarriti». Al contrario lo statunitense Luke Timothy Johnson nel suo commento Il Vangelo di Luca titola «Parabola di cose perdute e ritrovate», preferendo una visione d’insieme dell’intero capitolo 15 di Luca. All’elenco possiamo aggiungere il nuovo titolo che anche il nostro lettore suggerisce: «Il figliolo imbelle e ribelle». Tutti questi titoli dicono la difficoltà di sintetizzare una parabola che sfugge a ogni sintesi e la ricchezza incontenibile di un testo che nessun titolo può esaurire: certe profondità abissali si possono solo sperimentare e contemplare, mai scalare e descrivere.

Il pittore esegeta

Nel 1669 Rembrandt dipingendo il suo famoso «Il figliol prodigo», oggi conservato al Museo Hermitage di San Pietroburgo in Russia, ha raffigurato in modo magistrale «l’anima recondita» del racconto. Si vede il padre di faccia nell’atto di chinarsi ad abbracciare il figlio minore in ginocchio davanti a lui, a capo scoperto e scalzo, ma con le scarpe rotte; le mani del padre sono sulle spalle del figlio: una mano è maschile (la sinistra) e l’altra femminile, sintesi magistrale e irripetibile dell’amore gratuito che accoglie il figlio perduto e ritrovato nell’unica forma possibile che è dato sperimentare sulla terra: l’incastro vitale di padre e di madre. Il figlio è l’amore di madre e di padre fuso e confuso prolungato nel tempo come corpo che vive.
In disparte, sulla destra, seduto dietro il padre, con il capo coperto di un nero berretto, il figlio maggiore osserva, apparentemente partecipe; ma nella mano destra tiene un pugnale, come se stesse studiando il momento opportuno per colpire. Fratelli coltelli, dice il proverbio. Solo il padre (e il maggiordomo) hanno un mantello rosso, mentre i due figli sono avvolti nel grigio della loro tragedia.
Rembrandt è un poeta e attraverso i colori e la disposizione delle figure fa «vedere» plasticamente l’abisso e il vertice della parabola lucana: il padre (con il maggiordomo) spicca nel colore rosso del suo mantello, simbolo del calore della «casa», mentre ambedue i figli sono avvolti nel grigio del loro egoismo ed esilio: uno che ritorna quasi morto e l’altro che nutre pensieri di morte pur stando «in casa».
Non sappiamo se Rembrandt conoscesse l’esegesi giudaica, ma è certo che in quella figura di padre, materno e paterno insieme, egli esprime ciò che la scienza della ghematria, cioè il valore numerico delle lettere alfabetiche, dice con il linguaggio dei numeri meglio di qualsiasi altra forma esplicativa. In ebraico, infatti padre si dice ’ab e ha il valore numerico di «2»; madre si dice ’em e ha il valore numerico di «41», mentre figlio si dice yelèd e ha il valore numerico di «43», cioè la somma di 2+41: il figlio è il risultato della sintesi di «padre+madre». Il figlio è la vita visibile del padre e della madre.

In principio fu la predicazione orale

La parabola del «figliol prodigo» si trova solo in Luca, non in Matteo e in Marco e nemmeno in Giovanni. In termini tecnici, con una parola greca, si dice che è un racconto hàpax, cioè una parabola detta «una sola volta».
Per rispondere alle domande del lettore, è necessario fare un po’ di storia sulla formazione dei vangeli, che non sono opere scritte a tavolino, come la biografia di un personaggio. I vangeli nascono come predicazione che si tramanda oralmente. Gli apostoli, dal giorno della pentecoste non si preoccupano di scrivere una «vita di Gesù», ma si buttano nelle piazze e sulle strade a «predicare» agli ebrei loro contemporanei che Gesù, l’uomo di Nazareth crocifisso, è il messia atteso, che Dio ha risuscitato dai morti.
Per farsi un’idea di questa predicazione basta leggere il capitolo 2 del libro degli Atti, che riporta il primo discorso missionario (tecnicamente si dice kèrigma, cioè annuncio) di Pietro il giorno di Pentecoste. I primi cristiani erano ebrei che frequentavano il tempio a Gerusalemme e la sinagoga nelle altre città e villaggi. Qui ascoltavano la Parola di Dio, cioè quello che noi oggi chiamiamo l’Antico Testamento.
Con la conversione di Paolo di Tarso (35/36 d.C.), inizia anche la predicazione alle persone di lingua greca residenti in Gerusalemme con cui inizia la missione verso i pagani o gentili (dal latino gentes che significa le genti/i popoli). I quali gentili non conoscono la tradizione religiosa ebraica, ma hanno una esperienza religiosa politeista e quindi non sanno nulla della storia degli ebrei: patriarchi, esodo, promessa, alleanza, messia. Si hanno così due kèrigma/annunci: uno rivolto agli ebrei, prevalentemente da Pietro, che parla di Cristo come messia d’Israele nel solco delle promesse dell’Antico Testamento, e l’altro rivolto ai pagani, prevalentemente da Paolo, che svela il piano di salvezza del Dio della creazione realizzato in Gesù Cristo, figlio di Dio e salvatore del mondo. Questi due annunci sono orali.

Le prime raccolte scritte

I primi scritti del NT sono le lettere che Paolo scrive alle comunità da lui fondate e dalle quali si trova lontano (anni 50-67 d.C.). Queste lettere passano di comunità in comunità e vengono lette durante le riunioni eucaristiche (cf 1Ts 5,27; Col 4,16).
Più ci si allontana dalla pasqua di Gesù e più la chiesa primitiva si allarga e si organizza. C’è bisogno di avere strumenti adeguati sia per integrare la liturgia leggendo «fatti e parole» di Gesù accanto all’AT, che ora viene letto e interpretato alla luce della sua morte e risurrezione. Accanto alle lettere paoline, nascono le prime raccolte scritte su ciò che Gesù ha detto e ha fatto.
Nascono così liste di miracoli, raccolte di parabole, insegnamenti di Gesù in diverse occasioni; coloro che avevano conosciuto Gesù fanno a gara a ricordare questa o quella parola o una frase o miracolo che Gesù ha fatto o detto nelle più diverse situazioni. È un cammino lento, che alimenta un materiale sempre più corposo, ma anche sempre più lontano dal suo contesto storico. Quello che Gesù ha detto o fatto non viene ricordato solo per conservae la memoria, ma principalmente per rispondere alle nuove problematiche e situazioni della vita: se i cristiani sono perseguitati, si do-mandano come Gesù si sarebbe comportato e quindi si va alla ricerca di parole e fatti che possono essere di aiuto in questa circostanza; di fronte agli ebrei che negano la messianicità di Gesù, si cercano quelle parole e fatti che invece l’appoggiano; davanti a una religione ufficiale troppo esteriore, si ricordano parole e fatti che esprimono una purificazione della religione e di Dio. Tutti questi scritti in origine sono autonomi e indipendenti gli uni dagli altri.

I primi tre vangeli prima dei sinottici

L’ipotesi più accreditata considera che la predicazione degli apostoli fu messa per iscritto dando vita a un probabile Vangelo dei dodici, forse scritto in ebraico o aramaico a Gerusalemme prima dell’anno 36, anno in cui gli ebrei di lingua greca, chiamati «ellenisti» nel NT, furono cacciati dalla città santa, spostandosi ad Antiochia in Siria, a nord della Palestina. Qui nasce e si sviluppa una fiorente comunità dove per la prima volta i discepoli di Gesù sono chiamati «cristiani». Anche qui si sentì la necessità di avere «scritture» di Gesù sia per la liturgia che per la catechesi.
Si suppone che il Vangelo dei dodici sia stato tradotto in greco, ma aumentato di altro materiale che raccoglieva i gesti e insegnamenti di Gesù sull’universalità del suo messaggio rivolto non solo agli ebrei, ma a tutti gli uomini. Si arriva così alla seconda tappa del vangelo scritto, cioè a quello che possiamo chiamare il Vangelo degli ellenisti.
Vi sono così due «scritture» contemporanee: una a Gerusalemme per i cristiani di origine ebraica (Vangelo dei dodici) e una ad Antiochia per i cristiani di origine greca (Vangelo degli ellenisti).
La chiesa intanto si espande in Grecia attraverso i viaggi apostolici di Paolo. Nelle comunità fondate da Paolo come Filippi, Efeso, Corinto, Tessalonica, avviene lo stesso fenomeno di Antiochia: il Vangelo dei dodici è utilizzato come fonte base, ma integrato da altre fonti vicine a Paolo, che sottolineano l’universalità della salvezza e il culto spirituale. Anche qui, forse a Efeso intorno agli anni 55/56, nasce un altro vangelo: il Vangelo di Paolo.

I vangeli sinottici dopo i primi tre vangeli
Intoo agli anni 30/40 a Cesarea sul Mediterraneo nasce una comunità particolare, formata da cristiani provenienti dal paganesimo (quindi dal mondo greco), ma sono al tempo stesso simpatizzanti del giudaismo, stanno a mezza strada: non sono del tutto greci come non sono del tutto giudei. Questo gruppo, forse presieduto dal diacono greco Filippo, che gli Atti chiamano spesso «evangelizzante» (cf At 8,12.35), genera un quarto vangelo, comunemente censito come Vangelo dei timorati di Dio, che raccoglie materiale sparso fuori di ogni contesto storico o narrativo.
Gli studiosi sono soliti chiamare questa ipotesi come «fonte Q» (prima lettera del termine tedesco quelle, pronuncia kèlle, che significa fonte). I vangeli sono, dunque, tutti scritti occasionali, nati ed elaborati per illuminare con l’insegnamento del Signore la vita vissuta e le nuove situazioni che le comunità cristiane delle origini incontravano.
Intoo all’anno 50 d.C., dunque, nelle comunità cristiane, sparse in Palestina, in Siria, in Grecia e in Anatolia (attuale Turchia) circolano almeno quattro vangeli (dei dodici, degli ellenisti, di Paolo e dei timorati di Dio) e liste autonome di «detti» del Signore (es.: parabole) e racconti di miracoli. È un immenso materiale sparso, ma ancora fluttuante. A questo punto avviene il passaggio determinante, che corrisponde alla «redazione finale», che la tradizione attribuisce agli evangelisti sinottici: Marco, Matteo e Luca. Essi non sono solo collettori di tradizioni che assemblano insieme materiale raccolto, ma al contrario, raccolgono il materiale esistente e lo dispongono secondo un piano personale che persegue un fine specifico. Essi sono autori a tutti gli effetti.

I vangeli definitivi
L’evangelista Marco che non è discepolo di Gesù, ma lo ha conosciuto, è l’inventore dello schema del vangelo come lo possediamo (si dice genere letterario del vangelo). Egli fonde il Vangelo degli ellenisti e quello di Paolo, rielaborandoli di sana pianta e facendone un nuovo vangelo come strumento di una catechesi catecumenale: un aiuto a chi non conosce nulla di Gesù e si accosta a lui per la prima volta.
Matteo scrive un vangelo per i catechisti/maestri, quindi per coloro che già seguono Gesù, provenienti dal mondo giudaico. Nella redazione del suo vangelo si basa su Marco, che integra con materiale della «fonte Q» e con altro materiale a lui proprio, che gli arriva da fonti sconosciute agli altri.
Anche Luca, come Marco, non è discepolo di Gesù e, a differenza di Marco, non l’ha nemmeno conosciuto. Per redigere il suo vangelo, da studioso fa ricerche appropriate. Partendo da Marco, dal materiale comune con Matteo e dalla «fonte Q», egli aggiunge fonti proprie che gli derivano dalle tradizioni tramandate nella famiglia/parentela di Gesù o da fonti a noi sconosciute. Al terzo vangelo, Lc fa seguire il libro degli Atti degli Apostoli, che potremmo chiamare il «Vangelo dello Spirito Santo e/o della chiesa», perché racconta lo sviluppo e il diffondersi della chiesa del primo secolo fino alla prigionia di Paolo a Roma (a. 67).
I vangeli di Marco, Matteo e Luca sono redatti tra gli anni 60 e 80 d.C. Qualche decennio più tardi Gv, un autore dell’ambiente dell’apostolo Giovanni, tenendo presente questi vangeli «sinottici» scrive il iv vangelo, detto il vangelo del presbitero o spirituale, perché accompagna alla contemplazione di Cristo nella sua «Gloria» di Figlio di Dio e di Lògos incarnato.
In conclusione, alla domanda da dove arriva la parabola del «figliol prodigo» a Luca, possiamo rispondere: poiché non si trova nel materiale comune, Lc non l’ha ricevuta dalla tradizione sinottica perché Mc e Mt la conoscerebbero. Lc con ogni probabilità la riceve da una fonte particolare (famiglia?) non conosciuta dagli altri e nemmeno da noi. D’altra parte nel prologo (1,1-5) egli ci dice che fece ricerche accurate e sicuramente è venuto a contatto con materiale che solo lui poté avere a disposizione.
Dal prossimo numero cominceremo a presentare la parabola e a commentarla.

Paolo Farinella
(continua-1)

Paolo Farinella




011-Cos’ sta scritto – «A immagine di Dio lo creò»

«Egli è l’immagine del Dio invisibile»

Il mese scorso abbiamo stabilito i termini e il loro significato di base. Ora diventa più agevole approfondie il senso nascosto, oltre il testo, per addentrarci nel mistero della coppia. In questa esplorazione applichiamo la ghematrìa o scienza che esplora il significato dei numeri corrispondenti alle lettere dell’alfabeto ebraico, secondo l’uso comune alla tradizione giudaica e ai padri della chiesa dei primi secoli.
Intoo al xii sec. d.C., chiusa da secoli la fase di raccolta della tradizione orale (Mishnàh e Talmud), nell’ebraismo si sviluppa un genere letterario detto Qabalàh o Càbala (in ebraico significa tradizione/ricezione/accoglienza), che rappresenta il vertice della conoscenza: è la mistica, la sintesi della Mishnàh e del Talmud; l’ultimo gradino della perfezione, riservato agli iniziati introdotti al segreto (sod) della conoscenza per acquistare il dono/ricezione della luce.
L’opera letteraria, il codice della Qabalàh è il Sefer ha-zohar o solo Zohar (Libro dello splendore), a cui si rifanno i successivi movimenti mistici ebraici fino a oggi. La Qabalàh può riportare tradizioni antiche, che bisogna individuare di volta in volta sui singoli testi.
Il criterio esegetico prediletto dalla Qabalàh è la ghematrìa o scienza dei numeri: a ogni consonante (l’ebraico ha solo consonanti, le vocali sono secondarie) corrisponde un numero, per cui le composizioni che si possono ricavare con i relativi significati sono infiniti. Il processo è complesso e noi ci limitiamo ad alcune applicazioni.
Zakàr/pungente/maschio in ebraico si scrive zkr e ha un valore numerico di 22; neqebàh/perforata/femmina si scrive nqbh e ha un valore di 157.

La differenza tra maschio e femmina è 70 (227-157=70): è lo stesso numero che si ottiene sommando le consonanti dell’espressione ebraica Adam weChavàh/Adam ed Eva.

All’epoca della bibbia, intorno al sec. x a.C., si calcolava che la terra fosse abitata da 70 popoli, per cui l’espressione Adam weChavàh/Adam ed Eva comprende la totalità del genere umano, un modo per dire che tutti i popoli hanno una sola origine: nella prima coppia creata da Dio.
Anche la qabalàh si basa sul n. 70, perché corrisponde alla parola ebraica sod (60+6+4 = 70), che significa «segreto» della conoscenza e della mistica. Il «segreto» della coppia umana è nella loro differenza; dall’altra parte il suo mistero è nella totalità della sua umanità: l’unione tra maschio e femmina è il segno dell’unità del genere umano (70 = tutti i popoli della terra).

Prima di creare la coppia umana, Dio crea l’ambiente, il cielo e la terra; e prima ancora crea la luce, come orizzonte del creato e dimensione della coppia: in ebraico luce si dice «’or» e ha un valore numerico pari a 207.

L’espressione come la luce si dice ke-’or e il suo valore è la somma della luce (=207) e della lettera k/come (=20) 227, cioè lo stesso numero di zakàr/maschio.
L’ultima espressione come la ricezione della luce in ebraico si dice ke-qabalàh e corrisponde al numero 157 cioè lo stesso numero della neqebàh/femmina.

Il valore della lettera ebraica K (kaf=20) si ritrova sia nel maschio, perché lo paragona alla luce che viene offerta (207 [luce] + 20=227 [maschio]), sia nella femmina, perché la paragona alla luce che viene ricevuta e accolta (157 [femmina] – 20=137). Il n. 137 è il valore di qabalàh/ricezione/ accoglienza: la femmina in quanto luce ricevuta e accolta è simbolo del mistero e della mistica, il vertice e la sintesi di tutta la tradizione scritta e orale, ovvero della qabalàh [=137].
All’alba della vita, Dio crea la luce prima del maschio e della femmina, per fare della loro unione il segreto della conoscenza. «Conoscere/yadà’» nella bibbia è sinonimo di rapporto sessuale.
Adam ed Eva nel giardino di Eden erano senza vestiti, perché il loro vestito era la luce di Dio che risplendeva sulla loro pelle. In ebraico pelle si dice ‘or, parola simile a luce che si dice ’or (tra le due parole cambia solo la 1a consonante, che corrisponde al piccolo segno che sembra una virgoletta): ’or/luce e ‘or/pelle. Nel parlare si sente l’assonanza.

Dice una tradizione che la pelle dei corpi di Adam ed Eva era luminosa: come la luce/ke-’or. La pelle divenne opaca dopo il peccato e per questo si accorsero di essere nudi: si era spenta la «luce» della grazia che li rivestiva.
Dio procura alla coppia nuda (Gen 3,21) un vestito di tuniche di pelli ricavate dagli animali morti e scuoiati: Adam ed Eva hanno il sigillo della loro mortalità nel vestito della loro opacità. La coppia, perduto il vestito della pelle luminosa, deve coprire la propria opacità con pelle di animali morti, impegnando la propria esistenza nel tentativo di recuperare la somiglianza perduta. La morte entra a fare parte della natura umana e ne diventa il vestito, il contenitore e la morsa.
La vita della coppia diventa così un costante impegno a ricostruire ciò che era al «principio», cioè l’espressione visibile di una luce misteriosa che emana il senso di Dio/Amore. Prima del peccato originale, l’amore era la stessa natura del maschio/femmina, cioè armonia di perfezione; dopo il peccato l’amore diventa un impegno, una conquista, ma anche una sofferenza.
Gesù viene a portare solo questa rivelazione: Dio/Padre è Amore che vuole ricomporre l’armonia iniziale della creazione nella persona del Figlio suo, nella sua morte e risurrezione. Il senso finale della redenzione è la ri-creazione dell’immagine perfetta di Dio (Col 1,15-20).
La parola «Amore» in ebraico è ’ahabah" (valore numerico 13) e il Nome santo di Dio è Yhwh (valore numerico 26).

A nche la parola «esistenza/hawayah» ha il valore numerico di 26. Yhwh (=26) è la vita/esistenza (=26). Creando zakàr/maschio e neqebàh/femmina, ha diviso la vita in due e ne ha dato metà al maschio (13), metà alla femmina (13). Se vogliono ritrovare la loro immagine iniziale e vivere la vita di Dio (=26), essi devono sommare la parte di amore che hanno ricevuto per esprimere la totalità dell’esistenza (13+13=26), che si manifesta nella generatività di padre, di madre e del figlio generato, secondo lo schema seguente.

Maschio e femmina uniti come zakar e neqebàh diventano padre e madre, cioè sorgente della vita: nella ghematrìa la somma numerica di padre (3) e di madre (41) dà il figlio (3+41=44).
Se Dio è l’Amore e questo è l’esistenza partecipata, vivere acquista senso solo in una dimensione di amore che a sua volta trasforma e rigenera il maschio in padre e la femmina in madre, che sommati insieme formano una nuova esistenza, una vita nuova per ricominciare il ciclo luminoso della creazione.
Amare è sempre un ritorno alle origini, al «principio» dell’intimità con Dio (Gen 3,8). Il Talmud babilonese, nel trattato Sotah17a, ce ne dà la conferma: «Quando l’uomo e la donna sono degni (dell’amore), la Shekinàh/Presenza di Dio è con loro; quando invece non ne sono degni il fuoco li consuma». •

Paolo Farinella




010-Così sta scritto – Maschio e femmina li creò

L’ espressione «maschio e femmina» si trova nel secondo racconto della creazione (Gen 1,27), databile sec. v a.C., all’epoca dell’esilio a Babilonia. Ritorna quasi alla lettera in Gen 5,2, nell’elenco dei patriarchi prima del diluvio. Nel NT l’espressione è riportata come citazione indiretta da Mt 19,4 e Mc 10,6, in cui Gesù, nella questione del divorzio, non dà una risposta pronto-uso, ma rimanda al «principio» della creazione, cioè al disegno di Dio e alla sua prospettiva sull’uomo/donna.
Mantenendo in italiano lo stesso ordine delle parole ebraiche, Gen 1,27 ha il seguente schema:

A. Creò Dio l’Adam
B. a sua immagine
B1. a immagine di Dio
A1. creò esso:
B2. maschio e femmina
A2. creò loro
Nel greco della Lxx manca B1. Il testo presenta una costruzione tipica biblica, detta a chiasmo o incrocio, dove la prima parte (A) corrisponde all’ultima (A1), perché vi si trovano le stesse parole: creò l’Adam – creò lui. A1 poi si sviluppa in A2: il singolare «lui» diventa il plurale «loro», per dire che l’umanità (Adam) non è solo maschile, ma anche femminile. Allo stesso modo la seconda espressione (B), che introduce il tema dell’immagine: a sua immagine, anch’essa sviluppata in a immagine di Dio (B1), corrisponde alla penultima (B2), che ne chiarisce la natura: non l’uomo in quanto maschio rappresenta Dio sulla terra, ma Adam, cioè l’umanità nella sua struttura fondamentale, fatta di mascolinità e femminilità. Uomo e donna insieme sono l’immagine completa, la somiglianza adeguata di Dio sulla terra.
Questo modo di procedere per coppie a uncino era un sistema tipico delle lingue antiche per facilitare la memorizzazione e quindi la trasmissione orale, ma anche per esprimere concetti di inaudite profondità che proveremo a intuire.
Era usanza che i confini di un regno fossero segnati con le immagini o statue dei re in carica: chiunque vedeva l’immagine del sovrano ne riconosceva la signoria e ne accettava la supremazia. Creando il mondo, Dio non ha bisogno di segnae i confini, ma pone in esso «la sua immagine» vivente, Adam (maschio e femmina) come segno e garante della sua signoria. Adam non è il padrone del mondo, ma il luogotenente di Dio creatore: chiunque vede il maschio e la femmina insieme, dovrebbe riconoscere immediatamente il volto di Dio creatore.
Nella sezione A del v. 27 sopra riportato (A-A1-A2), la creazione dell’uomo è annunciata con il termine generico Adam (A) al singolare e indica il genere umano indistinto: si potrebbe tradurre con umanità. Il testo prosegue con il singolare generico lo creò (A1), per concludersi con un plurale di distinzione sessuale: creò loro (A2), perché il genere umano è composto di maschi e femmine. Maschile e femminile insieme specificano l’individualità personalizzata del genere umano/umanità. Non il maschio o la femmina separati.
Nella sezione B-B1 l’autore introduce una idea nuova: l’Adam in quanto genere umano è creato a immagine di Dio e questa immagine ha in sé le caratteristiche complementari del maschio e della femmina (B2).

I n ebraico il termine maschio si dice zakàr e letteralmente significa «pungente»; femmina si dice neqebàh significa «perforata». Il riferimento alla funzione degli organi sessuali è evidente. L’ebraico è una lingua descrittiva come tutte le lingue semitiche: racconta la realtà come la vede. In un contesto culturale maschilista, che relega la donna in uno stato di quasi schiavitù, nel sec. v a.C. un autore biblico ci consegna il vangelo della rappresentanza di Dio sulla terra con un’affermazione forte e rivoluzionaria: non è il maschio ad avere la prerogativa di rappresentante di Dio, perché fin dall’in principio solo «maschio e femmina» sono l’adeguata immagine di Dio. Non il maschio senza la femmina, non la femmina senza il maschio possono rivelare l’identità di Dio: il rapporto sessuale in quanto comunione di pungente e perforata dice la vera immagine di Dio creatore che genera alla vita. Realizzandosi sessualmente, la coppia esercita il proprio ruolo sacerdotale e vive la propria immagine nuziale come liturgia eucaristica sacramentale.
In questa prospettiva è la coppia il vero «sacramento» rivelatore di Dio che è Agàpe/Amore (1Gv 4,8). Il passaggio dal singolare al plurale nel v. 27: «creò esso/creò loro» è molto importante. Nella relazione sessuale, l’individuo cessa di essere «singolare», perché consegna la propria individualità a una nuova «personalità plurale», che nasce dalla fusione di pungente e perforata: la personalità della coppia, la personalità del «noi», che è la confluenza di «io» e di «tu».
Per questo, secondo la chiesa cattolica, il matrimonio sacramento celebrato nella chiesa (non solo in chiesa) non è compiuto finché non è consumato nel rapporto sessuale, che diventa così l’azione sacerdotale della coppia. Il maschio e la femmina, in quanto ministri del sacramento, celebrano la liturgia d’amore esprimendo come coppia il volto maschile-femminile di Dio creatore. Maschio e femmina, incastrati insieme, sono una persona nuova: un nuovo unico corpo e una nuova unica anima che danno origine a una nuova identità.
Si capisce perché Lv 20,10 punisce l’adulterio con la pena di morte, equiparandolo all’omicidio. L’adulterio, infatti, uccide la nuova personalità della coppia in quanto immagine sessuata di Dio. L’adultero divide in due (cioè uccide) la nuova persona che è la coppia e ne sostituisce metà con una falsa. Si uccide una persona togliendole la vita; si uccide la persona-coppia, spezzando in due la coppia, che così non può vivere: un corpo spezzato in due è un cadavere smembrato.

S e la coppia è l’immagine più adeguata di Dio, viene logico domandarsi, in rapporto a Dio, quale sia il ruolo del prete che coppia non è. In quanto «singolo», in forza di Gen 1,27 sarebbe incapace di rappresentare Dio, dal momento che egli per legge canonica non può esercitare la sessualità genitale. Lo stesso vale per i monaci, le monache e in generale per i religiosi che fanno un voto di verginità, promettendo a Dio di non essere mai coppia, ma di restare sempre sessualmente incompleti.
Da una parte tutta la creazione è proiettata verso la coppia, perché tutto ciò che è creato nei primi cinque giorni è in funzione del giorno sesto, il giorno in cui Dio crea zakàr/maschio e neqebàh/femmina. È la coppia il vertice del creato e, vivendo una relazione vitale fondante, è rappresentativa di Dio come Agàpe/Amore di cui è l’immagine adeguata. Dall’altra parte il prete (religioso/a, monaco/a) che ha fatto promessa di celibato (o voto di castità) non può rappresentare Dio-Agàpe/Amore perché egli è incompleto, non è coppia. Il Talmud babilonese nel trattato Jebamoth 63a, a questo riguardo è lapidario: «Un uomo che non ha moglie non è un vero uomo, poiché è detto: maschio e femmina li creò… e dette loro nome Adam (Gen 5,2).
La domanda è: se la coppia è immagine di Dio, il prete (il monaco/a) di chi è immagine?
La risposta articolata, a mio parere, potrebbe essere la seguente. Sappiamo per rivelazione che Dio è «unità» e «trinità». Dio è uno solo e non c’è altro Dio al di fuori di lui: «Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno» (Dt 6,4). Questa unicità di Dio si è manifestata a noi storicamente come comunione di Padre, di Figlio e di Spirito Santo. Per questo possiamo dire che «Dio è Amore» (1Gv 4,8). La trinità di Dio altro non è che l’unità divina vissuta come pienezza di comunione senza fine.
La coppia è una pienezza, un incastro d’amore mandato nel mondo a indicare la strada di Dio che è amare, amare sempre, amare comunque. Chiunque vede una coppia amante dovrebbe essere indotto immediatamente a rapportarsi con il suo Creatore di cui la coppia è copia conforme.
Ma la coppia in quanto sacramento visibile di Dio-Agàpe corre il rischio di Adamo ed Eva, cioè, della presunzione superba, che potrebbe indurla a credere di avere raggiunto la perfezione e quindi chiudersi all’interno di se stessa, senza bisogno di altre conversioni per mettere sempre più a fuoco l’immagine di Dio che racchiude. Amarsi anima e corpo potrebbe dare l’ebbrezza dell’autosufficienza ripiegata su se stessa, facendo dimenticare che l’obiettivo finale della coppia è sempre Dio.
Il celibe (il consacrato/a in genere) ha il ruolo pedagogico di ricordare alla coppia che c’è un solo Dio e solo lui è l’Assoluto, il Primo e l’Ultimo (Ap 1,17; 22,13) e che nessuna realizzazione di pienezza d’amore può esaurire il desiderio di amore infinito che c’è in ogni cuore. Il celibe (religioso/a) ha la funzione profetica di ricordare alla coppia che se l’incastro è autentico e se l’amore che sperimenta è vero, inevitabilmente conduce all’Assoluto dell’Amore di Dio, anche oltre la morte.
Chiunque vede il celibe (religioso/a) sente di essere riportato alla radicalità evangelica, che chi ama la moglie o il marito più di Lui non è degno di Lui (cf Mt 10,37): il maschio è la via di Dio che realizza la femmina; la femmina è la via di Dio che realizza il maschio; maschio e femmina dicono insieme al mondo intero e al celibe che «Dio è Amore/Agàpe» (1Gv 4,8).
Il celibe (monaco/a, religioso/a), a sua volta, potrebbe essere preso dal dèmone dell’esclusività, dall’intransigenza della casta e dalla disperazione della solitarietà senza riferimento al di fuori di sé. Il rischio dei celibi è il peccato di grettezza e chiusura narcisistica. Presumendo di essere più vicino a Dio-Uno, il celibe rischia di consumarsi in una vita gretta e senza amore, chiuso in rituali di morte liturgie, schiacciato dalla lettera della legge e ossessionato dal peccato.
La coppia diventa allora profezia vivente per il religioso/a o celibatario a cui ricorda che Dio non è solo Uno, ma è anche Trinità, cioè relazione e condivisione e senza comunione non può esserci vita né fede. Un celibe chiuso in sé, sterile nel ventre e arido nel cuore è inutile a sé, agli altri e anche a Dio. Un simile celibe di norma dedica la sua esistenza alla ricerca ossessiva degli onori della carriera.
Nessuno esiste per se stesso, ma ciascuno di noi è stato pensato e amato per amore e a servizio degli altri. Ecco dunque la reciprocità: la coppia è profezia della Trinità di Dio-Agàpe e il celibe-religioso/a è profezia dell’Unità di Dio e della sua esclusività. Coppia e celibe, procedono insieme protesi verso l’Assoluto, che si manifesta nella gloria della croce, il trono della redenzione che compie definitivamente la creazione in attesa dell’ultima ora, quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28).
Assaporiamo ancora una volta Gen 1,27 nella versione letterale con la trascrizione dell’ebraico:
E creò Dio l’Adam a sua immagine
Wayyibarà ’elohim et-ha’adam bezalmò
a immagine di Dio creò esso
bezelem ’elohim barà’ ’otò
maschio e femmina creò loro
zakàr u-neqebàh barà’ ’otàm

La coppia è immagine e somiglianza di Dio «Amore», che si esprime nella relazione di zakàr/u-neqebàh. Tale relazione costituisce il principio fondamentale non solo della persona umana, ma di tutta la creazione che vibra nella polarità maschile-femminile.
La cultura cinese parla allo stesso modo di yin e yan. Anche l’ebraismo dà vita a una specifica corrente di pensiero che sviluppa il significato nascosto della sapienza della vita per raggiungere il vertice e la sintesi della conoscenza che è la mistica: è la Qabalàh (tradizione/accoglienza/ricezione), che, nella corrispondenza delle parole e lettere con i corrispettivi numeri, applicando la scienza dei numeri o ghematrìa, è in grado di raggiungere significati profondi che ancora oggi riescono ad affascinarci e stupirci. Della Qabalàh e delle sue applicazioni a questo versetto tratteremo nel prossimo numero.

Paolo Farinella