CANA (14) : RILETTURA CRISTIANA DI GENESI

Il racconto delle nozze di Cana (14)

«In principio Dio creò il cielo e la terra … e in principio era il Lògos» (Es 4,20).
Dopo dodici puntate di introduzione, tralasciando tutti gli altri problemi riguardanti la critica testuale, l’analisi letteraria e gli approfondimenti relativi, che ci porterebbero a comporre un trattato solo sul racconto di Cana, crediamo utile passare all’analisi del testo che vorremmo gustare parola per parola. Per il credente, lo studio della Parola è preghiera perché diventa carne e sangue, fondamento e prospettiva di vita.
L’alfabeto della Presenza
La Parola di Dio che attraversa il nostro cuore, purificandolo e convertendolo, ritorna da dove è venuta, come la pioggia che scende dal cielo a bagnare la terra che a sua volta la restituisce al cielo in forma di vapore, di nubi e nuova pioggia. Lo descrive in modo impareggiabile il profeta Isaia:
«10Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, 11così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritoerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).
A) Studiare è sacrificio gradito
La Parola di Dio è l’alfabeto con cui parlare la lingua nuova della Presenza/Shekinàh di Dio e della fede in lui. Per gli Ebrei lo studio della Toràh dispensava sia dal lavoro che dall’osservanza dei precetti perché lo studio della Scrittura era paragonato ad un giogo impegnativo e pesante come insegna Rabbi Ne’hounia ben Hakàna che diceva: «A colui che accetta il giogo della legge, saranno risparmiati  il giogo del Regno ed il giogo delle preoccupazioni del mondo» (Pirqè Avòt/Massime dei Padri III,5). Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo, per scoraggiarlo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh (Talmud Babilonese, Berakòt 30b). Il giogo però indica anche la fatica quotidiana dello studio della Toràh ed equivale all’osservanza di tutti i comandamenti presi nella loro totalità (cf Mishnàh, Pèah/Angolo, 1,1; Talmud Babilonese, Shabàt 127a). Gesù presenta il suo messaggio come «un giogo buono/facile [da portare] e leggero» (Mt 11,30).  Non solo, ma la tradizione giudaica va ancora oltre: lo studio della Toràh ha un valore espiatorio e sacrificale: «Colui che si dedica allo studio della Toràh è come se avesse offerto lui stesso un olocausto, una offerta o un sacrificio per la remissione della colpa» (Talmud Babilonese Menahòt 110a); oppure:  «Studiare la Toràh è più grande che salvare vite umane» (Talmud Babilonese Megillàh 16b).
B) Fare la corte a Dio
Non è sufficiente leggere la Bibbia, bisogna «re-stare» su di essa per cogliere la verità di noi e la verità di Dio: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli» (Gv 8,31) e «re-stare» vuol dire «stare saldamente ancorati» in virtù del rafforzativo «re-». Dalla lunga introduzione, i nostri lettori avranno compreso che leggere, pregare e accogliere la Parola di Dio è cosa seria ed esige tempo, intimità, fatica, pazienza. Accostarsi alla Bibbia non è leggere un racconto edificante per imparare qualcosa, ma educarsi ad un rapporto d’amore, frequentare una conoscenza d’intimità, imparare ad essere innamorati, apprendere a «fare la corte» a Dio, lasciandosi sedurre dalla Parola che è il Lògos, Gesù di Nàzaret, il Figlio del Padre (cf Ger 20,7).
Pregare stanca anche fisicamente perché lo studio impegna energie, volontà, sentimenti, fantasia, emozioni, anima e corpo. Alla Parola bisogna offrire il tempo più bello della giornata, mai gli scarti, perché è un rapporto di conoscenza e di amore che allarga il cuore ad un amore sempre più senza confini. Lo studio e la preghiera, infatti, non sono incontri fugaci di prostituzione, ma profondi aneliti d’amore vissuti in un dinamico e intimo contesto d’amore. Quando releghiamo Dio e la sua Parola ai margini del nostro tempo «per adempiere al nostro dovere», noi annulliamo il patto nuziale di alleanza, diventiamo mercenari interessati e mercanti di religione.
Il testo e la traduzione letterale
Leggiamo il testo del racconto di Cana nella duplice versione: quella della Cei (edizione 2008) e quella letterale che proponiamo noi:
Questo è il testo che, adesso, dopo la lunga e articolata introduzione, ci appare meno semplice e più armonioso di quanto non immaginassimo. A leggerlo lentamente e assaporandolo si ha la sensazione di entrare nel tessuto di una grande storia che non può essere solo un banale sposalizio anonimo: il cuore ci dice che diventiamo protagonisti di eventi cosmici che ci avvolgono nel passato per proiettarci nel futuro di un processo travolgente, dove Dio e noi camminiamo insieme e insieme viviamo una dimensione nuziale che ci apre alla relazione affettiva, fondamento di ogni relazione spirituale. Cana è il luogo del nostro sposalizio, cioè della nostra vita vissuta in chiave nuziale. Entriamo dunque nel villaggio e, seduti, al banchetto delle nozze, assaporiamo le parole del vangelo.
«E nel terzo giorno» (v. 1)
Sul «terzo giorno» abbiamo anticipato molte informazioni nella sesta puntata (luglio/agosto 2009) e nella settima (settembre 2009), in cui abbiamo cercato di collocare questa espressione nel contesto ampio di tutta la Scrittura e offrendo i motivi biblici e culturali che stanno dietro alla mentalità dell’autore. Abbiamo detto che nel «terzo giorno» della creazione vi sono due benedizioni di Dio che descrivono una doppia fecondità e quindi giorno ideale per celebrare le nozze secondo la tradizione giudaica. Le nozze di Dio con Israele avvengono ai piedi del Sinai «nel terzo giorno» che diventa così il giorno della Toràh, la dote che Dio porta alla sposa nel momento in cui «l’acquista» come sua corona e gloria. Al tempo di Gesù nel quarto giorno si riuniva il tribunale a cui si poteva fare immediato ricorso per il ripudio della sposa non trovata vergine e sposata il giorno prima, cioè «il terzo giorno».
A) Una scansione della salvezza
Abbiamo anche sottolineato che il tema del «terzo giorno» attraversa tutta la Scrittura sia del Primo che del Secondo Testamento: Abramo sacrifica Isacco, Giona è salvato dal pesce, Ester salva il suo popolo, Esdra ricostruisce il tempio. Per i profeti è il giorno della risurrezione, ma anche di condanna per gli atei che si fingono religiosi. Nel NT «terzo giorno» è espressione tecnica per indicare la resurrezione di Gesù, per cui possiamo dire che «il terzo giorno» ritma l’eternità di Dio e segna il tempo dell’uomo. Qual è il nostro «terzo giorno»? Un fatto è certo: nella nostra esistenza c’è un «terzo giorno» che segna la nostra identità e l’evento centrale che ha determinato la nostra vita. Se non prendiamo coscienza di esso e se non lo riconosciamo, noi viviamo come ubriachi che camminano a zonzo, senza una direzione e forse scambiamo i lampioni per punti di riferimento: parliamo a vuoto, mentre ci illudiamo di parlare con Dio.
B) Una formula teologica
L’espressione «E nel terzo giorno» è posta all’inizio del racconto e quindi, come si dice tecnicamente, in posizione «enfatica», cioè preminente, come se l’autore volesse che il lettore si rendesse subito conto che non si trova di fronte ad una nota cronologica, ma un evento teologico. Questa posizione di rilievo inoltre è un esplicito richiamo ai giorni precedenti, perché non si dà un «terzo giorno» senza riferirsi ai giorni precedenti che nel capitolo primo cominciano a descrivere una settimana, che è quella iniziale dell’attività di Gesù, presentata dall’evangelista come la settimana corrispondente a quella della Genesi, quando Dio «crea il cielo e la terra». Se mettiamo insieme il ritmo dei giorni descritti dall’autore scopriamo che il «terzo giorno» delle nozze di Cana corrisponde al «sesto giorno» della stessa settimana. Infatti, lo schema che propone il IV vangelo è il seguente:
1.  Gv 1,19-28: «Io non sono il Cristo»:                                 giorno uno della settimana
(Giovanni rende testimonianza e annuncia alla religione ufficiale il nuovo tempo)
2.  Gv 1,29-34: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): secondo giorno della settimana:
(Giovanni annuncia al mondo l’«Agnello di Dio»)
3.  Gv 1,35-42: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): terzo giorno della settimana:
(Un discepolo anonimo, Andrea e suo fratello Pietro sono chiamati da Gesù)
4.  Gv 1,43-51: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): quarto giorno della settimana
(Filippo e Natanaele sono chiamati da Gesù)
5.  Gv 2,1:   «E nel terzo giorno» (gr.: têi hēmèrai têi trìtēi): sesto giorno della settimana:
(Cana: rinnovo dell’alleanza del Sinai in chiave sposale)
6.  Gv 2,12: «Non molti giorni»
(gr.: oú pollàs hēemèras).
(Permanenza di Gesù, sua madre e i discepoli a Cafaao.)
C) Una nuova Genesi?
È evidente che Gv 1 e l’inizio di Gv 2 sono ritmati da questa scansione di giorni che convergono come alla loro foce naturale nel «terzo giorno» di Cana cui fa seguito l’osservazione redazionale che «rimasero non molti giorni» (Gv 2,12), che può essere letto come «un riposo» dopo la settimana impegnativa e di cui parleremo dopo per l’importanza del verbo. In questo modo avremmo uno schema settenario con sei giorni lavorativi e il settimo di riposo, costruito sul modello della settimana della Genesi, in cui per sei giorni Dio «Disse e opera» e, infine, si riposa al settimo. Il terzo giorno del nostro schema corrisponde al sesto giorno della settimana e non al settimo perché secondo il computo ebraico, il giorno si conta dalla fine di quello precedente, dal tramonto al tramonto. Su questo specifico aspetto della struttura settimanale, gli studiosi sono tutti d’accordo nel ritenere che Gv 1,19-2,12 è strutturato nello spazio di una settimana, ma moltissimi divergono nella divisione dei giorni: alcuni calcolano sei giorni, altri sette, altri otto e c’è anche chi ipotizza dieci giorni. Una minoranza di studiosi non ammette nemmeno lo schema settimanale perché secondo loro gli indizi sarebbero fragili. Noi tralasciamo queste discussioni che sono tecniche perché incomprensibili a chi non è addentro a sistemi di indagine esegetica complessa. Chi volesse però approfondire gli argomenti, può ricorrere ad un testo organico e completo di uno dei massimi esperti di Gv e specificamente del racconto di Cana a cui ha dedicato di fatto tutta la vita: Aristide Serra, Le nozze di Cana (Gv 2,1-12). Incidenze cristologico-mariane del primo “segno” di Gesù, Edizioni Messaggero, Padova 2009, pp. 560.
D) Dal «principio» primordiale al «principio»
         dell’incarnazione
A questo punto ci pare quasi ovvio dire che lo schema settimanale, all’interno del quale troviamo l’espressione «E nel terzo giorno», è uno schema teologico e non cronologico. Infatti il riferimento al racconto della creazione di Gen 1 non solo è lecito, ma è anche logico perché l’evangelista presenta l’attività di Gesù dentro uno schema settimanale per mettere in evidenza che è un’attività salvifica, una ripresa dei temi della creazione, anzi, con Gesù inizia «una creazione nuova » che trova nella «nuova alleanza» anticipata da Geremia (cf Ger 31,31) l’inizio del tempo escatologico che sia la Scrittura che la tradizione giudaica annunciano come il tempo del Messia. è anche da sottolineare che lo schema settimanale di Giovanni si apre allo stesso modo, della Genesi, con l’assoluto e solenne «In principio» che da un senso di eternità a tutto il racconto. «In principio» Dio pone mano alla creazione del cielo e della terra così come «In principio» il Lògos irrompe nel tempo della storia per farsi «carne», cioè fragilità e temporalità. In greco si trova  l’espressione «en archê» che è la traduzione con cui la LXX traduce l’ebraico «Bereshìt» di Gen 1,1. I primi cristiani usavano come Bibbia propria appunto la LXX che era quindi la loro Scrittura di riferimento per l’AT. Un altro elemento, o quanto meno un forte indizio, a cui abbiamo solo accennato, si trova nel verbo «rimasero» di Gv 2,12: dopo la settimana di Gv 1 e le nozze di Cana «nel terzo giorno» di Gv 2, Gesù, sua Madre e i discepoli si ritirano a Cafàao, dove «rimasero non molti giorni». Il verbo usato da Gv è «mènō – rimango/resto/sosto» e quindi «riposo», dove vi potrebbe essere un’eco dello «shabàt-riposo» di Dio creatore. In questo caso Gv presenta Gesù non più come la «Sapienza» che era accanto al creatore pronta ad eseguire i suoi ordini (Pr 24,1-13), ma come il «Lògos» eterno che presiede direttamente la nuova creazione che troverà il culmine nella redenzione, espressa e manifestata nella rivelazione della «gloria» che risplende sul mondo dal trono della croce. Il racconto di Cana è dunque sotto questo aspetto, una rilettura cristiana, un midràsh, della creazione di Genesi e, come abbiamo anticipato nelle puntate precedenti e come vedremo in seguito, anche e specialmente della liberazione dell’esodo e del dono della Toràh al monte Sinai.
[continua – 14]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (13) DAL TARGUM AL MIDRÀSH: ACQUA, SANGUE E VINO

Il racconto delle nozze di Cana (13)

«Tutte le acque del Nilo si mutarono in sangue» (Es 4,20).
Alle difficoltà interposte da Mosè, Yhwh pone tre «segni» (cf Es 4,9), di cui due sperimentati sul momento perché preparatori: il bastone che diventa serpente e la mano lebbrosa che guarisce (cf Es 4,2-8), mentre il terzo, che è il vero «segno», qui è solo annunciato, anzi minacciato: «Se non crederanno neppure a questi due segni (nel greco-Lxx: semêia) e non daranno ascolto alla tua voce, prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta» (Es 4,9). Si svela il mistero: l’acqua di Cana cambiata in vino è un esplicito richiamo (antìtipo) all’acqua del Nilo cambiata in sangue (tipo). Vedremo come questo segno sia determinante nella letteratura giudaica per capire il senso di quello che avverrà dopo. Ancora una volta, il rapporto «segno» di Dio e «incredulità/fede» di Mosè è messo in primo piano e bisogna capire cosa accade se si vuole scoprire il senso delle nozze di Cana che si rifanno all’alleanza del Sinai. Per cogliere la portata del racconto evangelico come midràsh è necessario partire da Es 4 e passare in rassegna i tre segni che Dio oppone all’incredulo Mosè.
1° Segno: il bastone
Il 1° segno che Dio oppone all’incredulità di Mosè che egli somma con quella degli schiavi del faraone, è il segno del bastone (Es 4,2-5) che in Oriente è l’insegna del potere, qui di Dio conferito a Mosè:
«1Mosè replicò dicendo: “Ecco, non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce, ma diranno: ‘Non ti è apparso il Signore!’”. 2Il Signore gli disse: “Che cosa hai in mano?”. Rispose: “Un bastone”. 3Riprese: “Gettalo a terra!”. Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente, davanti al quale Mosè si mise a fuggire. 4Il Signore disse a Mosè: “Stendi la mano e prendilo per la coda!”. Stese la mano, lo prese e diventò di nuovo un bastone nella sua mano. 5“Questo perché credano che ti è apparso il Signore, Dio dei loro padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”».
L’arte della magia e della trasformazione degli oggetti non deve sorprendere perché era un’attività molto diffusa in Oriente dall’Egitto a Babilonia: le corti abbondavano di maghi che dilettavano il sovrano o impressionavano il popolo con magie più o meno roboanti. In un certo senso, si potrebbe dire che era la tv del tempo. Nell’obiezione di Mosè l’autore usa tre verbi importanti «credere, ascoltare e vedere/apparire», facendo proprio il linguaggio della rivelazione di Dio. Il binomio «ascoltare/vedere» è proiettato verso il «credere» e provengono anche dalla relazione che ogni Ebreo ha con la Toràh che deve essere creduta, ascoltata e contemplata. La fede non è raziocinio, ma è visione e ascolto, cioè contemplazione ed esperienza che si consuma nell’incontro «fisico» tra il credente e il creduto. La fede cristiana parte dalla storia e arriva alla persona, anzi alla Shekinàh – Dimora/Presenza.
Il segno del bastone (1) è importante perché secondo la tradizione giudaica, esso finita la peregrinazione nel deserto, venne custodito prima nella tenda del convegno, dove era alloggiata l’arca e quando Salomone costruì il tempio sulle colline di Sion, stava nel Santo dei Santi, accanto all’arca dell’alleanza, insieme ad una bottiglia con l’acqua del Mare Rosso e un’altra con la manna. Erano i segni «visibili», i «sacramenti» degli interventi di Dio nell’atto fondativo del suo popolo Israele.
 2° Segno: la mano lebbrosa guarita
Il 2° segno che Dio, in un crescendo di intensità, oppone all’incredulità di Mosè è quello della mano che diventa lebbrosa: è un segno di conferma e di passaggio al terzo, il più importante:
«6Il Signore gli disse ancora: “Introduci la mano nel seno!”. Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. 7Egli disse: “Rimetti la mano nel seno!”. Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne. 8“Dunque se non ti credono e non danno retta alla voce del primo segno, crederanno alla voce del secondo!» (Es 4,6-8).
Anche in questo 2° segno è interessante notare come nel greco della Lxx per due volte si mettono in relazione la «fede» con il «segno» (Es 4,8). Quest’ultimo non suscita la fede, ma la svela. Al contrario della convinzione comune che vuole «il miracolo» come «prova» dell’azione di Dio o della fede. Questo modo di vedere le cose non è biblico perché la fede è figlia della Parola che instaura una relazione, e non un teorema che deve essere dimostrato. Come non si dimostra l’amore, così non si può dimostrare la fede.
3° Segno: l’acqua diventa sangue
Con il 3° segno si raggiunge l’apice del crescendo in tutta la sua gravità e drammaticità, qui solo annunciata perché «il segno» sarà operativo solo nel capitolo 7 dell’Esodo che a sua volta anticipa anche l’ultimo «colpo» che piegherà il faraone e tutto l’Egitto: la morte dei primogeniti egiziani nella notte di sangue, quando l’angelo del Signore segnerà con il sangue dell’agnello pasquale gli stipiti delle porte degli Ebrei e ucciderà i figli dell’Egitto: vita per gli uni, morte per gli altri (cf Es 12,29-34, spec. 21-24). Anche qui il rapporto è tra fede e segno, con una particolarità: qui il faraone e la sua corte non devono credere a Yhwh, ma a Mosè e alla sua voce che così viene identificato con la persona stessa di Dio (cf Es 4,9). È quello che farà anche Gv nelle nozze di Cana, dove non fa manifestare la «gloria di Dio», ma quella di Gesù.
Targum e Midràsh: il sangue dalla roccia
Del 1° e del 3° segno, anche combinati insieme, come il bastone che colpisce la roccia e ne fa scaturire sangue, si occupano sia il Targum  (traduzione in aramaico delle letture bibliche in ebraico) che il Midràsh (spiegazione della Scrittura con altri testi della Scrittura).
Il testo biblico di riferimento è il libro dei Numeri al capitolo 20 che è il seguente:
«6Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’ingresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore apparve loro. 7Il Signore parlò a Mosè dicendo: 8“Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame”. 9Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato. 10Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: “Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?”. 11Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame. 12Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do”» (Nm 20,6-12).
Il Targum di Gerusalemme a Nm 20,8.11-12 (riportiamo solo i testi che ci interessano) così traduce, mettendo insieme sia la tradizione del bastone sia quella più tardiva della roccia:
«8Prendi il bastone, tu e tuo fratello Aronne. Voi due chiedete alla roccia per il grande Nome divino perché dia acqua davanti ai loro occhi. Se si rifiuta, tu solo, darai un colpo sopra la roccia con il bastone che tieni in mano. 11Mosè alzò la sua mano e colpì la roccia con il suo bastone; la prima volta fece sgorgare sangue, mentre la seconda volta uscì acqua in abbondanza e la comunità potette bere insieme al suo bestiame. 12Yhwh disse a Mosè e ad Aronne: “Giuro: poiché non avete creduto alle mie parole per santificarmi davanti …”».
Adam sempre in agguato
Il Targum di Gerusalemme e anche il Midràsh (Esodo Rabbà a Es 4, 9) dunque mettono in evidenza il binomio fede/non fede di Mosè e Aronne: mentre Dio ordina di colpire «una sola volta» la roccia con il bastone di Dio, Mosè invece colpisce «due volte» la roccia. La prima volta sgorga sangue, e l’acqua la seconda volta. Troviamo anche qui il nesso tra acqua – sangue – fede – non fede; allo stesso modo nelle nozze di Cana troviamo il rapporto tra acqua – vino – fede (della madre e dei servitori) – non fede dell’architriclino. Il Midràsh (a Es 4, 1) aggiunge un paragone: Mosè è paragonato al serpente dell’Eden che insinua in Adam il dubbio malvagio (la gelosia) nei confronti del Creatore; Mosè invece cerca di insinuare in Dio stesso il dubbio sulla fede degli Israeliti oppressi: egli calunnia il popolo di Dio e quindi non santifica il suo Nome:
«Dovresti essere colpito con il bastone che tieni in mano perché hai calunniato i miei figli che invece sono credenti, come sta scritto: “Allora il popolo credette” (Es 4,31); essi infatti sono figli di credenti come sta scritto: “Egli [Abramo] credette al Signore” (Gen 15,6). Mosè agì come il serpente che calunniò il Creatore, quando disse: “Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5). Mosè quindi sarà punito allo stesso modo del serpente che attribuì a Dio una intenzione malvagia agli occhi della prima coppia» (Midràsh, Esodo Rabbà a Es 4,1).
Dal bastone del potere alla Parola dello Sposo
Nelle nozze di Cana non c’è più Mosè con il bastone, simbolo del potere, e non c’è neanche l’intenzione di dubitare, ma vi è una realtà nuova, foriera di una grande novità: c’è l’Israele fedele che aspetta la redenzione, simboleggiata dalla madre, c’è l’Israele incredulo simboleggiato dall’architriclino e dallo sposo ignaro, c’è la disponibilità a cominciare a credere della nuova umanità simboleggiata dagli apostoli, convitati anch’essi alle nozze; ma soprattutto c’è lui, lo Sposo nascosto, che aspetta l’ora della sua Gloria, ma che è costretto dal bisogno del mondo ad anticiparla. L’acqua non si cambia in sangue minaccioso di morte, ma nel vino dell’allegria nel contesto della gioia nuziale. Il nuovo Mosè non deve battere le anfore di pietra con il bastone del potere,  ma è sufficiente una sua Parola, perché lo Sposo della nuova alleanza agisce come il Creatore: opera attraverso la Parola. Egli parla e così avviene.
È evidente che lo schema teologico dell’Esodo fa da sfondo al racconto giovanneo che ancora una volta s’interroga e interroga sul mistero della personalità di Gesù, che diventa così la chiave ermeneutica per rileggere gli eventi antichi e scoprie i sensi nascosti che portano in sé. Gesù non è venuto a soppiantare Israele perché egli è immerso nella storia e nella fede del suo popolo e ciò che compie e dice e insegna non è una sostituzione di ciò che lo precede, ma la ricchezza abbondante nascosta e portata alla luce perché il mondo intero potesse «vedere la Gloria e cominciare a credere».
Principio e compimento
L’acqua e il vino, sullo sfondo dell’acqua del Nilo che diventa sangue, acquista anche un altro simbolismo perché anticipa il valore sacramentale della morte di Gesù alla fine del vangelo, costituendo così una particolare inclusione o richiamo non solo verbale, ma tematico, passando per la consapevolezza di Gesù che, prima della lavanda dei piedi dei suoi discepoli (Gv 13,1-38), «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). L’espressione «fino alla fine» in greco si dice «eis tèlos» che raggiunge il suo apice nel momento della morte, quando Gesù prima di consegnare il suo Spirito alla nuova umanità, rappresentata dal discepolo e dalla madre, dice: «È compiuto!» (Gv 19,30), espressione che in greco ha la forma verbale del perfetto, quindi dell’azione passata i cui effetti continuano nel presente: «tetèlestai» che deriva dal verbo «telèō – io compio/porto a compimento/concludo» e da cui deriva il sostantivo «tèlos – fine». In questo modo si passa dall’«archê – principio» del prologo (Gv 1,1) e delle nozze di Cana (Gv 2,11) al «compimento» che si realizza nel servizio ai discepoli/umanità e alla «pienezza dell’ora» che si realizza nella morte di Gesù (Gv 19,30): il «principio dei segni» che avviene a Cana trova il suo compimento e il suo riposo ai piedi della croce, quando tutto «è compiuto».
Ora possono cominciare le nozze della risurrezione perché l’umanità insieme ad Israele possono correre verso lo Sposo–roccia che disseta la fame di vita perché «uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). Nel racconto dell’esodo come anche nel Targum e nel Midràsh è Mosè a colpire con il bastone la roccia da cui scaturisce acqua e sangue, mentre sul Calvario è un pagano (un soldato romano) che colpisce il fianco di Dio, il quale inonda della sua grazia l’umanità intera, rappresentata dai quattro soldati romani/pagani e dalle quattro donne ebree/credenti, uomini e donne (cf Gv 19, 23-27).
Nell’AT il fatto centrale degli eventi era segnato dalla mancanza di fede del faraone e di Mosè che cerca di coinvolgere anche il popolo che ancora non conosce; nel NT inizia e cammina l’avventura della fede che comincia e finisce nella persona di Gesù di Nazaret, figlio della madre/Israele e figlio di Dio/Padre.
Con l’apertura del costato di Cristo si ritorna all’Esodo e all’acqua del Nilo mutata in sangue, con una differenza: l’acqua del Nilo insanguinata è presagio di morte, mentre la morte di Dio fa scaturire dal suo costato le sorgenti dell’acqua e del sangue dei sacramenti che come fiumi di grazia alimentano la vita che cammina verso il regno. La Storia della salvezza comincia nel «segno dell’acqua e del sangue» per la morte e si conclude nel «segno» sacramentale dell’acqua e del sangue per la risurrezione. Tra questi due estremi si colloca il racconto delle nozze di Cana che da un lato richiama e riprende il «segno» dell’esodo e dall’altro prefigura e anticipa il dono di Dio nel «segno» della morte che innaffia la vita con l’acqua e il sangue del corpo di Cristo. Ora, sì, si compie il desiderio dell’Apocalisse: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).
 [continua – 13]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (12) Un Dio «straniero» abolisce i confini

Il racconto delle nozze di Cana (12)

«Manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere a lui» (Gv 2,11).
Abbiamo riflettuto a lungo sul significato del vino e le sue implicanze, e, senza esaurie la simbologia e i testi, ne abbiamo esaminato i più importanti. Facciamo un passo avanti proponendo l’ipotesi che il racconto dello sposalizio di Cana possa essere un midràsh cristiano della liberazione dalla schiavitù d’Egitto che, passando attraverso «i colpi» (le piaghe) e la peregrinazione nel deserto, trova nel Sinai il proprio fondamento e culmine. All’interno di questa prospettiva, possiamo dare alcune indicazioni ulteriori che ci aiutino a vedere sempre più profondamente Cana in rapporto con il Sinai, mettendo in evidenza analogie e confronti che di primo acchito non sono evidenti.
Nel «segno» di un Dio diverso
Nella mentalità e nella intenzione dell’evangelista, l’evento di Cana è connesso con la 1a delle dieci piaghe con cui Dio ha spezzato la resistenza del faraone perché liberasse Israele dalla schiavitù. La parola «piaga», in ebraico «negà‘» e in greco «plēghê», nel libro dell’Esodo è usata solo per il decimo colpo che convincerà definitivamente il faraone: l’uccisione dei primogeniti (cf Es 11,1). Per i primi nove fatti, descritti nei capitoli 7-10 del libro dell’esodo, l’ebraico usa sempre il termine «’ot» che il greco della Lxx traduce sempre con «sēmeîon» (cf Es 4,8-9.30; 7,9), lo stesso che usa Giovanni per definire lo sposalizio di Cana (cf Gv 1,11). Non si tratta come banalmente si dice di «miracoli» nel senso moderno del termine, ma di «segni» che devono accreditare il Dio di Mosè presso gli Israeliti schiavi e presso il faraone che è invitato a riconoscere la «potenza» del nuovo Dio.
Non entriamo nel merito della formazione del testo del racconto dell’esodo che è la confluenza di diverse tradizioni con riflessioni di natura teologica, scritte in epoca tardiva, ma proiettate in epoca antica da un redattore che sta riflettendo sulla «teologia della storia». Sarebbe inutile, oltre che stupido, volere cercare la spiegazione di questi «segni» in prodigi astronomici o con le scienze naturali, perché si tratta di fenomeni naturali, all’epoca conosciuti, riletti in modo iperbolico per fare risplendere davanti agli Israeliti e al faraone l’onnipotenza del Dio straniero Yhwh che vanta diritti anche dentro i confini dell’Egitto.
Nel 2° millennio a. C. la concezione della divinità era quella del «dio territoriale»: una divinità cioè non aveva poteri fuori dei confini di sua competenza. La divinità è legata alla terra, gli dèi egiziani erano impotenti in Babilonia e quelli di Assiria nulla potevano in terra di Canaan. Il loro sconfinamento era affidato alla guerra: se un popolo vinceva su un altro popolo, gli dèi di questi si sottomettevano a quelli del vincitore. Due esempi classici di «divinità territoriale» si trovano nel ciclo delle gesta di Eliseo: la donna di Zarèpta (Libano meridionale) crede in un Dio straniero annunciato da un profeta straniero che viene da oltre confine e ne riceve il beneficio della farina e dell’olio (cf 1Re 17,10-16); l’altro esempio è Nàaman, capo dell’esercito siriano, affetto da lebbra. Egli va da Eliseo che lo guarisce. Prima di ritornare al suo paese, egli chiede al profeta di potersi portare un po’ di terra d’Israele, quanta ne possono trasportare due muli. Giunto al suo paese, per potere ringraziare il Dio d’Israele che lo ha guarito, è sufficiente che salga su di essa per ritrovarsi «realmente» sulla terra d’Israele (2Re 5,1-27; Lc 4,27). Pregare su quella terra aveva, quindi, lo stesso valore che essere in Israele (è lo stesso principio che sta alla base del tappeto di preghiera dei Musulmani).
Il «segno» non è miracolo
In questo contesto, è evidente che lo scopo dei «segni» operati da Mosè è rivelare agli Israeliti e al faraone che il Dio straniero rappresentato da Mosè non conosce confini, ma è libero di agire nel deserto, nella terra di Madian quanto in Egitto. Allo stesso modo «il segno» di Cana ha lo scopo di «manifestare la gloria di Gesù», cioè la novità del suo messaggio: il Dio che egli annuncia è un Dio non straniero, ma lo Sposo che chiama alle nozze dell’alleanza l’umanità intera qui rappresentata dai discepoli che sono i garanti del «segno» di Cana di Galilea. Il rapporto con l’esodo non è solo letterario, ma riguarda anche il contenuto. Già in Es 4,9, Yhwh preannuncia che Mosè dovrà cambiare l’acqua del Nilo in «sangue» come avverrà con il 1° segno: «Con il bastone che ho in mano io batto un colpo sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sangue … Tutte le acque del Nilo si mutarono in sangue» (Es 7,14-24, qui 17.20). Accennare soltanto al nesso che può intercorrere tra l’acqua cambiata in vino a Cana e l’acqua cambiata in sangue in Egitto, ci fa immediatamente comprendere la portata del racconto evangelico che travalica il fatto dello sposalizio che è un semplice «accidente» di contorno.
Il parallelo più volte sottolineato tra Sinai e Cana è un dato di fatto che balza agli occhi: da una parte la Toràh rivelata e dall’altra la Gloria manifestata; al Sinai è Yhwh che parla, a Cana è il Lògos che si rivela; nell’uno e nell’altro caso domina il tema dell’alleanza in chiave nuziale. Anche il confronto «tipologico» tra Mosè e Gesù è un elemento acquisito e quasi una costante nei vangeli e specialmente in Gv che lo impone fin dal «prologo» come parametro costitutivo: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia della verità fu data per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17). Abbiamo tradotto «la grazia della verità» e non «la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Bibbia-Cei 2008) per coerenza con Gv 1,14: «E noi vedemmo la sua gloria,  gloria come di unigenito dal Padre, pieno [della] grazia della verità», dove i due termini ricorrono insieme e nell’uno e nell’altro caso sono una endiadi (1) di rafforzamento.
Da Mosè alla pienezza della verità
Al Sinai fu data «la Legge», ora a Cana è data «la grazia della verità» cioè la pienezza della rivelazione che «venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Per Paolo la Legge aveva l’obiettivo di guidare alla fede, dunque è nell’ordine dei mezzi, come la Chiesa, come i sacramenti. Per questo motivo l’apostolo la paragona ad un «pedagogo» che ha il compito di accompagnare il discepolo nel cammino di maturazione e di crescita: «Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede» (Gal 3,24-25; cf 1Cor 4,15). Ora che è arrivata «la pienezza della verità», si apre la «cella del vino» che è il monte Sinai e inizia la festa delle nozze del Lògos. La figura di Mosè come anticipazione (tipo) di Cristo (antìtipo) è importante nel IV vangelo(2).
Gv infatti lo cita 13 volte (Gv 1,17.45; 3,14; 5, 45.46; 6,32; 7,19.22 [2x].23; 8,5; 9,28.29), ma solo nella prima parte, nel «libro dei segni» e mai nella seconda parte: «il libro dell’ora» che è quella della rivelazione definitiva, della «epifania della grazia per grazia» (Gv 1,14), il cui culmine e fondamento è la morte-risurrezione di Gesù. Interessante la nota che Mosè compare solo nel «libro dei segni», come a dire che egli è nell’ordine del provvisorio e il suo compito è funzionale al profeta che verrà dopo di lui (cf Dt 18,15.18; At 3,22; 7,37). Anche dall’uso del nome e della sua distribuzione nel testo, concludiamo che Mosè apparteneva alla dimensione del mondo finito, dei «segni», ed era proteso verso il suo naturale compimento: «Il Lògos-Sarx/Cae/Fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Qui è il vertice di tutta la rivelazione.
Con la sua presenza a Cana, Gesù non rivela solo la «sua Gloria», ma svela anche il ruolo e l’importanza di Mosè nel disegno di Dio che trova nel Sinai il suo fulcro e la sua chiave di lettura: senza Gesù (antìtipo) anche Mosè (tipo) sarebbe sminuito nella sua importanza. Si potrebbe dire che il fatto di Cana è l’evento-cerniera che per Giovanni evangelista salda il cammino dell’AT con quello del NT: l’uno senza l’altro non può sussistere e l’uno diventa il senso o quanto meno il fondamento di senso dell’altro. In questo sta il principio che la Scrittura deve essere letta tutta nel suo contesto globale perché è una storia «unica» che si snoda in molte tappe e che ancora non è finita.
Principio o inizio?
Siamo convinti che il racconto dello sposalizio di Cana con il Vino che fa da protagonista d’eccellenza, sia un midràsh di tutto il racconto dell’esodo. Per capire meglio il testo del vangelo nel contesto di tutta la Bibbia, esamineremo il testo biblico, la versione della Lxx, il targum e infine il midràsh che costituiscono il materiale e l’ambiente dove nasce, si forma e si sviluppa il NT, in modo particolare il vangelo. è evidente che Gv non prende ogni singolo fatto, ma si riferisce ad alcuni di essi che diventano così emblematici e quindi tipologici. L’obiettivo a cui tende il racconto è Gv 2,11: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Così almeno la traduzione corrente, anche dell’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008), che nella nota al versetto spiega: «[Gv] 2,11 Questo … fu l’inizio dei segni»: non solo il primo dei segni, ma il modello di tutti (questo è il significato della parola greca tradotta con inizio). Difatti il miracolo di Cana ha rivelato la divinità (gloria) di Gesù e ha aperto ai suoi discepoli il significato delle opere prodigiose (che Gv preferisce chiamare segni)». Non fu solo il primo segno, ma un «modello».
Secondo noi, mantenendo l’uniformità con il prologo, Gv 2,11 non deve essere tradotto con «inizio dei segni», perché si darebbe una connotazione temporale che l’autore esclude volutamente, ma si deve tradurre così: «Questo principio dei segni fece Gesù in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere a lui». L’evangelista, infatti, usa il termine «archê» che in Gv 1,1 tutte le Bibbie traducono correttamente con «In principio» e non si capisce perché la stessa parola qui debba essere tradotta con «inizio» dandovi una connotazione temporale, mentre in Gv 1,1 deve essere tradotta con «principio» che invece ha una valenza fondativa, cioè di senso profondo. Inoltre la frase «i suoi discepoli cedettero in lui» per noi ha un valore non compiuto, ma ingressivo perché comincia a svilupparsi, lasciando davanti a sé uno spazio per una maggiore maturazione che, secondo noi, avverrà dopo la morte/risurrezione di Gesù con l’opera del Paràcleto (cf Gv 14,26). La traduzione più consona è dunque: «I suoi discepoli cominciarono a credere a lui», cioè mettono in moto un’attitudine verso Gesù, perché la fede non è un atto acquisito una volta per tutte, ma un processo, un cammino, una maturazione.  
Dalla non-fede a «cominciarono a credere»
Il riferimento alla fede iniziale dei discepoli non è una nota folcloristica o ascetica, ma un preciso commento teologico che Gv mette in relazione con il «principio» della fede incipiente dei discepoli. Si crea così un confronto aperto tra esso e Mosè che invece è nella esperienza del roveto ardente si mostra uomo «di poca fede», cercando di svignarsela opponendo ostacoli motivati forse dalla paura (Es 3,1-15). Al «segno» (sēmêion) che Dio dà dal roveto, l’arrivo cioè al monte Sinai (cf Es 3,12), Mosè risponde con una obiezione d’incredulità: mi chiederanno chi mi manda, non si fideranno (cf Es 3,13) che diventa certezza di rifiuto, anzi opposizione dichiarata. A Dio che garantisce «ascolteranno la tua voce» (Es 3,18), Mosè risponde coinvolgendo nella sua incredulità coloro che nemmeno conosce e attribuendo loro la certezza della non-fede, ipotecando la loro fede. Egli cioè, attribuisce agli assenti atteggiamenti e sentimenti di cui lui non può disporre: «non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce» (Es 4,1). Mosè non vuole nemmeno «cominciare» a credere perché l’obiezione è una scusa per esimersi dalla sua missione. Qui è il dramma: Mosè estende la sua non-fede agli assenti. Alla fine, dopo una lunga intervista e contrattazione con Dio (cf Es 3,13-4,1), Mosè accetta il compito di tornare in Egitto a liberare gli schiavi, ma pagherà amaramente, come vedremo, questa sua incredulità.
A Cana invece, i discepoli videro la «Gloria» e «cominciarono a credere», come anche l’atteggiamento della Madre, simbolo del popolo d’Israele credente e in attesa di Dio, che si abbandona con fiducia alla parola del Figlio, nonostante la sua resistenza: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Da una parte l’incredulo Mosè che trascina nell’incredulità anche coloro che dovrebbe liberare e dall’altra la fede senza riserve della Madre-Israele e dei discepoli-Umanità. Vi è la contrapposizione di fede/non fede che nel Prologo viene individuata nel binomio luce/tenebra (cf Gv 1,5.9.11). Dio si era impegnato in prima persona con parole che avrebbero dovuto smuovere qualsiasi dubbio: la liberazione degli schiavi d’Egitto è «già avvenuta», è scontata. L’autore, infatti, mette in evidenza che Dio non è ancora intervenuto e usa i verbi del suo agire al passato [tranne il terzo], come se fossero già conclusi: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto» (Es 3,8). Anche a Cana è Dio stesso che è convocato alle nozze: «Fu invitato alle nozze anche Gesù» (Gv 2,2) che è una annotazione strana e superflua nel contesto di un matrimonio in Palestina, a cui partecipa tutto il villaggio con parenti e amici. L’evangelista poteva/doveva omettere questa indicazione dell’invito, a meno che non avesse avuto una ragione nascosta per sottolineare la «presenza» di Gesù che non è casuale; come se dicesse che Gesù doveva e voleva andare alle nozze perché in quello scenario di sottofondo avrebbe cominciato a svelare qualcosa della sua personalità e della sua gloria, cioè della sua divinità. – [continua – 12 ]

Di Paolo Farinella

Note

(1) Endiadi
Dal Greco «hèn – una cosa / dià – per mezzo / dyòin – due», endiadi è una figura retorica con cui si esprime un concetto attraverso due o più parole: in questo caso «grazia e verità» sta per «grazia della verità» e riguarda la «rivelazione» nuova, fatta da Gesù. Mosè è legato all’alleanza del Sinai che conduce alla rivelazione definitiva del Lògos in Gesù di Nazaret (su queste questioni e temi cf F. Manns, L’Evangile de Jean, 29-30 e relativa bibliografia; v. inoltre M.-E. Boismard, Moïse ou Jésus, essai de christologie johannique, Leuven 1988, 22-46).
(2) Il Confronto tipologico
Si chiama «tipo» una figura o un personaggio o  un fatto precedente che anticipa una figura o un personaggio o un fatto successivo che invece viene chiamato «antìtipo» dal greco «antìtypon – cosa che accade dopo». Nell’esegesi biblica, un fatto del NT è «antìtipo» di un analogo fatto dell’AT o «tipo» che ne aveva dato l’anticipazione profetica: es. Gesù nel sepolcro per tre giorni è «antìtipo» di Giona che resta tre giorni nel ventre della balena e che è quindi  il «tipo». L’arca di Noè è il «tipo» del battesimo che è l’«antìtipo» (cf 1Pt 3,20-21).

Paolo Farinella




Cana (11) Un protagonista delle nozze: il vino dell’abbondanza

Il racconto delle nozze di Cana (11)

«La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor [1] di vino (2Baruc XXIX,3-5).
Quando Giacobbe, il patriarca padre dei dodici figli che daranno vita alle dodici tribù di Israele sta per morire, benedice Giuda con queste parole:
«Egli lega alla vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto; scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte» (Genesi 49, 11-12).
è l’unico testo in tutta la Toràh che accenna espressamente al re Messia:
«Il targum Onqelos [dal 60 a. C. al sec. II d. C.] applica questo versetto al re Messia. La vite simboleggia Israele. Il termine il suo asinello è interpretato come “la sua città” cioè Gerusalemme. La vite è Israele di cui sta scritto: Io ti avevo piantato come vigna pregiata [Ger 2,21]. L’espressione figlio della sua asina è interpretata come: “Essi edificheranno il suo santuario”, dove il termine asina (’aton) è riferito per significato al termine “ingresso” (’iton) del tempio, che ricorre nel profeta Ezechiele (cf Ez 40,15). Il targum presenta ancora un’altra interpretazione. La vite sono i giusti. Il suo asinello sono “coloro che si occupano dello studio della Toràh”, in riferimento al testo: Voi che cavalcate asine bianche [Gdc 5,10]. L’espressione lava nel vino la sua veste significa “la sua veste sarà di porpora preziosa”, il cui colore è come quello del vino» (cf Rashì, Genesi 409-410).
Un asino, una vite, il Messia
In Is 49,12 si conclude che gli occhi sono iniettati di vino (sangue di vite): «Scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte». Avere gli occhi scuri, cioè rossi di vino, nel contesto, significa essere talmente pieni dalla Toràh da essee sommersi fino agli occhi: come un recipiente pieno che straborda. In Es 20,18 si dice che il popolo vedeva i suoni con cui Dio si rivelava la montagna del Sinai. Ascoltare e vedere sono quindi sinonimi. Non basta ascoltarla con gli orecchi perché la Toràh deve anche «uscire» dagli occhi, deve riempirli, perché essa fa vedere il Signore. Occhi iniettati di vino è dunque sinonimo di conoscenza profonda della Parola del Signore. Chi vede la Toràh che ascolta ha compreso la rivelazione del Sinai.
Il tempo del Messia, prefigurato dal targum sul testo di Gen 49,10-12, sarà segnato da un’abbondanza strepitosa di vino e latte. La terra di Giuda, notoriamente abbastanza arida diventerà florida e irrigata dal vino e dal latte: una terra dove scorre «latte e miele» (Es 3,8.17, ecc.). Poiché i due versetti si riferiscono direttamente al Messia, il vino è un’allusione all’assemblea di Israele che riceve la Toràh, mentre l’asinello e il figlio d’asina sono un’allusione al Messia: «Chi vede (in sogno) un vitigno scelto, aspetti il Messia, secondo quanto fu detto: “Egli lega alla vite il suo asino ed a vitigno scelto il figlio della sua asina”» (Talmud, trattato Berakòt/Benedizioni, 57a). Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme per andare all’appuntamento con la sua morte si presenta come il Messia della discendenza di Davide che viene a dorso non di un cavallo, simbolo di guerra e di violenza, ma di un asino, strumento di lavoro e di lavoro pesante: «Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come stà scritto: Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto su un puledro di asina» (Gv 12,14-15; cf Zc 9,9-10). Il Messia che viene a dorso di un asino è colui che porta l’unità nel popolo di Dio, ma porta anche la Toràh al compimento pieno, cioè a comprensione universale.
Il giogo della Toràh
Nella stessa benedizione di Giacobbe in Gen 49,14-15 la tribù di Ìssacar è paragonata ad un «asino robusto … ha piegato il dorso a portare la soma». Secondo la tradizione ebraica Ìssacar è la tribù che si dedica interamente allo studio della Toràh: «Egli porta su di sé il giogo della Toràh, come un asino robusto che è caricato di un fardello pesante [cf anche Midràsh Genesì Rabbà XCXC, 10] (Rashì, Genesi 411). Il vino è l’abbondanza della Toràh, mentre l’asino è colui che porta il peso della Toràh. L’asino nel giudaismo è simbolo dello studio della Toràh per la sua costanza (cocciutaggine) e fedeltà a sopportare ogni peso (e lo studio è un peso notevole). A questi testi si ispira anche Gesù quando invita i suoi ascoltatori ad imitarlo: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore … il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,29-30), come lui stesso darà l’esempio quando si carica non più del leggero peso della Parola, ma del giogo della croce che in questo contesto assume il valore di un nuovo monte Sinai da cui non scende più una Toràh scritta sulle fredde tavole di pietra, ma la persona stessa di Dio, nell’uomo e Figlio di Dio, Gesù: «Ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio … dove lo crocifissero» (Gv 19,16-18). Da questo momento non è più il vino il simbolo della nuova Toràh, ma lo Spirito del risorto che egli consegna nel momento stesso in cui si affida al Padre suo e alla sua volontà di salvezza: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).
Inondazione di vino
In Gen 49,11 (v. sopra) l’abbondanza del vino è così grande che vi sarà bisogno di un asino per ogni vite tanto il raccolto sarà abbondante. Scrive l’apocrifo Apocalisse greca di Baruc (o 2Baruc), databile sec. I d. C.:
«La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor di vino. E coloro che avevano avuto fame saranno deliziati e, ancora, vedranno meraviglie ogni giorno. Venti. Infatti, usciranno da davanti a me per portare ogni mattina odore di frutti profumati e, al compimento del giorno, nubi stillanti rugiada di guarigione. E accadrà in quel tempo: scenderà nuovamente dall’alto il deposito della manna e in quegli anni ne mangeranno perché loro sono quelli che sono giunti al compimento del tempo. E accadrà dopo ciò: quando il tempo della venuta dell’Unto sarà pieno ed egli toerà nella gloria, allora tutti coloro che si erano addormentati nella speranza di lui risorgeranno. E accadrà in quel tempo: saranno aperti i depositi nei quali era custodito il numero delle anime dei giusti ed esse usciranno e la moltitudine delle anime sarà vista insieme, in un’unica assemblea di un’unica intelligenza, e le prime giorniranno e le ultime non si dorranno. Sapranno infatti che è giunto il tempo di cui è detto: è il compimento dei tempi. Le anime degli empi, invece, quando vedranno tutte queste cose, allora soprattutto si scioglieranno. Sapranno infatti che è giunto il loro supplizio ed è venuta la loro perdizione» (2Baruc XXIX,3.5-8-XXX,1-5; testo in P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, I, Milano, TEA 1990, 302-203).
Lo stesso concetto è espresso dai Padri per i quali il tempo messianico sarà caratterizzato dall’immagine delle «viti che avranno ciascuna diecimila ceppi e su ogni ceppo diecimila rami e su ogni ramo diecimila tralci e su ogni tralcio diecimila grappoli e su ogni grappolo diecimila acini e ogni acino, schiacciato, darà venticinque metrète [2] di vino» (Ireneo, Contro le Eresie, 5,33,3). Un altro apocrifo del sec. II a.C., il libro di Enoch, anch’esso del genere delle apocalissi, prefigura l’era messianica come un tempo di abbondanza strepitosa che descrive come una inondazione di vino:
«E in quei giorni … si pianterà su di essa [la terra] ogni sorta di alberi piacevoli; vi si coltiveranno delle vigne, e la vigna che vi sarà piantata darà vino a sazietà; e ciascun chicco seminato in essa produrrà mille misure ciascuno, e una misura d’olivo produrrà dieci pressoi d’olio» (Enoch 10,18-19).
Il vino del riscatto
Il tema vino/vigna ha una valenza fortemente messianico-escatologico (Is 55,1; Jer 2,24; Am 9,13-15; Zc 9,17) perché la venuta del Messia è vista come una festa nuziale dove il vino abbonda in misura straripante: il profeta Amos avverte che «i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno» (Am 9,13), mentre Isaia parla del tempo del Messia come di un sontuoso banchetto senza eguali, dove non mancherà certamente il vino (Is 25,6-8; cf 55,1). I monti e le colline sono una allegoria per indicare i Patriarchi e le Matriarche come leggiamo nel targum Neofiti a Dt 33,15: «[La terra] che produce buoni frutti per i meriti dei nostri padri, che somigliano ai monti, Abramo, Isacco e Giacobbe e per i meriti delle madri, che somigliano alle colline, Sara, Rebecca, Rachele e Lia». L’abbondanza del vino nell’era messianica sarà il riscatto di tutta la storia d’Israele perché alla gioia della nuova alleanza parteciperanno anche i Patriarchi e le Matriarche, cioè tutto il popolo di ieri, di oggi e anche di domani, come ci garantisce anche il targum Onqelos a Gen 29,12: «I suoi monti diventeranno rosseggianti per le sue vigne, i suoi colli distilleranno vino» (cf anche gli altri targumìm: Jerushalmì I e II e Neòphiti allo stesso versetto).
Si avrà un’abbondanza tale di vino che si offrirà gratuitamente a quanti lo vorranno: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Is 55,1). Emerge chiaro che il vino è sempre la Toràh, la Parola di Dio per cui all’epoca del Messia l’abbondanza del vino significa l’abbondanza della Parola che non avrà più bisogno di scuole particolari perché tutti la insegneranno a tutti: «poiché da Sion uscirà la Legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2,1-5). Giovanni esprimerà questo esito con il solenne ingresso del «Lògos» che «era dal principio» ed irrompe nella storia (cf Gv 1,1.14). Israele è simboleggiato dalla vite che Dio ha divelto dall’Egitto e trapiantato nella terra promessa (Sal 80/79,9) e per questo egli legherà i tralci, cioè tutte le componenti d’Israele tra di loro, ma legherà anche se stesso al popolo d’Israele. Il Re Messia non solo unirà le diverse anime del popolo in unico sentimento, ma sarà anche l’esegeta della Toràh che così sarà compresa e capita da tutti i popoli che formeranno la nuova umanità messianica (cf Gv 1,18). è l’era che chiude definitivamente la carestia di Am 8,11-12.
Nel segno di un sorriso
Il vino sarà così abbondante da sostituire anche l’acqua: il versetto «lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto» richiama anche il sangue del sacrificio dell’Agnello che lava le vesti di coloro che vengono dalla tribolazione: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14). è un sangue che rende candida la propria identità e la propria adesione alla risurrezione di Gesù, passando attraverso la morte. Anche la comunità di Qumran prepara il banchetto per i giorni del Messia, cioè per gli ultimi giorni e si mangerà pane e mosto che saranno bevande esclusive di questo banchetto escatologico (cf 1QSa II,11-12). Allo stesso modo anche la Pasqua ebraica che anticipa quella della fine dei tempi è impeiata su quattro coppe di vino, sintesi della storia della salvezza (1a coppa: la creazione; 2a coppa: l’elezione d’Israele in Abramo; 3a coppa: l’esodo [è la coppa che Gesù prende nella sua ultima cena in Ma 14,25; Mt 26,29; Lc 22,18] e infine la 4a coppa con cui si conclude il canto dell’Halle (Sal 113/112-118/117) che altro non è se non l’eco dei cinque temi della Rivelazione: l’uscita dell’Egitto; la divisione del Mar Rosso; il dono della Toràh; la risurrezione dei morti; le tribolazioni del Messia (cf Serra, Contributi 248).
Una caratteristica del tempo messianico sarà il «sorriso» qui indicato con il bianco dei denti a motivo del molto latte bevuto. Il talmud babilonese spiega l’espressione della benedizione di Giacobbe a Giuda: «Denti bianchi da latte. Ha detto Rabbì Jeudà: È migliore colui che rende bianchi i propri denti al proprio compagno rispetto a colui che gli dà da bere del latte» (Ketubot 111b). Rendere bianchi i propri denti al compagno è espressione tipicamente orientale per dire «sorridere», cioè mostrare i denti bianchi. è più importante nella vita un sorriso che nutrirlo. Il sorriso, l’accoglienza, la disponibilità sono superiori a dare da mangiare, cioè dare cose materiali.
Questa attitudine di chi crede in Dio è bene espressa nella Mishnàh, trattato Pirqè Avot /Massime dei Padri I,15 in cui a nome di Shammài s’insegna: «Fa del tuo studio un’occupazione abituale; parla poco, ma fa molto [= fai pochi voti, ma pratica molto la carità] e accogli ogni persona con volto sereno». Quando una persona accoglie un’altra persona con un sorriso, è segno che il Messia è già arrivato.
La vite dello Sposo che è Cristo
Anche il Ct si proietta in un contesto messianico quando la sposa conduce lo sposo nella casa della madre: «Ti condurrò e ti farò entrare nella casa di mia madre e tu mi insegnerai: ti darò a bere del vino aromatico, del succo del mio melograno» che il targum commenta: «Io ti condurrò, o Re Messia, e ti farò entrare nel mio Tempio; e tu m’insegnerai a temere il Signore e a camminare nelle sue vie. Là ci nutriremo … e berremo il vino vecchio tenuto in serbo nei suoi grappoli fin dal giorno che fu creato il mondo». Il vino è creato da Dio nei giorni della creazione e conservato per il grande giorno del Messia (cf Talmud di Babilonia Berakot 34b = BSanhedrin 99a; Jlqut Chimoni a Gen 2,8). In Gv 2,10 l’arcitriclino rimprovera lo sposo con parole identiche: «Tu hai tenuto in serbo il vino buono fino ad ora».
L’apocrifo dell’AT, Apocalisse di Baruc (sec. II d.C.) presenta la vigna come «l’albero che sedusse Adamo» e che Dio maledisse, strappando la vite e annegandola nel diluvio universale. Noè però dopo il diluvio, piantò tutte le piante che trovò, compresa la vite, ma prima di piantarla memore della rovina del patriarca Adamo chiese a Dio consiglio. Dio gli suggerì di piantarla:
«Levati, Mosè, pianta la vite, poiché così dice il Signore: l’amarezza in essa verrà mutata in dolcezza, e la maledizione che è in essa diverrà benedizione; e quanto verrà tratto da lei, diverrà il sangue di Dio; e come attraverso di lei l’umanità ha attirato la dannazione, così essi attraverso Gesù Cristo, l’Emmanuele, riceveranno con essa la loro chiamata verso l’alto e il loro ingresso nel paradiso» (2Baruc 4,15).
Per rivelare al faraone la Presenza del Dio liberatore, Mosè cambia l’acqua del Nilo in sangue (Es 4,9; cfr 7,14-25), ora nel NT, il nuovo Mosè cambia l’acqua di Cana in vino, prefigura del suo sangue che sarà versato sulla croce per lavare i figli dell’antica e della nuova alleanza. L’autore del racconto non ci spiega espressamente qual è il senso del racconto, ma ci obbliga a non fermarci alla superficie e a pescare nel pozzo profondo della Parola. Una cosa però è chiara: A Cana Gesù «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cedettero in lui» (Gv 2,11). Il senso finale del simbolismo del vino è la Parola/Lògos/Dabàr che rivela il Cristo, cioè il suo vangelo, la sua Persona come splendidamente sintetizza Sant’Agostino:
«… di quelle nozze nelle quali lo sposo è Cristo … Lo sposo delle nozze di Cana, infatti, cui fu detto: Hai conservato il buon vino fino ad ora, rappresentava la persona del Signore. Cristo, infatti, aveva conservato fino a quel momento il buon vino, cioè il suo Vangelo» (Omelia 9,2 (PL 35, 1459).
Il vino del Vangelo
Il primo segno che Gesù opera nel vangelo di Giovanni è l’abbondanza del vino e il vino è il simbolo della sua Parola rivelatrice che lo pone così sullo stesso piano del Dio del Sinai, di cui le nozze di Cana sono ripresa e rinnovamento. Come al Sinai, Dio rivelò se stesso «nel terzo giorno», così ora anche Gesù rivela se stesso «nel terzo giorno»: al Sinai Israele ricevette la Toràh, a Cana l’umanità riceve il vino bello della sua Gloria. Ora sì, possiamo anche comprendere perché Gesù dice di se stesso: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) perché con lui si riapre il tempo dell’alleanza e il vino della parola scorre abbondante e senza misura «in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (At 1,8) perché ora l’umanità nuova, invitata a Cana può accostarsi al cuore di Dio per «vedere» la parola e gustare il vino nuovo banchetto finale:
«Prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per tutti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui non lo berrò di nuovo, nel regno di Dio» (Mc 14,23-25).
Il senso generale del racconto ci apre prospettive straordinarie per la fede e la testimonianza: non si tratta di un matrimonio quanto della nuova alleanza che inaugura i tempi nuovi nell’umanità di Cristo come ripresa e compimento dell’alleanza del Sinai che ora è restaurata e compiuta: la nuova umanità, noi siamo tutti invitati alle nozze di Dio con il suo popolo che ora raccoglie tutti i popoli. Il banchetto eucaristico che celebriamo nella storia è la nostra Cana dove il vino è mutato in sangue e la parola diventa il pane del corpo del Signore, i segni nuovi che ci abilitano ad andare nel mondo ed essere anche noi segni visibili di nuzialità e di gioia. Se il vino del Sinai è la Toràh e quello di Cana è la Parola, il vino per noi è il Vangelo, cioè Gesù il Cristo, la rivelazione del Padre, in forza della testimonianza di Marco: «Principio del Vangelo, cioè Gesù, cioè il Cristo, cioè il Figlio di Dio» (Mc 1,1). [continua – 11]

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (10) UN PROTAGONISTA DELLE NOZZE: IL VINO DEL MESSIA

Il racconto delle nozze di Cana (10)

«E disse: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio”» (Mc 14,24-25).
Prima di cominciare il commento del racconto di Cana versetto dopo versetto, dobbiamo incontrare e conoscere, in questa e nella prossima puntata, un protagonista indiscusso dello sposalizio di Cana che è il Vino: all’inizio della narrazione manca ed è motivo di preoccupazione e alla fine abbonda e migliora. In tutto il racconto il vino è citato 5 volte (Gv 2,3[2x].9.10 [2x], mentre, come abbiamo detto a più riprese, la sposa è nominata neppure una volta e lo sposo una volta appena, alla fine del racconto (Gv 2,9) e solo per ricevere il rimprovero del responsabile delle nozze. Tutti questi elementi sottolineano insieme che il vero protagonista dello sposalizio di Cana è lui, il Vino, che assume un ruolo determinante perché in esso si cela una concentrazione straordinaria di significati che dovremo trovare.
Un vino per tutti i popoli
La Bibbia attribuisce a Noè la piantagione della prima vigna da cui ricava il vino, fonte di allegria e di gioia (cf Gen 9,20-21). Il vino è anche una droga al centro di un incesto tra due figlie e il loro padre, Lot, che ubriacano per avere da lui una discendenza per paura di estinguersi (cf Gen 19,30-38). La Palestina, come in tutto il Medio Oriente, è un paese agricolo mediterraneo e l’uva e il vino non solo sono familiari, ma formano parte importante del nutrimento ordinario, se è vero che la terra promessa è descritta come un paese «dove scorre latte e miele» (Es 3,8.17; 13,5, ecc.) e dove abbonda il vino, segno di fertilità, di abbondanza e di gioia (cf Gen 49,11; Dt 33,28). Quando gli Ebrei arrivano ai confini di quella che da terra promessa diventerà il loro paese, Mosè manda alcuni esploratori in ricognizione ed essi ritornano con un grappolo d’uva, colto nelle vicinanze di Ebron, che portano in due (cf Nm 13,23).
Non meraviglia quindi che tanto nella letteratura che nella Scrittura il vino assuma anche un simbolismo molto forte1. Il vino nella tradizione biblica è sinonimo di gioia e di festa come si legge nel Cantico dei Cantici che tutta la tradizione giudaico-cristiana interpreta allegoricamente come il canto dell’alleanza nuziale tra Yhwh e il suo popolo. Qui troviamo anche il nesso tra il vino e le nozze perché non vi può essere allegria senza il vino che diventa anche la misura della tenerezza sponsale: «Sì, migliore del vino è il tuo amore» (Ct 1,2). In ebraico «vino» si dice «yayìn», le cui consonanti (y_y_n) corrispondono al numero 70 (10+10+50), cioè le settanta nazioni che popolano la terra, secondo la convinzione, ancora attuale al tempo di Gesù.
Il Targum mette in relazione «amore» e «vino» contrapponendoli perché il primo simboleggia Israele che Dio ama più di tutte le nazioni, simboleggiate nel secondo: «Per la grandezza del suo amore, con cui ama noi [= Israele] più che le settanta nazioni» (cf Targum a Ct 1,2) a cui fa eco il midràsh: «Il tuo amore è migliore» è Israele; «più del vino» sono le nazioni del mondo; sono le settanta nazioni del mondo. Così ti insegna che Israele è caro al Santo – benedetto Egli sia – più di tutte le nazioni» (Cantico Rabbà, I,19). Nelle nozze di Cana, donando un vino abbondante e migliore del vino precedente, Gesù offre al mondo intero una rivelazione universale per radunare tutti i popoli sotto il segno della manifestazione della «Gloria». Il vino di Cana estende ai popoli senza alcuna riserva l’alleanza del Sinai che prefigura quella che avverrà nel vino/sangue versato sulla croce: «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34).
Il Sinai, cantina e scuola della Toràh
Nel Cantico dei Cantici il vino è citato 8 volte e sempre in un contesto erotico-amoroso che trasporta la sposa-Israele verso lo Sposo-Dio (Ct 1,2.4; 2,4; 4,10; 5,1; 7,3.10; 8,2): «Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore» (Ct 2,4). La tradizione rabbinica considera il monte Sinai come la cantina, la «casa del vino» per eccellenza dove fin dalla creazione del mondo Dio ha conservato per Israele il vino buono della Toràh, come spiega dettagliatamente il midràsh:
«“Mi condusse alla casa del vino”: è il Sinai, dove è stata data la Toràh, che è paragonata al vino: “Bevete il vino che io ho preparato” [Pr 9,5]» (Midràsh Numeri Rabbà II, 3).
«Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto Egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai e là mi ha dato gli ordinamenti della Legge e i precetti e le opere buone, e con grande amore li accolsi» (Midràsh Cantico Rabbà II,12).
Per questo il monte Sinai è anche una scuola dove si beve il vino della Parola: «Mosè passò quaranta giorni sul monte: e stava seduto davanti al Santo – benedetto Egli sia – come un discepolo sta seduto davanti al suo maestro» (Midràsh Pirqè/Massime di R. Eliezer XLVI; cf A. Serra, Contributi, 237-238). Al tempo di Gesù, il Targum, cioè la traduzione aramaica della Bibbia ebraica che si faceva in sinagoga per fare capire la Parola nella lingua del popolo, così commentava Ct 2,4 sopra citato:
«L’Assemblea d’Israele disse: Il Signore mi fece salire alla casa di studio della scuola del Sinai perché imparassi la Toràh dalla bocca di Mosè, il grande scriba. E l’ordinamento dei suoi precetti accolsi su di me con amore, e dissi: tutto quello che il Signore ha ordinato lo farò, e obbedirò» (Targum a Ct 2,4).
Al Targum fa eco anche il Midràsh di Cantico Rabbà 2,4,1 (150 ca. a.C.) che dice: «…R. Abba insegnava nel nome di R. Isaac. Disse l’Assemblea di Israele: “Il Santo – benedetto Egli sia – mi introdusse nella grande cantina del vino, il Sinai. E lì mi diede la Toràh che è spiegata da 49 motivi per dichiarare puro e 49 per dichiarare impuro, perché il valore numerico di “vessillo” è appunto 49». In ebraico infatti ad ogni consonante corrisponde un numero (i numeri furono inventati dagli Arabi nel sec. VIII d. C.: prima si usavano le consonanti dell’alfabeto) e in Ct 2,4 la parola «vessillo», in ebraico «wedighelò», è formata dalle consonanti «w_d_g_l_w» la cui somma numerica fa appunto 49. Il vino della Toràh è conservato da Dio ancora prima della creazione del mondo in vista della rivelazione del Sinai e dell’alleanza. Su questo punto la tradizione rabbinica è costante. Nel libro dei Proverbi, infatti, «Donna Sapienza» parla della sua «preesistenza» accanto al creatore:
«22 Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. 23 Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. 24 Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; 25 prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, 26 quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo. 27 Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, 28 quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, 29 quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, 30 io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, 31 giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Pr 8,22-31).
La Mishnà si collega a questa tradizione perché tra le «dieci cose» create prima della creazione del mondo, elenca anche «la scrittura», cioè le lettere dell’alfabeto e «le Tavole della Toràh» che con quelle furono scritte. In altre parole: il vino delizioso della Toràh non è una creatura di Dio, ma è parte di Dio stesso, prima ancora che la creazione avesse inizio:
«Dieci cose furono create al crepuscolo del primo Sabato: l’apertura della terra, la bocca del pozzo, la bocca dell’asina, l’arcobaleno, la manna, la verga [di Mosè], lo shamìr, le lettere dell’alfabeto, la scrittura e le Tavole della Legge. C’è chi dice: anche gli spiriti maligni e la tomba di Mosè nostro maestro, l’ariete di Abramo nostro patriarca e c’è chi dice anche la tenaglia fatta con tenaglia» (Pirqè Avot – Massime dei Padri V, 6; cf Talmud babilonese Pesachìm/Pasque 54a; Midràsh Genesi Rabbà 1,4; Midràsh Levitico Rabbà 19,1).
Secondo il Midràsh Genesi Rabbà 1,1, la Toràh servì a Dio come «modello» per la creazione del mondo, come a dire che Dio guardava la Toràh e creava le cose. Lo stesso concetto si trova in Paolo il quale descrive Cristo come «primogenito di tutta la creazione perché in lui furono create tutte le cose … Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono» (Col 1,15-17; cf Ef 1,4;) e si trova pure in Pietro che presenta Cristo come «agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi» (1Pt 1,19-20). A questa tradizione sulla Toràh preesistente si riferisce Gesù quando prega dal Padre la «gloria», cioè la sua identità di Dio: «E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse … poiché mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,5.24).
Il vino, la manna e il pane della Parola
Questi testi e questa tradizione sulla «preesistenza», conosciuti da Gesù e dagli apostoli, alla luce del simbolismo del vino che rappresenta la Toràh, ci dicono che l’alleanza del Sinai non è un avvenimento secondario, perché in essa si compie una attesa che era un desiderio e un progetto di Dio, ancora prima che il cosmo esistesse. La Parola di Dio (o «Donna Sapienza» secondo il libro dei Proverbi), infatti, è eterna come il pensiero stesso di Dio e il Sinai è il punto di arrivo del disegno di amore di Dio, quel disegno che Giovanni chiama «Lògos/Dabàr» (Gv 1,1) della cui «gloria manifestata» il racconto dello sposalizio di Cana fa da sfondo e da contesto al cuore della rivelazione: l’incarnazione del Lògos: «E il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), la cui preesistenza è contenuta anche nel targum che traduceva il libro dell’esodo. Riportiamo in parallelo sinottico il testo dell’Esodo e il testo del Targum che veniva proclamato nella sinagoga per fare vedere come le idee e i pensieri detti da Gesù e riportati dal vangelo fossero materia di formazione comune:
Nel Targum «il pane che è conservato» è il pane dei comandamenti e quindi dell’alleanza cioè il pane della parola di Dio che nella e con la Toràh nutre e vivifica il popolo santo. Da ciò possiamo dedurre che il Giudaismo del sec. I fosse in attesa del tempo del Messia come un tempo in cui Dio avrebbe rinnovato anche il miracolo della manna (2Bar 29,8; Or Sib 7,148-149; Rut R. 2,14) e che l’evangelista Giovanni descrive nel mirabile capitolo 6 del suo vangelo. Il pane/manna non è un cibo per sfamare la fame, ma principalmente il cibo che nutre l’obbedienza ai comandamenti del Padre. Gesù mette al centro del suo vangelo il comandamento dell’amore, riducendo ad esso i 613 precetti della tradizione giudaica (cf Gv 12,50; 13,34; 14,15.21; 15,10.12; 1Gv 1,2.3; 2,7; 3,23; 5,2-3; cf 2Gv 5-7). Infine, la manna è la Parola di Dio che si incarna nei comandamenti che nutrono chi li vive, come insegna anche la Sapienza:
«Hai sfamato il tuo popolo con il cibo degli angeli (Lxx: anghèlōn trophên), dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto … perché i tuoi figli, che hai amato, o Signore, imparassero che non le diverse specie di frutti nutrono l’uomo, ma la tua parola tiene in vita coloro che credono in te» (Sap 16,20-21.26).
Il pane degli angeli diventa il nutrimento dei figli di Dio che sono custoditi e conservati direttamente dalla Parola che ascoltano e che praticano nei comandamenti, nel comandamento dell’amore perché «l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3 cf Mt 4,4). Pane e vino sono alimenti della vita dell’uomo mediorientale e diventano anche «sacramenti» dell’alleanza eterna e nuova (cf Ger 31,31) che si esprime e si manifesta nella Parola di Dio consegnata da lui stesso a Mosè sul Sinai. Le nozze di Cana hanno senso dentro questo quadro di riferimento ampio e solenne perché nell’intenzione dell’autore non sono l’occasione per un miracolo da poco, ma spalancano una porta nuova sulla storia dell’Esodo che oggi noi riviviamo attraverso gli sposi assenti, il vino abbondante e «bello», nella presenza della Madre e nel gesto di Gesù perché l’Esodo è ora, è qui. Adesso. [continua – 10]

Paolo Farinella

_________________
1 Sul tema del «vino» (o della vigna) cf J. L. Mckenzi, Dizionario Biblico, a cura di Bruno Maggioni, Cittadella Editrice, Assisi 1978, 1036-37 [vino] e 1042-44 [vite/vigna]; A. M. Gerard, Dizionario della Bibbia, voll. 1-2, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1994, vol. 2°, 1615-17 [vigna] 1617-19 [vino]; sul tema cf anche la bibliografia in A. Serra, Contributi, 227 nota 2.

Paolo Farinella




Cana (9) Rahab anticipa il terzo giorno

Il racconto delle nozze di Cana (9)

Nel libro di Giosuè si narra la presa di Gerico da parte degli Israeliti con l’aiuto della prostituta Rahab che per prima capisce e accetta il disegno di Dio (Gs 2, 9-13).(1) Consapevole che è inutile combattere contro il Signore degli Israeliti, Rahab accetta di collaborare, in cambio della salvezza per sé e la sua famiglia, nascondendo le spie israelite in casa propria. Quando il re viene a sapere che alcune spie sono andate nella casa della prostituta, mette in moto la sua polizia per cercare gli intrusi e ucciderli. Rahab, incurante del pericolo e correndo il rischio di essere accusata di tradimento, fa fuggire le spie dalla finestra che si affaccia sulle mura della città e li manda  verso i monti per sfuggire gli inseguitori del re di Gerico, suggerendo loro di rimanere nascosti là tre giorni» (Gs 2, 16) fino alla fine del rastrellamento. Le spie israelite, si fidano di Rahàb, la prostituta, e le ubbidiscono:  «Se ne andarono e raggiunsero i monti. Vi rimasero tre giorni, finché non furono tornati gli inseguitori. Gli inseguitori li avevano cercati in ogni direzione, senza trovarli» (Gs 2, 22).
Questi i fatti. Nel testo di Giosuè è evidente che i «tre giorni» indicano un tempo di prova e vigilanza che sfociano nella liberazione, perché le spie possano tornare da Giosuè e informarlo sulle difese della città. (2) Il Midràsh Genesi Rabbà 56 – Midràsh Grande, uno dei più antichi, commentando Gen 22, 4 – «Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo» – così commenta:

«Il Santo, Benedetto sia! Non lascia i giusti nell’afflizione più di tre giorni come è detto. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare, così che potremo vivere alla sua presenza (Os 6, 2); il terzo giorno degli antenati della tribù: e Giuseppe disse loro il terzo giorno: fate questo e vivrete (Gen 42, 18); il terzo giorno della Torah: appunto al terzo giorno sul far del mattino, vi furono tuoni (Es19, 16); il terzo giorno delle spie: e nascondetevi lì tre giorni (Gs 2, 16); il terzo giorno di Giona: Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti (Gn 2, 1); il terzo giorno al ritorno dall’esilio: siamo arrivati a Gerusalemme e ci siamo riposati tre giorni (Esd 8, 36); il terzo giorno di Ester: il terzo giorno, quando ebbe finito di pregare, ella si tolse le vesti da schiava e si coprì di tutto il fasto del suo rango (Est 5, 1), cioè si coprì con tutto il fasto dei suoi antenati. Per i meriti di chi [la liberazione arriva il terzo giorno]? I rabbini dicono: “Per merito del terzo giorno in cui è stata data la Toràh”. R. Levi dice: “Per merito di ciò che ha fatto Abramo il terzo giorno, come è detto: Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo” (Gen 22,4)».

«Il terzo giorno» è il giorno della salvezza

Il Midràsh usa lo stesso metodo che abbiamo usato noi nella puntata precedente: mette insieme tutti i testi che parlano del terzo giorno e lega questa espressione ad una salvezza realizzata, dopo una attesa o un pericolo. Il Midràsh mette sullo stesso piano figure diverse, come Rahab, la prostituta, e Abramo, il patriarca fondatore, ambedue protagonisti e strumenti di salvezza per Israele. La prostituta che salva le spie di Israele è di fatto la prima profetessa che proclama la salvezza di Dio nella terra promessa, prima che gli Israeliti vi entrino come popolo e mentre, allo stesso tempo, ne prendono possesso simbolico con l’ingresso delle spie. Certamente Gesù, quando affermava: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31), aveva ben presente questo Midràsh di Rahab, che a quel tempo era solo orale.
È singolare che l’evangelista inizi il racconto di Cana con una precisazione di tempo così particolare, pre-cisa e posta al principio del racconto, in posizione d’onore, in primo piano, quasi a metterci sull’avviso che non si tratta soltanto di un «lasso di tempo» cronologico, ma di un evento di salvezza, che irrompe nella storia come la teofania di Dio irruppe sul Monte Sinai dove, attraverso il dono della Toràh, Dio diede coscienza agli schiavi fuggiti dall’Egitto di essere un popolo, e un popolo prediletto. Ora a Cana, nasce un nuovo popolo, non nel senso che soppianta Israele –  cosa impossibile –, ma nel senso che lo stesso Israele assiste all’arrivo dei tempi nuovi, i tempi del Messia che viene a portare a compimento la Toràh del Sinai, rinnovandola e lavandola nel vino del proprio sangue, cioè nell’offerta della propria vita. Le nozze, sì, sono pronte, ma non quelle di una anonima coppia, ma quelle di Dio con il suo popolo, le nozze tra il cielo e la terra.
La scala di Gesù, il nuovo Giacobbe

In questa direzione ci porta lo stesso autore del IV vangelo che prima di aprire il racconto di Cana, chiude il capitolo primo con l’allusione alla scala di Giacobbe: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo» (Gv 1, 51). Subito dopo questo versetto comincia il capitolo 2 con «Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea» (Gv 2, 1). Quale nesso vi è fra i due testi? Gli angeli che salgono e scendono è un evidente ed esplicito richiamo a Giacobbe che sogna una scala che unisce la terra al cielo (Gen 28, 10-17).
Con questo testo allusivo a Giacobbe, Giovanni riprende le tradizioni giudaiche che interpretavano la scala di Giacobbe come simbolo del monte Sinai, attraverso la quale salgono e scendono gli angeli che nella tradizione sono Mosè ed Aronne. Oppure la scala è simbolo del tempio di Gerusalemme e gli angeli sono i sacerdoti che salgono e scendono per il culto. Le due simbologie sono presenti nel IV vangelo: l’espressione «il terzo giorno» (Gv 2, 1) richiama il «terzo giorno»  del Sinai (cf Es 19, 11), come molto spesso abbiamo sottolineato. Immediatamente dopo il racconto di Cana, Giovanni riporta il fatto della purificazione del tempio (Gv 2, 13-22), dove Gesù scaccia i mercanti e restituisce al tempio la sua dignità di «casa del Padre». Non solo, ma subito dopo questo fatto, Giovanni riporta una disputa tra Gesù e i Giudei nella quale egli identifica il suo corpo con il tempio e ancora una volta si serve dello schema del «terzo giorno» per annunciare la sua risurrezione: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2, 19).
Per l’autore del IV vangelo, Gesù è il nuovo Giacobbe, il padre dei dodici figli che daranno origine alle do-dici tribù d’Israele. Egli come la scala del sogno del patriarca, unisce il cielo e la terra perché ora vediamo e sappiamo che «Il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1, 14) ed è il tempio che rinnova e purifica il culto, sostituendo il sacrificio di animali con l’offerta della propria vita e realizzando la profezia del profeta Osea: «Poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6, 6). Rivelando e manifestando a Cana che Dio è pronto nuovamente per le nozze con Israele e con la nuova umanità rappresentata dai dodici apostoli, Gesù pone le condizioni per una nuova storia di amore e di tenerezza, dove non prevarrà più la durezza del castigo, ma solo la dolcez-za della nuzialità che diventa così la cifra nuova dell’alleanza nell’umanità redenta.

«Il terzo giorno» porta due benedizioni

Il «terzo giorno» ha segnato l’inizio della coscienza di Israele come popolo, perché Dio si manifesta a Israele per dargli la Toràh (Es 19,10-11.16; cf Targum Gionata a Es 19, 24). Allo stesso modo i figli di Israele segnano l’inizio della vita della nuova coppia, celebrando il matrimonio «nel terzo giorno della settimana» e cioè il martedì, secondo il computo ebraico. Questa scelta è legata sia alla tradizione del Sinai, sia con il fatto che nel terzo giorno della creazione (cf Gen 1,9-13), Dio concede due benedizioni: alla creazione della terra e alla creazione dei frutti della terra. Il terzo giorno, giorno della doppia fecondità, è il più indicato per la celebrazione della fecondità dei figli d’Israele. La Legge e la Benedizione, la coscienza e la relazione sono i segni che svelano il volto di Dio nel volto dei suoi figli: come Dio si lega a Israele suo popolo nel «terzo giorno», allo stesso modo, «nel terzo giorno», i figli di Dio si legano tra di loro nella fecondità sponsale, che è la benedizione di Dio Padre e creatore riversata sul mondo presente e futuro. (9-continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (8) A CANA FINISCE LA VEDOVANZA DI GERUSALEMME

Il racconto delle nozze di Cana (8)

Più andiamo avanti nella presentazione del racconto dello «sposalizio di Cana» e più ci rendiamo conto che esso ha senso dentro il contesto del vangelo come anticipo della rivelazione «dell’ora della gloria», che coincide con la morte e la risurrezione del Signore. Nello stesso tempo, abbiamo coscienza che il racconto acquista un significato ancora più profondo all’interno del contesto remoto che comprende tutta la Scrittura, perché, come abbiamo anticipato diverse volte, il racconto di Cana ha il valore di «commento» all’evento del Sinai in prospettiva cristologica. In sostanza, l’autore ci dice che la chiave di comprensione (ermeneutica) dell’Esodo, cioè della salvezza che è entrata nella storia, è Gesù di Nazaret. Egli, infatti, si presenta come il discendente di Mosè, ma più grande di Mosè, perché compie ciò che a Mosè fu impossibile realizzare: fare entrare il popolo di Dio nella terra santa della promessa che egli annuncia e presenta come Regno di Dio.

Chi studia la parola espia i peccati
Il racconto di Cana e i temi in esso contenuti sono una rilettura cristologica delle tradizioni del Sinai, che l’autore descrive con i criteri dell’esegesi giudaica, secondo il metodo specifico che si chiama midràsh. Questa affermazione è importante perché colloca il vangelo di Giovanni nel contesto diretto del Giudaismo, che fu la culla del cristianesimo nascente. Noi siamo abituati a leggere e interpretare il vangelo con categorie quasi esclusivamente greco-romane e rischiamo di perdee l’anima stessa con il rischio di travisae il senso. Cercheremo di spiegare con semplicità in che modo il racconto di Cana sia un midràsh dell’Esodo e così offriremo uno strumento di rilet-tura del testo capace di andare ben oltre l’ovvio senso letterale che altrimenti, da solo, direbbe poco.
L’ebraicità di Gesù, degli apostoli e della Chiesa nascente appartiene al cuore della rivelazione del Nuovo Testamento e condiziona la nostra fede, in forza della quale noi stessi, credenti in Cristo, ebreo, figlio di ebrei, siamo discendenti di ebrei o, come affermava Pio XI, «spiritualmente semiti».
La banalità e la superficialità sono nemiche della verità evangelica e della dignità umana che indaga, cerca, trova e vive. Ogni volta che diciamo cose scontate o improvvisiamo i nostri commenti sulla Parola di Dio, diventiamo colpevoli di «lesa Parola» perché la riduciamo a favola o a racconto morale, trasformando spiegazioni ed omelie in pillole di ovvietà che pretendono avere una dignità edificante. Spesso gli annunciatori del vangelo mancano di vera «professionalità» e si riducono ad essere professionisti del banale, alimentando così l’ignoranza del popolo di Dio. Il quale popolo ha diritto ad avere invece il meglio degli studi esegetici, affinché il messaggio evangelico non si riduca ad una pia esortazione insipida, frutto magari di manie soggettive e di una dottrina moraleggiante che lascia il tempo che trova.
Già al tempo di Gesù i Rabbini insegnavano che lo studio della Toràh equivale al sacrificio offerto al tempio, ha, cioè, valore espiatorio. Oggi, noi diremmo che lo studio della Parola ha valore «sacramentale» ed è l’equivalente dell’Eucaristia. Questo insegnamento attraversa la storia di Israele e arriva fino a noi:
«Chi si dedica allo studio della Toràh, ovunque nel mondo [anche fuori Gerusalemme], è considerato da Me [il Signore] come se bruciasse offerte al mio Nome» (Rabbì Samuel bar Nahman a nome di R. Yonathan). «Chi dedica la notte allo studio della Toràh è considerato dalla Scrittura come se avesse partecipato al sacrificio del Tempio» (R. Yohanan) e un altro Rabbi, anonimo, commenta: «Senza il Tempio (= in diasporà?), come puoi ottenere l’espiazione dei peccati? Studia le parole della Toràh che sono paragonate ai sacrifici e così otterrai l’espiazione dei peccati per te». Il midràsh Sifre Deuteronomio 41, commentando Gen 2, 15 («Il Signore Dio prese Adam e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse») afferma: «Perché lo coltivasse» si riferisce allo studio della Toràh e «perché lo custodisse» si riferisce all’osservanza dei comandamenti [1].
L’interpretazione corrente delle nozze di Cana si è adagiata anonimamente sul versante sacramentale perché bisognava giustificare in che modo e in che senso il matrimonio cristiano era ed è sacramento. Quale risposta migliore delle nozze di Cana? Vi è lo sposalizio, vi è Gesù, vi è la Madonna, vi sono gli apostoli; la Chiesa intera è presente e tutto è pronto: la presenza di Gesù diventa la «garanzia» della sacralità del matrimonio.
La Madonna, poi, ha un posto ancora più privilegiato, perché è lei che intercede per il vino che viene a mancare e, come si è soliti dire, con la sua sensibilità di donna e di madre si è preoccupata perché gli sposini non facessero brutta figura. Che abisso! La rivisitazione in chiave cristologica dell’irruzione di Dio nella storia di Israele e dell’umanità, la teofania del Sinai riletta alla luce del Figlio di Dio, Gesù di Nazaret, è ridotta a semplice intervento di buon senso e di galateo perché una sposina assente e uno sposo distratto non facciano brutta figura. Veramente siamo colpevoli della scristianizzazione del nostro popolo. Come possiamo pretendere che il mondo creda se noi annunciamo un messaggio evangelico che il vangelo non ha?

Una simbologia corretta
Nel contesto messianico dell’alleanza, abbiamo scoperto che nulla è fuori posto o superfluo: la madre, i servi e le giare, oltre il loro senso immediato e ovvio, diventano simbolo dell’antica alleanza e rappresentanti del popolo d’Israele e dell’umanità, invitati a guardare a Gesù come Messia e salvatore. «È lui lo sposo! Corretegli in-contro!» (cf Mt 25, 6). Anche l’assenza della sposa e la presenza puramente coreografica dello sposo sono simbolo non già del matrimonio cristiano (e come potrebbero esserlo?), estraneo alla preoccupazione dell’evangelista, ma dello stato di Gerusalemme divenuta «come una vedova fra le nazioni», in cui «nessuno si reca più alle sue feste» perché «dalla figlia di Sion è scomparso ogni splendore» (Lam 1, 1.4.6).
La Madre, in rappresentanza dell’umanità-vedova, e il Figlio, nella sua veste nuziale di Sposo, garantiscono che è già giunto a noi «il principio dei segni» (Gv 1, 11), il tempo della «alleanza nuova», preconizzata dal profeta (Ger 31, 31). In altre parole, ora possiamo cominciare a vedere il volto di Dio, rivelato nell’uomo Gesù, che risplenderà nell’ora della morte, morte che a sua volta esprimerà l’ora della gloria: il mistero pasquale, «principio e fondamento» della vita credente, della fede accolta e della nuzialità che siamo chiamati a testimoniare nel mondo dove viviamo. Poiché le nostre forze non sono in grado da sole di comprendere e accogliere questo mistero, «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8, 26), sostenendoci nella ricerca, nello studio e nell’adorazione.

La ricerca esegetica e lo sviluppo del magistero
Aristide Serra, esegeta dell’ordine dei Servi di Maria, ha dedicato tutta la sua vita di studioso alla figura di Maria nella Scrittura e ha approfondito il brano delle nozze di Cana sotto ogni aspetto, tanto nella tradizione biblica cristiana, quanto in quella giudaica, aprendo prospettive inesplorate e straordinarie [2]. Seguendo la sua ricerca e prima di passare all’esegesi, parola per parola, vogliamo anticipare, anzi, desideriamo puntualizzare la matrice giudaica del racconto perché, quando lo commenteremo, possiamo gustarlo con grandi respiri e soddisfazione.
Facciamo anche riferimento ad un altro testo magisteriale, che riteniamo essere fondamentale. Nel 2001, la Pontificia commissione biblica, allora presieduta dal card. Joseph Ratzinger in qualità di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, pubblicò un documento, «Il popolo Ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana» [3], della cui dirompenza solo gli specialisti si resero conto. Il documento, che è una mirabile sintesi degli ultimi quattro secoli di studi biblici, dedica un capitolo intero ai «Metodi esegetici giudaici usati nel Nuovo Testamento» (pp. 34-45), rendendo così ufficiale l’approccio alla Scrittura che noi sosteniamo da queste pagine ormai da diversi anni. Dopo la costituzione conciliare sulla Parola di Dio «Dei Verbum» del 1965 questo documento ufficiale della Chiesa è il secondo pilastro che non può essere disatteso da chi è responsabile della predicazione, della catechesi e della celebrazione eucaristica e/o sacramentale.

Dal Sinai a Cana e da Cana al Sinai
Abbiamo a più riprese accennato che il racconto delle nozze di Cana è un midràsh cristiano dell’evento del Sinai e, quindi, una spiegazione dell’Esodo alla luce della novità che è Cristo. Ne esaminiamo alcuni aspetti in modo organico, considerando ancora il racconto nel suo insieme. Questo metodo di prendere e lasciare, anticipare e sottolineare potrebbe disturbare chi è addentro alle questioni bibliche e che vorrebbe andare subito al sodo dell’esegesi, ma è necessario per coloro che sentono questo discorso per la prima volta. Bisogna procedere per gradi e salire la scala gradino dopo gradino, anche per abituare la ragione e il cuore ad assaporare, gustare senza ingolfarsi. È il metodo del «ruminare» la Parola affinché diventi sangue e vita.
Una rilettura giudaica dello sposalizio di Cana non è agevole per i nostri lettori che non sono abituati a considerare l’ebraicità di Gesù come condizione essenziale per comprendere lui come persona e per capire il senso autentico del suo messaggio. Per questo motivo dobbiamo essere molto schematici e chiari, a costo di essere ripetitivi. È meglio ripetere più volte lo stesso pensiero piuttosto che esprimerlo una sola volta malamente e in modo oscuro. Per capire il nesso stretto che c’è tra il racconto di Cana e la letteratura giudaica, è necessario fare un confronto tra ciò che accadde a Cana e ciò che accadde al Sinai, sottolineando fatti, idee e testi che aiutino a cogliere il legame stretto che c’è tra di essi. Il confronto tra Primo e Nuovo Patto passa attraverso il confronto Cana – Sinai, all’interno del quale troviamo diversi temi: il «terzo giorno» (che abbiamo già anticipato nelle puntate precedenti); le parole che la madre dice ai «diaconi»; il simbolismo del vino e l’allusione alla scala di Giacobbe (Gv 1, 51) che precede immediatamente il racconto delle nozze di Cana. Questi temi devono essere letti nel contesto della Bibbia, poi in quello della tradizione giudaica e infine nel contesto del vangelo che, a sua volta, vive e si sviluppa «dentro» una Chiesa che lo accoglie e lo consegna ai posteri.
(continua – 8)

Paolo Farinella

Note
1. Cf Urbach 627-628; 950, nota 402
2. Ci ispiriamo pertanto alla sua opera, che è una pietra miliare nella storia dell’esegesi, specialmente il poderoso Contributi dell’antica letteratura giudaica per l’esegesi di Gv 2,1-12 e 19,25-27, Edizioni Herder, Roma 1977, pp. 494.
3. Il popolo di Dio e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, pp. 218.

Paolo Farinella




Cana (7) OTTO PERSONAGGI IN CERCA DI SIMBOLI

Il racconto delle nozze di Cana (7)

Nella puntata precedente abbiamo presentato il testo ufficiale del racconto delle nozze di Cana insieme a una nostra traduzione letterale e abbiamo iniziato a riflettere sul tema del «3° giorno», rimasto in sospeso per ragioni di spazio. Riprendiamo il tema perché è una delle chiavi per capire il racconto.

Il «terzo giorno»
Il terzo giorno è un tema che attraversa tutta la Scrittura1. Citiamo solo tre esempi: nel «terzo giorno» Abramo sacrificò Isacco (Gen 22,4), Giona fu salvato dal pesce (Gn 2,1-2) e la regina Ester si presentò ad Assuero per salvare il suo popolo (Est 4,16; 5,1).
Nel 538/9 a.C., con il ritorno dall’esilio concesso da Ciro il Grande, il sacerdote Esdra e il laico Neemia inaugurano il tempio ricostruito «nel terzo giorno» (Esd 6,16): probabilmente a questo testo si riferisce Gesù, quando scaccia i profanatori del tempio e dichiara: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», parlando del tempio del suo corpo (Gv 2,19-21).
Per i profeti del sec. VIII a.C. «il terzo giorno» è giorno di risurrezione (Os 6,2), ma anche di condanna (Am 4,4) perché gli atei, che usano la religione per i loro interessi, trasformano il giorno del Signore in giorno di mercato, credendo di potere comprare Dio con offerte e sacrifici (cf Is 1,15.17).
Nel NT «terzo giorno» è espressione tecnica per indicare la risurrezione di Gesù (Mt 16,21; 17,23; 20,19; 27,19; Lc 9,22; 13,32; 18,33; 24,7,21,46; At 10,40; 1Cor 15,4). Secondo Rashì, acronimo di Rabbi Shlomo Yitzhaqi  (1040-1105), uno dei più famosi commentatori ebrei medievali della Bibbia, il «terzo giorno» coincideva con il primo giorno di Pesàh-Pasqua (cf Rav Shlomo Bekhor, Meghillà di Estèr, Milano 1996, 31, commento a 5,1, nota 1). Tale dato conferma anche la tradizione cristiana, che colloca la risurrezione nel «primo giorno della settimana» che è naturalmente la settimana della pasqua ebraica (cf Gv 21,1.19).
Questi riferimenti sono sufficienti per metterci sull’avviso che quando Gv usa l’espressione «il terzo giorno» per collocare lo sposalizio di Cana, è evidente che non si tratta di un dato «storico-cronologico», ma s’inserisce in una dinamica teologica e in una prospettiva biblica che dà la tonalità a tutto il brano: «il terzo giorno» è il giorno degli interventi di Dio, giorno di rivelazione.

Cana: un «midràsh» cristiano dell’esodo
Affermiamo con convinzione che il racconto di Cana è un «midràsh» cristiano del racconto dell’alleanza che inizia in Egitto e si conclude ai piedi del Sinai (Es 19). L’autore del IV vangelo si trova davanti al ciclo della liberazione dalla schiavitù, che va dai nove «segni», più la decima «piaga», inflitti al faraone, fino alla fuga di Israele dall’Egitto e al dono della Toràh. Di tutto questo ciclo l’evangelista assume due fatti e ad essi si riferisce con il racconto di Cana che diventa così un commento cristiano della storia dell’alleanza. I due fatti sono: il 1° «segno/piaga» che tramuta l’acqua del Nilo in sangue (Es 7,14-25); è evidente l’analogia con l’acqua mutata in vino. Il secondo fatto è la manifestazione di Dio sul Sinai che avviene «al terzo giorno» (Es 19,11), quando, dopo la purificazione d’Israele, avviene la consegna delle tavole di pietra (Es 19,1-25). Per confermare questa lettura ci vengono in aiuto ancora due elementi letterari.
Il primo riguarda il termine «segno» che Giovanni usa per definire quanto accade alle nozze di Cana: «Questo fu il principio dei segni compiuti da Gesù» (Gv 2,11); Giovanni infatti, non parla mai di miracolo, ma di «segno – sēmêion», usando il vocabolario della bibbia greca della Lxx che nel libro dell’esodo (cf Es 7,9; 11,1) descrive i primi nove interventi di Dio contro il faraone come «segni» (ebr.: mophèt; gr.: sēmêion).
Purtroppo le traduzioni superficiali volgarmente traducono con «piaghe» (ebr.: nega’; gr.: plēghê), termine che invece la Lxx usa soltanto per il decimo colpo, cioè la morte dei primogeniti. Il secondo motivo è interno al vangelo stesso: bisogna leggere il testo come è stato pensato dall’autore, che lo costruisce secondo un suo disegno, per dirci qual è l’elemento più importante di tutto il brano.

Dietro uno schema, un progetto
Il racconto delle nozze di Cana ha un andamento circolare, tecnicamente detto «a chiasmo» o «circolare» o a incrocio, perché il primo elemento corrisponde all’ultimo, il secondo al penultimo e via via fino al punto centrale di tutta la narrazione. Ecco lo schema.

A    2,1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di  Galilea e vi era là la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze sia Gesù che i suoi discepoli.
B    3Essendo venuto a mancare il vino, la madre di Gesù dice a lui: «Non hanno vino».
C    4E Gesù le dice: «Che cosa a te e a me, donna? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre dice ai servitori/diaconi: «Fate quello che vi dirà».
D    6Vi erano poi là, collocate (per terra), sei giare di pietra, per la purificazione dei giudei, contenenti ciascuna due o tre barili (=da 80 a 120 litri ciascuna).
C’    7E Gesù dice loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo. 8E dice (=ordina) loro: «Ora cominciate ad attingere e continuate a portare al maestro di tavola». Ed essi cominciarono a portare. 9E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove (venisse), ma lo sapevano i servitori/diaconi che avevano attinto l’acqua, chiama lo sposo
B’    10e gli dice: «Tutti servono per primo il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato il vino buono (lett.: bello) fino ad ora».
A’    11Questo principio dei segni Gesù fece in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui.
Lo schema aveva prevalentemente lo scopo di facilitare l’apprendimento a memoria, ma è indubitabile che al tempo stesso propone una visione non solo letteraria, ma di contenuto. Se si osserva, infatti, la struttura, si vede che tutta la narrazione converge verso il punto «D» che parla delle sei giare «di pietra collocate per terra» pronte per la «purificazione dei giudei» (Gv 2,6). Il riferimento al libro dell’Esodo è esplicito: le giare sono di pietra come le tavole della legge sono di pietra; servono per la purificazione dei pii giudei, come i loro antenati ai piedi del Sinai dovettero purificarsi per due giorni e «al terzo» ricevere la dignità di popolo attraverso la Toràh, scritta sulla pietra. Da una parte il 1° segno che compie Mosè in terra di Egitto è la trasformazione dell’acqua del Nilo in sangue; il 1° «segno» che Gesù compie all’inizio della sua vita pubblica è la trasformazione dell’acqua delle giare per la purificazione nel vino dell’alleanza.  

Con Mosè e con Gesù
Se l’obiettivo dell’autore è di farci riflettere sulla liberazione d’Egitto e il ripristino dell’alleanza, non lo fa per farci fare un ripasso della storia antica, ma vuole guidarci a una interpretazione nuova della rivelazione del Sinai, attraverso una nuova visione e una chiave interpretativa.
Chi legge il racconto deve capire che si trova di fronte a un fatto straordinario di auto-rivelazione di Dio: Gesù è il nuovo Mosè di cui prende l’eredità, dando compimento alla profezia dello stesso Mosè: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me: lui ascolterete… e gli porrò in bocca le mie parole, ed egli dirà loro quanto io gli comanderò» (Dt 18,15-18). Il tempo di Gesù è il tempo del nuovo profeta che riprende la storia da dove l’aveva lasciata Mosè, per portarla al compimento, al traguardo del regno di Dio.
Se confrontiamo le due figure, Mosè e Gesù, vediamo una corrispondenza straordinaria che ci apre ancora di più una grande finestra sul racconto di Cana, letto alla luce di Es 19-24 che descrive la nascita di Israele come popolo perché riceve la coscienza della propria dignità con  il dono della Toràh sul monte Sinai. Tra la figura di Mosè mediatore di alleanza sul monte Sinai e Gesù, la nuova alleanza (cf Ger 31,31), vi sono almeno otto paralleli che sono sorprendenti:
– Es 19, 3.20: Dio convoca (ekàlesen/chiamò) Mosè montagna;
     + Gv 2,2: Gesù è invitato (eklêthē/fu chiamato) alle nozze.
– Es 19,25: Mosè scese (katèbē) dalla montagna (vv. 10.21.24);
     + Gv 2,12: Gesù, dopo le nozze, scese (katèbē) a Cafaao.
– Es 19,10: Mosè ordina al popolo di purificarsi/santificarsi
  (gr.: aghnìzō; ebr.: kadòsh) per due giorni;
     + Gv 2,6: Gesù fa riempire le sei giare di pietra pronte per
      la purificazione (katharismòn).
– Es 19,8: il popolo farà tutto quello che Yhwh ha detto;
    + Gv 2,5: i servi devono fare tutto quanto Gesù dirà loro3.
– Es 19,9: Dio si manifesta nella densità della nube
     + Gv 2,11: Gesù manifestò la sua gloria.
– Es 24,12: al Sinai Dio scrive la Toràh su tavole di pietre
  (cf anche Es 31,18; 34,1.4);
    + Gv 2,6: a Cana vi sono sei giare di pietre giacenti a terra.
– Es 19,9: scopo della rivelazione di Dio è pure credere a Mosè;
    + Gv 2,11: con la rivelazione della gloria di Gesù,
    i discepoli cominciano a credere in lui.
– Es 19,3.7.25: Mosè media tra Dio e il popolo.
     + Gv 2,1.3.5: La madre-Israele, Maria, media il dono della
     Nuova Alleanza: «Stava lì anche la madre di Gesù…
    la madre di Gesù gli dice… disse la madre ai servi/diaconi».

Toràh di pietra e Legge del Paràclito
Da questo confronto di testi, il parallelo che l’autore fa tra Gesù e Mosè è molto evidente e riguarda due prospettive che non sono in opposizione perché l’alleanza antica non è stata ripudiata. L’alleanza di Mosè è rimasta incompiuta; senza compimento, «giace per terra» come le giare e Gesù, il nuovo profeta del regno, è stato mandato «perché si adempisse» la scrittura o la parola dei profeti (Gv 12,38; 17,12; 19,28.36; cf anche Mt 1,22; 2,15.23; 4,14; 12,17; 13,35; 21,4): egli manifesta i «segni» di una nuova èra. Come si vede il parallelo non è solo esteriore, ma sui comportamenti e anche sul vocabolario, come se da parte dell’autore del vangelo vi fosse una ricerca puntuale per usare il linguaggio della bibbia greca che utilizzavano i primi cristiani, la Lxx.
Il successore di Mosè è anche più grande e prima di lui: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17-18); egli, infatti, che è il Lògos, porta non più la Legge scritta sulla pietra, ma la sua presenza stessa come garanzia del «principio dei segni» dei tempi nuovi. La sua umanità è la tavola di carne dove ora è scritta la Toràh dello Spirito, il Paràclito che insegnerà tutto quello che Gesù ha insegnato (Gv 14,26).
Anticipando i tempi, rileviamo che quando giungerà la «sua ora», dal monte Calvario non scenderà più un profeta con due tavole di pietra, ma dal monte della Croce, dove brilla di gloria il fallimento di Dio, scenderà il dono dello Spirito Santo su Maria e il discepolo, novelli Eva e Adam, in rappresentanza della nuova umanità: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).
Le nozze di Cana non possono essere lette come racconto autonomo, perché non hanno senso, ma devono essere proiettate nel contesto dell’«ora» di Gesù: «Donna… non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4); tale contesto ci obbliga a percorrere tutto il cammino di Gesù fino alla fine: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo» (Gv 17,1). Le nozze di Cana sono il «segno» che anticipano «l’ora di Dio»: la morte e la risurrezione. Sono solo un segnale stradale che indicano la direzione di marcia verso «l’ora della gloria», quando tutto si compirà: l’alleanza nella morte e nella risurrezione di Gesù.

Otto invitati eccellenti alle nozze
Dopo tutto quello che abbiamo detto sin qui, acquistano un’importanza capitale i personaggi che popolano il racconto, inserito da Gv all’inizio del suo vangelo, non per parlarci di un banale matrimonio, ma della prospettiva della salvezza della storia. Lo sposalizio è solo un accidente, un espediente, una banale occasione per portarci ad altezze più vertiginose e più ardite. All’interno di questa logica e di questo contesto, vediamo allora chi sono i personaggi che Giovanni evoca per noi e quale è la loro importanza.

a) La sposa e la madre/donna
Il primo personaggio vistosamente assente è la sposa che in un matrimonio è il fulcro della festa: tutto ruota intorno a lei, dalle trattative alla festa nuziale. Sappiamo che c’è uno sposalizio, ma lo vediamo solo come coice esteriore, eppure tutta la tradizione biblica descrive l’alleanza come uno sposalizio tra Dio e il suo popolo Israele descritto come una sposa (Is 1,21; 62,5; 62,5; Ger 2,32; 3.1; Ez 16; 23; Os 1-3, ecc.).
L’assenza della sposa è sostituita, e siamo al secondo personaggio, dalla madre/donna che il testo cita come prima invitata in assoluto fin dal primo versetto: «Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù» (Gv 2,1). La presenza della madre è importante sia perché sostituendo la sposa assente annuncia che Israele è orfano e abbandonato, sia perché somiglia più a una vedova che simboleggia in senso profetico Rachele che piange i suoi figli dispersi in Egitto (cf Ger 31,15; Mt 2,18), dove sono senza vino, cioè senza alleanza, senza Dio.

b) Gesù e gli apostoli in cerca dell’«ora»
Il terzo personaggio è Gesù, che appare distratto e disinteressato, perché lui non fa miracoli da giocoliere (cf Lc 23,8-9), ma annuncia la volontà del Padre che vuole tutti gli uomini salvi (1Tm 2,4).
Il quarto personaggio sono gli apostoli, presenti pare solo come ospiti di Gesù, che non intervengono affatto: la loro presenza però è importante come simbolismo di tutti i credenti chiamati a scoprire non il Gesù del miracolistico, ma il Gesù della fede, «cominciando a credere» per scoprirlo lentamente.
Anche noi, cominceremo a credere e ad intraprendere il nuovo cammino verso il monte Sion del regno finale.
Gesù sa che la sua presenza alla festa nuziale ha un valore simbolico: egli è lo sposo che viene per «acquistare» (etimologia di Cana) con la sua vita la sposa Israele: l’«ora» che ancora non è giunta (Gv 2,4) è l’ora della sua morte, cioè del dono del suo amore. Nonostante questa coscienza, egli non precipita le cose, ma segue gli eventi leggendoli nell’ottica di Dio e secondo la sua volontà di liberazione.

c) Il vino dell’alleanza e la cantina del Sinai
Il quinto personaggio è il «vino», che è il segno messianico per eccellenza. Il midràsh ebraico (Cantico Rabbà 2,4) equipara la Toràh, cioè la parola di Dio, al vino e il monte Sinai è descritto come la cantina dove Dio, prima ancora della creazione del mondo, ha conservato il vino-Toràh per la festa delle nozze messianiche: «Il Sinai è la cantina dove fin dalla creazione del mondo è stato tenuto in serbo per Israele il vino delizioso della Toràh: Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai» (Ct R 2,12; cf Nm R 2,3; Pr 9,5).
In Gv 2,10 vi è un accenno a questa cantina, quando il maestro di tavola rimprovera lo sposo di avere conservato il vino eccellente fino ad ora («tu hai conservato il vino buono [=bello] fino ad ora – sý tetêrekas tòn kalòn òinon hèōs àrti»).

d) Le giare di pietra e i cieli del futuro
Il sesto personaggio importante, chiave di volta di tutto il racconto, sono le «giare di pietra», simbolo della durezza e freddezza del cuore d’Israele che ha travisato l’alleanza, allontanandosi da Dio, come afferma il profeta: «Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36,26).
Anche l’apostolo Paolo è sulla stessa linea: il vangelo della nuova alleanza che genera nuovi figli è «scritta non con inchiostro, ma con lo spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani [=di carne] (2Cor 3,3).
Il settimo personaggio sono i servi, che l’autore chiama «diaconi», simbolo di un servizio liturgico nel nuovo tempio dell’umanità di Gesù.
L’ottavo personaggio sono lo sposo e il responsabile della festa, «l’arcitriclìno», che hanno confuso il vecchio col nuovo, andando a nozze e preparando la festa senza accorgersi dei «cieli nuovi e delle terre nuove» (Is 65,17; 66,22; 2Cor 5,17).   (continua – 7)

Di Paolo Farinella

Note
1 – LXX: 27x (cf. Gen 22,4; 34,25; 40,20; 42,18; Es 19,16, Lv 7,18; 19,7; Nm 7,24; 19,12.24; 29,20; 31,19; Gdc 20,30; 1Re 30,1; 2Re 1,2; 3Re 3,18; 12,12.24; 3Re 20,5.8; 2 Cr 10,12; Est 5,1; 1Mac 11,18; Os 6,2 parla espressamente di risurrezione e salvezza) e 2x si trova l’altra forma attributiva, più elegante, con un solo articolo: «tēi tritēi hēmerai» (Gen 31,22; 40,20).
2 – Sulla descrizione fantasiosa, ma suggestiva, di Giona nel ventre del pesce, cf. Meir Gentili – Rav Shlomo Bekhor, Il libro di Giona, Milano 1996, 43 (commento a Gn 2,1 nota 1).
3 – In Es 19,8, il popolo si impegna prima a fare e solo dopo ad ascoltare tutto quanto Yhwh ordinerà (pànta hòsa èipen hò theòs poiêsomen kài akousòmetha) esattamente come in Gv 2,5 dove la madre ordina ai servi di «fare quello che vi dirà (hò àn lèghēi hymîn poiêsate) e i servi eseguono prontamente.
Un altro sottofondo biblico può essere illuminante a riguardo perché si inserisce sempre nel tempo della schiavitù come sottofondo e riferimento: Gen 41,55 quando il faraone invia da Giuseppe il popolo affamato, dicendo loro: «Tutto quanto egli vi dirà fate(lo)». Gesù è il nuovo Giuseppe che pone fine alla carestia ricomponendo la famiglia dispersa di Israele.

Paolo Farinella




Cana (6) A Cana manca la sposa, ma c’è la donna (la «Madre»)

Il racconto delle nozze di Cana (6)

D opo la lunga, eppure incompleta introduzione sul quarto vangelo e alcuni problemi che esso suscita ancora negli studiosi, passiamo al testo del racconto. I nostri lettori comprendono bene che la povera introduzione per quanto possa apparire ampia nel contesto di una rivista come Missioni Consolata, è del tutto insufficiente a delineare la problematica che ruota attorno all’«enigma del quarto vangelo». È appena sufficiente, però, se ci aiuta a capire che mai dobbiamo leggere i vangeli con superficialità, perché essi sono come un iceberg: ciò che vediamo è solo la punta, mentre la massa enorme che la regge, è tutta nascosta sotto l’acqua. Bisogna scendere in profondità se vogliamo scoprire i mille significati che la Parola di Dio porta in sé come una donna incinta pronta a dare la Vita.
Riportiamo il testo delle nozze di Cana (Gv 2,1-11) secondo l’ultima edizione della Bibbia Cei (2008), messa a confronto con una nostra traduzione dal testo greco:

Il testo

Traduzione Cei (2008)
2,1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù.
2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino».
4E Gesù rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora».
5Sua madre disse ai servi: «Fate quello che vi dirà».
6Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei giudei, contenenti ciascuna due o tre barili (= da 80 a 120 litri ciascuna).
7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo.
8Disse loro (di nuovo): «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono.
9E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo
10e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono».
11Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli (lett.: Gesù operò questo principio dei segni) in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Traduzione letterale
2,1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e vi era là la madre di Gesù.
2Fu invitato alle nozze sia Gesù che i suoi discepoli.
3Essendo venuto a mancare il vino, la madre di Gesù dice a lui: «Non hanno vino».
4E Gesù le dice: «Che cosa a te e a me, donna? Non è ancora giunta la mia ora».
5Sua madre dice ai servitori/diaconi: «Fate quello che vi dirà».
6Vi erano poi  là, collocate (per terra), sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili.
7E Gesù dice loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo.
8E dice (= ordinò) loro: «Ora cominciate ad attingere e continuate a portare al maestro di tavola». Ed essi cominciarono a portare.
9E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove (venisse), ma lo sapevano i servitori/diaconi che avevano attinto l’acqua, chiama lo sposo
10e gli dice: «Tutti servono per primo il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato il vino buono (lett.: bello) fino ad ora».
11Questo principio dei segni Gesù fece in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui.
12 Dopo questo fatto, discese a Cafàao lui insieme con sua madre, i (suoi) fratelli e i suoi discepoli e si fermarono là solo non molti giorni.

Una gemma nel NT
In greco il brano si compone di 185 parole nei primi 11 versetti; 209 se si considera il versetto 12 come parte integrante del racconto, passaggio di transizione. Una manciata di parole che formano un capolavoro letterario, ma anche una gemma in tutto il NT: il racconto di Cana infatti è esclusivo di Giovanni. L’autore narra un quasi ordinario della vita di tutti i giorni: anche al tempo di Gesù i matrimoni erano all’ordine del giorno.
Qui però, l’autore riferisce di una festa di nozze non per celebrare il valore del matrimonio, ma per annunciare che la nuova alleanza, portata da Gesù di Nazaret, è una realtà sponsale e realizza la nuzialità descritta nell’AT (Toràh e Profeti) e mai compiuta adeguatamente per l’infedeltà di Israele/sposa (ripudiata con l’esilio).
Al tempo di Gesù, il matrimonio era un evento civile e si svolgeva nelle case con un contratto tra le due famiglie dei nubendi, consacrato dallo scambio della dote. In una società teocratica tutto ciò che accadeva avveniva all’insegna del senso religioso della vita e della società. La presenza di Gesù alle nozze di Cana non santifica alcun matrimonio, ma assume su di sé la dimensione sponsale della storia di Israele e dell’alleanza per annunciarla con maggiore forza e trasparenza.
Giovanni Battista lo aveva già indicato come «colui che viene dopo di me» (Gv 1,15.27.30) che nel linguaggio del tempo indica «lo sposo» il cui arrivo è preceduto dall’amico dello sposo (cf Gv 3,39). Gesù viene per rinnovare l’alleanza a lungo tradita e realizzare l’anelito del profeta Geremia: «Ecco verranno giorni… nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova (ebr.: berît chadashàh; gr.: diathêkēn kainên») (Ger 31,31). Ora nella persona di Gesù, è Dio stesso che assume in sé il progetto della nuzialità e se ne fa garante nell’umanità del Figlio come prospettiva del Regno.

Un fatto, anzi di più: un simbolo
Come si vede dalla traduzione letterale, il racconto abbonda in greco di verbi al presente indicativo, chiamato «presente storico», invece del «passato remoto», tipico della narrazione storica, per dare al racconto vivacità e contemporaneità agli occhi di chi legge. In questo metodo il lettore si sente portato di peso «dentro» il racconto e ne diventa parte integrante. L’edizione della Cei traduce, di regola, con il passato remoto, rendendo così il testo neutro davanti al lettore. Nel brano vi è un continuo passaggio  tra gli 8 verbi al «passato remoto» (in greco chiamato «tempo aoristo») e i 7 verbi che invece sono al «presente indicativo» (chiamato «presente storico» proprio perché prende il posto del «passato remoto/aoristo»). In mezzo vi sono altri verbi secondari (ad es. l’imperfetto) che hanno una funzione di sfondo per chiarire le circostanze e aggiungere elementi di contorno.
Interessante, da questo punto di vista il v. 8 dove secondo la versione ufficiale Gesù ordina ai servitori/diaconi: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola. Ed essi gliene portarono». Detto così nessun problema perché è la relazione di una cronaca. Eppure nel testo greco l’autore ragiona in un altro modo attraverso l’uso sapiente dei verbi che possono essere tradotti così: «E dice loro: “Ora cominciate ad attingere e continuate a portare al maestro di tavola”. Ed essi cominciarono a portare».
Nella nostra traduzione mettiamo in evidenza l’intenzione dell’autore che usa un tempo (per noi è il passato remoto, per i greci è l’aoristo) che ha qui un valore «ingressivo», perché descrive un’azione nel suo nascere, nella fase iniziale: «cominciate ad attingere», mentre l’imperativo seguente ha un valore «durativo e continuativo», senza interruzione: «continuate a portare» perché il vino della nuova alleanza non si esaurirà più.
Possono sembrare osservazioni di lana caprina, ma non lo sono: si tratta del «senso della Parola di Dio». Una cosa è «attingete e portatene» e un’altra cosa è «cominciate ad attingere e continuate a portare». A noi pare che in questo modo l’autore voglia sottolineare una pregnanza teologica di altissimo livello: le nuove nozze dell’alleanza, che si realizzano con la presenza di Gesù, cominciano ora (cominciate ad attingere) e non finiranno mai (continuate a portare): inizia una nuova èra che non avrà mai fine.
Sullo stesso piano sta un’altra osservazione: per 6 volte si trova il verbo «dice», al presente, come se le parole di Gesù, i suoi gesti e gli eventi che lo circondano fossero qui davanti a noi che leggiamo: egli parla e agisce «adesso» [= dice], non ieri o l’altro ieri [= disse].
Oltre le apparenze, il livello profondo
Non si tratta solo di un espediente narrativo per rendere più partecipe il racconto, ma noi vogliamo credere che si voglia affermare anche l’attualità della Parola di Dio che resta «presente in modo continuativo» nella nostra storia e nella nostra vita. La Parola di Dio non è un resoconto storico del passato, ma la Vita che è qui, adesso.
Le nozze di Cana non sono un racconto banale chiuso nel passato della vita terrena di Gesù, ma l’occasione propizia (kairòs) qui e adesso per chiunque si lascia interpellare dall’annuncio della nuova alleanza che non è per l’Israele antico, ma è per l’Israele di oggi e di domani che siamo noi. Dio in Gesù si fa nostro contemporaneo e quelle parole dette oltre due mila anni fa, ora, adesso e qui, diventano Parola di salvezza per ciascuno di noi. Ora Gesù «dice»; ora noi ascoltiamo ciò che egli «dice».
Diamo subito alcune informazioni di contorno che ci permettono di semplificare il commento che faremo.
Nel racconto delle nozze di Cana ci troviamo di fronte a due livelli di lettura: quello materiale e quello più profondo che dobbiamo scoprire oltre le parole ovvie. Il primo livello è presto liquidato, perché si tratta di uno sposalizio come tanti, a cui viene invitato Gesù, i suoi discepoli e sua madre. Il testo non dice il motivo di questo invito: se fu per ragioni di parentela o perché la fama del giovane rabbi Gesù era ormai diffusa e la sua presenza avrebbe dato onore e lustro ai partecipanti e a tutto il villaggio.
Al tempo di Gesù il matrimonio si svolgeva sempre di martedì, perché, secondo la Mishnàh (Kethuboth 1; per la datazione e interpretazioni, cf Brown, Giovanni, vol 1,125-126), il matrimonio deve essere celebrato «il terzo giorno» dopo il sabato, per tre motivi, dei quali diamo alcune informazioni estee; nella prossima puntata affronteremo in modo dettagliato la questione del «terzo giorno».

Tre motivi per «il terzo giorno»
I primi due motivi per la scelta del «martedì» come giorno del matrimonio sono di natura teologico-salvifica, mentre il terzo, di origine post-esilica, ha solo una valenza pratica legata alle usanze del tempo di Gesù.

a) La doppia fecondità del terzo giorno della creazione
Nel racconto della creazione, redatto dal circolo dei sacerdoti nel sec. V a.C., dopo la luce, creata nel 1° giorno (Gen 1,3-5) e il firmamento, disteso nel 2° giorno (Gen 1,6-8), nel 3° giorno Dio pone mano a due nuove realtà: terra ferma e germogli che producono semi e alberi da frutto (Gen 1, 9-13). In questo 3° giorno, fatto unico in tutto il racconto, per due volte dice il testo che «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1.10.12). Questa affermazione non è solo una constatazione, ma anche un giudizio di valore: si tratta di due approvazioni da parte di Dio.
In altri termini le due affermazioni corrispondono a due benedizioni: alla terra madre creata e ai germogli che la fecondano. La tradizione giudaica stabilì quindi il matrimonio al terzo giorno dopo il sabato per affermare che il matrimonio è sotto la protezione della duplice benedizione di Dio creatore che custodisce la sposa come «vite feconda» (Sal 128/127,3). Il giorno della doppia fecondità della creazione, è il giorno più adatto per celebrare la fecondità dei figli d’Israele.

b) La Toràh è pronta per il terzo giorno
Il secondo motivo per celebrare il matrimonio il terzo giorno sta nel fatto di commemorare la manifestazione del Signore ai figli d’Israele sul Sinai per dare loro la Legge, come è scritto: «Va’ dal popolo e santificalo oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo» (Es 19,10-11.16).
Ai piedi del Sinai, nel terzo giorno Yhwh si è comportato come uno sposo, perché ha acquistato il popolo d’Israele (Es 15,16) come sua sposa, legandosi irreversibilmente attraverso la dote della Toràh. Celebrare il matrimonio il terzo giorno dopo il sabato per Israele ha il significato di «imitare Dio» perché tutti i figli di Israele acquistano una sposa per una discendenza alla promessa di Abramo (cf Manns, Il Giudaismo 85; Jésus 72).
Non è un caso che le nozze sono collocate in un villaggio di nome «Cana», della cui identificazione geografica abbiamo già parlato, trattando della localizzazione del villaggio: Khirbet Qana (Altura di Qana), località probabile, oppure Kefer Kenna (villaggio di Kenna), dove attualmente vanno i pellegrini (cf MC 3/2009). Qui c’interessa sottolineare che in ebraico «Cana/Qana/Kana» deriva dal verbo «qanàh» e significa «acquistare/comprare/creare». Già nel nome del villaggio c’è il segreto del messaggio che Paolo espliciterà in modo formale nella lettera ai Corinzi: «Siete stati comprati a caro prezzo» (1Cor 6,20; 7,23). Gesù viene per prendere possesso d’Israele proprietà di Dio, popolo che egli ha acquistato (Es 15,16).

c) La verifica della verginità in tribunale
La scelta del martedì (3°giorno dopo il sabato) come giorno del matrimonio era determinato da un altro motivo di ordine pratico. Il tribunale infatti si riuniva il giorno dopo, cioè il mercoledì, per cui era possibile accedervi subito dopo la prima notte di nozze, in caso che la sposa non fosse stata trovata vergine (cf. Manns, Il Giudaismo 85).
La prima notte di nozze era sempre sotto i riflettori delle due famiglie interessate che erano in agguato di mostrare in pubblico «i segni» della verginità della sposa. Di norma si esponevano in pubblico le lenzuola macchiate di sangue. In caso di contestazione il matrimonio doveva essere subito sciolto e per questo occorreva la possibilità di accedere al tribunale rabbinico, l’unico che poteva dichiarare invalide le nozze. Questa usanza ai nostri occhi è di natura barbara e violenta perché considera la donna come una proprietà «materiale» dell’uomo.
Il riscatto delle donne, apostole degli apostoli
La religione ha molte responsabilità nell’avere indotto una mentalità maschilista che ha sempre visto nella donna il pericolo, il male se non il diavolo in persona; salvo però servirsi della donna a piacimento per i propri ca-pricci e in funzione dei propri istinti. Se da una parte la scelta del «terzo giorno» per celebrare il matrimonio ha un valore simbolico altissimo, perché rappresenta sulla terra l’azione creatrice di Dio che si conclude con «due benedizioni» e afferma quindi la fecondità infinita dell’alleanza, dall’altra parte scegliere il terzo giorno in vista di potere accedere al tribunale, riduce il matrimonio a un rapporto di forza, un contratto mercantile: è la donna che deve dimostrare di essere «vergine», non l’uomo che invece può frequentare le prostitute senza dovere rendere conto a nessuno (cf Gen 38,14-18; Gdc 16,1).
Nella mentalità religiosa del tempo, la donna è colpevole per avere sedotto l’uomo fin dai tempi primordiali e questo la rende inferiore, non-persona, senza diritti, incapace giuridicamente di testimoniare in tribunale: essa è mera proprietà dell’uomo come stabilisce il comandamento: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17).
Gesù romperà questa perversa mentalità e affermerà il diritto della donna di essere «figlia di Abramo» sullo stesso piano degli uomini (Lc 13,16). Alle donne, anzi, affiderà il primo annuncio della sua risurrezione, trasformandole in apostole degli apostoli e testimoni necessarie della sua risurrezione (cf Gv 20,1-18). Nelle nozze di Cana, come vedremo, una dei protagonisti è una donna, «la Madre», che determina gli sviluppi degli eventi e svolge un ruolo significativo di rappresentanza.
Come è strano questo matrimonio! Manca la sposa che non è nemmeno nominata e domina «la Madre» di Gesù, donna che assume su di sé le attese e i travagli del suo popolo Israele per accompagnarlo a varcare la soglia della nuova alleanza. È interessante sottolineare, come faremo a suo tempo, che l’evangelista mette sullo stesso piano «la Madre di Gesù» (v. 1) e le «giare di pietra» (v. 6).
Per tutte e due si usa il tempo imperfetto del verbo essere, tempo secondario che spiega le circostanze di contorno, e per tutte e due usa l’avverbio di luogo «ekèi – là». La corrispondenza non è casuale né occasionale: «Vi era là la madre di Gesù», che corrisponde a «vi erano poi là, sei giare di pietra» e che simboleggiano tutta l’economia dell’antica alleanza; Maria in rappresentanza del suo popolo e le giare per la purificazione dei giudei in rappresentanza della Toràh.
La prospettiva dunque dell’evangelista non si esaurisce nell’angusto confine di uno sposalizio, ma valica i confini di Cana per stagliarsi su tutta la storia della salvezza, specie dell’esodo, di cui il racconto delle nozze di Cana è una ripresa nella forma di un midràsh cristiano. Di questo parleremo la prossima volta.  

di Paolo Farinella

(continua – 6)

Paolo Farinella




Cana (5) Un vangelo, moltissime prospettive: dall’ora alla gloria

Il racconto delle nozze di Cana (5)

Facciamo ancora un passo avanti per raggiungere l’obiettivo che ci siamo dati con la rubrica della nostra rivista «Così sta scritto», e cioè aiutare i lettori a vincere l’approccio superficiale alla Bibbia con un’attenzione più rispettosa del testo che per noi è Parola di Dio.
Ogni volta che prendiamo in mano la Bibbia dobbiamo avere lo stesso atteggiamento e la stessa sensazione che ebbe Mosè quando vide il roveto di fuoco e scoprì di trovarsi davanti a Dio: si tolse i calzari, abbassò la testa fino a terra e stette in adorazione (Es 3,1-6). Noi invece siamo stati abituati a leggere la Bibbia come un libro di racconti edificanti o come un codice etico, da cui prendere quello che serve all’occasione, perdendo di vista la visione globale del disegno di Dio che la Bibbia descrive: un progetto di alleanza inserito nella storia dell’umanità.
Ne deriva che la Bibbia è una prospettiva di vita e bisogna impararla frequentandola assiduamente e mettendo in connessione tra loro fatti, eventi e parole per potee cogliere la portata unitaria. Nessun fatto narrato nel vangelo o in qualsiasi altra parte della Bibbia può essere preso da solo e staccato dal suo contesto naturale, perché significa sfalsae il senso: vale per le nozze di Cana, le parabole o i miracoli.

In ginocchio davanti al trono della Gloria
Alla luce di quanto appena detto, foiamo di seguito una visione d’insieme dello schema di tutto il vangelo di Giovanni, che ci serve anche come consultazione quando vogliamo leggee un brano o un passo: vedere dove è collocato, quale posto occupa all’interno del progetto dell’autore. In questo modo capiremo meglio e più profondamente. Forse all’inizio ci costerà un po’ di fatica, ma siamo sicuri che i lettori conoscono il proverbio «non c’è rosa senza spine».
Sul IV vangelo sono state fatte molte proposte di divisione e di strutture, segno della complessità e forse anche dell’irriducibilità del testo: possiamo sfiorarlo, ma non possederlo, possiamo intuirlo, ma non dominarlo perché la Parola di Dio è, sì, scritta con parole dell’uomo che usa le regole delle grammatiche delle lingue umane, ma è anche la Parola di Dio che emerge dal limite in tutto il suo splendore superandoci in sovrabbondanza.
Gli stessi disaccordi tra gli studiosi non sono alternativi, ma angolature diverse, di cui ognuno coglie un aspetto che non necessariamente nega gli altri, ma semmai si integra con essi che espongono altri punti di vista. Di fronte alla Parola di Dio bisogna essere «umili» e bisogna stare anche «in ginocchio» perché essa è il trono della gloria del Lògos che diventa fragilità per mettersi al nostro livello: «E il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14).

a)  Cana punto di arrivo e punto di partenza
Tra tutte le proposte di divisione del vangelo di Gv, ci sembra più interessante quella dello studioso Frédéric Manns (cf bibliografia della 1a puntata: L’Évangile 12-17), specialista del vangelo di Gv e di letteratura giudaica che insegna a Gerusalemme allo Studium Biblicum Franciscanum. La particolarità della sua proposta (e di tutta la sua impostazione esegetica) sta nel fatto che egli, più di ogni altro, mette in rapporto il IV vangelo con la letteratura giudaica e i testi di Qumran, con l’obiettivo espresso di ricercare il sottofondo originario della predicazione di Gesù e della presentazione che ne fa l’autore del vangelo.
È vero: poiché noi non conosciamo il giudaismo, non capiamo il 90% del significato del vangelo. Lo schema sintetico del IV vangelo, suggerito da Frédéric Manns, che riportiamo sotto, ci aiuta a rilevare subito che il racconto delle nozze di Cana non è un masso erratico, ma è inserito dentro una visione teologica che ha come epicentro geografico la cittadina di Cana dove Gesù compie «due segni»: uno rivolto ai Giudei con le nozze di Cana (Gv 4,1-12) e l’altro rivolto ai Pagani con la guarigione del figlio del funzionario regio (Gv 4,43-51).

b) Da Cana a Cana: due rivelazioni di una sola Gloria
A Cana quindi avvengono due rivelazioni che riguardano il mondo intero: i giudei e i pagani, i credenti e i non credenti, il mondo biblico e il mondo estraneo alla Bibbia. Questi due segni sottolineano già nel loro stesso annuncio, l’universalità del messaggio di Gesù che l’evangelista mette in evidenza, perché la rivelazione del monte Sion fu riservata al solo popolo ebraico, mentre ora, nell’èra messianica, Dio parla al mondo intero, senza più distinzione di popolo, lingue, tribù e nazioni (cf Ap 7,9). Troviamo pertanto qui un primo velato accenno all’alleanza del monte Sinai che svilupperemo più avanti perché intimamente connesso con il racconto delle nozze di Cana.
I due segni di Cana (nozze e guarigione) sono in relazione tra loro e non solo perché avvengono nello stesso luogo, ma perché è lo stesso autore che li collega anche dal punto di vista letterario. Infatti se guardiamo lo schema, nella sezione «2,1-4,59: I primi due segni ovvero da Cana a Cana», vediamo subito un procedimento circolare o come si suole dire a «chiasmo», cioè a incrocio, dove al 1° punto corrisponde l’ultimo, al 2° il penultimo, al 3° il terzultimo e via di seguito fino a un incrocio che costituisce la parte centrale comune.

Da Cana al monte Sinai
Il punto centrale della sezione che comprende i «due segni di Cana» è un duplice dialogo: il primo quello con Nicodemo riguarda la nuova nascita nello Spirito, mentre il secondo comprende quello di Giovanni Battista con i discepoli sulla identità del Cristo, quasi a dire che per conoscere il Cristo e incontrarlo è necessario «rinascere dallo Spirito Santo». Non basta fare una passeggiata per andare a trovare Gesù, bisogna stare dalla parte dello Spirito, cioè dall’alto, per potere diventare discepoli del messia (cf Gv 3,3).
I due segni di Cana sono una forma di preparazione perché pongono le condizioni per accedere alla nuova rivelazione. Sul monte Sinai Dio rivelò il suo «Nome, Yhwh» e lo affidò a Israele perché lo custodisse e lo testimoniasse nel mondo. A Cana Gesù manifesta la sua gloria, rivelandosi a Israele e a tutte le genti, per riproporre all’umanità il disegno originario della creazione: una sola famiglia, un solo popolo, un solo Dio creatore.
Il racconto delle nozze, cioè il 1° segno di Cana, è dunque il punto di partenza di questo nuovo processo di rinnovamento della creazione intera, mentre la guarigione dalla morte del figlio del funzionario pagano, cioè il 2° segno di Cana, è il punto di arrivo: nelle nozze di Cana si riprende il tema del Monte Sinai, che fonda l’identità attraverso la Legge (le regole), mentre nel segno della guarigione, troviamo il germe della nuova creazione e della nuova vita che risorge, nonostante Adamo: se il peccato di Adam consistette nel rifiutare di somigliare al Lògos, cioè al Figlio, ora il Figlio, il nuovo Adam, accetta di riflettere in sé il volto del Padre e di essergli obbediente, anche fino alla morte, anche oltre la morte (cf Fil 2,8-11).
Di seguito lo schema generale del vangelo di Giovanni, proposto da Frédéric Manns in una nostra traduzione dal francese e con qualche modifica da noi apportata:

Struttura del Vangelo di Giovanni
1,1-51: Introduzione:
1,1-18: prologo
1,19-51: vocazione dei discepoli
2,1-4,59: I due primi segni ovvero da Cana a Cana:
a) 2,11-12: 1° segno: manifestazione della gloria ai Giudei a Cana
  b) 2,13-25: il segno del tempio e l’annuncio del nuovo tempio
   c) 3,1-21: dialogo con Nicodemo: rinascita dall’acqua e dallo Spirito
   c’) 3,22-36: dialogo di Giovanni Battista con i suoi discepoli
  b’) 4,1-42: dialogo con la Samaritana sul nuovo culto
 a’) 4,43-51: 2° segno: manifestazione della gloria ai pagani a Cana
5,1-6,71: Due segni ovvero da Gerusalemme a Cafaao:
5,1-15: guarigione del paralitico
5,16-47: discorsi
6,1-15: moltiplicazione dei pani
6,16-25: transizione
6,26-71: discorso sul pane di vita
7,1-10,42: Dalla festa delle Tende alla festa della Dedicazione:
7,1-53; 8,12-59: festa delle Tende [8,1-11: adultera: aggiunta]
9,1-41: guarigione del cieco nato
10,1-21: Gesù bel pastore e porta delle pecore
10,22-42: l’identità del Cristo
11,1-12,50: Da Betania a Gerusalemme:
11,1-57: resurrezione di Lazzaro
12,1-11: unzione di Betania
12,12-18: ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme
12,20-36: Annuncio della glorificazione attraverso la morte
12,37-50: Conclusione
13,1-17,26: Discorsi di addio:
a) 13,1-38: lavanda dei piedi
  b) 14,1-31: primo discorso di addio
   c) 15,1-17: la vite e i tralci
   c’) 15,18-16, 4: persecuzione dei discepoli
  b’) 16,5-33: secondo discorso di addio
a’) 17,1-26: preghiera di Gesù
18,1-20,29: Passione e risurrezione:
a) 18,1-14: arresto al giardino
  b) 18, 28-19,16b: processo davanti a Pilato
a’) 19, 16c-42: morte e sepoltura di Gesù
  c) 20,1-18: Pietro e il discepolo al sepolcro. Apparizione a Maria
  c’) 20,19-29: Apparizioni ai discepoli e a Tommaso
20,30-31: Conclusione
21,1-25: Appendice

La Gloria ricama tutto il vangelo di Giovanni
Questo schema ha il pregio di tenere presente non un solo metodo di lettura, ma di integrare metodologie diverse: lo schema geografico (da Cana a Cana; da Gerusalemme a Cafaao; da Betania a Gerusalemme) s’inserisce in quello liturgico (festa delle Tende e festa della Dedicazione) e questo, a sua volta, in quello tematico (segni, tema della gloria, discorsi di addio, passione, ecc.) e tutti all’interno di un progetto di fondo dell’evangelista, che ruota attorno al termine «gloria» e a quello dell’«ora», due parole che ricorrono da cima a fondo come due tessiture che tengono in piedi tutto l’ordito del vangelo con la loro ricorrenza che potremmo definire «ostinata».
Gv vuole costringere il lettore a prendere coscienza di queste due parole: «gloria» che in greco si dice «dòxa» e «ora» che in greco si dice «hôra». Di ciascuna diamo una breve e sintetica descrizione.

a) Ogni pagina trasuda gloria
La parola «gloria – dòxa» si trova in Gv 1,14 (2 volte), nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,11), a metà del vangelo (Gv 12,41) e alla fine (Gv 17,1.5.22.24), formando così una inclusione, cioè un termine non casuale, ma volutamente immesso (incluso) nel testo per racchiudere tutto ciò che c’è in mezzo e poterlo leggere alla luce del significato di questo termine. Non si può capire il vangelo e tanto meno il racconto delle nozze di Cana se non comprendiamo bene quale sia il significato della parola «gloria – dòxa» che diventa così una chiave d’interpretazione di tutto il vangelo e non solo delle nozze di Cana.
Lo stesso termine infatti, oltre alle 8 volte sopra citate, si trova nel IV vangelo altre 15 volte, costituendo così un mosaico che racchiude tutto il vangelo (Gv 5,41.44 [2x]; 7,18; 8,50; 9,24; 11,4.31.40; 12,23.28.43; 13,32; 16,14; 21,19) per un totale di 23 volte. Si potrebbe dire che non c’è pagina del vangelo di Gv che non riporti la parola «gloria» oppure un verbo che indica l’azione gloriosa del «manifestarsi» (phaneròō: 1,31; 3,21; 9,3; 21,1). È questo che intendiamo dire con  l’espressione «parola ostinata», cioè martellante, ricorrente: una parola senza della quale l’intero disegno del vangelo si perde e si smarrisce.

b) Il peso della Gloria
La parola «gloria – dòxa» traduce il termine ebraico «kabòd» che gli ebrei del tempo di Gesù utilizzavano come sostituto del Nome di Dio «Yhwh», Nome che nessuno poteva pronunciare. Essa è dunque un sinonimo di «Signore», usato nella preghiera e nelle conversazioni, ma c’è dell’altro.
In ebraico la parola «kabòd» deriva dalla radice «k_b_d», che contiene in sé il senso di «peso», per cui una cosa gloriosa è una realtà pesante, in quanto cioè è consistente; «la gloria» infatti esprime il valore e la consistenza esistenziale e sociale di una realtà, di una persona, di una funzione. L’uomo orientale ama «il grasso» perché indica più peso e quindi più consistenza, cioè maggiore autorità, significato, importanza. Dio è «glorioso» perché è l’essere più «pesante» che esista, in quanto è la pienezza stessa dell’esistenza: è il Creatore.
La «Gloria» riferita a Dio non è qualcosa di astratto o di pomposamente rituale, ma indica il «Nome» stesso di Dio, cioè la sua natura e la sua vita, che è solida, consistente, piena. «Dare gloria a Dio» significa riconoscee la «signoria» e la maestà e riconoscersi suoi figli ubbidienti.

c) L’ora della gloria
L’altra parola che abbiamo è «hôra – ora», nel senso di «momento» e quindi riguarda il tempo, che nella Bibbia ha sempre due valenze: una riguarda l’aspetto ordinario ed è la successione degli eventi come capitano e che in genere ognuno di noi subisce (il giorno, la notte, ieri, oggi, ecc.) e che nella Bibbia si chiama «chrònos – tempo»;  l’altra riguarda la «qualità» del tempo, perché mentre scorre porta qualcosa di nuovo e di coinvolgente. Questo secondo aspetto è chiamato da Paolo «kairòs – occasione favorevole» (cf Rm 5,6; 8,18; 9,9; 13,11;Gal 6,10, ecc.). È il tempo che è testimone della conversione; è il tempo in cui si svela lo Spirito come azione di amore; ecc.
Il 1° tempo, il «chrònos», è segnato dal sole, dalla meridiana, dalla clessidra e oggi dall’orologio; mentre il 2° tempo, il «kairòs», è segnato dall’anima che vive gli eventi e di cui si rende conto: è la presenza di sé all’evento di cui si coglie la portata, la qualità e la novità.
Giovanni con il termine «ora» si riferisce a questo secondo aspetto, davanti al quale anche Sant’Agostino s’interroga a modo suo e, in modo magistrale, dà anche la sua risposta: «Che cosa dunque è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più» (Le Confessioni, XI,XIV,2).
È veramente così, noi viviamo esperienze interiori che possiamo contemplare dentro di noi, ma non possiamo spiegare agli altri, perché ogni tentativo di spiegazione potrebbe banalizzarle.
L’«ora» di Gesù, che nelle nozze di Cana «non è ancora giunta» (Gv 2,4), è il tempo della rivelazione nuova, il tempo che svela la luce e per contrasto le tenebre (cf Gv 1,4.5.8.9), l’occasione favorevole per fare una scelta di fondo: «Chi crede in lui non è condannato; chi non crede in lui è già stato condannato» (Gv 3,18.36). L’«ora in-compiuta» delle nozze di Cana giunge a compimento, a maturazione nel momento della morte: «Padre è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te» (Gv 17,1).
In poche parole l’autore unisce l’ora (il tempo) e la gloria (il peso consistente della rivelazione). Per Gv, l’ora della morte è l’occasione, il «kairòs» di una duplice «gloria»: del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre. L’uno e l’altro rivelano la propria consistenza di vita: il Figlio nella risurrezione vissuta come obbedienza al Padre e il Padre perché nel Figlio rivela la nuova Toràh che è lo Spirito Santo, cioè la sua stessa vita, perché nel momento in cui il Figlio muore come uomo, vive da risorto e in tutti coloro che accettano il dono del suo Spirito di risorto: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).    (continua-5)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella