(Cana 36) «A mezzanotte si alzò un grido: Ecco lo sposo!» (Mt 25,6)

«A mezzanotte si alzòun grido: Ecco lo sposo!» (Mt 25,6)


«La nuova Gerusalemme… pronta come una sposa»   (Ap 19,7 e 21,25)


Gv 2,9d-10: «L’architriclìno… chiama lo sposo 10e gli
dice: “Chiunque all’inizio/dapprima offre il vino ‘bello’/eccellente e quando
[tutti] sono ubriachi, quello scadente; tu, [invece] hai voluto conservare il
vino ‘bello’/eccellente fino ad ora”».

Siamo alle battute finali del racconto delle nozze di Cana,
che ci ha svelato una prospettiva nuova, proiettata verso il contesto della
storia già accaduta, ma che deve ancora avvenire in maniera compiuta. Giunti
alla fine prendiamo atto che, come abbiamo detto più volte, non vi è cenno alla
sposa che è la grande assente del racconto. Ma la sua assenza è ingombrante,
perché parla più ancora che se fosse presente: la finalità del racconto, nell’ottica
dell’autore, non è la cronaca di un matrimonio o la santificazione anticipata
dello sposalizio cristiano, come se Gesù stesse istituendo «il sacramento»
nuziale; al contrario, l’obiettivo specifico, che ora dovrebbe essere certo per
noi che abbiamo vissuto questo percorso insieme a tutti i personaggi del
racconto, è il rinnovo dell’alleanza del Sinai nella persona di Gesù, il vero
sposo, atteso dall’umanità.

In mezzo a voi c’è uno che non conoscete

Per la terza volta consecutiva in due versetti, l’autore
nomina l’«architriclino», il responsabile organizzativo dei rifoimenti per la
festa perché tutto si svolga senza problemi. Egli però non è riuscito a gestire
«l’evento», perché è stato travolto dalla mancanza di vino, di cui non si è
nemmeno accorto, perché ha provveduto «la madre».

Nell’ottica dell’evangelista, costui non è un organizzatore
qualsiasi; egli, al contrario, è il rappresentante ufficiale dell’«archierèus/capo
dei sacerdoti», cioè dell’autorità ufficiale d’Israele, che avrebbe dovuto garantire
la realizzazione dell’alleanza, mentre invece si è affaccendata in tutt’altro
(cf Gv 18,13). Finalmente troviamo lo «sposo», che è una figura secondaria,
quasi inutile, anzi inesistente, se non fosse per l’incidente del vino mancato,
che «l’autorità» presente interpreta in maniera banale come un errore di
organizzazione. Quando l’autorità manca di prospettiva, finisce sempre per
essere un ostacolo. Ad andare più in profondità, però, scorgiamo che
l’«architriclino», senza nemmeno rendersene conto, dice due cose importanti:

a) il vino nuovo, quello che viene dopo, è superiore a
quello che c’era prima: è eccellente;

b) manifesta la sua sorpresa per la superiorità del vino
nuovo, quasi a volere dire che in tutta la sua vita non ne aveva assaggiato uno
come questo. Nonostante questa constatazione e il suo «stupore», egli non
riesce ad andare oltre: l’espressione che rivolge allo sposo, «fino ad ora»,
lascia intendere che ci troviamo di fronte a due epoche, a due tempi, a due
mondi: il mondo «fino ad ora» e il mondo che comincia da «adesso in poi». Egli
non si rende conto della presenza di Gesù e dell’azione da lui compiuta, per
cui non si apre al fatto nuovo accaduto sotto i suoi occhi, che spacca in due
la storia e il tempo, in «prima di Cristo» e «dopo di Cristo».

Per l’autorità religiosa il «nuovo» è prigioniero del
passato, una integrazione nella continuità della tradizione per cui nulla
cambia, anche se tutto si trasforma. Oggi si direbbe «l’ermeneutica della
continuità» che spiega certamente una linea teologica o, se si vuole, anche
religiosa, nel senso di dare sicurezze e tranquillità a chi magari soffre di
cuore e non vuole scomporsi più di tanto, restando fermo al calduccio
dell’utero materno. Per questa logica, però, nulla può succedere di decisivo e
dirompente, perché tutto deve avvenire in forma programmata e lineare.

La storia, come la vita, mai è lineare, ma è sempre protesa
verso il futuro, con andamento in parte lineare, in parte storto, in parte
aggrovigliato e a volte anche senza senso. È l’esperienza che ognuno di noi fa
ogni giorno e non si capisce perché questo criterio debba valere per ciascuno
di noi e non può valere per la storia degli eventi, considerata in sé.

L’uomo religioso creò Dio sua immagine e somiglianza

Con il cambiamento dell’acqua in vino, Gesù opera una
rottura: c’è un prima e c’è un poi, esattamente come prima c’era l’acqua e dopo
c’è il vino: non si può fare finta che gli eventi debbano adattarsi a noi;
semmai siamo noi che dobbiamo entrare nel cuore degli avvenimenti per scoprire,
lì, il comandamento di Dio. Quando vogliamo interpretare i «kairòi – le
occasioni» di Dio con i nostri criteri, non dovremmo mai dimenticare il monito
di Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono
le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le
mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri»
(Is 55,8-9).

Spesso, anche noi, come l’architriclino del racconto,
vogliamo insegnare a Dio il suo mestiere e pretendiamo che agisca secondo i
nostri canoni e le nostre mentalità. La Bibbia, la Parola ci è data non per
fae una lettura spirituale, ma per imparare a conoscere la «mens» di Dio e
inserirci in essa per sposarla, condividerla e praticarla.

A volte si ha l’impressione che i credenti, e anche gli
addetti specifici alla vita religiosa, dicano di credere in «un Dio a loro
immagine e somiglianza» e non nel Dio di Gesù Cristo, il quale è venuto a
rivoluzionare ogni sistema religioso che pretende di incatenare Dio in schemi
precostituiti. Ci fermiamo, come l’architriclino, solo a un «assaggio» e non
siamo in grado di andare oltre, perché abbiamo paura di oltrepassare il confine
che ci siamo imposto. Invece di alzarsi in piedi, abbandonando la comodità
oziosa del banchetto, e chiedere ai presenti che cosa fosse quella novità,
perché sconvolgeva la «tradizione» usuale, si limita a chiamare lo sposo per
dargli un buffetto sulla guancia. Non si accorge che lo Sposo è un altro e non
si rende conto che ben altre nozze si stanno celebrando, né prende coscienza
che un tempo è finito e tutti, lui e noi, siamo entrati in un’altra dimensione.

L’autorità che avrebbe dovuto guidare il popolo in attesa
alla scoperta dei «segni dei tempi» per cogliere la Shekinàh – Dimora/Presenza
del Signore, resta seduto al suo tavolo ad assaggiare il vino, comunque arrivi,
facendo perdere anche ai presenti «la novità» della presenza eccezionale e
decisiva del Signore: «Stolti e ciechi! Voi … trasgredite il comandamento di
Dio in nome della vostra tradizione?» (Mt 23,17; 15,3).

Cana, il simbolo della nuova alleanza

Solo a questo punto, in Gv 2,10, dopo ben 10 versetti,
riusciamo a capire, come per uno squarcio, che ci troviamo di fronte a un
evento straordinario, inaspettato: lo sposo non è il pover’uomo rimproverato
dall’autorità per avere fatto male i conti, ma è un Altro, è colui che è
annunciato nella notte alle vergini sia stolte che prudenti, cioè a tutta la
comunità: «A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”»
(Mt 25,6). Egli ha in mano la chiave del Sinai, la cantina in cui è custodito
il vino del Messia e finalmente lo distribuisce all’umanità invitata a
partecipare alle nozze dell’alleanza.

Solo ora scopriamo che «Cana» è un simbolo, un richiamo
appena velato che ci rimanda a una realtà ben più significativa e corposa:
l’irruzione di Dio nella storia che ora si compie nella persona del Signore
Gesù. Per questo la «madre», in rappresentanza di Israele, può chiedere al
Figlio di dare finalmente questo vino, perché i figli da lungo tempo ne sono
privi; il suo «vino-non-hanno-più» non è la mesta constatazione di un disagio
momentaneo a un matrimonio di amici, ma l’anelito di tutte le attese e speranze
d’Israele, degnamente rappresentato dalla «madre» che funge anche da sposa,
anzi da vedova, che apre le porte di Sion ai figli lontani, invitandoli a
ritornare da ogni esilio, dolore, smarrimento e sedersi alla mensa delle nozze,
perché «è il Signore!» (Gv 21,7).

Finalmente scopriamo il ruolo dei personaggi: la «madre» è
la sposa d’Israele in attesa del suo Signore e il Figlio svolge il ruolo dello
Sposo atteso, del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, quello rivelatosi sul
monte Sinai al profeta Mosè che, nella funzione di «amico dello Sposo»,
consegnò in nome di Dio a Israele radunato intorno al monte le tavole nuziali
del patto d’amore.

Di fronte alla scoperta del vino «bello», superiore a quello
già esistente, tutto cambia e tutto acquista un senso nuovo. Possiamo con
certezza dire che tutto il racconto è un simbolo per metterci in guardia, per
dirci di fare attenzione al vero Sposo che è presente e che rischiamo di non
riconoscere se ci fermiamo alle apparenze del gusto e dell’ovvio. Ora ci appare
anche chiaro perché, immediatamente dopo il racconto del «segno di Cana»,
Giovanni il Battezzante presenta Gesù come lo Sposo (cf Gv 3,25-30), riservando
per sé la funzione tipica dell’uso giudaico di «amico dello sposo». In questo
modo vediamo Giovanni Battista come l’antitesi perfetta dell’architriclino:
questi non si accorge nemmeno dello Sposo che inaugura gli «ultimi tempi» del
compimento nel segno del vino «bello»; il Battista invece ha coscienza di
esistere solo per indicare agli altri, al mondo, chi è lo Sposo atteso,
accettando per sé la funzione di paraninfo, cioè di amico, impegnato a
preparare le nozze senza fine (cf Gv 3,39).

La sposa è chiunque crede che Gesù è il Signore

A questo punto è necessario uscire dal simbolismo per
entrare nel cuore dell’annuncio. Gesù è stato «chiamato» alle nozze, come Mosè
è stato «chiamato» in cima al monte Sinai. Gesù si presenta «per» le nozze con
i suoi discepoli. Alcuni di questi gli erano stati mandati da Giovanni il
Battista, quando nel capitolo precedente aveva indicato «l’Agnello di Dio» e
due erano voluti andare a «vedere» dove Gesù abitasse, fermandosi fino alle ore
16 (cf Gv 1,35-39), cioè l’ora in cui nel tempio di Gerusalemme, il sommo
sacerdote (archierèus) uccideva l’Agnello, versando il suo sangue come sangue
dell’alleanza tra Dio e Israele.

Se Gesù è lo Sposo e Giovanni il Battista «conduce» i
discepoli a lui, con cui poi si fermano insieme alla «madre» alle nozze, fuori
metafora, ecco la realtà: Gesù è lo Sposo e i discepoli con la madre sono la
sposa, cioè il popolo d’Israele nella nuova versione della comunità ecclesiale.
In altre parole, la madre e i discepoli sono il modello di coloro che credono,
il «segno» visibile della nuova Chiesa che riprende in mano e nella vita
l’alleanza del Sinai, affinché guidata dal nuovo Mosè, Gesù, possa
intraprendere il nuovo pellegrinaggio verso il regno.

Chiunque crede diventa la sposa. Ecco perché nel racconto
non può essere presente una sposa qualsiasi: perché sono sufficienti la madre,
gli apostoli e tutti coloro che sul loro esempio crederanno nel Figlio che apre
i tempi nuovi e i cieli nuovi dell’alleanza nuova. Questa idea si trova anche
nell’Apocalisse, che appartiene alla letteratura giovannea, ed è descritta come
sposalizio tra l’Agnello/Sposo e Gerusalemme/sposa: «Sono giunte le nozze
dell’agnello; la sua sposa è pronta… vidi la città santa, la nuova
Gerusalemme, scendere, da Dio, pronta come una sposa adoa per il suo sposo»
(Ap 19,7 e 21,2).

Dio, senza passato né tradizioni

Da un punto di vista strettamente esegetico, possiamo
rilevare che l’espressione di Gv 2,10 da noi tradotta con «chiunque», e da
altri con «tutti», alla lettera sarebbe «ogni uomo» (pâs ànthrōpos). Noi preferiamo il senso
indeterminato per due motivi: indica una consuetudine di tradizione, quindi
anonima e può coinvolgere ciascuno, cioè «chiunque»; in secondo luogo, si
determina in modo più forte il contrasto tra l’indeterminatezza della tradizione
di «chiunque» e la personalizzazione estrema del «tu» con cui l’architriclino
si rivolge allo sposino: «tu, [invece]». Ci troviamo quindi di fronte a uno
schema letterario di forte contrasto teologico: «chiunque – tu». Chiunque è il
passato, la tradizione, la consuetudine, l’usanza; potremmo dire l’abominevole
«si è sempre fatto così», che tarpa le ali a qualsiasi afflato di novità in
nome della pigrizia e grettezza. Tu, invece, è un appello alla coscienza
individuale che s’immerge nella storia, ne coglie il senso appena velato e lo
svela in tutto il suo spessore, senza paura del nuovo e dell’imponderabile che
nasconde nel suo grembo il seme di Dio.

Sì, possiamo dirlo: Dio non ha tradizioni da difendere,
perché egli è sempre nuovo e parla ogni giorno la lingua del momento,
altrimenti parlerebbe inutilmente. Dio non ha passato, perché egli è «il Fine»,
quello che Teihallard de Chardin chiamava «il Cristo, il punto omèga», colui
che attrae a sé tutto e tutti dalla prospettiva della fine e del compimento.

Conservare per scoprire sempre più

Il verbo usato dall’architriclino «tetêrēkas» (in greco, perfetto
indicativo alla seconda persona singolare) è preceduto dal pronome rafforzativo
«sy – tu» che in greco potrebbe essere omesso. Se però c’è, come qui, acquista
forza e valenza più forti e profonde; come abbiamo visto, quel «tu» è
essenziale e necessario perché si contrappone al «chiunque» dell’inizio del
versetto. Non si tratta più di interpellare lo sposino improvvido, ma il
lettore, cioè «tu» che leggi, che accetti l’invito di partecipare alle nozze,
di condividere la fede della madre e dei discepoli e quindi di volere fare
parte della nuova comunità, che è la Chiesa.

Essa, sulla scia di Israele, popolo di Dio, nasce sulle
falde del monte Sinai, ma giunge ai piedi del monte Calvario, il monte della
rivelazione, la rivelazione dell’«ora», l’ora della discesa non più della
Toràh, ma dello Spirito di Dio che porta a pienezza la Toràh e la forza di
adempierla: «Reclinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).

Il verbo «terèō
– custodisco/conservo» al perfetto indica un’azione passata, i cui effetti
continuano nel presente. La forma italiana «hai custodito», al passato
prossimo, che è troppo povera, anche perché il perfetto greco ripete una parte
del tema («te-te»), che in qualche modo deve essere percepito anche nel suono
oltre che nel concetto. Ci pare che, in questo passo, la forma più corretta
possa essere: «Tu hai continuato a conservare/custodire». All’inizio di questa
puntata, riportando il versetto nel titolo, abbiamo tradotto con «tu (invece)
hai voluto conservare», dove si mette in evidenza la volontà che persegue
l’atto della conservazione, come se fosse un progetto in fase di esecuzione e
quindi continuativo.

Ci troviamo di fronte a un comportamento simile a quello del
servo che ha ricevuto «un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi
nascose il denaro» (Mt 25,8) in attesa che gli eventi maturassero. Qui è
evidente che l’autore vuole farci capire che è finito il tempo dell’attesa,
individuato in quel «fino ad ora», segno di uno spartiacque e di un cambiamento
di scena e di tempo. «Ora» comincia un tempo «altro»: quello che troverà
compimento sulla croce, la vera Cana dove si celebra lo sposalizio tra Dio e
l’umanità e dove viene distribuito a piene mani il vino della vita di Cristo;
il sangue del suo costato è dato fino all’ultima goccia: «Subito ne uscì sangue
e acqua» (Gv 19,34). Acqua e sangue, esattamente come a Cana, che vide l’acqua
trasformata in vino.

L’accenno alla nuova economia sacramentale ci pare evidente
perché la prospettiva è quella della vita donata senza riserva con uno scopo
puntuale, perché tutti quelli che vogliono «abbiano la vita e l’abbiano in
abbondanza» (Gv 10,10).

(36 – continua)

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Paolo Farinella




(Cana 37) Cana di Galilea e i luoghi del cuore innamorato

«Mio Signore e mio Dio!»
(Gv 20,28) Gv 2,11: «Mentre faceva questo principio dei segni Gesù in
Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e credettero in lui i suoi
discepoli» (Tàutēn
epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs
en Kanà tês Galilàias kài ephanèrōsen
tên dòxan autoû kài epìsteusan eis autòn hoi mathētài
autoû
).

Tecnicamente, Gv 2,11 conclude il racconto del «segno di
Cana», anzi del «principio dei segni in Cana della Galilea», il racconto delle
nozze dove i personaggi svolgono ruoli che hanno significati «altri», rispetto
a una lettura superficiale. Manca la sposa, mentre lo sposo appare solo per
essere rimproverato; assume una funzione importante, anche se negativa,
l’architriclino che pur partecipando a una occasione unica (kairòs), non è in
grado, come spesso accade all’autorità ufficiale, di cogliere la portata
profetica e cristologica dell’evento: è presente «fisicamente» alle nozze, ma
il suo cuore è distratto dalla differenza superficiale tra i «due vini». Con
questo versetto redazionale, prima conclusione del narratore, veniamo a sapere
qual è stato lo scopo del racconto, perché è l’autore stesso che ce lo comunica
affinché possiamo custodirlo come un momento importante.

Il testo difficile

Dal punto di vista della critica testuale, cioè della ricostruzione
del testo greco attraverso i papiri e gli altri manoscritti più antichi, il
versetto ha tre varianti importanti: il testo che noi riportiamo è attestato
dalla maggioranza dei manoscritti sia maggiori che minori. Considerata la
natura divulgativa del nostro studio tralasciamo le due varianti che hanno un
cambiamento di posizione tra le prime due parole (prima variante) e la
sostituzione di un aggettivo con un altro (seconda variante) che ci
porterebbero a considerazioni troppo tecniche per chi non è attrezzato
scientificamente. Ci limitiamo a dire che le due varianti, anche se la seconda
è molto antica, sono «miglioramenti stilistici» e quindi cercano di
«aggiustare» il testo.

Noi scegliamo, secondo la migliore regola esegetica, il
testo più difficile, certamente più vicino all’originale. Per capire il senso
di questo versetto, che, a nostro parere, è il più importante di tutto il
brano, bisogna soffermarsi sulle singole parole, dove sono collocate, e,
infine, sul loro significato nel contesto di tutto il vangelo di Giovanni prima
e di tutta la Bibbia in secondo luogo.

Abbiamo già anticipato che il versetto è di mano del
redattore finale, che così rivela il suo pensiero sul significato di quanto
precede: solo ora veniamo a sapere che nel racconto di Cana vi è un concentrato
fantastico di teologia giovannea. In questo versetto, infatti, troviamo cinque
parole che esprimono cinque temi che attraversano tutto il vangelo di Giovanni,
costituendone la spina dorsale: «Principio (richiama l’archètipo)/segno-segni/manifestare/gloria/credere».

Centellinare la Parola respirandola

Chi pensava di leggere un racconto edificante, arrivato al
versetto 11 deve ricredersi e ricominciare daccapo, centellinando parola per
parola, respiro per respiro. Normalmente le traduzioni vanno per le spicce,
come la Bibbia-Cei (1974): «Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di
Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui»; la
nuova edizione (2008) cerca di aggiustare, ma senza osare troppo: «Questo, a
Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua
gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Si vede dietro la fatica di fare
concordare il testo greco con un significato accessibile a prima vista, ma non
sempre è possibile. Tentativi lodevoli, ma insufficienti.

La Bibbia-Cei (2008) aggiunge anche una nota al versetto per
spiegare ulteriormente che: «Questo… fu l’inizio dei segni: non solo il primo
dei segni, ma il modello di tutti (questo è il significato della parola greca
tradotta con inizio). Difatti il miracolo di Cana ha rivelato la divinità (gloria)
di Gesù e ha aperto ai suoi discepoli il significato delle opere prodigiose
(che Giovanni preferisce chiamare segni)».

Tutte le traduzioni, anche in altre lingue, che qui
risparmiamo, si fermano alla grammatica tradizionale greca secondo la quale il
primo verbo, «epòiēsen –
fece», essendo un tempo aoristo, deve tradursi con il passato remoto o in
alcuni casi anche con il passato prossimo.

Verbi e traduzioni «diaconi» della Parola

Le versioni Cei rendono «fece» con «fu» e «diede», sempre al
tempo aoristo/passato remoto, esattamente come gli altri due verbi: «ephanèrēsen-manifestò» (Gesù) ed «epìsteusan-credettero»
(i discepoli). Noi invece pensiamo che sia meglio applicare la linguistica
testuale che guarda la funzione dei verbi (la parte più importante in un
testo), scopriamo allora che il loro significato dipende dal posto in cui essi
sono collocati e quindi bisogna valutare di volta in volta. Nel nostro caso,
vediamo che «epòiēsen –
fece», il primo aoristo, è preceduto da un pronome dimostrativo «tàutēn – questa», il quale a sua
volta è riferito a «archên – principio» che in greco è femminile: «Tàutēn epòiēsen archên».

Abbiamo quindi la seguente costruzione greca: «Tàutēn epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs» che tradotta, fuori dal contesto, in se
stessa, alla lettera e mantenendo le stesse posizioni delle parole che hanno in
greco, suona: «Questo fece (il) principio dei segni Gesù in Cana di Galilea».

La parola «inizio», usata dalla traduzione della Cei, è
fuorviante perché esprime un valore temporale, mentre al contrario «principio»
richiama una prospettiva globale e senza tempo. Le nozze di Cana non sono solo
il «primo» segno cronologico, ma il «segno fondamentale», quello che apre gli
occhi della fede verso ciò che accadrà da cana a Gerusalemme.

Il versetto 11 è composto da tre frasi o proposizioni,
perché vi sono tre verbi, che però non sono sullo stesso piano: il primo «epòiēsen – fece» è preceduto da un
altro termine, cioè dal pronome dimostrativo «tàutēn questa/questo», per cui il verbo, pur essendo
al tempo aoristo, che è il tempo primario della narrazione, è declassato a
tempo secondario. Gli altri due, invece, mantengono la struttura narrativa primaria,
che è propria del greco, e infatti sono preceduti tutti e due dalla
congiunzione «kài – e», che è uno dei segnali greci per indicare il verbo
aoristo nella posizione importante e quindi deve essere tradotto con il passato
remoto: «kài ephanèrēsen…
kài epìsteusan – e manifestò/rivelò… e cominciarono a credere». Alla luce di
queste osservazioni, la traduzione del versetto «deve» essere la seguente:

«Mentre faceva questo principio dei segni,
manifestò Gesù in Cana di Galilea la sua gloria
e cominciarono a credere in lui i suoi discepoli». 
La fede ha un principio e un inizio

L’autore intende porre l’accento su «manifestò» e
«cominciarono a credere»: le due informazioni che vuole comunicare al lettore,
perchè le più importanti e fondamentali di tutto il racconto. A differenza
dell’architriclino, rappresentante della religione ufficiale, che è cieco e
sordo, il lettore deve essere pronto a cogliere e «vedere» la manifestazione,
cioè la rivelazione di Gesù nella trama degli eventi ordinari che in se stessi
possono apparire insignificanti, mentre sono portatori di un senso nascosto e
nuovo che solo chi è predisposto sa cogliere. Per questo, ed è il secondo
messaggio, i discepoli «cominciarono a credere», perché la fede è conseguenza
di una visione e di una esperienza.

Traduciamo il terzo verbo «kài epìsteusan» con «cominciarono
a credere» e non con «credettero» perché pensiamo che l’aoristo greco, qui,
abbia valore «ingressivo», cioè descrive l’inizio di un’azione che è in cammino
e che sarà lungo prima di giungere al suo compimento. D’altra parte Gv parla di
«l’inizio dei segni» e ci sembra esagerato dire che i discepoli «credettero» al
primo colpo, senza alcun processo o elaborazione. Anch’essi si aprono al «vino
nuovo» interrogandosi sui fatti, come Cana, e si affidano all’alleanza del
Sinai che ritrovano e rinnovano nella persona di Gesù. D’altra parte, in
Giovanni, la figura del «discepolo/discepoli» oltre al significato dei seguaci
«storici» di Gesù, ha il significato del «discepolo-tipo», cioè del credente di
ogni tempo che s’incontra con la personalità di Gesù di Nàzaret il «rivelatore»
del Padre.

Non miracolo, ma segnale per non smarrirsi

Nello studio della Bibbia nel suo insieme o di un brano o di
un versetto non si può andare subito al significato «spirituale» per cogliee
subito il frutto. La Parola di Dio rifugge dalla fretta, pressappochismo,
superficialità e spiritualismo. Essa esige spazio, tempo, studio prolungato,
sapore, gusto… in una parola, la Bibbia esige «perdere tempo» come l’amore.

Come i nostri lettori avranno percepito, se hanno avuto la
pazienza di arrivare a questo punto, la riflessione sul versetto undici non è
conclusiva, ma è tutta centrata sulle questioni letterarie e in parte anche
sintattiche. Qualcuno potrebbe dire che sono superflue; se così fosse, passi
pure avanti, anzi ad altro, perché la Bibbia non fa per lui: legga fumetti o
faccia enigmistica. Noi riteniamo che la Bibbia debba essere assaporata nella
sua struttura letteraria, grammaticale e sintattica: più l’approccio è
scientifico e più si riesce a penetrare, attraverso il significato ordinario
delle parole comuni, il senso nascosto che lo Spirito può svelare a coloro che
lo cercano per le vie indicate dall’autore e quindi dallo stesso Spirito, e più
nutre l’anima.

Quando «si legge» la Bibbia o si riflette su un brano della
Scrittura, alla fine bisogna essere «stanchi» perché ascoltare, studiare e
vivere la Parola è lavorare nel e per il Regno di Dio. Altre volte abbiamo già
detto che per i rabbini ebrei, lo studio della Parola di Dio equivaleva al
sacrificio compiuto nel tempio di Gerusalemme. Sarebbe lo stesso per noi dire
che equivale alla celebrazione comunitaria dell’Eucaristia. Ecco perché è
necessario «stare sul» versetto 11, perché da esso dipende la comprensione di
tutta la narrazione. Vogliamo evidenziare la grandezza e la lungimiranza del
redattore finale che, scegliendo le frasi e mettendole in un certo ordine, ha
pensato a noi che le avremmo lette oggi, domani, sempre. Prendiamo in esame la
frase in se stessa, fuori del suo contesto, per approfondie il senso
cristologico. L’autore ha posto in greco il pronome dimostrativo «questo»
all’inizio di frase, cioè in posizione enfatica, di rilievo, addirittura prima
del verbo che così è relegato in seconda linea. Il pronome dimostrativo «tautēn – questa/questo» concorda per
attrazione con «principio» che in greco è femminile e in italiano è maschile.
In questo modo, l’autore ingloba tutto ciò che precede e comprende l’intero racconto.
Tutto quello che è avvenuto a Cana di Galilea è «un principio», cioè il
fondamento, la prospettiva, la chiave di lettura di tutto ciò che segue.

Non è casuale che l’autore nel IV vangelo non usi mai il
termine «miracolo», ma sempre e solo il lemma «segno». Non si tratta, infatti,
di descrivere interventi superiori, ma di indicare la direzione della fede
verso cui incamminarsi: bisogna stare attenti ai «segni» e i «miracoli» sono
«segnali» per non smarrirsi.

Anche la geografia segna la via di Dio

Quanto abbiamo appena detto, lo constatiamo anche dalla
citazione geografica «in Cana di Galilea». L’espressione nella morfologia greca
si analizza come due complementi: a) di stato in luogo (in Cana) e b) genitivo
corografico (di Galilea). Questo genitivo, in greco, vuole sempre l’articolo «della
Galilea», che in italiano però non si mette e quindi non diciamo, alla lettera,
«in Cana della Galilea», ma correttamente traduciamo con «Cana di Galilea».

L’espressione «Cana di Galilea» l’abbiamo già incontrata nel
primo versetto, Gv 2,1, quando l’autore ci ha dato la prima informazione: «Nel
terzo giorno uno sposalizio avvenne in Cana di Galilea». Se la stessa frase è
all’inizio e poi anche alla fine, concludiamo che l’intero racconto è uniforme;
esso, infatti, è contenuto – si dice tecnicamente – in una «inclusione», cioè
tra due espressioni uguali che formano una specie di cerchio che racchiude
tutto l’insieme. Siamo partiti da Cana di Galilea e siamo arrivati a Cana di
Galilea e andando avanti nella lettura del vangelo, la incontriamo ancora in Gv
4,46, all’inizio del racconto della guarigione a distanza del figlio del
funzionario regio. È lo stesso autore che connette i due racconti di Cana per
cui è evidente che c’è un legame profondo che bisogna rilevare: «Venne quindi
di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua (in) vino. E c’era un
funzionario regio il cui figlio era malato in Cafàao». La stessa espressione
ritroviamo alla conclusione del vangelo (Gv 21,2): «Erano insieme Simon Pietro
e Tommaso, detto “gemello”, e Natanaele, che era di Cana di Galilea e i figli
di Zebedeo e altri due dei suoi discepoli». La vita pubblica di Gesù si apre a
Cana, passa per Cana e termina a Gerusalemme, ma con la citazione di Cana di
Galilea: un modo letterario per dirci due cose.

La prima riguarda il «segno» di Cana che così riguarda tutto
il vangelo: in altre parole, non si può capire il vangelo in tutta l’integrità
se non si capisce «il principio dei segni» avvenuto a Cana. Il secondo riguarda
noi, lettori: la geografia è parte integrante della salvezza e della fede. I
luoghi, infatti, e i posti dove avviene ciò che ci riguarda non sono
indifferenti ed è nostro obbligo ritornare, come in pellegrinaggio, ai luoghi
dove abbiamo vissuto e «visto» e «manifestato» a noi e ad altri ciò che abbiamo
capito, intuito, desiderato, promesso.

Un pellegrinaggio giornioso

Spesso noi andiamo in pellegrinaggio ai santuari, a volte
con l’illusione di incontrare Dio, senza renderci conto che vi sono anche altri
«luoghi» importanti e altri «santuari» necessari per noi:

dove abbiamo incontrato l’amore,
dove abbiamo dato il primo bacio,
dove abbiamo concepito il figlio/a,
dove abbiamo sognato un ideale,
dove abbiamo percepito la chiamata,
dove abbiamo fatto la promessa di fede o matrimonio,
dove abbiamo pianto,
dove avremmo voluto morire,
dove abbiamo riso spensieratamente,
dove abbiamo incontrato un amico/amica,
dove abbiamo preso qualcuno per mano,
dove abbiamo asciugato lacrime di dolore,
dove abbiamo condiviso lacrime di gioia,
dove ci siamo abbandonati alla pateità di Dio,
dove abbiamo ricevuto un regalo inatteso,
dove abbiamo spezzato il pane dell’amicizia,
dove abbiamo ritrovato quanto avevamo smarrito,
dove abbiamo mutato la disperazione in pacificazione,
dove abbiamo vissuto la Shekinàh come Abramo,
dove abbiamo assaggiato il vino nuovo di un nuovo progetto
di vita con Dio,

dove abbiamo deciso di dare la nostra vita a perdere senza
chiedere in cambio nulla. Sorge spontanea una domanda: «Qual è la mia Cana di
Galilea dove ho visto e vissuto le nozze dell’alleanza?». Ritornare «al
principio» significa ritornare ad assaporare «il vino messianico», quello che
porta con sé il sapore dell’eternità e resta per sempre. Da principio alla
fine.

(37 – continua)

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Paolo Farinella




(Cana 34) Sapere dove si sta

«[L’architriclino] non sapeva di dove è [il vino] … Gesù, sapendo che era venuta la sua ora» (Gv 2,8; 13,1)

Gv 2,9: «Come poi l’architriclìno gustò l’acqua divenuta vino – e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori …».

Qualunque sia la simbologia dell’architriclino, che abbiamo trattato nella puntata precedente, la figura non è superflua, ma ha un significato nell’economia del racconto giunto a conclusione. è strano, infatti, che il quadretto nuziale non si chiuda in un clima festoso «in cui vissero tutti felici e contenti», ma resti nella perplessità del responsabile delle nozze che constata, anche se solo superficialmente, la diversità del vino perché non sapeva che veniva dall’acqua trasformata: «e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori, loro che avevano attinto l’acqua» (Gv 2,9).
Tra banalità e kairòs
Questo personaggio che l’evangelista cita ben tre volte in appena due versetti, è chiuso nello sbalordimento del suo stesso stupore e, pur provenendo dalla tradizione giudaica, non si accorge di nulla, «non sa» il «dove» del «vino bello». L’unica cosa che sa fare è confabulare umoristicamente con lo sposo, chiamato in causa solo a questo scopo. Al contrario «lo sanno» i diaconi/servitori», cioè coloro che erano alle dipendenze dell’architriclino. Egli rappresenta i responsabili della religione, l’autorità, e senza esagerare, possiamo anche dire, il sinedrio, cioè coloro che formalmente rappresentavano la volontà di Dio. «Tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo» sanno tutto sull’arrivo del Messia, sanno perfino che deve nascere a Betlemme, lo annunciano a Erode e ai magi (cf Mt 2,4-6), ma sono estranei ai movimenti di Dio, come se vivessero in un altro mondo. Sono talmente abituati a praticare la religione del dovere che si dimenticano della vita dove Dio esplode e si rende presente. Si ribaltano veramente i ruoli: quelli che dovevano sapere non sanno e quelli che non erano obbligati, invece, sanno: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52).
Un nuovo mondo sta cominciando, il mondo di Dio, capovolto in rapporto a quello della religione ufficiale che si ferma alle apparenze, alle convenienze, agli usi e tradizioni e perde di vista il cuore degli eventi, la loro origine, ma anche il loro senso. Chiusi nel principio uterino del «si è sempre fatto così» (per cui non c’è altra novità che il proprio passato), chiudono anche Dio nella prigione della propria mentalità meschina e retriva e lo incatenano alle micro prospettive della loro gretta vista che non sa mai oltrepassare il confine dell’ovvio e del consueto. Se l’architriclino fosse stato permeabile al dubbio o quanto meno all’interrogativo, di fronte a un fatto nuovo, qui «il vino bello» dato alla fine del banchetto, si sarebbe domandato come ciò potesse accadere e perché. Non si sarebbe semplicemente rassegnato, limitandosi a dare un buffetto allo sposo, ma avrebbe indagato fino a incontrare il «kairòs» della sua vita, fino a incontrare l’evento nuovo per eccellenza, Gesù, lo Sposo atteso che ha mutato l’acqua in vino.
Il povero sposo, vera figura occasionale e insignificante, colui che sarebbe dovuto essere insieme alla sposa, il protagonista della festa, invece, interpellato sembra di stare lì «a sua insaputa», in funzione pleonastica alla dinamica del racconto: c’è solo per permettere all’architriclino di stupirsi, banalizzando se stesso e la stessa figura dello sposo. La sua presenza fugace nel finale ha quasi lo scopo di mettere in risalto la sua assenza che ha dominato tutto il racconto. Lo sposo è altrove, anzi è un Altro.
Sapere, conoscere e vedere
L’evangelista sottolinea in un inciso che l’architriclino «non sapeva da dove» venisse il vino «bello». Il tema «sapere/non sapere» è caratteristico di Gv e ha sempre attinenza con la personalità di Gesù, la sua missione, la sua natura e il suo rapporto con il Padre, che diventa la discriminante della sua relazione con la religione ufficiale e con il «sapere» comune della religione che si ferma alla superficialità.
Per almeno 121 volte ricorrono nel IV vangelo il verbo «òida – conosco/so» e derivati. A questo verbo bisogna prestare attenzione perché esprime un universo semantico di straordinaria portata anche teologica.
Si tratta di un verbo irregolare perché nel NT si trova solo in alcuni tempi: il perfetto secondo indicativo (che ha valore di presente: «conosco/so»); il piuccheperfetto secondo indicativo (che ha valore di imperfetto: «conoscevo/sapevo»); l’imperativo nelle sole seconde persone («sappi – sappiate»); il congiuntivo presente, escluse le terze persone («che io sappia»); l’infinito («sapere») e il participio (sapendo).
Il verbo si forma dalla radice «[e]id-» da cui proviene il tempo aoristo del verbo «horàō – io vedo», da cui deduciamo che c’è corrispondenza tra «sapere/conoscere» e «vedere». La conoscenza, cioè la sperimentazione di un fatto, di una persona, di un evento, di un sentimento è la visione di essa a un livello profondo: contemplare e sperimentare, vedere e toccare sono la stessa cosa perché procedono dalla stessa fonte che è la conoscenza vissuta, la sapienza. Mai, infatti, nella Bibbia la conoscenza e la sapienza sono eventi astratti, avulsi dall’esperienza, al contrario, essi sono la centralità dell’esistenza che si snoda tra visione e sperimentazione, tra contemplazione ed evento visibile. Conoscere è vedere la realtà nella sua essenza interiore e intima. Non a caso in ebraico il verbo «yadàh – conoscere» indica anche l’atto sessuale tra uomo e donna: la sperimentazione vitale che è l’amore vissuto è l’atto di conoscenza più profondo della esperienza umana.
L’architriclino «non sapeva» perché era perduto nella superficialità di un evento nuovo che non ha saputo leggere, gustare, vedere e assaporare in tutta la sua pregnanza e sapienza. Egli si limita ad assaporare il gusto ovvio, ma non riesce ad andare al «senso» di quel gusto «bello» che avrebbe dovuto aprirgli le porte del cuore alla comprensione della storia antica che pur conosceva, come vedremo. Egli è fermo all’epidermide di ciò che appare e non s’interroga sul gusto interiore che quel vino porta in sé come messaggio-anticipo di un tempo nuovo. Non sapendo gustare la novità che cambia il corso di quello sposalizio, egli perde di vista e gusto anche il suo passato e la storia da cui proviene. Le apparenze non solo spesso ingannano, ma sovente, molto sovente, sono la negazione della verità e della stessa realtà che vorrebbero svelare.
«Sapere», discriminante della salvezza
Due capitoli più avanti, al bordo del pozzo di Giacobbe, una donna di Samaria, estranea e nemica, pur nella diffidenza del momento si lascia interrogare dall’uomo nuovo che le sta di fronte e accetta di dialogare con lui, lei samaritana con un giudeo e per giunta uomo: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa» (Gv 4,25). La donna considerata reproba è proietata verso il Messia che ancora non vede, è pronta ad accoglierlo, a differenza dell’architriclino, emblema dei responsabili della religione ufficiale, che invece si ostina nella sua chiusura: «Non sapeva di dove veniva». Anche il paralitico alla porta delle Pecore, guarito sulla parola di Gesù «non sapeva chi fosse» (Gv 5,13); ma quando, poco dopo lo incontra e lo riconosce, corre dai capi Giudei a riferire di «sapere chi è» ed essi invece di cogliere l’evento di novità, tramano persecuzione contro di lui perché si fermano a difendere «il sabato» (Gv 5,14-18). Gli uomini di qualsiasi chiesa sono più interessati a salvare lo «status quo» delle loro istituzioni che generalmente si identificano con i loro privilegi, piuttosto che aguzzare la vista per cogliere «i segni» di un tempo nuovo che avanza e non torna mai indietro.
Pure il cieco nato dapprima non sa di dove sia Gesù che lo ha guarito (cf Gv 9,12), ma di un fatto è certo: egli ha sperimentato, ha visto che prima «ero cieco e ora ci vedo» (Gv 9,25). I capi vorrebbero convincerlo che Gesù è un peccatore, ma egli sta fermo sull’unica conoscenza di cui dispone: la sua esperienza contro la quale nessun ragionamento, nessun principio religioso può avere la meglio perché egli da quaranta meno un anno era cieco e ora ha di nuovo la vista. Egli stesso è la prova che la sua conoscenza di Gesù non può fermarsi all’apparenza e alle esigenze della religione, ma va oltre l’inimmaginabile: se lo ha guarito ci deve essere qualcosa di grande che sfugge a lui, ma sfugge in modo drammatico anche «ai Giudei», a coloro cioè che avrebbero dovuto indirizzarlo a leggere l’evento vissuto e a dargli un nome. Essi invece, che si credono sapienti perché «gestiscono Dio» e s’illudono di conoscerlo solo perché conoscono a memoria i passi della Scrittura, «non sanno» nulla di Dio: si può essere efficienti uomini di religione ed essere al tempo stesso lontani da Dio perché religione e Dio sono incompatibili. La religione esige la pratica, Dio richiede la fede. La religione si nutre di rituali ripetitivi e morti, la fede vive di conoscenza e gusto dell’esperienza di Dio. La religione è esteriore, Dio vive e si rivela solo nell’intimità del profondo. Lo stesso avviene per Marta di fronte alla morte del fratello Lazzaro (cf Gv 11,22.24).
a) Frequenza e pratica non danno garanzie
«Anche Giuda il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli» (Gv 18,2). La consuetudine non è motivo sufficiente di conoscenza: si può frequentare lo stesso luogo per una vita, si può «andare» sempre in chiesa, si può «dire» da una vita il breviario, si può stare da una vita e oltre in un monastero, in un convento, in una parrocchia, si può essere cioè consuetudinari abituali e fedeli, praticanti a orario fisso, ma ciò non significa che si sperimenta colui che «sta in quel luogo». Per conoscere «quel luogo» come «tòpos», cioè come spazio di incontro e di esperienza bisogna aprirsi all’inverosimile e all’imponderabile, essere disposti a lasciarsi abitare dal «kairòs – evento propizio» per potere assaporare la Shekinàh che viene a posare la sua dimora in mezzo a noi. In questo contesto, pregare è illimpidirsi lo sguardo per vedere e vedere è abituarsi a sperimentare per giungere a una comunione fisica che immerga nella contemplazione di eventi e fatti inauditi e anche sperimentati. Se davanti a noi passa il calice del vino «bello» e ci limitiamo a dire che è «molto buono», senza cogliee la personalità di chi quel vino ha portato, allora possiamo anche essere specialisti, tecnici della religione, senza necessariamente sapere cosa significhi essere credenti nel e col cuore. Si può essere religiosi aridi, ma mai credenti senza sentimento.
b) Il desiderio del «mio Signore»
Maria di Màgdala è un esempio della fede che si consuma nell’esperienza/conoscenza: ai due personaggi misteriosi che stanno a guardia del sepolcro vuoto, confessa «non so dove l’hanno posto … il mio signore» (Gv 20,13). Il suo desiderio di conoscenza del «luogo» non è legata al «posto», ma esclusivamente alla sua relazione con il «mio Signore». In questa affermazione affettiva c’è l’esperienza di un’intimità assoluta che esprime lo strazio di non sapere dove sia l’amato. Maria è la donna del cantico che cerca disperata il suo amato e impazzisce finché non lo avrà trovato. è il suo cuore a essere senza «luogo» perché privo del suo amore: «Il mio Signore». Il dolore è così intimo e profondo che anche la presenza di Gesù «in piedi» dietro di lei non è sufficiente perché, quando il cuore è desolato dall’assenza dell’amato o dominato dal desiderio di trovarlo perché carico di paura per averlo perduto, si perde la cognizione del tempo e della conoscenza, della speranza e della stessa esperienza: «Non sapeva che fosse Gesù» (Gv 20,14).
c) Non rassegnazione, ma pienezza di vita
Anche Gesù nel quarto vangelo è esperto di conoscenza/sapienza perché il fondamento della sua esperienza e della sua visione è il Padre che testimonia per lui (cf Gv 5,32; 8,14), essendo «il luogo» fondamentale e intimo della propria identità. Il Padre è «il dove» del Figlio (cf Gv 7,28) che non ammette menzogna perché la relazione di vita è fondata sulla verità e sulla Parola (cf Gv 8,55; 12,50) che si esprime nella missione (cf Gv 7,28). Gesù, sapendo ciò che c’è nel cuore di ciascuno (cf Gv 2,25) sa anche chi è aperto alla fede che porta al discepolato e chi si chiude in sé fino al tradimento che oscura ogni conoscenza perché accentrato sull’interesse proprio (cf Gv 6,64; 13,11.18).
Egli conosce/sa anche riconoscere i figli di Abramo (cf Gv 8,37) in vista della conoscenza delle necessità del popolo di Dio che ha fame e deve essere sfamato (cf Gv 6,6), pur conoscendo la possibilità dello scandalo che non elimina, ma mette in conto perché lo conosce e quindi lo previene (cf Gv 6,61).
Egli conosce/sa anche l’ora suprema della sua morte che s’identifica nel tempo dell’unità col Padre che esprime la totalità dell’amore «fino alla fine», per cui conoscenza e sapienza s’identificano nell’amore e nella relazione esperienziale col Padre (cf Gv 13,1.3).
Gesù conosce gli eventi della sua vita e non si lascia vivere da ciò che accade, ma ciò che avviene diventa il teatro della sua coscienza e della sua consapevolezza: è lui che guida gli avvenimenti che accadono e non li subisce mai passivamente (cf Gv 18,4). Anche in punto di morte, egli non perde la sua consapevole conoscenza, ma proprio per questo «sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura» (Gv 19,28), effonde il suo Spirito come in una nuova creazione (cf Gv 19,30). La sua conoscenza/sapere qui raggiunge il suo vertice e spalanca le porte alla Scrittura, cioè al criterio di valutazione della vita e degli eventi che la costellano. Anche la morte acquista senso perché sottomessa alla conoscenza del compimento della Scrittura, diventando così «pienezza» di vita.
L’acqua vino di Cana
e l’acqua sangue del Nilo
C’è un abisso con l’atteggiamento dell’architriclino che, se si fosse lasciato interrogare dal «vino bello» giunto sulla sua tavola, avrebbe scoperto che esso portava «il vangelo» della novità e, invece di dedicarsi a commentare l’ovvio, si sarebbe interessato a capire «il perché e il modo» di ciò che è accaduto. Forse avrebbe chiamato «i diaconi» e avrebbe chiesto informazioni supplementari e allora, scoprendo che l’acqua era stata trasformata in vino, non gli sarebbe stato difficile riandare, con la memoria storica dell’esperienza di fede d’Israele, al «principio» della storia, quando il suo popolo poté sperimentare l’irruzione di Dio assistendo al mutamento dell’acqua del Nilo trasformata in sangue: «Prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta» (Es 4,9). L’acqua/sangue del Nilo è anticipo di un altro sangue: quello che avrebbe salvato la vita degli Ebrei, chiusi nelle loro capanne, mentre l’angelo della morte passava nella notte di Pasqua, facendo strage di primogeniti in terra d’Egitto (cf Es 11,4-7). Avrebbe saputo e capito che il «segno» antico era solo prefigurazione del segno nuovo e questi diventava la chiave per capire ciò che stava per cominciare e proiettarlo in un significato storico salvifico di portata universale. Con le nozze di Cana infatti comincia un tempo nuovo, il tempo del Regno, il tempo del Messia.
L’architriclino, nonostante presieda lo sposalizio, vive invece avulso dalla Parola di Dio vissuta come appello alla coscienza e alla conoscenza, perché è impantanato nella quotidianità della religione come bisogno gratificante per cui non riesce a vedere oltre il confine della sua esperienza piccola e insignificante che banalizza anche il «Mistero» di Dio e la rivoluzione del suo «Vangelo». Seduto al banchetto con compagni di ubriacatura, si limita a chiamare lo sposo e rilevare che nella sala nuziale è entrato un vino «altro», di cui però lui non riesce a percepire la personalità e il senso. Ancora una volta, ieri come oggi, Dio passa, si ferma e compie «segni» travolgenti, ma la religione della tradizione e dell’ovvio usuale non se ne accorge, lasciandolo passare invano.
 (34 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (32): Non schiavi ma amici a servizio

Il racconto delle nozze di Cana (32)

Gv 2,7-8: 7Dice loro Gesù: «Riempite di acqua le giare!» e le riempirono fino all’orlo.
8E dice loro: «Adesso cominciate ad attingere e portatene all’architriclìno».
Essi quindi portarono.

Ci siamo fermati per tre puntate di seguito su Gv 2,6, che è il cuore del racconto. Tutto il brano converge su questo versetto, da cui apprendiamo che le giare sono di pietra, sono giacenti e infine hanno senso unicamente in vista della purificazione; sono anche inattive perché vuote. Le giare sono di pietra come le tavole della Toràh, pesanti come le prescrizioni dei 613 precetti, senza forza interiore come un pedagogo senza alunni. Esse sono espressione di una religiosità inflazionata ed esteriore, con uno scopo ormai perduto per strada: la purificazione resta l’obiettivo, ma è impossibile da raggiungere perché sono vuote. Ancora una volta il versetto ha l’intento di condurre il lettore al contesto del Sinai, «il principio» di Israele come popolo in un mondo e in una speranza nuovi (la terra promessa).

La possibilità e la realtà
C’è ancora un’indicazione, apparentemente secondaria, che indica la «portata» delle giare: due o tre metrète ciascuna, di cui abbiamo parlato abbondantemente nelle puntate precedenti e nelle due dedicate al vino (febbraio e marzo 2010). Qui richiamiamo solo il senso di fondo: la misura metrète corrispondeva a circa 38,88 litri di liquido, per cui moltiplicando per due si ha una capienza di 77,76 litri e per tre si ha una capacità di 116,64 litri ciascuna; le sei giare insieme dunque potevano contenere liquidi tra 466,56 e 699,84 litri, una cifra enorme. L’evangelista ci avverte che stiamo per assistere a qualcosa di insperato, perché la penuria espressa dalla madre che constata la mancanza di vino ora sta per trasformarsi in una sovrabbondanza senza limiti: «Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5,20).
È ovvio che questi numeri non sono da intendersi alla lettera, ma nel loro significato simbolico di «quantità considerevole», di sovrabbondanza incontenibile. La quantità in eccesso contrasta con la penuria di vino con cui ha inizio lo sposalizio. Nel regime di alleanza antica, «venne a mancare il vino»; con l’arrivo del Signore/Messia Gesù non solo la misura è colma, ma l’abbondanza è così tanta che c’è spazio e possibilità per chiunque voglia entrare nella nuova alleanza, che ora ha inizio come riscatto di quella antica, che non viene abolita, ma totalmente rinnovata, perché riportata alle sue condizioni originarie, quando ai piedi del Sinai, il popolo, «tutto» il popolo di Israele nascente, si purificò per due giorni per essere pronto a ricevere la Toràh come codice d’identità e prospettiva di libertà.
Gv 2,6 ci dice che le giare «erano contenenti» una quantità straordinaria di acqua, ma non ci dice se erano piene o vuote; ci dice solo la possibilità della quantità, non che fossero già piene. Avere la possibilità non significa contenere la realtà: uno ha la capacità e la possibilità di scalare la montagna, ma finché non si mette in movimento e comincia a salire, la montagna resterà solo un desiderio irrealizzato.
Gv 2,7 fa un passo avanti. Il comando del Signore, «Disse loro Gesù: “Riempite le giare di acqua”», toglie il velo e manifesta la verità: le giare sono realmente vuote. Esse potevano offrire una quantità di acqua senza misura, invece erano inutili perché «vuote», incapaci di rispondere anche al desiderio di purificazione. Sono là, ma sono come morte, senza vita e senza acqua, cioè senza significato e prive di speranza futura.

La religione giace per terra
La struttura dei due versetti è basata sullo schema letterario «comando/esecuzione» o «ordine/realizzazione»: Gesù ordina e gli addetti eseguono. In questo schema si usa due volte il verbo «ghemìzō-io riempio». Al comando di Gesù: «Riempite», i servi/diaconi: «Riempirono». All’ordine seguente: «Portate» corrisponde l’esecuzione: «Portarono».
Nel testo greco per il primo comando si usa un imperativo aoristo, che è un’azione senza tempo, puntuale, in quanto la si descrive finita in se stessa nello stesso istante in cui è enunciata. L’aoristo greco infatti non mette in relazione un «prima» e un «poi» o una qualità dell’agire; esso esprime semplicemente l’azione e l’imperativo espone un comando chiuso, una volta per sempre, perentorio: «Riempite», come a dire «riempite una volta per tutte», cioè definitivamente. Si tratta di un’azione unica e non ripetitiva.
Per la prima esecuzione da parte degli incaricati si usa sempre il tempo aoristo, ma questa volta il modo indicativo con valore narrativo: «Essi poi riempirono», collocato in posizione enfatica, cioè preminente, perché descrive l’azione compiuta dai servitori sulla linea principale del racconto, che noi rendiamo in italiano con il passato remoto: «Riempirono». Questo ci dice che l’azione dei servitori è essenziale alla comprensione del racconto nel suo insieme, perché ciò che fanno (riempire le giare e portare il loro contenuto) è sullo stesso piano di ciò che opera Gesù.
Per l’autore è importante l’azione dei servi/diaconi anche perché si trova rafforzata dalla preposizione impropria «èōs – fino», seguita a sua volta da un avverbio «ànō – sopra/in alto/in cima», che in italiano rendiamo con «fino all’orlo» per dare l’idea dell’abbondanza traboccante.
Il verbo «ghemìzō» significa «riempio» un recipiente vuoto, come i canestri riempiti dagli apostoli di pane avanzato (cf Gv 6,13), oppure la spugna «riempita» (impregnata) di aceto e offerta a Gesù morente (cf Mc 15,36), come la sala del convito che «si riempie» di tutti gli esclusi che rimpiazzano gli invitati che non si sono presentati (cf Lc14,23; vedi anche per altre circostanze Ap 8,5; 15,8; Mc 4,37). Questo verbo mette in evidenza la drammaticità della realtà: le giare che avevano un compito sublime di purificazione per preparare all’incontro con il Dio dell’alleanza, erano non solo deposte per terra e quindi inerti, senza forza, ma anche vuote di quell’acqua che è sorgente di santità rituale.
Nel momento in cui Gesù entra in scena per svelare il progetto nuovo del Padre, trova una situazione devastata e povera, trova la desolazione: il vuoto e l’abbandono. Si celebrano le nozze di finzione perché non manca solo il vino della presenza del Messia, ma anche l’acqua obbligatoria per ogni atto liturgico.
Lo sposalizio a cui partecipa anche la madre che si preoccupa di una sposa mai nominata e di uno sposo quasi inesistente, tutti appartenenti al mondo precedente che è il mondo della religione «giacente per terra», senza anima e senza prospettiva (senza vino), protagonisti di una religione che è finzione senza valore, un «sacramento» della religiosità delle anime morte. Il rito svuotato della vita è solo una rappresentazione del nulla.

L’ubbidienza creativa del servizio
La Chiesa, «sacramento» della relazione storica tra Dio e il mondo (Lumen Gentium 1), diventa un’inutile giara di pietra quando si ostina a difendere il passato come modello del futuro, senza rendersi conto che il vino nuovo del Messia non può essere contenuto in otri vecchi (cf Mc 2,22). Spesso si ha l’impressione che chi dovrebbe guidare il popolo di Dio verso il Regno, il quale è sempre davanti a noi, preferisce giacere per terra, inerte a difendere l’esistente che non c’è più, ma di cui ci si illude, immaginando una religione dei «valori», un sentimento di vaghezza religiosa dal sapore civile, in cerca di alleanze spurie, che la rendono sempre più «vuota», importante agli occhi del mondo del potere, ma inutile agli occhi del Dio incarnato, il quale cammina al passo dell’umanità con fatica e con speranza. Giovanni nel racconto delle nozze di Cana ci dà una chiave di lettura per essere anche oggi sulla stessa lunghezza d’onda del Gesù descritto negli eventi dello sposalizio. L’ordine che egli dà è colto ed eseguito non dai «servi», ma dai «diàkonoi – diaconi».
In greco «servo» si dice «doûlos» e indica uno stato di sottomissione, di bassezza, di inferiorità e quindi di appartenenza a qualcuno come proprietà. La Bibbia-Cei nella versione del 1974 traduceva infatti con «servi», mentre la nuova traduzione Cei (2008) cerca di rendere il termine greco e traduce con «servitori», che è un passo avanti. Crediamo che avrebbe potuto fare uno sforzo maggiore e tradurre alla lettera con «diaconi», rendendo il testo greco nello splendore semantico del termine che evoca un mondo liturgico, quasi ci trovassimo nel tempio di Gerusalemme.
L’evangelista infatti evoca realmente una dimensione quasi liturgica, comunitaria: c’è il Messia che porta la novità di Dio e c’è la comunità-sposa senza vino e senza sposo; gli addetti della religione non possono portare nemmeno l’acqua, perché le giare sono vuote e quindi non si può accedere alla presenza di Dio. Dio e il suo popolo sono estranei l’uno all’altro: un muro di impurità li separa. Il popolo si consola con un vino scadente che, per giunta, finisce presto e coloro che dovrebbero rimediare (architriclìno, responsabili) sono inattivi, privi di forze, di fantasia, di potere e di autorità. Essi sanno solo meravigliarsi che la realtà non corrisponde ai loro desideri e sono sempre pronti a rimproverare, mai disponibili a mettersi in discussione: «Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!» (Lc 11,46).
Entra in scena Gesù e tutto si muove: la madre si mette da parte, lo sposalizio prende vita, le giare si riempiono d’acqua «fino all’orlo», i servi diventano diaconi/servitori di culto e liturgia, il vino dell’alleanza ridona la vita. Il monte Sinai è di nuovo in mezzo, nel cuore dell’umanità che è in cerca di senso.
I diaconi si rendono forse conto che sta per succedere qualcosa di nuovo, per lo meno d’insolito, e vanno oltre l’ordine ricevuto. Gesù aveva detto loro di riempire le giare, ma essi le riempiono «fino all’orlo» e l’evangelista lo mette in risalto; essi prendono l’iniziativa «collaborativa», si assumono la responsabilità di partecipare interpretando il comando oltre le parole: i diaconi vanno allo spirito del comando e non si fermano alla lettera, «perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita» (2Cor 3,6).
La loro ubbidienza è responsabilità, non pedissequa accondiscendenza passiva, che si ripiega su se stessa e si nasconde davanti all’ubbidienza formale deresponsabilizzante. Essi, i diaconi della nuova alleanza, ubbidiscono alla Parola, ma con atteggiamento libero ed eseguono con fantasia. Per usare una iperbole, si può dire che peccano per eccesso (cioè per sovrabbondanza d’amore), non per difetto (cioè per atteggiamento di grettezza) e questa è la caratteristica degli uomini e delle donne liberi che vivono la relazione con Dio e con gli esseri umani con amore e per amore.

Il discepolo supera la lettera e s’immerge nello spirito
Usando il termine «diàkonos – diacono/servitore» e non «dûlos – servo/schiavo», Giovanni pone lo schema «comando – esecuzione» sul piano della relazione affettiva, ristabilendo così una dimensione emotiva e sentimentale della liturgia, che non può essere solo eseguire dei riti «come prescritti», ma una esultanza di gioia per un rapporto d’amore.
È sufficiente osservare la celebrazione delle «Messe» (volutamente non diciamo «Eucaristia», termine troppo impegnativo!) ormai, con buona pace del Concilio Vaticano II, ridotte a pure pratiche di pietà, spesso individuali e di prammatica: bisogna «dire la Messa» tutte le mattine, mezz’ora e via; la domenica, massimo tre quarti d’ora, altrimenti la gente si stufa e non viene più; nella celebrazione si va avanti per forza d’inerzia e, via una Messa, avanti l’altra: una a ogni ora e a ciascuna sono presenti fisicamente una manciata di praticanti.
La Chiesa in questo modo è ridotta a una stazione di servizio, in cui l’atto d’amore travolgente che è memoriale dell’atto d’amore totale di Dio, rinnovo dell’alleanza per il mondo, dono permanente del monte Sinai nel cuore della storia, presenza del Calvario e del risorto incuneato nel cuore del Regno, atteso eppure già sperimentato, il Cristo spappolato sulla croce… tutto nel tritacarne di una Messa anonima, trascinata, cantilenata, abitudinaria, macinata con trascuratezza, velocità, come una qualsiasi pratica di pietà individuale!
«Disse ai diaconi», espressione forte di chi ha saputo distinguere tra «servitù e amicizia»: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Nel vangelo di Giovanni spesso Gesù si rivolge ai suoi discepoli, o ai discepoli ipotetici che ne accetteranno l’avventura, con parole di grande stima e dignità: «Se uno mi vuol servire (diaconêi) mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo (diàkonos). Se uno mi serve (diaconêi), il Padre lo onorerà» (Gv 12,26). La terminologia non è di dipendenza, ma di sequela: Gesù non è alla ricerca di schiavi e la Chiesa non è una massa anonima di gente che deve solo ubbidire; Gesù instaura relazioni di vita, basate sul discepolato («mi segua»), dove lui ha una proposta e i diaconi/amici la condividono, partecipando con la propria adesione libera e matura. Oggi si parlerebbe di «cristiani adulti». Come le pecore seguono «il Pastore bello» per ascoltare la sua voce, così gli amici/diaconi si mettono al servizio di Gesù perché il vino dell’alleanza possa arrivare a tutti gli invitati alle nozze, cioè a tutta l’umanità.

Il servo esegue, il diacono ama
I diaconi di Cana, esercitano la loro diaconìa ubbidendo creativamente al comando di Gesù: «L’obbedienza dei diakonoi di Cana a Gesù è il prototipo della diakonia nuova che d’ora in poi dovrà caratterizzare i discepoli di Gesù» (De la Potterie, Le nozze messianiche [1986], 101). In altre parole, i diaconi delle nozze di Cana non sono coreografici, cioè funzionali al racconto, ma figure centrali e anche simboliche, profetiche, perché essi anticipano già all’inizio del vangelo quello che saranno i discepoli, quando giungeranno a scoprire l’«ora» suprema della croce, della morte/esaltazione. Allora «il discepolo e la madre» si riceveranno reciprocamente perché dati in affido l’uno all’altra dall’alto e custodiranno il segreto di Dio che è l’amore senza condizione, l’amore senza contraccambio, cioè il servizio, la diaconìa motivata solo ed esclusivamente dall’amore a perdere.
Il servo è esecutore materiale e resta tale, perché è costretto a ubbidire esteriormente senza adesione del cuore: il servo non è obbligato ad amare il padrone che lo sfrutta. Al contrario, il diacono è il custode della parola e del comando del Signore, che accoglie con disposizione interiore di ascolto e di venerazione, perché sa che quella parola non è indirizzata a lui, ma attraverso di lui deve andare a quelli che verranno dopo: il diacono/amico è il depositario del mistero d’amore di Dio che egli deve spezzare per tutte le genti; egli sperimenta in sé quello che deve offrire a coloro ai quali è mandato perché il profeta può annunciare solo ciò che ha prima sperimentato e vissuto.
Solo nel contesto dell’amore libero e liberante si possono esprimere l’amicizia e la diaconìa che esigono come presupposto la disposizione interiore di accoglienza e di condivisione.
(32 continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (31): La gioia è la vera purificazione cristiana

Gv 2,6 (c): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra],
contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Abbiamo già detto che Gv 2,6 è il cuore della narrazione (cf MC 9 -2009); riproponiamo per comodità lo schema dell’intero racconto di Cana per ricordare la sua struttura circolare: partendo dall’inizio e dalla fine tutto converge verso un centro, qui verso le giare di pietra, finalizzate alla purificazione, come l’arrivo al monte Sinai è finalizzato al dono della Toràh scritta su tavole di pietre, momento supremo di rivelazione che deve essere preparato degnamente attraverso la purificazione del popolo.

  2,1Cana di Galilea, nozze, madre, 2Gesù, i suoi discepoli.
  3Manca il vino; intervento della madre.
  (4)5I servitori/diaconi invitati a ubbidire.
  6Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei, collocate
  [per terra], contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri).
  (7)8I diaconi attingono (= ubbidiscono) e «conoscono».
  10Il vino buono [bello] conservato; intervento dell’architriclino.
  11Cana di Galilea, la gloria manifestata e la fede dei discepoli.
Se Gv 2,6 è il centro del racconto, dobbiamo prendere atto che il matrimonio è solo un’occasione esteriore e non l’obiettivo dell’evangelista; che la madre ha una doppia funzione: di rappresentanza del passato e di passaggio al nuovo; che i discepoli svolgono il ruolo che fu del popolo d’Israele ai piedi del Sinai e che le giare/tavole di pietra, svolta la loro funzione di purificazione, devono cedere il passo alla Toràh dello Spirito che proviene dall’umanità del Signore.
Le giare di pietra nella tradizione rituale    
Siamo di fronte a una rilettura di tutta la storia della salvezza, riproposta in chiave nuova, di fronte a una situazione completamente nuova. La novità per eccellenza è data dalla presenza del Figlio, chiave di volta sia dei segni sia del contenuto. «Il Messia entra nelle antiche nozze, nel popolo che vive sotto l’antica alleanza, ma come invitato. Non appartiene ad essa, è soltanto ospite, e così pure i suoi discepoli, che fanno gruppo con lui. La madre vive all’interno dell’alleanza antica; Gesù e i suoi no. La presenza di Gesù sta per mettere in moto la scena» (J. Mateos-J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 138). Ecco la novità che non riguarda più la purificazione esteriore, ma l’ordine e il confine della coscienza e responsabilità morale.
Le giare sono di pietra e non di coccio; sono quindi molto preziose perché esigono una lavorazione laboriosa e lunga che le rende anche care da un punto di vista economico. Le giare sono «di pietra» e il termine greco «lìthinai» è unico in Gv (tecnicamente si dice è un hàpax legòmenon, detto una sola volta). Esse rispondono alle esigenze per la purità prescritte nel libro del Levitico, capitolo 11, dove però non si parla di materiale «di pietra», ma di «utensili di legno o di «vaso di terra» (cf Lv 11,32-33). È la tradizione giudaica che dichiara espressamente: «I vasi di pietra (kelè ‘abanìm) non ricevono impurità» (Ghemaràh del Talmud di Babilonia, Shabbàt 96a; cf anche Mishnàh, Teharòt – Cose pure, Iadaìm – Mani, I,2; Kelìm – Oggetti, X,1). Su questo punto tra i rabbini sorprendentemente non sorgono discussioni per cui si deve ritenere che fosse una tradizione abituale e pacificamente accettata da tutti fino alla distruzione del tempio nel 70 d.C.
Gli scavi archeologici dell’ultimo secolo e mezzo (1870-1970), hanno portato alla luce molti e grossi recipienti di pietra, la cui tecnica di lavorazione deve essere andata perduta per mancanza di trasmissione, dovuta alla diaspora dopo la distruzione del tempio e all’impossibilità di usare recipienti così ingombranti per la loro pesantezza (cf J. Gonzalez Echegaray, Arqueología y evangelios, Navarra 1994, 199-201).
Oggi possiamo recuperae l’uso, nonostante siano trascorsi oltre due mila anni di silenzio. Se si vuole, possiamo dire che l’archeologia dà una testimonianza indiretta della veridicità del Vangelo, quanto meno che il racconto di Cana è verosimile con gli usi e le leggi di purità in uso presso gli ebrei al tempo di Gesù.
Dalla penitenza alla gioia
L’acqua che contenevano era quella «per la purificazione dei Giudei» (katà ton katharismòn tôn Iydàiōn). In greco si usa la preposizione propria katà che esprime una relazione tra due soggetti/oggetti. Dal punto di vista delle giare si sottolinea il fine: giare per/destinate alla purificazione; se invece si vuole mettere in rilievo il secondo termine, che è «purificazione», allora si sottolinea la necessità, l’obbligo della loro presenza: giare di pietra necessarie per la purificazione. Sia l’uno che l’altro versante esprimono la funzione delle giare, sottolineata ancora di più dal fatto che erano «collocate/giacenti [per terra]». Le giare sono sei e non sette, cioè sono in numero imperfetto (= 7-1), perché indicano che l’obiettivo per cui esistono, cioè la purificazione, è per sua natura imperfetta (cf J. Mateos-J. Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 141).
San Paolo esprime questo stesso pensiero dicendo che la Toràh non ha in se stessa la forza di realizzare la comunione con Dio perché il suo compito era pedagogico, di accompagnamento a Cristo: «Ma prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi e rinchiusi sotto la Legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo» (Gal 3,23-25; cf 1Cor 4,15; Rm 4,14-15; 7,7-25).
Gesù non dà eccessiva importanza alle norme di purità; anzi, le contesta spesso e volentieri in tutta la sua vita (cf Mt 23,25-28; Mc 7,1-15; Lc 11.39), perché esse sono «di pietra»: impongono pesi che schiacciano, mentre la proposta di Gesù è un «giogo dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30).
Quando la legge, qualsiasi legge, specialmente quella morale è astratta e non tiene conto delle condizioni oggettive delle persone, è un impedimento enorme che ostacola la vita piuttosto che sostenerla. Il bisogno costante di purificazione, l’ansia, anzi l’ossessione della colpa, che oggi potremmo chiamare il senso di colpevolezza, non porta da nessuna parte, toglie solo la gioia della vita che non viene vissuta più come dono, ma come condanna. Sono le giare di pietra che stanno lì piene di acqua, pronte per la purificazione, ma inefficaci, inutili, immobili: «giacenti». Come la confessione per molti cattolici: ci si confessa sempre per ricominciare d’accapo. Questa loro inutilità è trasformata dalla presenza del Signore che le riempie di vino giornioso, perché con l’avvento del Signore Gesù è la gioia la sorgente della purificazione e dell’incontro (cf M. Morgen, Le festin des noces de Cana, 142).
Ascesi o esultanza di vita?    
Secoli di ascesi ci hanno allontanato dal cuore del Vangelo e ci hanno scaraventato nell’abisso della desolazione: la persona votata a Dio doveva entrare nell’inferno della mortificazione, della rinuncia, del sacrificio; tutto era tetro e contro Dio, tutto era peccato, e quindi bisognava confessarsi sempre, spesso: si passava la vita tra esami di coscienza e fustigazioni, tra penitenze e mortificazioni che umiliavano l’uomo «fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore… coronato» (Sal 8,6). Essere cristiani significava quasi essere ossessionati, rinunciatari, mortificati.
Gesù sostituisce l’acqua della purificazione con il vino dell’esultanza, perché il «Vangelo» è, anche etimologicamente, «una notizia che porta gioia» e allegrezza. Il «Vangelo» è la Persona stessa di Gesù che viene a sedersi alla mensa della nostra vita per celebrare con noi le nozze dell’alleanza.
In questo contesto si capisce ciò che intende l’autore della prima lettera di Giovanni: «In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,19-20), perché «Dio è Agàpē» (1Gv 4,8.16) e giudica meglio del nostro cuore, cioè della nostra coscienza (cf Rm 2,15; Ef 1,18).
La staticità immobile delle giare distese per terra emerge nitida e forte, quasi ad imprimere bene nella mente del lettore che la Toràh «di pietra» è diventata così pesante e inamovibile da schiacciare sotto il proprio peso chiunque se ne fosse fatto carico.
Il profeta Ezechiele lo aveva previsto e descritto:

«25Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, 26vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. 27Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36,25-27).
Per il profeta la pietra è simbolo di un cuore senza amore, ossessionato dall’osservanza religiosa, ma incapace di amare e di respirare la libertà dei figli di Dio. È necessario un trapianto cardiaco per estirpare l’immobilità pietrificata della Toràh che si riduce a un’osservanza esteriore e sostituirla con un afflato di sentimenti (spirito) che incontra la Toràh come motivo di affetto e relazione che esigono due cuori innamorati in movimento reciproco dell’uno verso l’altro.
I rabbini del dopo esilio avevano codificato la Toràh in una serie di 613 precetti da osservare per essere un buon giudeo. È l’estensione a dismisura non tanto della legge morale, ma della ossessione per la casistica che non lascia nulla al caso o alla determinazione della libertà personale, ma tutto è previsto, stabilito e codificato.
Dalla religione dell’obbligo
alla fede dell’amore
Al tempo di Gesù l’osservanza di tutti i precetti della Torah (Sir 51,26; Ger 2,20; 5,5; Gal 5,1) erano considerati un giogo pesante da portare. Il Talmud babilonese (trattato Makkoth 23b, tradizione di Rav. Simlai, amoraita del III sec. d.C.) insegna che la Toràh contiene 613 mitzvòt – precetti (ebr.: Tariàg mitzvòt) dei quali 248 sono mitzvòt asèh (comandamenti positivi, prescrizioni) e sono in numero uguale ai pezzi che compongono il corpo umano (ossa, nervi, ecc.); 365 sono mitzvòt taasèh (comandamenti negativi, divieti) e corrispondono ai giorni dell’anno solare. Il senso è semplice: la Toràh deve essere osservata con tutta la persona (248 ossa, nervi, ecc.) con un impegno che deve durare tutto l’anno (365 giorni; Cf Rav. Simlai, amoraita del III sec. d.C. in Makkot 23b.).
Le donne erano dispensate dall’osservare i precetti negativi per lasciare loro una certa flessibilità nel loro impegno familiare, mentre erano obbligate a quelli positivi. Tuttavia esse potevano, se volevano, osservare anche i precetti negativi.
Il numero 613 si ricava dalla ghematrìa: la parola Toràh in ebraico (T_W_R_H) ha un valore numerico di 611 (400+6+200+5), a cui devono aggiungersi i due pronomi personali con i quali Dio si presenta nel consegnare l’intera Toràh a Mosè sul Sinai (Es 20,2-3; Dt 5,6-7). La somma di 611+2 dà il risultato di 613.
I farisei pensavano che il popolo non potesse salvarsi perché incapace di osservare tutti i precetti prescritti. Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh per scoraggiarlo (Talmud, Berakot 30b).
Il giogo però indicava anche la fatica quotidiana dello studio della Toràh che equivale all’osservanza di tutti i comandamenti presi nella loro totalità (Cf Mishnàh, Pèah/Angolo, 1,1; Talmud, Shabàt 127a).
Giovanni nel prologo parla di «Lògos» al singolare, che è una magnifica contrapposizione all’inflazione delle «parole» che dominava il suo tempo. La «pienezza del tempo» si caratterizza per il fatto che la Parola per eccellenza, la Toràh, la creazione e i comandamenti non sono altro che anticipi, prolessi dell’unica Parola che è il Figlio di Dio, il quale non ha più bisogno di molte parole per manifestare il volto di Dio; ma ora è lui stesso, il Figlio prediletto, che diventa Parola. Per questo sul monte Tabor, la voce celeste ordinerà di ascoltarlo (cf Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 9,35).
In questo contesto si situa la necessità di una purificazione costante, a motivo della quale le case dovevano essere attrezzate con recipienti di acqua, come attesta anche l’evangelista Marco:

«1Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. 2Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate, – 3i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi 4e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie, oggetti di rame -, 5quei farisei e scribi lo interrogarono: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”» (Mc 7,1-5).
Anche l’autore della celeberrima Lettera dello pseudo-Aristea (sec. II a.C.) che narra la leggenda della traduzione in greco della Bibbia ebraica, osserva che i settanta sapienti mandati da Gerusalemme in Egitto, quotidianamente «secondo poi la consuetudine dei Giudei… dopo essersi lavate le mani nel mare» (Lettre d’Aristée …232), compivano la purificazione prescritta. Lo stesso facevano gli Esseni di Qumran: prima di pranzo «immergono/bagnano il corpo in acqua fredda e dopo questa purificazione» prendono posto alla comune «mensa considerata come un luogo santo» (Flavio Giuseppe, GG II,8,5).
Le giare di pietra
profezia dell’umanità di Dio
La purificazione è essenziale nell’ebraismo perché ogni azione e luogo può contaminare e rendere inabili al culto liturgico, a celebrare lo Shabbàt e la preghiera. In Marco, che abbiamo appena citato, i farisei rimproverano Gesù perché «alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate» (Mc 7,2). Gli stessi Giudei, prima della festa di Pasqua salgono a Gerusalemme per purificarsi e potere essere adatti alla celebrazione: «Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi» (Gv 11,55) e quando chiedono la condanna di Gesù da parte di Pilato «non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (Gv 18,28).
Gesù porta un’altra logica perché non è più la purità legale o rituale che conta, ma la purezza del cuore, cioè la trasparenza della coscienza che si nutre della Parola di Dio, cioè del Lògos, cioè di Dio stesso: «Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato» (Gv 15,3).
La purificazione avviene attraverso l’acqua, tema centrale in tutto il quarto vangelo: il capitolo quarto descrive l’incontro di Gesù con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe; tra i due si instaura un duetto sull’acqua che dà sete e sull’acqua che disseta per la vita eterna attraverso la parola di Gesù Messia (cf Gv 4,10.26); il cieco alla piscina di Betzatà deve immergersi nell’acqua agitata dall’angelo (cf Gv 5,1-7); il cieco nato deve lavarsi alle acque di Sìloe (cf Gv 9,7) e l’umanità nuova nata sotto la croce, rappresentata dalla madre e dal discepolo, sono lavati dall’acqua e dal sangue sgorgati dal costato di Cristo (Gv 19,26.34). Le giare di pietra, inutili alla purificazione che si apprestano a contenere il vino giornioso dell’alleanza, ora sono profezia dell’umanità di Dio.

Paolo Farinella

(31 continua).

Paolo Farinella




Cana (30): Storia d’Israele in sei giare di pietra

«I giusti sono le colonne del mondo posate su basi d’oro puro:
sono infatti i precetti della Legge che studiano»  (Targum Ct 5,15)

Gv 2,6 (a): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra], contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Le giare distese per terra sono in numero di «sei» e ciascuna può contenere «due/tre» metrète. Se si moltiplica 2×3 si ha ancora il risultato di sei. Che significato hanno questi numeri, ammassati tutti nello stesso versetto? Perché le giare sono «sei» e non cinque o quattro o tre? Perché non si parla genericamente di «alcune giare», ma si specifica esattamente che sono «sei»? Perché, invece, la loro capienza non è precisa, ma oscilla tra «due o tre» misure che se moltiplicate tra loro fanno sempre «sei»?
Proviamo a scoprirlo interrogando il vangelo di Giovanni che, come ormai sappiamo, gioca con il doppio senso delle singole parole, obbligandoci a non fermarci mai alla superficie, cioè al senso ovvio delle parole. Quando poi si tratta di numeri bisogna essere ancora più circospetti, perché in ebraico, cioè nella mentalità semita, i numeri corrispondono alle lettere dell’alfabeto e quindi possono assumere significati particolari, applicando una delle leggi dell’esegesi giudaica che è la «ghematrìa» o «scienza dei numeri» (su questo argomento cf P. Farinella, Bibbia, Parole, segreti, misteri 49-60).

Il numero «sei» nel vangelo di Giovanni
Il numero «sei», che è molto importante nell’economia del racconto delle nozze di Cana, in tutto il vangelo di Giovanni ricorre 7x (x sta per «volte»):
1.    È ripreso all’inizio del racconto di Cana dove si dice: «Nel terzo giorno vi fu uno sposalizio a Cana di Galilea» (Gv 1,1) che, come spiegato a lungo, corrisponde al «sesto giorno» della prima settimana di Gesù descritta da Giovanni nel cap. 1°, perché segue il triplice «il giorno dopo… il giorno dopo… il giorno dopo», cadenzato come un ritornello (Gv 1,29.35.43).
2.    È ripetuto in Gv 2,6 per indicare il numero delle giare: «Vi erano là sei giare di pietra».
3.    È ripreso nell’incontro con la Samaritana al pozzo di Giacobbe dove Gesù arriva «circa l’ora sesta» (Gv 4,6). Purtroppo ll’ultima traduzione della Bibbia-Cei (2008) traduce con un banale «era circa mezzogiorno», spezzando in un sol colpo tutta la pregnanza di quell’«ora sesta», evocativa della storia del mondo e della storia di Israele. Peccato, perché così si priva il popolo di Dio di una parte importante della rivelazione.
4.    Nello stesso incontro, Gesù dice alla Samaritana che ha «cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito» (Gv 4,18), per cui siamo di fronte a una donna che ha avuto «sei mariti».
5.    La settimana prima della passione inizia con il riferimento ai «sei giorni prima della Pasqua».
6.    La proclamazione della regalità di Gesù da parte di Pilato davanti al popolo d’Israele avviene «circa l’ora sesta» (cioè mezzogiorno) (Gv 19,14).
7.    Gesù muore nel giorno della «Parascève», cioè il giorno precedente la Pasqua ebraica, quindi il venerdì, cioè il «sesto giorno» (Gv 19,31.42).
In questo contesto, che riguarda tutto il vangelo, il numero «sei», come spesso abbiamo sottolineato, ha un chiaro, formale riferimento ai «sei giorni» che precedono il fatto di Cana (prima settimana di predicazione pubblica di Gesù) descritti in Gv 1, ai «sei giorni» prima della Pasqua dell’ultima settimana di Gesù, descritti in Gv 12ss., ai «sei giorni» del Sinai, nei quali Israele «è creato» come popolo e ai «sei giorni» della creazione come narrata in Genesi 1.

Il numero «sei»
ritma le tappe della storia religiosa
Se ciò è vero, allora Cana è parte di un processo che abbraccia tutta la storia di Israele e tutta la storia di Dio. A Cana non si consuma un banale matrimonio, ma si rinnova la creazione dell’universo, simboleggiato nel vino; a Cana si rinnova l’alleanza del Sinai, rappresentata dalla madre; a Cana si anticipa la Pasqua come compimento non solo della vita terrena di Gesù, compresa tra due «sei giorni» (settimana iniziale e settimana finale), ma anche come compimento della speranza di Israele, purificato non più dall’acqua antica, ma dal sangue del Figlio che dona la sua vita per il mondo nuovo, abitato da Giudei e da Greci, da Ebrei e da Romani (cf Gv 19,23-25).
Nella puntata 17a «Simbologia del terzo giorno» in MC dicembre 2010, abbiamo accennato alla questione del numero «sei» e ad essa rimandiamo. Qui ci accingiamo ad approfondire più dettagliatamente, senza ripetere quanto detto. Sia il giudaismo antico che tutta la tradizione giudaica (dal Targum Ct al Talmud) come pure la tradizione cristiana antica, hanno interpretato «le sei giare» come simbolo delle «sei età/epoche» in cui sarebbe diviso il mondo, dall’inizio della creazione alla venuta di Gesù Cristo, il cui schema, con modulazioni diverse, si avvicina al seguente:
1a età:  da Adamo a Noè;
2a età:  da Noè ad Abramo;
3a età:  da Abramo a Davide;
4a età:  da Davide all’esilio di Babilonia;
5a età:  dall’esilio di Babilonia a Giovanni il Battista;
6a età:  da Giovanni Battista a Gesù con la sua nascita,       morte e risurrezione.
(Poiché è impossibile dare conto di tutti i testi e autori, per chi volesse approfondire in modo esaustivo queste tematiche, appena sussurrate, consigliamo di A. Serra, Nato da Donna Gal 4,4, 141-191; Le nozze di Cana Gv 2,1-12, 128-133).
A chi potrebbe scuotere la testa davanti a queste applicazioni, che, ce ne rendiamo conto, sembrano molto lontane dal testo che siamo soliti leggere in una qualsiasi traduzione, quello che possiamo dire è semplice: il contesto culturale, letterario e religioso, in cui si muove l’autore è questo ed è dentro di esso che bisogna cercare i riferimenti che a noi sfuggono perché, come abbiamo già sottolineato molte volte, abbiamo perso ogni riferimento al mondo giudaico, limitandoci a leggere il vangelo in latino.
Ancora oggi, infatti, il testo ufficiale della Bibbia nella Chiesa cattolica non è il testo ebraico/greco, ma il testo latino della «Neo vulgata»: ci pare che tutto sia detto. D’altra parte, i Padri della Chiesa leggevano l’Antico Testamento in chiave cristologica e andavano alla ricerca di riferimenti «tipologici» da mettere a confronto tra loro, evidenziando come Gesù fosse il «compimento» di tutta la storia patriarcale.
Tutto l’Antico Testamento veniva letto come «profezia», nel senso di anticipazione velata, di Cristo (vedi il vangelo di Mt, in cui questo rapporto «profetico» è costante e ricercato: Mt 1,22; 2,5.15.17; 3,3; 4,1, ecc.; cf Gv 12,38).

Il numero perfetto
che esprime l’imperfezione creata
Nel racconto di Cana, il riferimento così preciso alle «sei giare» pronte per la purificazione e che su ordine di Gesù saranno riempite d’acqua, hanno una prima e diretta connessione simbolica ai «sei giorni» della creazione, che avviene appunto in «sei giorni» (Gen 2,2 secondo la versione greca della LXX), quando tutto emerge dalle acque «covate» dalla «ruàch» di Dio (Gen 1,2). A questa conclusione ci porta anche l’annotazione, strana in un racconto se non avesse un obiettivo preciso, che ogni giara conteneva «due o tre» metrète.
In riferimento alla creazione, lo scrittore ebreo di cultura greca, Filone di Alessandria (20 a.C. – 50 d.C.) spiega che il numero «sei» è il primo numero «perfetto». Esso, infatti, dopo il numero 1 che è il punto di partenza della numerazione, è il primo numero perfetto perché è uguale alla somma delle parti che lo compongono che sono: la metà (6:2 = 3), il terzo (6:3 = 2) e il sesto (6:6 = 1).
Il «sei» dunque è la somma di 1+2+3 = 6, ma è anche il prodotto della moltiplicazione di 2×3 = 6, cioè del numero pari (il 2) e del numero dispari (il 3), per cui nel «sei» si comprendono e si fondono insieme il dispari e il pari che, secondo lo stesso Filone e la scuola dei Pitagorici, esprimono il maschio (il numero dispari) e la femmina (il numero pari).
Lo stesso riferimento alle giare che contengono «2 oppure 3» metrète ci riportano allo stesso risultato: 2×3 = 6. Tutto ruota attorno a questo numero che sintetizza molti pensieri e riflessioni nel mondo giudaico e cristiano. In questo senso la creazione doveva avvenire in «sei giorni» perché questo numero è il primo numero perfetto, in quanto esprime il senso profondo di tutta la creazione che nasce dal congiungimento di maschio e femmina (Gen 1,27; cf Filone, De opificio Mundi, 13; Legum allegoriae I,3).

Il numero «sei» è il simbolo dei giusti
Il Targum Ct 5,15 aggiunge un elemento importante. Descrivendo il corpo dell’innamorato, l’autore del Cantico dei cantici dice: «Le sue gambe, colonne di marmo (ebraico: shèsh), posate su basi d’oro puro». Poiché in ebraico il numero sei è «shèsh», il Targum così traduce: «E i giusti sono le colonne del mondo posate su basi d’oro puro: sono infatti i precetti della Legge che studiano» (cf anche i Midràshim Nm Rabbàh 10,1 a 6,2 e Ct Rabbàh 5,15.1). In ebraico dunque la stessa parola «shèsh» significa tanto «sei» (numero) quanto «marmo», che il Targum identifica con il «mondo», sorretto dalle colonne del Cantico dei cantici che sono i giusti: essi, infatti, stanno solidi sui precetti della Toràh, che è pertanto il fondamento del mondo intero.
Una tradizione giudaica attestata nel Talmud (Sanhedrin 97a-b; Souk 45b) afferma che ogni generazione è tenuta in piedi da «36» giusti, i cui meriti, a loro insaputa, garantiscono la Shekinàh sulla terra; anzi la presenza di un solo giusto garantisce la sopravvivenza del mondo (TB,Yoma 38b).
Mettendo insieme queste reminiscenze, vediamo allora che le «sei giare» di Cana richiamano la Toràh del Sinai come fondamento del mondo e la giustizia dei giusti che sorgono come conseguenza dell’osservanza dei comandamenti del Signore e che ne garantiscono la sopravvivenza. Poiché uno dei giusti che sorreggono le sorti del mondo è il Messia, la presenza di Gesù a Cana è la garanzia che la nuova alleanza poggia sulla solida colonna della sua persona e del suo messaggio. I giusti sono le colonne di «marmo» (Targum CT) come le giare sono «di pietra», sempre pronte a purificare la sposa/Israele prima di presentarsi al cospetto del suo Sposo/Signore.
Il numero «sei», collegandosi ai «sei giorni» del Sinai, sempre secondo Filone (Questiones in Exodum II,46), è anche il simbolo dell’elezione di Israele, popolo dell’alleanza, quell’alleanza che ora Gesù manifesta a Cana.
L’elezione d’Israele è considerata come una seconda creazione, perché lo statuto della prima fu distrutto da Adam, mentre al Sinai Israele riceve un nuovo ordine e una nuova identità, espressi nella Toràh, cioè sulla volontà proclamata e scritta di Dio. Non è un caso che la risposta d’Israele sia: «Faremo e ubbidiremo quanto il Signore ha detto» (Es 24,7), perché al Sinai ha origine «il principio» d’Israele, come nella Genesi è «il principio» delle acque e della terra (Gen 1,1).
Sul monte Sinai apparve «la gloria del Signore» (Es 24,16-17); allo stesso modo il vangelo di Giovanni comincia contemplando il «principio» del Lògos che a Cana compie «il principio dei segni» con cui «manifestò la sua gloria» (Gv 2,11).

A Cana è data la nuova Toràh che è il Vangelo   
Il rapporto tra la creazione, il Sinai e le sei giare è dato anche dal fatto che Adam è stato creato nel sesto giorno, ma sullo sfondo del giardino di Eden di cui poteva mangiare i frutti «di tutti gli alberi» (Gen 2,16); il monte Sinai è equiparato a un albero di melo che produce mele che sono le singole parole della Toràh, come insegna il Targum di Ct 2,3. Dove il testo ebraico dice: «Come un melo tra gli alberi del bosco, così l’amato mio tra i giovani. Alla sua ombra desiderata mi siedo, è dolce il suo frutto al mio palato», il Targum traduce: «Come il melo, bello e pregiato fra quegli alberi che producono frutti, è da tutti elogiato e prediletto, così il Sovrano dell’universo fu lodato dalle Creature celesti quando si rivelò sul monte Sinai, quando dette la Toràh al suo popolo. Allora ardentemente desiderai di rimanere sotto l’ombra della sua Shekinàh, perché i precetti della sua Toràh erano come profumo al mio palato».
Il Liber Antiquitatum Biblicarum 11,15 (SC 229,124, 230,113), attribuito allo (Pseudo) Filone, paragona l’albero della vita piantato al centro dell’Eden alla Toràh che Dio dona a Israele sul monte Sinai per mezzo di Mosè.
In conclusione, potremmo dire che le «sei giare» (come la madre in Gv 2,1) sono il simbolo del tempo prima di Cristo e ciascuna delle sei giare rappresenta una delle sei epoche che lo compongono fino ad arrivare al Sinai, dove inizia il tempo nuovo con il dono della Toràh.
Poiché ogni giara contiene «2 / 3» metrète, la cui moltiplicazione dà sempre «sei», significa che ogni epoca tendeva naturalmente a Cristo, come la stessa Toràh è protesa verso la sua pienezza che è il Messia Gesù di Nàzaret.
Tutte le «sei giare», infatti, sono di pietra (lo stesso materiale delle tavole) e sono giacenti per terra, in attesa del tempo nuovo, della nuova Alleanza (pronte per la purificazione).
In Giovanni 1,17 l’autore ci aveva preavvertito: «La Legge/Toràh fu data per mezzo di Mosè; ma la grazia della verità venne per mezzo di Gesù Cristo».
È in questa prospettiva che Paolo, applicando l’esegesi giudaica, nel commento a Gen 12,7, può dire: «Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: “E ai discendenti”, come se si trattasse di molti, ma: E alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo». È il discendente di Abramo, anticipato nella Toràh del Sinai, che ora si rivela a Cana per annunciare la nuova Toràh, cioè il suo Vangelo, sulla cui stabilità è fondata la nuova alleanza, qui rappresentata dalle nozze di due anonimi sposi.
(30 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (29): Le giare di pietra e le tavole in pietra della legge

Il racconto delle nozze di Cana (29)

Gv 2,6 (a): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra],
contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Con il v. 6 siamo arrivati al cuore del racconto dello sposalizio di Cana. Nella puntata Otto personaggi in cerca di simboli (MC 9 – 2009, pp. 20-22), presentando lo schema dell’intero racconto, che per noi è costruito a chiasmo, cioè a forma incrociata, dove si corrispondono il primo e l’ultimo elemento, il secondo e il penultimo, il terzo e il terzultimo fino a un punto centrale come al proprio cuore (per lo schema v. MC 9), abbiamo rilevato che l’autore con quello che precede e quello che segue vuole condurre il lettore a questo versetto, che è quindi la chiave più importante della narrazione.
Se questo è vero bisogna prestare molta attenzione non solo alla lettera del testo, ma alla «mens» dell’autore e cercare di capire quale messaggio vuole trasmetterci. Mettendoci in ascolto silenzioso e dinamico della Parola, cerchiamo di scoprirlo.

Dalla grammatica e sintassi …
Da un punto di vista testuale vediamo subito che la prima parte è costruita con un «ipèrbato», che è una figura letteraria per cui due termini che dovrebbero stare insieme sono interrotti da una o più parole: qui i termini «hydrìai – giare» e «kèimenai – collocate/giacenti [per terra]» sono separate dalla frase «per la purificazione dei Giudei», dando all’intero versetto un empito di suspence.
Alcuni codici antichi, sia importanti che meno importanti, eliminano il participio presente passivo «kèimenai – collocate/giacenti» per un evidente fine di semplificare e rendere il testo più scorrevole: «Vi erano poi là sei giare di pietra collocate/giacenti [per terra, pronte] per la purificazione dei Giudei». Invece l’autore, usando la costruzione che tecnicamente si chiama «perifrastica passiva», pone l’accento non sulla posizione delle giare, e cioè che erano per terra, ma sulla materia con cui sono fatte (sono di pietra) e sulla loro funzione e scopo, cioè «per la purificazione dei Giudei». La costruzione perifrastica è frequente nel quarto vangelo: cf, p. es., Gv 3,27; 6,65; 13,23; 16,24; 20,30 (cf BDR § 3522-3; M. Zerwick, Il greco 154 §362).
In altre parole, in questo modo, l’autore ci obbliga a considerare ancora una volta il rapporto che c’è tra lo sposalizio di Cana e ciò che è avvenuto ai piedi del Sinai: per ricevere la Torah, Israele tutto deve «purificarsi per tre giorni»; allo stesso modo per ricevere il compimento della Toràh, che è lo sposo-Gesù, bisogna che tutto il popolo nuovo si purifichi prima di accedere alle nozze.
Questo invito è dato in modo plastico e forte dalla presenza delle giare: «Vi erano poi là sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei»: la funzione delle giare è «permanete» perché esse non sono là occasionalmente, ma restano, anzi devono restare lì «collocate/giacenti per terra». Il loro immobilismo, quasi inerte come cadaveri, esprime la loro funzione permanente: c’è sempre bisogno di purificazione prima di accedere al cospetto di Dio.
C’è un altro elemento che ci porta alla stessa conclusione ed è l’uso della preposizione propria «katà» che noi abbiamo tradotto, semplificando, con «per». In greco questa preposizione si costruisce con il caso accusativo e indica una relazione, per cui si dovrebbe tradurre letteralmente con «in relazione alla purificazione dei Giudei», oppure «secondo la purificazione dei Giudei», oppure ancora «destinate alla purificazione dei Giudei».
Se si guarda dalla parte del soggetto, cioè le giare, la preposizione indica finalità/scopo: ci dice che le giare hanno come scopo proprio di essere sempre pronte per la purificazione dei Giudei. Se invece si guarda dal punto di vista della purificazione, cioè del complemento, allora si sottolinea la necessità della purificazione stessa. In questo senso si può anche tradurre: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, destinate la purificazione dei Giudei»; oppure: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione necessaria/obbligatoria dei Giudei».

… al significato pregnante dei simboli e parole
Ci soffermiamo su questi aspetti linguistici che a qualcuno possono apparire noiosi o pignoli, per fare notare ai nostri lettori che nella Parola di Dio, ogni sfumatura ha un senso e mai dovremmo cedere alla tentazione della superficialità o del pressappochismo. Se l’autore usa una frase piuttosto che un’altra non è per capriccio o perché ininfluente per la comprensione del testo. Quanti dei nostri lettori, infatti, nelle innumerevoli volte che hanno letto questo racconto, non hanno pensato che esso avesse come finalità di edificarci con un pensiero spirituale sul sacramento del matrimonio, mentre al contrario, prendendo lo spunto da un banale sposalizio, ci costringe a pensare all’alleanza del monte Sinai per concludere che ora davanti a noi non c’è un profeta, seppur grande come Mosè, ma c’è il Lògos in persona, il Figlio di Dio che è l’Alleanza del Padre?
Diciamo questo anche perché il Gv 2,6 che descrive le giare corrisponde nella costruzione sintattica a Gv 2,1, che abbiamo già esaminato nella puntata C’era là la madre di Gesù (MC 4 – 2011, pp. 30-32), dove avevamo già proposto il parallelo linguistico, osservando che la costruzione è tipicamente giovannea, riportando i testi di riferimento e mettendo in evidenza che la costruzione in Gv 2,1 e 2,6 è voluta espressamente dall’autore per creare un parallelo tra la madre e le giare secondo lo schema seguente:

– Gv 2,6:     «Vi erano poi là sei giare di pietra» 
    (êsan dè ekêi lìthnai hydrìai).
– Gv 2,1:    «Ed era la madre di Gesù là»
    (kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi).

Abbiamo anche messo in evidenza che la costruzione «era/erano… là», avverbio locativo + verbo «essere», si trova circa una decina di volte nel quarto vangelo (cf Gv in 2,1.6; 3,23; 4,6; 5,5; 6,22.24; 11,15; 12,9.26); per cui rileviamo che l’autore vi attribuisce una certa importanza: il tempo imperfetto del verbo «essere» ha un valore «qualitativo» nella linea secondaria della narrazione: da una parte fornisce informazioni circostanziali, cioè in più, per permettere al lettore di farsi un’idea più completa del racconto, e dall’altra ci descrive la qualità dello «stare», che non è solo una presenza occasionale, come potrebbe essere la partecipazione a un matrimonio, ma sottolinea e mette in evidenza che tale «presenza» è determinante, in quanto «doveva essere là»: quasi uno stato di necessità.
In altre parole, Giovanni informa il lettore sul contesto del racconto, offrendo dati supplementari che in questo caso mettono in relazione la madre con le giare. Dicendo che sia la madre che le giare «stavano… là», ci suggerisce l’idea che esse dovevano essere là fin dall’inizio: sia la madre che le giare rappresentano quello che «c’era da sempre», cioè tutta la storia d’Israele che s’identifica nell’alleanza data sul Sinai e scritta su tavole di pietra, come le giare sono di pietra (di questo parleremo nella prossima puntata).

Le giare, la madre, la Toràh e Israele
La madre rappresenta Israele e le giare la Toràh incisa nelle tavole di pietra che segnano la storia costante del popolo di Dio. Il tempo imperfetto, infatti, indica un’azione continuativa e duratura nel passato. In parole più semplici: con quella costruzione «era/erano… là» l’autore ci dice che sia la madre che le giare sono il passato che cedono il passo al nuovo che è Gesù. Non si tratta però di sostituzione, quasi che l’alleanza del Sinai fosse superata dall’avvento di Gesù, ma di un superamento nell’ordine della pienezza: il passato che era inerte (le giare giacciono per terra) e che non ha più speranza (manca il vino che tanto preoccupa la madre), ora può riprendere vita e attingere linfa dal nuovo perché Gesù non è «venuto ad abolire la Legge o i Profeti… ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).
Se Giovanni annette molta importanza al confronto «madre – giare», significa che le due presenze e le modalità del loro essere presenti non sono casuali: la madre non è venuta alle nozze solo perché ha ricevuto un invito, ma «era necessario» che fosse «là», perché essa è rappresentativa dell’attesa di Israele. Nella madre Giovanni condensa tutta l’attesa messianica di tutta la storia del suo popolo; ella è la personificazione di tutto Israele da cui si distingue nettamente.
Da un lato Israele, pur possedendo la Toràh, non ha accolto il Lògos (Gv 1,11), preferendo il buio della sua chiusura anche alle novità di Dio; dall’altro la madre che rappresenta l’Israele che attende si apre al nuovo, prende coscienza che manca il vino e chiede il nuovo vino del Messia, quello che inaugurerà gli ultimi tempi con una abbondanza senza misura.
Allo stesso modo deve dirsi delle giare di pietra, perché anche esse «erano là, distese per terra/che giacevano» e c’erano prima ancora che le nozze avessero inizio. Anche queste hanno uno scopo, che è «la purificazione dei Giudei», ma sono inerti, tanto inerti che devono ripetere all’infinito il rito purificatorio, allo steso modo delle tavole di pietra della Toràh, che dopo essere state spezzate, devono essere riscritte e riconsegnate.
Anche le giare dicono che sono ormai inadeguate a ricevere «la pienezza del tempo» (Gal 4,4) che si apre al Regno definitivo. Bisogna aprirsi al nuovo, la tradizione e le tradizioni non servono più, possono essere qualche volta un rifugio di sicurezza, ma non sono quasi mai una spinta a cogliere «il presente di Dio». A volte invece possono essere deleterie e pericolose: «Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,13).

La funzione ripetitiva delle giare
Le giare sono il simbolo visibile della Toràh scritta e orale, incisa su tavole di pietra (Es 24,12; cf Mateos – Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 133 e 137), che sono diventate il «sacramento» del cuore di pietra di Israele descritto dal profeta Ezechiele e in attesa del trapianto del cuore di carne (cf Ez 11.19; 36,26). La madre e le giare sono il simbolo della sinagoga che attende il Messia:
    a)    Le giare sono pronte per la purificazione dei Giudei, quasi un prolungamento di quanto avvenne ai piedi del Sinai, dove Dio stesso impose che il popolo si purificasse per essere pronto e degno a ricevere la Toràh: «Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo”» (Es 19,10-11).
    b)    La madre/nuovo popolo è già sulla scena perché deve accogliere sia lo sposo, il Figlio, sia i figli che tornano dall’esilio, ponendo fine alle lacrime di Rachele che piange i suoi figli esiliati (cf Ger 31,15). La madre assume un connotato dirompente di profezia, perché annuncia l’arrivo del Messia e, al tempo stesso, chiude il tempo dell’attesa: il vino conservato nella cantina del monte Sinai, il vino della Parola di Dio sta per scorrere abbondante e senza misura inaugurando i tempi del Messia.

Un dato è certo, nella prima parte del v. 6, l’attenzione deve porsi sul tema della purificazione, che quindi è una idea importante e che bisogna approfondire, entrando più intimamente nel testo, da cui scopriamo che l’aggettivo di materia «líthinai – di pietra» è esclusivo di Giovanni (in tutto il NT ricorre solo altre due volte: in 2Cor 3,3 e in Ap 9,20). Gli elementi che Giovanni mette nel versetto sono molteplici e interessanti: le giare sono di pietra, sono in numero di «sei», sono inerti perché giacciono distese per terra e sono sempre in attesa di servire i Giudei per la purificazione. Sono così importanti che anche la quantità del loro contenuto (l’acqua) è misurata: ognuna di esse è «chōroûsai – contenenti due o tre metrète».

Una misura senza misura
Il participio presente attivo femminile che concorda con le giare forma una seconda coniugazione perifrastica, qui attiva. Anche in questo caso, invece di dire che «le giare contengono due o tre metrète», l’evangelista dice che «le giare erano contenenti due o tre metrète». È evidente che l’autore con questa scelta sintattica sottolinea non la normalità, ma l’abbondanza del contenuto, perché in un certo senso prolunga le parole «erano contenenti», che richiama l’attenzione meglio e maggiormente del banale e semplice «contenevano». Nella prima forma, uno è costretto a fermarsi, nella seconda uno prende solo atto e passa avanti.
La metrèta, infatti, è una misura che indica qui una quantità considerevole (vedi riquadro), segno che le giare erano usate da molte persone. In questo contesto, però, è quasi obbligo pensare alla contrapposizione di due fatti: da una parte il vino è «poco», tanto che deve intervenire la madre, dall’altra l’acqua della purificazione è abbondante, anzi sovrabbondante. Il «poco vino» è insufficiente e sottolinea anche la povertà della condizione dei partecipanti al matrimonio, espressione dell’antica alleanza, se rimane chiusa in se stessa; dall’altra parte, «l’acqua che diventa vino» è in quantità incommensurabile e indica l’abbondanza dei tempi messianici, di cui abbiamo parlato a lungo in due puntate precedenti: Un protagonista delle nozze: il vino del Messia, MC 2- 2010, pp. 24-26) e Un protagonista delle nozze: il vino dell’abbondanza, MC 3 – 2010, pp. 22-24). 
Ancora una volta, attraverso la struttura letteraria, i particolari e i personaggi, l’autore del racconto ci riporta ai piedi del Sinai per riprendere in mano di nuovo il codice dell’alleanza e risciacquarlo nel vino delle nozze di Cana che continuano ad essere sempre  di più un «midràsh» di Es 19, mettendoci in guardia che se non ci apriamo al nuovo, simboleggiato dal «vino bello», anche noi rischiamo di chiuderci nelle nostre sicurezze di una religione di comodo, con il rischio di vanificare la Parola di Dio. Delle giare di pietra e del fatto che fossero «sei» parleremo nella prossima puntata.
(29 – continua).

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (28): Gesù il figlio di Giuseppe

Il racconto delle nozze di Cana (28)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»

Al versetto 5 abbiamo dedicato già le precedenti due puntate, ma è necessario dedicarvene ancora una terza e una quarta, data la pregnanza e la profondità dei rimandi che il testo impone. Non possiamo, infatti, leggere il vangelo in fretta e non dobbiamo conseguire un premio a scadenza. Bisogna prendersi il tempo necessario, quando si tratta della Parola di Dio.
L’amore esige tempo
Tutte le cose importanti hanno bisogno di tempo, di intimità profonda. Lo esige l’autore del vangelo che ci dà gli indizi giusti perché noi possiamo fare il nostro lavoro di ricerca oltre le apparenze. Una persona superficiale si ferma a osservare la funzione della madre di Gesù, che prende l’iniziativa, preoccupata della festa che potrebbe andare in crisi per la mancanza di vino. Da qui poi si parte con una speculazione sulla mediazione della Madonna che si prende cura di due poveri sposini sfortunati per non far fare loro brutta figura.
Una persona un po’ più attenta «all’ascolto» percepirà le assonanze, per cui le basta ricordare il parallelo con Giuseppe, il figlio del patriarca Giacobbe, e così affermare la continuità tra la storia di Israele e quella del Nuovo Testamento.
Tutto ciò a noi non basta. Perché la Parola è esigente «spada a doppio taglio» (Eb 4,12) che vuole solo penetrare la carne viva della fede sincera. Se siamo Uditori della Parola1, dobbiamo «rimanere» su di essa (cf Gv 8,31) e assaporarla sillaba per sillaba, lettera per lettera e «ascoltare» intimamente l’eco di tutte le parole della Bibbia, che risuonano o che richiamano o semplicemente sussurrano. L’uditore diventa profeta perché mentre ascolta mangia la Parola con lo stesso atteggiamento e la stessa disposizione del profeta Ezechiele:

«1Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele». 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: «Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo». Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: «Figlio dell’uomo, va’, rècati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole» (Ez 3,1-4).
Il dramma del nostro tempo è la superficialità che non assapora, ma tutto macina e butta via. Un amore senza tempo a sua disposizione è solo furto di un attimo di consolazione, ma il vuoto resta integro e tragico. Se l’amore di prostituzione calcola il tempo in funzione del guadagno, noi che ci troviamo davanti alla Parola, possiamo passare in fretta rincorrendo magari il nulla?  Noi credenti nel «Dio [che] è Amore» (1Gv 4,8) dobbiamo imparare a essere maestri dell’amore a perdere, quello che nasce solo dall’innamoramento che si nutre di desiderio e presenza, di progetto e attesa come di passione e fisicità. Tutto oggi è veloce e frenetico e spesso si ha la sensazione che si corra a vuoto, verso dove non si sa, in tondo o a zonzo, in omaggio a una velocità che alla fine obbliga all’immobilismo.
Oltre il significato immediato
Non basta fare un collegamento tra le parole della madre che invita a obbedire a Gesù e quelle del faraone che invita a obbedire a Giuseppe per avere «una bella immagine». Bisogna anche domandarsi perché l’autore del vangelo esige questa connessione; perché l’evangelista ci obbliga a riflettere sulla figura del patriarca Giuseppe nel contesto delle nozze di Cana, attraverso un richiamo verbale e letterario che certamente avrà da svelarci qualcosa di nuovo sulla figura di Gesù.
Matteo in tutto il suo vangelo ci presenta Gesù come nuovo Mosè e, infatti, gli fa pronunciare cinque discorsi corrispondenti ai cinque libri mosaici, cioè il Pentateuco (cf Mt 5-6; 10; 13; 18; 24-25). Nei vangeli dell’infanzia lo stesso evangelista presenta Gesù come nuovo Salomone, che attira i sapienti dell’Oriente (cf Mt 2,1-2) come il grande re d’Israele aveva attirato la visita della regina di Saba (cf 1Re 10,1; 2Cr 2,1). Luca da parte sua ci fa contemplare Gesù a cui rendono testimonianza Mosè ed Elia, in rappresentanza di tutta la Toràh e di tutta la Profezia (cf Lc 9,28-34). Giovanni ora ci mostra Gesù come nuovo Giuseppe, il patriarca «salvatore» dei figli d’Israele esuli in Egitto a causa della carestia (cf Gen 42,1-5), che non colpì solo il popolo dell’alleanza, ma fu un flagello per tutta la terra. L’Egitto così, per la lungimiranza di Giuseppe, figlio di Israele, fu la «terra promessa» dei popoli colpiti dalla carestia. Allo stesso modo il patriarca non fu solo il salvatore di Israele, ma colui che distribuì frumento e cibo a tutti i popoli, venuti a chiedere asilo e assistenza all’Egitto, espletando quindi una funzione salvifica universale, come Gesù, «il pane disceso dal cielo» che supera addirittura la manna che mangiarono i padri nel deserto (Gv 6,58; cf Es 16,35; Sal 78/77,24).
Gli evangeli non fanno cronaca, ma teologia e noi abbiamo il dovere di scendere dentro i fiumi carsici degli evangeli e lasciarci trasportare in profondità che forse non abbiamo mai sognato o abbiamo potuto solo immaginare. Per questa riflessione ci affidiamo in modo prevalente ad Aristide Serra, il più grande esegeta cattolico che ha dedicato tutta la sua vita a sviscerare la figura della madre di Gesù nel vangelo di Giovanni, esaminando, tra gli altri, il racconto delle nozze di Cana in ogni direzione, con profondità e prospettive veramente insuperabili. I testi a cui attingiamo sono diversi, ma in modo particolare ci rifacciamo a «Le nozze di Cana: Gv 2,1-12».
Giuseppe nella Bibbia
Del patriarca Giuseppe si parla in quattordici capitoli della Genesi in modo sparso, dal 30 al 50. Poi si hanno due reminiscenze nel libro dell’Esodo: al cap. 1 per giustificare la presenza degli Ebrei in Egitto e al cap. 13 per dire che Mosè, prima di partire dall’Egitto verso la terra promessa, «prese con sé le ossa di Giuseppe» (Es 13,19) per rispettare un desiderio dello stesso patriarca che, mentre da vivo fu esule in Egitto, da morto volle ritornare in mezzo al suo popolo, nella terra di Dio.
Di Giuseppe nell’Antico Testamento si parla complessivamente in otto passaggi, mentre in quarantuno passi si fa menzione dei suoi discendenti o della tribù che porta il suo nome (cf Gs 14,4;17,4;18,11 et passim). Nel Nuovo Testamento un solo passo parla, non direttamente di Giuseppe, ma della tribù che porta il suo nome.
Del grande patriarca, invece, si hanno altre testimonianze. Il diacono Stefano, prima di essere lapidato, fa una breve sintesi della storia della salvezza dal patriarca Abramo fino al re Salomone. All’interno di questa catena, vi è la figura di Giuseppe (cf At 7,9-18) che si lega a quella di Gesù in un nesso che supera la storia, per collocarsi in quell’ambito simbolico che apre a prospettive teologiche: Giuseppe è l’antesignano di Gesù Cristo attraverso le sue parole e i suoi gesti.
Anche la Lettera agli Ebrei, nella lunga galleria dei testimoni della fede, cita il patriarca Giuseppe che diede ordini agli Israeliti di portare con sé le proprie ossa, quando avrebbero lasciato l’Egitto (cf Eb 11,22).
Infine nell’Apocalisse, anche «la tribù di Giuseppe» ha dodicimila rappresentanti tra coloro che sono «segnati dal sangue dell’agnello», insieme alle altre undici tribù (cf Ap 7,8). Qui è la riprova che il Nuovo Testamento non nasce in contrapposizione all’Antico Testamento, ma si situa nel suo alveo e ne assume la linfa feconda, perché anche la Chiesa, lungi dal sostituire e soppiantare il popolo d’elezione, nasce e cresce come figlia d’Israele da cui nessuna potrà mai sradicarla.
Giuseppe sullo stesso piano di Mosè
Da parte sua Giovanni, oltre a mettere sulla bocca della madre di Gesù quasi le stesse parole del patriarca Giuseppe, poco più avanti, nel racconto della Samaritana (cf Gv 4), mette in evidenza, quasi con noncuranza che la città di Sìcar, da cui proveniva la donna samaritana, è l’antica Sìchem dei patriarchi: «Giunse così a una città della Samarìa chiamata Sìcar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe» (Gv 4,5; cf Gen 33,18-20; 48,21-22; Gs 24,32). Tra i Samaritani e i Giudei non correva buon sangue. «La donna samaritana gli dice: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani» (Gv 4,9).
I Giudei disprezzavano i Samaritani perché si erano contaminati con altri popoli, soprattutto sul piano religioso (cf 2Re 17,24-41; Esd 4,1-5). Ciononostante, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio, anche i Samaritani avevano una venerazione altissima del patriarca biblico, posto sullo stesso piano di Mosè, fino al punto che, in alcune circostanze, si definivano «Giudei» perché si ritenevano discendenti di Èfraim e Manasse, cioè i due figli di Giuseppe (cf Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche XI,8.6).
In un testo importante della tradizione samaritana, il codice «Memàr Marqàh – Parola/Insegnamento di Marco», databile tra il sec. II e IV d. C., ma che riflette insegnamenti molto più antichi, come tutti i testi che riportano la tradizione orale, si può leggere:

«Non c’è nessuno come Giuseppe il re, e non c’è nessuno come Mosè il profeta. Ambedue hanno conseguito una posizione elevata: Mosè ha posseduto la profezia, Giuseppe ha posseduta la Buona Montagna [= il monte Garìzim]. Non v’è nessuno più grande di loro due» (Testo e bibliografia in A. Serra, Le nozze di Cana Gv 2,1-12, 354 n. 608).
C’è però ancora qualcosa nel quarto vangelo, il quale per ben due volte sottolinea che il rabbi di Nàzaret è «Gesù, il figlio di Giuseppe» (Gv 1,45; 6,42a). Diverse volte abbiamo detto che in Giovanni quando una parola, un’espressione, un fatto, un nome, una circostanza, ecc. ricorrono due volte è segno che l’autore ci vuole invitare a non passare oltre, ma a fermarci per cogliere il senso nascosto (senso pieno) che c’è oltre il significato ovvio e immediato. È evidente che da un punto di vista ordinario, con l’espressione «Gesù, figlio di Giuseppe» si dice che Gesù è proprio il figlio di Giuseppe, il carpentiere di Nàzaret, perché di quel nuovo rabbi che percorre la Palestina tutti conoscono «il padre e la madre» (Gv 6,42b). Questo è il senso ovvio, il significato primo, quello delle parole così come sono pronunciate e comprese. Noi diremmo il senso materiale.
Il Messia discendente di Giuseppe
Oltre questo, però, Giovanni ci dice dell’altro nel contesto della mentalità, della cultura e delle attese del tempo di Gesù, dove era viva e vigile l’attesa di un doppio Messia: uno discendente di David e l’altro «figlio di Èfraim» o anche «figlio di Giuseppe» (cf Dt 33,17; per la letteratura giudaica invece cf TJI Es 40,9.11; Targum Ct 4,5; Gen Rabbàh 75,6 a Gen 32,6; Pesiktà Rabbati 30,4, ecc.).
Dal punto di vista letterario è interessante notare anche il già citato Gv 1,45: «Filippo trovò Natanaèle [= Bartolomeo] e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, quello di Nàzaret”». L’ultima parte del versetto «quello di Nàzaret» in greco è al caso accusativo ed è una apposizione che non si riferisce a Giuseppe (complemento denominativo di specificazione e quindi collocato al caso genitivo), ma deve attribuirsi, «apporsi», al nome «Gesù», che è complemento oggetto e quindi va collocato al caso accusativo. Tradotto in modo più chiaro si direbbe: «Gesù di Nàzaret, figlio di Giuseppe».
Questa semplice annotazione di analisi logica ci dice due cose:
1° – Gesù è di Nàzaret; quindi, se ne conosciamo la città, sappiamo da dove viene: è un uomo, un rabbino che abita nella città di Nàzaret, figlio del carpentiere, è un essere umano, uno di noi.
2° – Con l’espressione «figlio di Giuseppe», l’evangelista afferma che quell’uomo, uno di noi, è anche il Messia, discendente del patriarca, che viene a convocare il suo popolo, non più per organizzarlo a superare la carestia, ma per ricevere «il pane disceso dal cielo» che è lui stesso (Gv 6,41.51.58). Mentre il patriarca dispensa il grano che aveva raccolto nei silos, Gesù dona semplicemente se stesso, senza riserve.
Poiché lo spazio a nostra disposizione per questa puntata è terminato, sarà necessario dedicarvi ancora la prossima per analizzare la figura del patriarca in rapporto sia alla sua funzione «universale» sia in rapporto in modo particolare al racconto dello sposalizio di Cana.
(28 – continua).

Paolo Farinella

Note

1 – K. Rahner, Uditori della Parola, Borla, Roma 1988.

Paolo Farinella




Cana (26) La «donna» sacramento dell’abbandono credente

Il racconto delle nozze di Cana (26)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»
[lèghei hē mêtēr autoû toîs diakònois: Hò ti an lèghēi hymîn poiêsate]

Per capire questo versetto in tutta la sua portata è necessario ritornare indietro brevemente per sottolineare ancora il pensiero di fondo che stiamo cercando di dimostrare: il racconto delle nozze di Cana è un midràsh (commento attualizzante) del racconto dell’alleanza di Es 19. Come il Sinai fu «l’inizio» di Israele in quanto nazione, perché l’alleanza lo costituisce «popolo» a tutti gli effetti, così Cana è per l’autore «il principio» del nuovo popolo che nasce dall’antico. La madre di Gesù è il simbolo dell’Israele/sposa dell’alleanza nuova, che aspetta la redenzione del Messia, e i discepoli sono la premessa/promessa del nuovo popolo messianico che partecipa al banchetto nuziale, proiettato verso il futuro delle genti.
Il paradosso: prima fare e poi ubbidire
Sappiamo che l’evangelista vuole mettere in parallelo Mosè e Gesù: il primo come mediatore, il secondo come autore dell’alleanza. L’alleanza annunciata da Gesù non è un’altra alleanza, diversa da quella del Sinai, ma è la continuità di essa, anzi ne è lo sviluppo naturale. Con buona pace dei fautori della «teologia della sostituzione» che ancora oggi, dopo il concilio Vaticano II, propugnano ancora che la Chiesa è subentrata a Israele, eliminandolo dalla storia di salvezza, iniziata con l’esodo. La Chiesa è «dentro» Israele, da cui si discosta perché porta a compimento la sua fede in Gesù Messia.
È evidente che nel v. 5 la frase importante è: «Quello che vorrà dirvi, fate[lo]», che immediatamente richiama quanto gli Ebrei dicono ai piedi del Sinai, prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!». Il confronto tra i testi è sorprendente, si direbbe che Giovanni copia direttamente dalla Bibbia ebraica (non dalla versione greca della LXX che traduce in modo diverso, come vedremo):

Es 19,8 (cf 24,3)           Gv 2,5
Quanto il Signore          Quello che [egli = Gesù]
ha detto,                        vorrà dirvi
noi [lo] faremo               fatelo

Da una parte c’è Yhwh che ordina, dall’altra c’è Gesù che deve essere obbedito, per cui Gesù è posto dall’autore sullo stesso piano di Yhwh. Un modo per porre l’accento discretamente sulla divinità del figlio di Maria? Non possiamo spingerci oltre, ma il quarto vangelo non è nuovo a questo metodo (cf, per es., Gv 18,4-5). Questo parallelo, quasi fotocopia, tra i due testi si colloca all’interno del più generale confronto tra il Sinai e Cana:

Es 19,11.9                        Gv 1,11
Il terzo giorno                    Il terzo giorno
Yhwh rivelò                       Gesù rivelò
la sua gloria a Mosè         la sua gloria
e il popolo                         e i suoi discepoli
credette anche in lui         credettero in lui

Anche qui Gesù non è posto sullo stesso piano di Mosè, ma al livello di Yhwh perché Gesù nella nuova alleanza che ha in Cana il suo «principio» ripete e rinnova esattamente quello che Yhwh ha fatto e ha detto sul Sinai. Lo scenario è lo stesso, e i temi sono identici: il terzo giorno, la rivelazione, la gloria, il popolo/discepoli, la fede.
La madre impregnata del passato
Su tutti questi temi però quello che domina è quello della «obbedienza»: a Yhwh nel Sinai e a Gesù a Cana. L’obbedienza qui è espressa con due verbi «faremo» e «credettero». Da ciò possiamo rilevare che «obbedire» non è un atteggiamento passivo di sottomissione, ma una scelta attiva di adesione a una alleanza, a un progetto da realizzare («faremo») che si basa su un rapporto di intimità e di confidenza reciproca («credettero»). C’è una differenza tra i due testi: al Sinai il popolo ascolta il Signore e crede in lui, ma anche in Mosè; a Cana i discepoli/nuovo popolo ascoltano e credono in Gesù.
Il raffronto tra Mosè e Gesù, come spesso abbiamo detto, non è mai alla pari: a Cana Gesù supera notevolmente il grande condottiero, perché l’evangelista lo colloca sempre allo stesso livello del Signore. Infatti al Sinai non parla Yhwh, ma Mosè che riceve da Dio le parole da riferire al popolo nella sua funzione di mediatore; a Cana non c’è mediatore perché Gesù parla e agisce direttamente.
Le parole della madre di Gesù non sono una novità, ma riecheggiano una storia lunga e articolata, pro-vengono dal cuore della storia di Israele che si esprime in varie circostanze. Riportiamo solo qualche esempio: la risposta di Israele è così importante che la Bibbia la ripete quasi uguale tre volte (Es 19,8; 24,3.7). Dopo Mosè, il suo «attendente» Giosuè [in greco è sinonimo di Gesù – Yoshuà], prima di entrare e prendere possesso della terra promessa, rinnova l’alleanza a Sìchem in modo simile: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce» (Gs. 24,24).
La madre di Gesù è Israele
A Cana ci troviamo di fronte a un evento che non si può ridurre a un semplice matrimonio di circostanza. L’autore infatti con questo racconto ripropone, rinnova e celebra «il fatto» più importante di tutta la storia di Israele, quello che è la sorgente della sua stessa esistenza come «popolo/sposa di Yhwh», l’esodo, letto nella sua duplice valenza storica: di liberazione dalla schiavitù e di costituzione di una comunità ordinata e organica, l’assemblea di Israele nata dall’alleanza del Sinai.
Le parole del Signore dette tramite Mosè e la risposta del popolo detta tramite gli anziani, costituiscono la formula sponsale che sancisce le nozze definitive d’amore e di obbedienza. A Cana è la madre che in rappresentanza dell’Israele antico, introduce il nuovo invitandolo a entrare nel circuito salvifico del suo popolo che ora esce dal suo particolarismo e si apre al mondo intero. Sono infatti presenti i discepoli, dodici secondo la tradizione, un numero simbolico delle dodici tribù d’Israele, costituite da Giosuè prima dell’ingresso in terra promessa (cf Gs 14-19; Es 24,4; 28,21; Gen 49,28; Sir 44,23):

«3Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte,
dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai
agli Israeliti: 4“Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto
all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho
fatto venire fino a me. 5Ora, se darete ascolto alla mia
voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me
una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è
tutta la terra! 6Voi sarete per me un regno di sacerdoti e
una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti.
7Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro
tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore.
8Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore
ha detto, noi lo faremo!”» (Es 19,3-8).

L’obbedienza incondizionata che il popolo di Israele mette in atto, secondo la versione greca della LXX ha dell’inaudito perché il popolo accetta di coinvolgersi nell’avventura di Dio prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza che esprime il sentimento di abbandono tipico dell’innamoramento. Chi è innamorato non ragiona, ma «si butta», non fa calcoli, ma ama, non teme le conseguenze, ma sperimenta l’inatteso con trasporto e abbandono fiduciosi. «Faremo e ascolteremo» infatti esprime non l’ubbidienza a un ordine ricevuto, ma la libera e spontanea adesione della volontà che rende la scelta ancora più importante.
La tradizione giudaica, commentando questo comportamento di Israele, arrivava a paragonarlo al melo del Cantico dei cantici, dove l’amante donna dice del suo innamorato: «Come un melo fra gli alberi del bosco, così l’amor mio tra i giovani» (Ct 2,3). Il Talmud babilonese, a nome di Rabbì Chama figlio di Rabbì Chanina (260 ca.), commenta: «Perché gli Israeliti sono paragonati a un melo? Per insegnarti che come il melo mette fuori il frutto prima delle foglie, così anche i figli d’Israele dissero “faremo” prima di “ascolteremo”» (TB, Shabbat 88a).
Lo stesso testo del TB riporta l’insegnamento di Rabbì Simai (210 ca.) che immagina come nel momento della professione di fede di Israele che si abbandona al Signore, senza alcun calcolo, «seicentomila angeli del servizio scesero a deporre due corone sopra ogni membro del popolo eletto: l’una come premio del “fare” e l’altra dell’”ascoltare”» (in A. SERRA, Le nozze di Cana, 314).
Si capisce perché immediatamente prima (cf Gv 2,4), Gesù si rivolge alla madre con l’appellativo di «donna», assolutamente inconsueto in un dialogo tra madre e figlio. Anche Gesù sa che la madre non è la sua madre naturale, ma a Cana è il simbolo della sposa/Israele che qui svolge il ruolo di mediazione che al Sinai fu proprio di Mosè. Ella si indirizza ai «diaconi/servi», ma è come se parlasse per se stessa e per tutto Israele: «Quello che egli eventualmente vi dirà, noi dobbiamo farlo». Non un semplice invito esortativo, ma una constatazione obbligante: non possiamo esimerci da «quello che egli dirà» perché la sua parola è creatrice, prima di trasformare l’acqua in vino trasforma le persone che vi sono coinvolte assumendo un ruolo preciso: non sono servi dipendenti di un padrone per svolgere lavori di fatica, ma diventano «diaconi», ministri di una comunità che si appresta a celebrare le nozze con il suo Signore.
La madre di Gesù è la sposa fedele
Se l’evangelista fa dire alla madre di Gesù la stessa professione di fede del popolo d’Israele, ci sembra logico pensare che egli voglia porre una relazione tra i due e forse anche una identificazione. Nella letteratura profetica e sapienziale, Israele è spesso identificato con l’immagine della «donna» che il quarto vangelo usa cinque volte, e sempre a una svolta nella vita di Gesù: qui a Cana, con la donna samaritana (Gv 4,21), con la donna adultera (Gv 8,10), dalla croce di nuovo alla madre con «Donna, ecco tuo figlio» (Gv 19,26) e, infine, con Maria di Magdala (Gv 20,15), cinque pietre miliari che segnano la salvezza che si fa storia nell’immagine della «donna», figura del nuovo credente nella comunità nuova. L’uso di questo appellativo è anche diffuso nell’At e basta leggere i profeti (Os 1-3; Ger 2,2; 31,4.15; Ez 16,8; 23,4) o anche la letteratura extra-biblica (Il Targum del Ct; Sal-LXX 86,5; Apocalisse di Baruc 10,7; IV libro di Esdra 9,38-10,57; Qumran: 1QH III,3-12, ecc.).
Luca esporrà questa idea sviluppando il tema della «Figlia di Sion» del profeta Sofonia e applicandola a Maria nel saluto dell’angelo che annuncia il «vangelo della nascita» non a Maria di Nàzaret in quanto singola persona, ma a lei, espressione della «Figlia di Gerusalemme» cioè Israele (cf Lc 1,28; Sof 3,14).
Anche Luca non chiama Maria con il suo nome, ma la descrive come «piena di grazia – chekaritomēnē» che corrisponde alla qualifica di «graziosa» come Giuditta (Gdt 11,23), come Ester (Est 2,7), come la donna del Cantico (Ct 1,5; 6,4), come Susanna (Dn 13,31), come Sara, moglia di Tobia (Tb 6,12).
Anche Matteo tocca il tema in chiusura del suo vangelo, quando Gesù sul monte di Galilea si accomiata dai suoi e lascia loro il suo testamento per il futuro:

«16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul
monte che Gesù aveva loro indicato. 17Quando lo videro,
si prostrarono. Essi però dubitarono. 18Gesù si avvicinò e
disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla
terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli
nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho
comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”» (Mt 28,16-20).

Al Sinai, Israele impegna se stesso nel professare la propria fede indiscussa in Yhwh; a Cana la madre di Gesù crede preventivamente per sé, in quanto Israele, e per i diaconi, in quanto Chiesa; in Matteo la professione di fede diventa la missione da portare in tutto il mondo fino alla fine della Storia. Il rapporto tra gli eventi non è casuale, perché in Matteo Gesù non incontrerà i discepoli «da qualche parte», ma esattamente «sul monte che Gesù aveva loro indicato» (Mt 28,16), così come Dio incontrerà il futuro popolo liberato non in un deserto senza vita, ma «su questo monte» dove Dio è già presente e aspetta una massa di schiavi che trasformerà in popolo a cui darà la carta costituente, la Toràh, cioè la coscienza di essere comunità.
Anche nell’esodo, il monte è indicato da Yhwh stesso a Mosè come segno di liberazione e di libertà: «Rispose: “Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte”» (Es 3,12).
Israele sul monte Sinai dovrà «servire» Dio, secondo il testo ebraico («’abad») e «fare un servizio liturgi-co», secondo il greco della LXX («latrèuō»). In Mt abbiamo gli stessi atteggiamenti: i discepoli «si prostrarono» (in greco: proskynèō) in un gesto di servizievole adorazione liturgica.
Al Sinai, Israele si consacra in una professione di fede senza ambiguità; in Mt è il Signore che prospetta la loro fede futura che assume la forma della missione universale, «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20).
Al Sinai Dio è con il condottiero Mosè: «Io sarò con te» (Es 3,12), sul monte di Galilea è Gesù che assicura la sua perenne Shekinàh/Dimora/Presenza: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Al Sinai, Dio dichiara la ragione del suo intervento: «Voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra!» (Es 19,5), mentre in Matteo è Gesù che dichiara: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18). Anche in Matteo come in Giovanni, la figura e l’opera di Yhwh sono appannaggio personale di Gesù di Nàzaret, ora risorto.
Alla luce di queste finestre che si aprono davanti ai nostri sguardi per la nostra contemplazione della parola di Dio in tutta la sua ampiezza, possiamo dire che il mandato missionario non consiste in altro che nell’invitare tutti i popoli «a fare e obbedire quanto il Signore ha ordinato»: il Signore dell’esodo e Gesù di Nàzaret.
Tutto questo può realizzarsi solo in un modo, sull’esempio della madre di Gesù: testimoniare con la pro-pria vita, la propria parola, la propria speranza che come discepoli crediamo veramente nella Persona di Gesù e accettiamo la sua Parola come criterio di vita prima ancora che come conoscenza razionale.
È in fondo quello che avviene nella celebrazione dell’Eucaristia che è il «luogo» privilegiato dove l’Assemblea di Dio «fa tutto quanto il Signore ha detto», memoriale perenne dell’esodo di Gesù, lungo tutto il cammino della Storia.
(26- continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (27) Ubbidire è imitare

Il racconto delle nozze di Cana (27)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»

Riprendiamo il versetto cinque che abbiamo iniziato ad analizzare nella puntata precedente, dove abbiamo visto che il rapporto tra Sinai e Cana è intenso e profondo, ma non si esaurisce, perché l’autore del vangelo vuole portarci a spaziare anche nella storia prima dell’esodo: la storia dei patriarchi, che è come il preambolo all’epopea dell’Esodo e quindi anche premessa della rivelazione di Gesù Cristo «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1).

«Vergine madre, figlia del tuo Figlio»
Dopo la risposta di Gesù («Donna, che c’è tra te e me», Gv 2,4) che abbiamo spiegato a lungo, la madre non si rivolge a Gesù per supplicarlo di intervenire, ma ai «diaconi». Ella sa di non avere alcun potere sul figlio, perché da questo momento mutano i rapporti precedenti e la relazione di sangue lascia il passo a quella della fede: «Che c’è tra me e te?». O meglio, il rapporto naturale madre-figlio si trasforma, arricchendosi, nel rapporto tra Figlio e madre/figlia, tra il Signore e la Chiesa. La fede, infatti, non elimina la natura, ma, inglobandola, la trasforma: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? … chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,33-35). Solo Dante Alighieri, ispirato dallo Spirito Santo, ha colto la profondità di questa relazione unica: «Vergine madre, figlia del tuo Figlio» (Par. XXXIII,1).
Le parole che la madre rivolge ai diaconi/servi sono prese alla lettera dalle parole che il faraone di Egitto rivolge al suo popolo all’inizio della siccità che durerà sette anni. Al popolo che ha fame e chiede da mangiare, il faraone non dà pane, ma un invito ad andare oltre di lui. L’onnipotente faraone si mette in seconda fila e lascia il posto a Giuseppe, l’ebreo schiavo divenuto governatore, che aveva previsto la carestia e aveva indicato la soluzione per superarla (Gen 41,53-57).
La madre conosce la Scrittura e, forse, è a Giuseppe che volge lo sguardo del cuore quando garantisce alla parente Elisabetta che il Signore «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52). La madre non è il faraone, ma la voce di un popolo affamato del Messia e della sua liberazione, è la figlia di Israele che geme nella morsa della fame, dell’emarginazione e dell’impurità cultuale; la madre è il simbolo dell’abbandono desolato in cui versa il suo popolo:

«6Dalla figlia di Sion è scomparso ogni splendore…7Gerusalemme ricorda i giorni della sua miseria e del suo vagare… 9 e nessuno la consola… 11Tutto il suo popolo sospira in cerca di pane; danno gli oggetti più preziosi in cambio di cibo, per sostenersi in vita… 17Gerusalemme è divenuta per loro un abominio… 19cercavano cibo per sostenersi in vita. 20Guarda, Signore, quanto sono in angoscia; le mie viscere si agitano, dentro di me è sconvolto il mio cuore» (Lam 1,6.7.9.11.17.19.20).
La figura di Giuseppe è l’àncora di salvezza che viene in soccorso dal passato e indica la prospettiva futura. Davanti alla madre che invoca i giorni della salvezza per il suo popolo, ora c’è il nuovo patriarca Giuseppe, «colui che aggiunge/aumenta» e che inaugura il nuovo tempo, il «kairòs» dell’abbondanza senza fine, come il patriarca antico salvò Israele dalla carestia, salvando l’Egitto dalla fame: «Tutta la terra d’Egitto cominciò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Il faraone disse a tutti gli egiziani: “Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà”» (Gen 41,55). L’autore di Genesi ci tiene a sottolineare che «Giuseppe aveva trent’anni quando entrò al servizio del faraone, re d’Egitto» (Gen 41,46). Anche Gesù ha circa la stessa età quando la madre invita i servitori a ubbidirgli.
Purtroppo nella lingua italiana non si coglie il nesso stretto tra le parole, che invece per l’autore ha un’importanza capitale, perché fa vedere e sentire il rapporto stretto tra le parole dette e le idee e i personaggi che stanno dietro.
A questo scopo, per rendere più comprensibile il testo e per farlo gustare in tutta la sua profondità, riportiamo lo schema in greco della LXX, traslitterato, con relativa traduzione (il testo ebraico della Genesi dice esattamente il contenuto letterale del testo greco):

Come può vedere anche chi non conosce il greco, dalla trascrizione emerge che la corrispondenza tra i due testi è totale: siamo certi che l’autore metta «apposta» le parole del faraone in bocca a Maria.
Nella colonna 2a la particella dell’eventualità (an/ean) esprime indeterminatezza e quindi apertura a ogni evenienza (le due forme an o ean sono equivalenti): «Qualunque cosa vorrà dirvi, fatelo».
Nella colonna 3a si ha lo stesso verbo (lègō – dire) con due radici diverse perché le due forme sono di tempi differenti: in Gv si ha il presente congiuntivo attivo (lèghēi – nell’eventualità che dica), mentre in Genesi si ha l’aoristo (un tempo proprio del greco) congiuntivo dello stesso verbo.

Il bacio dell’ubbidienza
Le somiglianze tra i due testi, oltre a quelle letterali, sono di contenuto: a Cana manca il vino, in Egitto manca il pane; in Egitto è il faraone, cioè il capo assoluto che indica Giuseppe come la soluzione del problema; a Cana è la madre, in rappresentanza di Israele, che indica Gesù come la soluzione per risolvere la mancanza del vino messianico e dare corpo all’alleanza.
Da una parte il faraone, come abbiamo già accennato, pur essendo il capo assoluto dell’Egitto, dichiara la sua impotenza di fronte alla fame di pane e invia il suo popolo da Giuseppe, riconoscendone così l’autorità indiscussa; dall’altra parte la madre, rinviando i servi/diaconi da Gesù, preparandoli ad ogni evenienza, in quanto rappresentante del popolo d’Israele fedele all’alleanza sinaitica, invita tutti a riconoscere l’autorità indiscussa di Gesù, il solo che possa aprire la nuova alleanza e sfamare e dissetare il nuovo popolo, la Chiesa, che è la casa di tutti i popoli.
Lo studioso Frédéric Manns (L’Évangile, 102) sostiene che nel testo di Genesi, manca il tema dell’«obbedienza» e quello della «rivelazione», espliciti invece nel testo di Esodo: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!», che in Es 24 si trasforma in «noi faremo e ubbidiremo» (Es19,8; 24,3). Giovanni mette in evidenza – continua Manns – che l’alleanza nuova è basata sull’obbedienza alla Parola di rivelazione portata da Gesù.
La corrispondenza, quando si applica la tecnica del midràsh, non deve necessariamente essere espressa al millesimo, ma può anche essere allusiva, anche se riteniamo che nel testo di Gen 41,55 il tema dell’obbedienza non è solo implicito, ma abbastanza evidente. Inviando il popolo da Giuseppe, con l’invito esplicito «fate quello che vi dirà», è evidente che il faraone sottende il tema di «ubbidire» all’uomo che dovrà cornordinare i sette anni di siccità, specialmente se si tiene conto delle parole che egli pronuncia davanti alla sua corte, appena Giuseppe finisce di spiegare i sogni: «38Il faraone disse ai ministri: Potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo spirito di Dio?… 40Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo» (Gen 41,38.40).
La traduzione di questo versetto non esprime l’intensità dell’ebraico; il confronto con la versione greca della LXX serve a dare al lettore anche il senso armonico dell’immaginazione linguistica: il testo ebraico di Gen 41,40 dice letteralmente: «Tu stesso sarai il governatore della mia casa e sulla tua bocca ti bacerà tutto il mio popolo»; la versione greca della LXX invece traduce, interpretando (come fa il midràsh): «Tu sarai [governatore] sulla mia casa e alla tua bocca obbedirà tutto quanto il mio popolo» (anche la Vulgata traduce dalla LXX).
Il IV vangelo, come tutto il NT, dipende dalla Bibbia greca della LXX, per cui il tema dell’obbedienza è evidente. Baciare sulla bocca qualcuno in occidente significa avere intimità e quindi reciprocità di dipendenza. L’espressione biblica invece è propria della cultura egiziana faraonica ed esprime l’idea di una dipendenza totale e significa «al tuo comando»: al comando di Giuseppe tutto il popolo egiziano deve prostrarsi, bocconi a terra, pronto a obbedire senza alcuna remora.
Quanto al secondo tema, quello della rivelazione, riteniamo che sia il faraone con tutta la sua autorità solenne a «manifestare» Giuseppe come «il salvatore» dell’Egitto, colui che impedirà al popolo di morire di fame e di sete; e lo stesso Giuseppe si manifesta: «Giuseppe partì per visitare l’Egitto» (Gen 41,46) per mostrarsi a tutto il paese e dare ordini e prepararsi in vista della carestia. Attraverso Giuseppe l’Egitto e lo stesso faraone sanno che non è Giuseppe «il salvatore», ma il Dio di Israele perché «non io, ma Dio darà la risposta» (Gen 41,16).
Giuseppe e Gesù sono «pieni dello spirito di Dio»: come il faraone vide lo spirito di Dio su Giuseppe (cf Gen 41,38), anche Giovanni Battista vede scendere lo Spirito di Dio su Gesù (cf Gv 1,32).
Citando le parole del faraone, la madre di Gesù, o meglio l’Israele fedele all’alleanza, vuole mettere espressamente in rapporto Giuseppe e Gesù, presentando quest’ultimo come il nuovo patriarca che si prende cura della fame e della sete, cioè della vita del popolo. In ebraico Giuseppe si dice «yasàph» e vuol dire «Dio aggiunge/aumenta» e in questa circostanza Giuseppe, il patriarca, aumenta il pane e fa arretrare la carestia. Gesù in ebraico si dice «Joshuà» e significa «Dio è salvezza». Nel loro risultato finale i due nomi s’incontrano, perché ambedue sono la salvezza dei rispettivi popoli: danno la vita.
Come tutto il popolo di Egitto deve schierarsi agli ordini di Giuseppe, ora a Cana i servi/diaconi devono eseguire tutto quello che Gesù dirà loro di fare.

Ubbidire è imitare nella testimonianza
Non solo i servi/diaconi, ma anche la madre di Gesù non sa quello che egli farà; infatti l’invito ai diaconi è fatto nella forma dell’eventualità («qualunque cosa vorrà dirvi»). I servi somigliano ai discepoli che partecipano alla lavanda dei piedi, ma non sanno quello che egli fa, fino al punto che Gesù stesso deve chiarirlo per due volte:

«7Rispose Gesù [a Simon Pietro]: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo”… 12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,7-15).
L’episodio citato si trova all’inizio della seconda parte del vangelo di Gv, esattamente nel «libro dell’ora», quello della rivelazione definitiva sulla croce, che è il trono della gloria del Messia. Si usa sempre lo stesso verbo di Cana «poièō – io faccio/opero/creo». Se consideriamo l’insieme del vangelo, possiamo concludere che l’invito della madre non è solo quello di ubbidire senza condizione, «fate quello che vi dirà», ma anche di «fare quello che lui stesso fa», cioè di imitarlo come Gesù medesimo richiede: «Vi ho dato l’esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).
Non basta ubbidire, bisogna imitare. Senza imitazione l’obbedienza può essere alienazione, deresponsabilità. Nessuno può abdicare da se stesso, creato «a immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,27). Ubbidire imitando è il modo per mettere sempre più a fuoco l’immagine divina che c’è in ciascuno di noi e mantenerla sempre nitida e trasparente.
A questo punto si può aprire un capitolo sull’obbedienza religiosa vincolata anche con un voto: il monaco, la suora, il religioso sono chiamati non a rinunciare alla loro volontà, ma a conformarla a quella del Signore, imitandolo nelle scelte e nell’impegno della vita: cosa farebbe Gesù se fosse adesso, qui e ora presente e al mio posto? Qui sta il cuore dell’alleanza sia del Sinai che di Cana: è la rivelazione e la manifestazione dell’esempio che si fa profezia di evangelizzazione.
Oggi nella Chiesa abbondano le parole, le esortazioni, le prediche, estrapolate dalla vita e per questo sono parole deboli, fragili e di conseguenza vuote. Domina il principio di autorità che si basa sull’obbedienza passiva e senza intelligenza: bisogna obbedire perché lo dice chi comanda. Il fondamento della fede in questo contesto non è la persona di Dio o la sua Parola rivelata, ma il culto della personalità, che in termini biblici è idolatria peccaminosa.
La vera profezia del Regno, il vero «vangelo dell’alleanza» si esprime nella testimonianza della vita, nella profezia dell’esempio, che s’impone da se stesso prima ancora di esigere una spiegazione. L’esempio/testimonianza prima della parola è l’esatta incarnazione del principio dell’alleanza dell’Esodo: «Faremo prima e obbediremo dopo».
Fare quello che egli dice e compiere quello che egli fa è la sintesi perfetta della fede adulta e libera, perché ciascuno dei credenti diventi a sua volta «Dabàr», una parola ebraica molto importante nella logica biblica. Essa ha due significati, apparentemente contrapposti, ma intimamente connessi e identici. Significa «parola/detto», ma ha anche il senso di «fatto/evento». È ciò che avviene nella creazione: «Dio disse… E così avvenne» (Gen 1, passim). In Dio mai la Parola è separata dall’evento, perché Dio parla agendo e agisce parlando. In lui parola e azione s’identificano.
A Cana obbedienza, rivelazione e testimonianza sono sinonimi, perché sono l’anticipo e la premessa dell’evento degli eventi: «Il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), la Parola diventa Pane, il Pane rivela la fragilità di Dio che è il «luogo» privilegiato, l’arca dell’alleanza dell’incontro con gli uomini e le donne, i fragili dell’umanità.
(27- continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella