Comunicare la cooperazione nel tempo delle fake news


In vista della 53ª giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebrerà il prossimo 2 giugno, affrontiamo il rapporto fra comunicazione e cooperazione, ragionando sulle fake news che riguardano sviluppo, migrazioni e cambiamento climatico e sul perché è più difficile smontarle.

Testo di Chiara Giovetti

«Ti è mai capitato di sentire il bisogno irresistibile di inoltrare agli amici o di condividere sui social network una notizia che ti è piaciuta o ti ha fatto indignare soltanto perché ne hai letto il titolo? Capita a tutti: è un effetto naturale del pregiudizio di conferma (o bias di conferma), cioè la tendenza comune a credere che sia vero quello che vogliamo che sia vero (anche quando non è vero)».

Così Paolo Attivissimo, giornalista e studioso della disinformazione nei media, apre Come diventare detective antibufala@, una guida commissionata dal Miur e dalla Camera dei Deputati.

Le fake news sono agili, immediate, semplici. Spesso sono perfino rassicuranti, anche quando diffondono un’informazione allarmante, perché confermano una nostra opinione e ci fanno sentire scaltri, persone capaci di scoprire la verità anche oltre ciò che «loro non dicono».

Le fake news on devi cercarle, ti trovano loro: ti aspettano sui social, ti inseguono su whatsapp, ti raggiungono passando di bocca in bocca, si mimetizzano fra le altre notizie.

Il debunking e il fact-checking – traducibili come demistificazione e verifica dei fatti – sono invece più lenti, articolati e impegnativi per chi li legge o ascolta. Per verificare le informazioni che ti raggiungono, inoltre, devi volerlo, non puoi essere di fretta e devi essere disposto a farti venire un dubbio, che per definizione non è rassicurante.

Le cose si complicano parecchio quando le fake news si applicano a un ambito poco conosciuto, complicato e eticamente delicato, come è il caso della cooperazione allo sviluppo e dei temi ad essa collegati, dalle migrazioni al cambiamento climatico, dalla povertà e ai diritti umani. Un esempio è la presa di posizione del 4 febbraio 2018 dell’allora eurodeputato Matteo Salvini, che durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti citava la relazione di una deputata svedese nella quale si introduceva la figura dell’immigrato climatico: «Adesso», commentava sarcastico Salvini, «dovremo ospitare anche gli immigrati climatici: cioè se uno ha freddo, se uno ha caldo… […] A Milano c’è la nebbia, a me non piace la nebbia, e allora mi sposto perché sono un immigrato climatico»@.

Sulla stessa falsariga ci sono state, successivamente, altre interviste televisive di diversi esponenti politici sul franco Cfa (vedi Cooperando su MC di marzo) e sulla Dichiarazione di New York per i migranti e i rifugiati, nota anche come Global Compact. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha definito quest’ultimo accordo internazionale «una vera e propria fregatura» perché «garantisce qualunque tipo di immigrazione: non solo chi scappa dalla guerra, dalla violenza e dalla tortura, ma anche chi scappa dalla povertà, chi scappa dal caldo e chi si muove semplicemente perché gli va».

Sarebbe bastato opporre a Salvini che un migrante climatico non scappa dal caldo o dalla nebbia, ma da fenomeni estremi che rendono invivibile il luogo in cui abita; sul Global Compact sarebbe stato sufficiente controbattere a Giorgia Meloni – come ha fatto Nino Sergi sul giornale online La Voce di New York@ – che «non si tratta di un patto vincolante né intacca la sovranità degli stati. Ma la sua adozione, anche da parte dell’Italia, potrebbe mettere le basi per potere iniziare un cammino, difficile ma possibile, verso un governo ordinato, regolare, sicuro della migrazione».

Tuttavia, in nessuno dei casi citati gli intervistatori sono stati in grado di contestare nel merito le affermazioni dei leader politici proprio perché si tratta di temi scarsamente o per nulla frequentati nei talk show e nei tg del nostro paese. E le informazioni errate contenute in quelle affermazioni, se non vengono immediatamente arginate finiscono per dilagare, amplificate dai social network. Dimenticando, tra l’altro, che ci sono diversi italiani «migranti climatici», secondo la definizione salvianiana, in altri paesi, come a Malindi in Kenya o in Portogallo.

© Daniele Biella

Perché cooperazione e temi limitrofi sono tanto indigesti?

Il problema principale nel correggere un’informazione imprecisa sulla cooperazione, sulla migrazione e sugli ambiti a esse vicini è che non basta opporre un’argomentazione corretta, bisogna anche spiegare un sacco di cose. Non si parla di pensioni, di partite Iva o di reddito di cittadinanza, argomenti con cui la stragrande maggioranza delle persone viene a contatto direttamente o attraverso le esperienze di amici e parenti. Si parla viceversa di un tema che, per quanto negli ultimi anni ampiamente trattato e fortemente sentito@, rimane percepito come lontano dal quotidiano e dai bisogni immediati dei cittadini italiani.

A sua volta, chi si trova a comunicare la cooperazione e il suo funzionamento deve avvalersi di strumenti che tengano conto della delicatezza dell’argomento. Deve, cioè, evitare sia quella che in un acceso dibattito di qualche anno fa venne definita la pornografia del dolore, sia la troppa leggerezza@.

A questo proposito il Saih, Fondo degli studenti e accademici norvegesi per l’assistenza internazionale, ha monitorato fino al 2017 gli spot promozionali delle organizzazioni attive nello sviluppo, istituendo premi – ironicamente chiamati golden radiator o rusty radiator, il radiatore d’oro o arrugginito – per i migliori e i peggiori messaggi pubblicitari. Nell’ultima edizione, il vincitore del radiatore arrugginito è stato lo spot del Disasters Emergency Committee, organizzazione che riunisce 14 agenzie britanniche per l’aiuto umanitario. Il video promozionale, che aveva l’obiettivo di raccogliere fondi per la crisi in Yemen@, è stato giudicato «didascalico e stereotipato, lesivo della dignità di coloro che soffrono, uno spot che ci riporta agli anni ottanta e che sottintende: noi siamo i buoni, voi gli egoisti». Viceversa, il radiatore d’oro è andato allo spot di War Child Holland@, organizzazione attiva nella protezione e assistenza ai bambini in zone di conflitto. Il video ritrae un bambino in un campo profughi mentre gioca e svolge le sue attività quotidiane insieme a un Batman grosso e rassicurante ma anche divertente e un po’ buffo che lo accompagna e lo protegge, con il sottofondo musicale di You’re my best friend dei Queen. Solo nelle ultime inquadrature cessa la musica e il Batman si rivela essere il papà del bambino, un supereroe del giorno per giorno che porta in braccio il figlio allontanandosi dalle macerie fumanti di una città in guerra. Il video si conclude con una frase che recita: per alcuni bambini la fantasia è l’unico modo per scappare dalla realtà.

Comunicare la cooperazione significa muoversi all’interno di questi confini, per delineare meglio i quali la rete nazionale di Ong irlandesi ha elaborato nel 2015 un Codice di condotta@ in cui si raccomanda di evitare gli stereotipi, di dar precedenza alla testimonianza delle persone direttamente interessate e ottenerne comunque sempre il consenso prima di usarne immagini e parole, favorire una comunicazione in cui le immagini e situazioni non illustrino solo l’immediato – un bisogno, un problema – ma anche il più ampio contesto in cui si colloca, così da permettere al pubblico una miglior comprensione delle realtà e delle complessità dello sviluppo.

© AfMC / Beppe Svanera – Marialabaja, Colombia / È l’olio di palma che fa male o il modo di coltivarlo?

Le fake news sulle Ong

Una efficace sintesi delle principali notizie false che circolano sulle Ong era stata fornita lo scorso marzo da Paolo Dieci, il compianto presidente della Ong Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e della rete Link2007 scomparso nell’incidente aereo del 10 marzo, quando il Boeing diretto a Nairobi su cui volava insieme ad altri 156 passeggeri è caduto poco dopo il decollo da Addis Abeba. La rete Link2007 ha dedicato a Paolo Dieci un documento dal titolo Ong e trasparenza. Realtà e normativa in essere, che si chiude con il testo di una mail inviata dal presidente ai colleghi la sera prima dell’incidente. Nel messaggio, individuava cinque falsi miti secondo i quali le Ong «fanno ciò che vogliono; nessuno le controlla; fanno politica di parte; sottraggono risorse alla collettività; favoriscono la migrazione irregolare».

Paolo Dieci smentiva questi luoghi comuni precisando i seguenti punti:
«a) non esiste un singolo progetto realizzato che non sia stato approvato da soggetti rappresentativi dei paesi, inclusa l’Italia;
b) in media un’Ong della nostra dimensione riceve 30-40 audit annuali oltre a 2 livelli di verifica del bilancio;
c) le Ong non si schierano per “partiti” ma per “cause” e ho fatto l’esempio del Global Compact sulla Migrazione;
d) le Ong di Link 2007 portano molte più risorse al sistema Italia di quante ne ricevano, impattando anche sul piano occupazionale e formando giovani;
e) le Ong, concretamente, sono spesso sole a prevenire la migrazione a rischio, ma sempre avendo come riferimento i diritti umani»@.

© Paolo Moiola / moschea in Pakistan / È la religione che fa diventare violenti o i violenti che usano la religione per giustificarsi?

Il messaggio del Papa sulla comunicazione

Siamo membra gli uni degli altri (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana: questo il titolo del messaggio di papa Francesco per la 53a giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebrerà il prossimo due giugno@.

Pubblicato il 24 gennaio – giorno in cui si ricorda San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti – il messaggio parte dall’invito del pontefice a riflettere sul nostro essere «in relazione» e a riscoprire «il desiderio dell’uomo che non vuole rimanere nella propria solitudine».

La rete in sé è uno strumento neutro: può essere un veicolo di incontro con l’altro ma anche di autoisolamento, «come una ragnatela capace di intrappolare», di cui sono vittima specialmente i ragazzi, più esposti all’illusione che la rete da sola possa soddisfare le loro esigenze relazionali.

«È chiaro», prosegue il messaggio, «che non basta moltiplicare le connessioni perché aumenti anche la comprensione reciproca», che può crescere solo nella comunione, la quale si nutre della verità mentre al contrario la menzogna divide e «smembra».

Il riferimento all’essere membra gli uni degli altri rimanda poi anche a un secondo aspetto, quello dell’importanza dell’incontro in carne e ossa. Se la rete è funzionale a questo incontro, lo facilita e lo arricchisce, allora è una risorsa.

«Questa è la rete che vogliamo», conclude il papa, «una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere».

Il tema della precedente giornata mondiale delle comunicazioni era illustrato da una frase del Vangelo di Giovanni: la verità vi renderà liberi. Se è così, allora la post verità – in cui l’emotività sostituisce i fatti oggettivi nella formazione delle opinioni delle persone – prelude alla post libertà. E non ha l’aria di essere uno scenario da augurarsi.

Chiara Giovetti




Aiutarli a casa loro:

dalle parole ai fatti

Testo di Chiara Giovetti |


Negli ultimi anni si susseguono le dichiarazioni di intenti dei governi sull’impegno per lo sviluppo. Spesso si tratta di declinazioni più o meno esplicite dell’idea «aiutiamoli a casa loro» e si concentrano principalmente sull’Africa. Ma, ancora una volta, gli slogan allontanano, non avvicinano, i cittadini dalla comprensione dei fatti.

Diciamolo subito: ci vorranno anni, decenni probabilmente. Anche volendo prendere sul serio lo slogan «Aiutiamoli a casa loro», anche cominciando subito e anche mettendoci il doppio delle risorse che ci mettiamo ora, ci vorranno anni prima che il livello di sviluppo nei paesi di provenienza dei migranti sia tale da ridurre i flussi migratori.

Qualunque politico che affermi: stiamo lavorando per creare lavoro e opportunità in Africa, dovrebbe aggiungere almeno tre cose: la prima è che ci vorrà tempo prima che l’aiuto mondiale allo sviluppo sia in grado di incidere in modo decisivo sulle economie dei paesi a cui è diretto. La seconda è che, comunque, questo aiuto può essere efficace a patto che si riducano le spinte in senso contrario e che gli sia consentito di orientare in senso redistributivo l’aumento di ricchezza che i paesi a basso reddito tenteranno di raggiungere con le proprie forze. La terza, di cui solo da pochi anni si è cominciato a parlare, ma che ha il potenziale di minare alle fondamenta le tesi degli anti immigrazionisti, è che potrebbe andare peggio prima di andare meglio. Diversi studi, infatti, mettono in discussione l’equazione «più sviluppo uguale meno migrazione» e suggeriscono, al contrario, che il miglioramento delle condizioni di un paese potrebbe spingere i suoi cittadini a emigrare di più, non di meno.

Secondo il sondaggio dell’Eurobarometro pubblicato lo scorso settembre, gli italiani nel 2017 erano più convinti rispetto all’anno precedente che affrontare il problema della povertà nei paesi in via di sviluppo dovrebbe essere una priorità sia per l’Unione europea che per il governo italiano. Rispetto alla rilevazione del 2016, inoltre, gli intervistati favorevoli a che l’Ue e i suoi stati membri spendessero di più per aiutare i paesi poveri erano aumentati del 10%@.

La crescente sensibilità verso questo tema è con tutta probabilità legata al fenomeno migratorio e all’urgenza di trovare soluzioni per gestirlo: l’arrivo di migliaia di esseri umani sulle coste europee ci ha spinti a chiederci quali siano i motivi che portano i migranti ad affrontare un viaggio così drammatico e i rischi mortali ad esso connessi. A fronte di questa maggior sensibilità verso lo sviluppo, lasciare intendere – con affermazioni pressappochiste – che la cooperazione sia lo strumento per una soluzione raggiungibile nello spazio di una legislatura rischia di peggiorare, e di molto, le cose. Perché crea aspettative che, semplicemente, non possono che essere disattese e getta le basi per un pericoloso passaggio successivo: se la cooperazione non serve, non facciamola più.

A che punto siamo

Il mondo dello sviluppo non solo è lontano dall’essere una bancarella di bacchette magiche capaci di risolvere velocemente i problemi se solo ci si decidesse a usarle; è anche un mondo inquieto e percorso in profondità da dubbi e contraddizioni. Sono passati dieci anni da quando il libro Dead Aid (in italiano: La carità che uccide), scritto dall’economista zambiana Dambisa Moyo, ha ferocemente criticato il sistema degli aiuti. «Negli ultimi cinquant’anni», scriveva Moyo nell’introduzione, «più di mille miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo sono stati trasferiti dai paesi ricchi verso l’Africa. Questa assistenza ha migliorato la vita degli africani? No. In realtà, in tutto il globo, i beneficiari di questo aiuto stanno peggio. Molto peggio». E solo quattro anni fa la comunità internazionale si sedeva (simbolicamente) intorno a un tavolo per constatare che gli Obiettivi di sviluppo del Millennio, trionfalmente lanciati nel 2000, non erano stati completamente raggiunti@.

Oggi, mentre gli Obiettivi di sviluppo del Millennio hanno lasciato il posto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015-2030, gli addetti ai lavori nelle agenzie internazionali, nei governi e nelle Ong stanno ancora ponendosi molte domande non solo sugli interventi sui quali concentrarsi ma anche su come misurare i risultati.

Euractiv, rete di media europei che segue l’attualità e il dibattito sui temi rivelanti per l’Ue, ne ha parlato con Sarah Holzapfel, economista e ricercatrice specializzata sull’agricoltura all’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo (Die). Non basta, sottolinea Holzapfel, citare come risultati il numero di chilometri di strade costruiti o l’acqua fornita con i progetti idrici. «Le vite dei gruppi beneficiari sono cambiate? Il loro reddito è cresciuto? La sicurezza alimentare è aumentata?». Queste sono le domande da porsi per capire qual è l’impatto della cooperazione. E, in mancanza di criteri comuni e di sforzi coordinati fra tutti i donatori, compiere queste misurazioni è a oggi estremamente complicato@.

Non bisogna inoltre dimenticare che parte delle difficoltà a misurare non solo i risultati ma anche i problemi da affrontare deriva dalla molto variabile disponibilità di dati statistici e dalla loro non sempre immediata comparabilità. È un’informazione che fatica a farsi strada fino alle pagine degli esteri dei quotidiani nazionali e, meno ancora, dei Tg della sera, eppure è fondamentale.

Haishan Fu, direttrice della sezione della Banca Mondiale che si occupa dei dati dell’economia dello sviluppo, ammoniva lo scorso febbraio che «ci sono ancora molti spazi vuoti sulla mappa dei dati a livello globale», e che «fino a pochi anni fa, 77 paesi ancora non disponevano dei dati adeguati a misurare la povertà. Quel che è peggio è che spesso i dati sono più scarsi proprio nelle zone dove sarebbero disperatamente necessari»@.

D’altro canto, da paesi che, come vedremo fra poco, non riescono a finanziare sanità e istruzione non ci si può aspettare che investano fondi per potenziare i propri istituti nazionali di statistica.

Questo significa che la cooperazione è uno strumento eccessivamente fragile ed è meglio non contarci troppo? No, il contrario. Significa che va fatta a meglio. Con più risorse e anche più coordinamento.

L’Overseas Development Institute (Odi), centro di ricerca con sede a Londra, sottolineava lo scorso autunno che ci sono ancora 800 milioni di persone in povertà estrema, ma il grosso dell’aiuto va ai paesi a medio reddito, non ai più poveri, perché in questi ultimi è più rischioso investire. Anche quando si tratta di aiuti@.

In un rapporto del settembre 2018@ l’Odi individua 48 paesi nei quali l’aumento (stimato) del gettito fiscale nei prossimi anni non arriverà comunque a coprire del tutto i costi per finanziare i tre settori chiave: istruzione, sanità e protezione sociale. Fra questi 48, il rapporto ne isola poi 29 in forte difficoltà economica (severely financially challenged, in inglese): tutti africani tranne Afghanistan, Corea del Nord e Haiti. Si tratta di paesi che non riescono a coprire nemmeno la metà dei costi per far funzionare i tre settori. Se almeno 33 dei 40 miliardi di dollari in aiuti che ora vanno a paesi già in grado di far fronte da soli ai quei costi venissero invece spostati su quei 29 Paesi più deboli, la spesa di questi ultimi per sanità, istruzione e protezione sociale sarebbe coperta.

Inoltre, se tutti i paesi donatori destinassero come da accordi internazionali lo 0,7% del loro Pil alla cooperazione, 184 miliardi di dollari all’anno in più sarebbero disponibili. Ipotizzando che anche solo metà di questi fossero utilizzati dai 48 paesi di cui sopra, tutti potrebbero far fronte al 94% dei costi per i tre ambiti cruciali.

È ovvio che un aiuto efficace richiede coordinamento, assunzione (e mantenimento) di impegni a livello internazionale e, lo ripetiamo, tempo per produrre e consolidare gli effetti.

Le spinte in senso contrario

Non è colpa solo di quell’arpia della Francia o dei malvagi cinesi. Le spinte in senso contrario allo sviluppo e alla riduzione della povertà sono forti e arrivano da molte direzioni. Honest accounts@, un rapporto prodotto nel 2017 da un gruppo di Ong britanniche e africane, rileva che nel 2015, a fronte di circa 162 miliardi di dollari ricevuti in prestiti, rimesse dei migranti e aiuto allo sviluppo, l’Africa subsahariana ha visto uscire dal continente risorse per 203 miliardi. Il saldo, per gli stati a Sud del Sahara, è negativo di circa 40 miliardi.

Come sono usciti questi soldi? Attraverso fatturazione irregolare e altri illeciti finanziari, rimpatrio dei profitti delle grandi aziende (realizzati sul continente africano ma poi riportati nei paesi dove le multinazionali hanno sede o nei paradisi fiscali), rimborso degli interessi sul debito e contrabbando di legno, prodotti ittici e piante o animali selvatici. A questo si aggiungono i fondi che una manciata di milionari africani mettono al sicuro nei paradisi fiscali. Secondo Gabriel Zucman, studioso della London School of Economics, nel 2014 gli africani ricchi detenevano 500 miliardi di dollari in conti offshore. Questi denari non tassati provocano una perdita fiscale per il continente di circa 15 miliardi.

Altra nota dolente è quella della svendita delle risorse naturali: sono numerosi e documentati i casi di funzionari pubblici o membri dei governi africani che, in cambio di tangenti, hanno ceduto a imprese straniere i diritti sullo sfruttamento delle risorse minerarie a prezzi stracciati.

Un esempio per tutti: il rapporto cita uno studio pubblicato nel 2013 dalla Ong britannica Global Witness e dall’Africa Progress Panel, un gruppo di studiosi e leader africani all’epoca presieduto dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan. Lo studio si concentrava su cinque grandi concessioni per estrazione mineraria in Repubblica Democratica del Congo e riportava che lo stato congolese aveva accettato di cedere i diritti di estrazione alle compagnie acquirenti – tutte società offshore con sede nelle Isole Vergini Britanniche – per un miliardo e 360 milioni in meno rispetto al valore di mercato, praticando alle aziende «sconti» fino al 95%. I diritti sono poi stati acquistati da due grandi multinazionali, la Enrc (Eurasian Natural Resources Corporation, fondata in Kazakistan e quotata in borsa a Londra) e l’anglo-svizzera Glencore, mentre le società offshore sono risultate legate a Dan Gertler, uomo d’affari israeliano membro di una delle famiglie più influenti nel mercato dei diamanti. Il miliardo e 360 milioni di mancato introito per le casse dello stato congolese, conclude il rapporto, equivale al doppio di quanto il Congo ha speso nel 2012 per istruzione e sanità.

Più sviluppo meno migrazione?

Sulla rivista dei gesuiti Aggiornamenti Sociali, il sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini segnala che secondo diverse ricerche sul rapporto fra aiuto e migrazione «in una prima non breve fase lo sviluppo incrementa le partenze: più gente accede alle risorse per muoversi, accresce l’istruzione, si apre a nuovi orizzonti e aspirazioni. Solo in seguito, dopo diversi anni, l’emigrazione cala»@.

È la cosiddetta «gobba della migrazione» o migration hump: studi storici e comparati, si legge in un documento dell’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo, hanno mostrato che quando la crescita economica e l’innalzamento del livello dei redditi sono tali che un paese non è più definibile a basso reddito, l’emigrazione inizialmente aumenta. Solo quando il paese diventa a medio reddito è ragionevole aspettarsi una diminuzione del fenomeno@.

Per riassumere: chi ci dice che il problema della migrazione degli africani si risolve aiutandoli a casa loro, in sostanza, ci sta dicendo che bisogna almeno raddoppiare i fondi italiani per lo sviluppo, mettersi d’accordo con una trentina di altri paesi donatori perché il denaro sia usato al meglio, convincere la parte corrotta delle élites africane e la parte corruttrice delle grandi aziende internazionali – italiane comprese – a piantarla e, fatto questo, metterci comodi e pazientare ancora qualche anno perché lo sviluppo nei paesi africani sia sufficiente a far diminuire l’emigrazione invece che incrementarla. «Sapevatelo», diceva un famoso comico.

Chiara Giovetti




Di pacchie e di abbagli


Negli ultimi mesi il dibattito su migrazione, cooperazione e sfruttamento dell’Africa si è ingarbugliato su frasi a effetto e invettive un tanto al chilo sul neocolonialismo. A farne le spese è la chiarezza su temi che, già complessi di loro, di tutto hanno bisogno meno che di essere resi più fumosi.

«Se riapri i porti tornano i morti». Così il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini commentava lo scorso 19 gennaio in una diretta Facebook il naufragio di un gommone a 45 miglia da Tripoli e la morte di 117 su 120 dei suoi passeggeri. «Cuori aperti per chi scappa davvero dalla guerra», aggiungeva poi nello stesso video, «ma porti chiusi per Ong, trafficanti e tutti gli altri», precisando di tenere «a che in Italia si entri chiedendo per favore e dicendo grazie se si ottiene qualcosa» e rallegrandosi dei primi effetti visibili del decreto sicurezza: «Tanti fermi di richiedenti asilo che commettono reati e tante espulsioni». La soluzione del leader leghista al problema dell’immigrazione è presto detta: evitare le partenze direttamente nei paesi d’origine, dove «con Onlus e associazioni perbene, con Ong perbene e volontari perbene si distinguono coloro che scappano dalla guerra – che sono pochi – e coloro che non scappano da nessuna guerra e non hanno diritto a partire e ad arrivare». A questo, continuava Salvini nella diretta Facebook, si aggiunge il fatto che in questo mese di marzo il ministro dovrebbe tornare «in un paese africano che stiamo aiutando per mettere i primi mattoni di un’operazione di sviluppo, di cooperazione, che riguarda la scuola, riguarda la sanità, riguarda il lavoro per decine di migliaia di quei ragazzi».

Quanto a chi è già arrivato in Italia, Salvini aveva dichiarato all’inizio di giugno 2018 in un comizio a Vicenza che «gli immigrati regolari e perbene non hanno niente da temere in questo paese e i figli loro sono i figli miei. Per gli immigrati clandestini è finita la pacchia: preparatevi a fare le valigie»@. Pochi giorni dopo aveva ribadito il concetto chiarendo che «i 170mila finti profughi che in questo momento stanno guardando la televisione in albergo pagati dagli italiani è una pacchia che non ci possiamo più permettere»@.

© Daniele Biella

Pacchie petrolifere

A controbattere a quest’ultima accusa era stata nel giugno 2018 un’immigrata nigeriana, in una lettera pubblicata sul sito Raiawadunia curato dal giornalista Silvestro Montanaro.

«Vengo da un paese, la Nigeria, dove ben pochi fanno la pacchia e sono tutti amici vostri», rivendicava la donna, originaria di Port Harcourt, città industriale sul Delta del fiume Niger dove ha sede la maggior parte delle raffinerie nigeriane. «La regione in cui vivo,» si legge ancora nella lettera, «dovrebbe essere ricchissima, visto che siamo tra i maggiori produttori di petrolio al mondo. E invece no. Quel petrolio arricchisce poche famiglie di politici corrotti, riempie le vostre banche del frutto delle loro ruberie, mantiene in vita le vostre economie e le vostre aziende».

Paese scosso da diversi colpi di stato, deninciava la donna, la Nigeria ha visto andare al potere «personaggi obbedienti ai voleri delle grandi compagnie petrolifere del suo (di Salvini, ndr) mondo, anche del suo paese. Avete potuto, così, pagare un prezzo bassissimo per il tanto che portavate via. E quello che portavate via era la nostra vita».

La Nigeria è fra i primi 10 fornitori di petrolio dell’Italia e nel 2018 il greggio proveniente dal paese africano ha inciso sul totale per poco meno del 4%@.

Un anno fa si è aperto a Milano il processo «Scaroni e altri» per la presunta maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari che i vertici di Eni e Shell avrebbero pagato al governo nigeriano in cambio dei permessi per l’esplorazione del giacimento offshore Opl 245. I fondi sono transitati sul conto del governo di Abuja presso la banca JP Morgan a Londra, poi rientrati in Nigeria in due tranche versate su conti riconducibili alla Malabu Oil & Gas Ltd dell’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete e ad Abubakar Aliyu, imprenditore petrolifero noto in Nigeria come Mr. Corruption e molto vicino a Goodluck Jonathan, che all’epoca dei fatti contestati era il presidente della repubblica di Nigeria. Lo scorso settembre per questa vicenda sono stati condannati in primo grado due mediatori, l’italiano Gianluca di Nardo e il nigeriano Obi Emeka, che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato. Come riporta Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera@, nelle motivazioni della sentenza di condanna depositate lo scorso dicembre, la giudice per l’udienza preliminare Giusy Barbara afferma che «Tutti gli elementi di prova inducono questo giudice ad affermare che il management delle società petrolifere Eni e Shell è stato pienamente a conoscenza del fatto che una parte dei 1,092 miliardi di dollari pagati sarebbe stata utilizzata per remunerare i pubblici ufficiali nigeriani, che avevano avuto un ruolo in questa vicenda e che come “squali” famelici ruotavano intorno alla preda».

Lo scorso novembre, inoltre, un rapporto commissionato a un centro di ricerca da un gruppo di Ong – le britanniche Global Witness e The Corner House e l’italiana Re:Common, da un esposto delle quali è scaturito il processo in corso – mostra come le perdite per lo stato nigeriano non si limitano ai denari malversati della presunta maxi tangente, ma aumenteranno di ulteriori 6 miliardi di dollari a causa delle mancate entrate per il fisco nigeriano. L’analisi rivela infatti che l’accordo, del 2011, fra il governo di Abuja e le due compagnie petrolifere per l’esplorazione del giacimento Opl 245 include condizioni fiscali molto generose nei confronti di queste ultime. «I più alti funzionari nel Dipartimento delle Risorse petrolifere della Nigeria», si legge nel rapporto, «avevano protestato contro l’accordo, definendolo “altamente svantaggioso per gli interessi del governo federale”. Queste preoccupazioni sono state ignorate o respinte dai ministri dell’epoca, che sono attualmente accusati dai pubblici ministeri di aver ricevuto tangenti provenienti dal miliardo di dollari pagato da Shell e Eni per l’accordo»@.

© Valentina Tamborra

I mattoni di un’operazione di sviluppo?

Salvini rivendicava nella sua diretta Facebook atti concreti a sostegno della cooperazione allo sviluppo. Lo scorso agosto aveva anche annunciato di avere in cantiere un progetto che prevede almeno un miliardo di spesa e di investimento per sostenere l’economia e il lavoro di centinaia di migliaia di persone in Africa, soprattutto puntando sull’agricoltura, sulla pesca e sul commercio»@.

Su questo punto, i dati dicono però altro: «Negli ultimi anni», segnalano le Ong del network Link2007, «l’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) dell’Italia ha avuto un andamento crescente, passando dallo 0,17% del Pil nel 2013 a quasi lo 0,30% (0,294%) nel 2017. Tale progressione sarebbe dovuta continuare fino a raggiungere la media europea dello 0,5% del Pil, come indica la legge 125/2014 e lo stesso governo aveva programmato nella nota di aggiornamento al Def di settembre. Invece la legge di Bilancio inverte tale progressione fissando per il prossimo triennio un andamento decrescente: 0,289% nel 2019 e 0,262% per i due anni successivi»@.

E allora i francesi?

Noi i cattivi? C’è chi fa peggio. Questa sembra essere la logica di fondo con cui diversi esponenti politici, anche dell’area di governo, hanno tentato di recente di sollevare l’Italia dalle proprie responsabilità in fatto di migrazione e cooperazione.

Lo scorso gennaio sia Alessandro di Battista (M5S) che Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) in due differenti trasmissioni televisive si sono lanciati in una teatrale e approssimativa invettiva sul franco Cfa. Si tratta in realtà di due monete distinte utilizzate in due gruppi di paesi dell’Africa centrale e di quella occidentale. Due monete che hanno lo stesso nome e lo stesso tasso di cambio fisso nei confronti dell’euro, pur non essendo interscambiabili. Monete eredità della dominazione coloniale francese. Cfa, infatti, stava per Colonies Fraçaises d’Afrique (colonie francesi d’Africa) e, dopo le indipendenze dei paesi africani, l’acronimo è rimasto lo stesso ma significa ora Communauté financière africaine (comunità finanziaria africana).

È attraverso questa moneta, hanno sostenuto entrambi i politici italiani, che la Francia controlla le risorse e le economie di quei paesi e li priva della sovranità monetaria@ @.

In particolare, ha detto Di Battista, i 14 paesi africani che utilizzano il franco Cfa «per mantenere il tasso fisso prima con il franco francese e oggi con l’euro sono costretti a versare circa il 50% dei loro denari in un conto corrente gestito dal Tesoro francese».

Non è il Cfa il problema

© Marco Bello

Le precisazioni e le smentite alle parole dei due politici non si sono fatte attendere. In particolare, quella proposta da Mariasole Lisciandro sul sito lavoce.info sottolinea come i paesi dell’area Cfa versino alla Francia la metà delle loro riserve in valuta straniera (e non «la metà dei loro denari»), per un ammontare totale di 10 miliardi di euro@.

Inoltre, Di Battista e Meloni non hanno fatto una grande rivelazione, anzi, sono loro ad essere in ritardo visto che il dibattito sulla questa valuta africana è in corso da decenni. Chi lo critica sostiene che il tasso fisso danneggia le esportazioni dei paesi africani che lo usano, perché i prodotti esportabili sono troppo costosi per essere appetibili e che, viceversa, rende conveniente alle multinazionali francesi (ed europee) investire in quella zona potendo contare sulla stabilità del tasso di cambio. Chi invece è a favore del franco Cfa sostiene che ha garantito una maggior stabilità economica e tenuto sotto controllo l’inflazione (che nell’area è circa al 2%).

Ancora, diversi osservatori hanno fatto notare che la proporzione dei migranti provenienti dall’area Cfa è bassa: «Nell’elenco dei paesi da cui sono arrivati i migranti in Italia, diffuso dal ministero dell’Interno e aggiornato a dicembre 2018», scrive David Caretta su Il Foglio, «il primo paese che adotta il franco Cfa è la Costa d’Avorio, ottavo in lista, da cui sono arrivate 1.064 persone su 23.370»@.

E anche a voler prendere, invece degli arrivi dell’anno scorso, la popolazione straniera non comunitaria residente in Italia, le persone provenienti dalle due zone sono in totale 202mila su 3,7 milioni: il 5,2%. Un quinto ha meno di 17 anni@.

Bisogna infine ricordare che l’adesione alla valuta è volontaria – e alcuni paesi come la Mauritania e la Guinea Conakry ne sono usciti – e che il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato nel novembre 2017 a Ouagadougou (Burkina Faso) che del franco Cfa «la Francia non è la padrona, ne è il garante. Questo significa che è prima di tutto una scelta degli stati membri della zona Cfa (…).
Il presidente Kaboré [capo di stato del Burkina] decide domani: “non sto più nella zona franco”? Non ci sta più»@.

Non c’è dubbio che un conto sono le dichiarazioni pubbliche di Macron e un altro i reali rapporti di forza economici, il ruolo degli interessi in Africa di grandi gruppi come Bolloré o Bouygues e i legami con Parigi di tanti membri delle élite dell’Africa francofona, spesso formati in università francesi e vicini alla Francia anche per via di rapporti familiari, come è il caso del presidente ivoriano Alassane Ouattara, la cui moglie è la donna d’affari di origine francese Dominique Claudine Nouvian.

Ma è proprio questo il punto: a voler fare le pulci alla Francia per la sua condotta non sempre esemplare e i suoi interessi in Africa si ha davvero l’imbarazzo della scelta, a cominciare dalla a dir poco fallimentare Opération Turquoise, operazione militare dispiegata durante il genocidio in Ruanda, per continuare con l’Opération Licorne e il ruolo francese – da molti giudicato poco neutrale -nella guerra civile in Costa d’Avorio. Criticare Parigi per il franco Cfa, per di più con argomentazioni claudicanti, abbassa in modo imbarazzante il livello del dibattito. Come si dice spesso in questi casi, sono questioni complesse. E non si spiegano (né si capiscono) nei 280 caratteri di un tweet o in un minuto e mezzo di talk show.

Chiara Giovetti

© Simone Perolari


Chi è un rifugiato

 

Sono anni ormai che si parla di migrazione, di profughi e di asilo, eppure i vertici del governo e molti degli esponenti politici italiani continuano a parlare di «veri» rifugiati, che sarebbero solo quelli che scappano dalla guerra, e «finti» rifugiati o migranti economici, che sarebbero più o meno tutti gli altri. Corollario: se vieni dalla Siria hai diritto, se vieni dalla Nigeria no, salvo zone in cui c’è Boko Haram.

Non è così.

  • Un rifugiato scappa da una persecuzione, non dalla guerra, ed è chi «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese» (Convenzione di Ginevra, articolo 1, lettera a @).
  • La protezione sussidiaria è invece regolamentata da due direttive europee (2004/83/CE e 2011/95/UE) e garantita a chi «non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno».
  • Sono considerati danni gravi: la condanna a morte o all’esecuzione, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante o la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
  • Infine c’è la protezione umanitaria: può essere rilasciata per «seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», anche in caso di diniego alla richiesta di asilo. Ma con il decreto sicurezza la protezione umanitaria è stata eliminata ed è stato introdotto un permesso di soggiorno per «casi speciali».

Chi.Gio.




Diseguaglianza, la sfida che decide il nostro futuro

Il 18 giugno 2018, a tre anni di distanza dalla pubblicazione della Laudato
Si’, circa venti partner, fra cui Caritas Italiana e Focsiv, hanno lanciato la
campagna triennale «Chiudiamo la forbice: dalle diseguaglianze al bene comune,
una sola famiglia umana». Vediamo i numeri delle disparità nel mondo e alcune
iniziative che la campagna ha messo in campo su uno dei tre ambiti: il cibo.

Immaginiamo per un attimo che sul pianeta vivano cento persone e che il presidente della Banca Planetaria chieda loro di portare in banca tutti i soldi che possiedono perché viene emessa una moneta nuova e quelle vecchie non valgono più. In cambio verrà distribuita la nuova moneta che si chiama globone.

La Banca Planetaria convoca i cento abitanti del
pianeta e, cominciando da chi possiede di più, restituisce a ciascuno il suo
con le dovute rivalutazioni.

Per facilità supponiamo che tutti i soldi
raccolti equivalgano a cento globoni.

Arriva il primo signore, solo. Gli danno i suoi
soldi: 33 monete. È molto soddisfatto. Proprio un bell’affare. Nel 1980, quando
era stata fatta un’operazione simile, aveva avuto «solo» 28 monete.

Arrivano poi altre 9 persone. Ricevono 37 monete,
più o meno quattro a testa. Per loro è un colpo, perché nel 1980 ne avevano
ricevute 40, ma visti i tempi che corrono, meglio non lamentarsi, le perdite
sono contenute.

Dei 100 globoni iniziali, ne rimangono 30, ma le
persone da rimborsare sono ancora 90. Quanto riceverà ciascuno? Tutti lo
stesso?

Sono chiamate altre 15 persone: ricevono 20
globoni da dividere fra loro. Mugugnano un po’ perché rispetto al 1980 hanno
perso almeno un globone, o forse due, in favore del primo uomo.

Rimangono ancora 10 monete in tutto per 75
persone. A 25 sono distribuiti equamente 8 globoni, 32 centesimi a testa.
Speravano di prendere un po’ di più, ma possono andarsene contenti perché
almeno non hanno perso molto nel cambio. Metà dei «clienti» è sistemata.

A questo punto, le 50 persone rimanenti devono
spartirsi quel che rimane: due monete. Non due a testa: due in tutto, 4
centesimi ciascuno.

Una storia per capire

Questa storiella è una semplificazione dei dati riguardanti la distribuzione della ricchezza nel mondo pubblicati nel World Inequality Report (Wir) del 2018. Va detto che queste percentuali devono essere prese cum grano salis, come gli autori stessi tengono a chiarire, perché i dati affidabili sulla ricchezza nel mondo sono meno disponibili di quelli sul reddito, altra misura su cui si basa il rapporto. Inoltre, lo scenario è costruito sui dati dei soli Stati Uniti, Unione europea e Cina.@

Tuttavia, con le dovute cautele, è possibile
sostenere che di questo passo – cioè ai tassi di crescita della diseguaglianza
attuali – nel 2050 l’1% più ricco della popolazione mondiale arriverà a
possedere di più di tutta la classe media mondiale.

Per capire meglio riprendiamo la nostra storiella
e immaginiamo di moltiplicare tutto per dieci: gli abitanti del pianeta sono
mille, non cento, l’uomo con 33 monete diventa 10 uomini con 330 monete, e i 40
(15 + 25) della fascia intermedia con 28 globoni diventano 400 con 280 globoni.
Oggi, per eguagliare la ricchezza dei 400 uomini della fascia intermedia serve
la ricchezza di otto uomini e mezzo dei dieci più ricchi.

Le proiezioni nel rapporto dicono che nel 2050
basterà la ricchezza di uno solo dei dieci super ricchi per eguagliare la
ricchezza dei 400 della classe media mondiale.

Ma di quante persone reali stiamo parlando? I
dieci ricchi con 330 monete (l’1% della popolazione) corrisponono a circa 70
milioni di persone, spiega Lucas Cancel, uno degli autori del Wir 2018, alla
rivista francese Alternatives Economiques, o 40 milioni considerando la
sola popolazione adulta. Il livello di reddito di queste persone è di 330mila
euro all’anno.

La metà più povera della popolazione mondiale, invece (i cinquanta uomini che si dividono due monete nella storiella iniziale) corrispondono a tre miliardi e mezzo di persone e hanno un reddito sotto i 3.200 euro l’anno per ogni adulto@.

Diseguaglianza in crescita

© Gigi Anataloni /AfIMC

Nel 2016 la quota di reddito nazionale detenuta
dal 10% più ricco della popolazione variava dal 37%  in Europa al 61% nel Medio Oriente. Dal 1980
al 2016 – il periodo considerato dal Wir – la diseguaglianza è aumentata un po’
ovunque, ma con tassi molto differenti: mentre in Europa la variazione è stata
di pochi punti percentuali, in Russia è passata da poco più del 20% nel 1980 a
oltre il 40% nel 2016.

Del complessivo aumento del reddito globale nei
36 anni considerati, l’1% più ricco della popolazione mondiale ha «catturato»
circa il 27%. Il 50% più povero ha certamente beneficiato di tassi di crescita
degni di nota, ma la quota  di aumento
del reddito «catturato» dalla fascia più povera è stata del 12%, pari cioè a
meno della metà rispetto alla quota dei super ricchi. Chi ha visto la propria
parte restare invariata, se non addirittura erodersi, è ancora una volta la
classe media.

Da qui al 2050, gli scenari riguardanti le
diseguaglianze sono molti. Il migliore è quello che le vede crescere in tutti
paesi ai tassi «contenuti» dell’Europa. Questo porterebbe la quota dei più
ricchi dal 27% al 19% e aumenterebbe dal 12% al 13% la quota goduta dai più
poveri. Viceversa, se il mondo seguisse il trend degli Stati Uniti, la «fetta»
di crescita a beneficio dei 3 miliardi e mezzo di poveri crollerebbe al 6%,
mentre i 70 milioni di persone più ricche otterrebbero un ulteriore aumento di un
punto percentuale.

Chiudiamo la forbice, ora

Chiudiamo la forbice@ è la campagna lanciata il 18 giugno dell’anno scorso da Caritas Italiana, Focsiv e una ventina di altri soggetti, prevalentemente di ambito ecclesiale. L’attenzione per il tema delle diseguaglianze è sintetizzata in una frase chiave contenuta nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «L’iniquità è la radice dei mali sociali».

La data del lancio di Chiudiamo la forbice, precisa il comunicato stampa che apre la campagna, corrisponde al terzo anniversario della pubblicazione dell’enciclica Laudato Sì’@.

«Non ci sono due crisi separate, una ambientale e
un’altra sociale», sostiene Francesco nell’enciclica, «bensì una sola e
complessa crisi socioambientale» che richiede un «approccio integrale per
combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso
tempo per prendersi cura della natura».

Di questo approccio integrale vuole farsi
portatrice la campagna, che concentra il proprio lavoro principalmente su tre
ambiti: il cibo, i conflitti e la mobilità umana, da leggere nell’insieme
attraverso due elementi trasversali del contesto: la dimensione ambientale, cioè
la cura della casa comune, e la dimensione finanziaria, in particolare «la
relazione tra debito, crisi finanziarie, diseguaglianze e resilienza rispetto
all’instabilità sociopolitica e allo svilupparsi di conflitti violenti».

A Chiudiamo la forbice sono legati tre concorsi
per la produzione di un video, una foto e un disegno che esprimano il titolo e
il tema della campagna. La scadenza per la presentazione dei lavori è il 30
giugno 2019, mentre la premiazione avverrà il 30 dicembre.

Il cibo, diritto basilare negato

© AfMC / Cogliati Matteo

Quello del cibo, dalla produzione al consumo, è un ambito nel quale le diseguaglianze sono di un’evidenza schiacciante. Del cibo sprecato annualmente sul pianeta, pari a 1,3 miliardi di tonnellate, gli abitanti di Europa e Nord America ne buttano fra i 95 e i 115 chili a persona contro i 6-11 chili a testa del resto del mondo. Nel primo caso, le perdite avvengono principalmente al livello del consumo e della vendita al dettaglio. In quest’ultimo ambito, buona parte dello spreco è l’effetto dell’applicazione di norme che danno eccessiva importanza all’aspetto dei prodotti. Nei paesi in via di sviluppo, invece, gli sprechi avvengono soprattutto nella fase successiva al raccolto e in quella di lavorazione, spesso a causa di limiti e inefficienze nelle tecniche di raccolta e nella catena del freddo. Nei paesi a medio reddito, infine, a causare le perdite di cibo sono principalmente la mancanza di coordinamento fra produttori e venditori e la scarsa consapevolezza da parte di produttori, venditori e consumatori sul problema dello spreco e su eventuali modi per riutilizzare il cibo che viene attualmente buttato@.

La campagna cerca di far emergere gli aspetti
disfunzionali in questo settore: «Se il 2017 è l’anno in cui la Fao ha rilevato
per la prima volta da tempo un nuovo aumento delle persone che soffrono la fame
sul pianeta, non cessano di aggravarsi le varie malattie dell’opulenza, come
l’obesità, lo spreco di cibo, la sovra alimentazione, ecc. Sullo sfondo vi sono
fenomeni complessi come la concentrazione del potere economico nelle filiere
della produzione del cibo, o i fenomeni dell’accaparramento della terra».

Fra le iniziative promosse in questo ambito vi è la spesa sospesa, che a Roma ha preso forma il primo fine settimana di ottobre al Villaggio Coldiretti. «Per tutto il weekend della manifestazione i visitatori dei banchi del maximercato degli agricoltori promosso da Coldiretti e Campagna Amica al Circo Massimo hanno avuto la possibilità di fare una donazione libera grazie alla quale acquistare prodotti a favore dei più bisognosi, sul modello dell’usanza campana del “caffè sospeso”, quando al bar si lascia pagato un caffè per il cliente che verrà dopo». Frutta, verdura, formaggi, salumi e altri generi alimentari così raccolti, per un totale di una tonnellata e mezzo, sono stati poi consegnati alla Caritas e alla Comunità di Sant’Egidio, che li hanno utilizzati per rifornire i quattro Empori della Solidarietà promossi dalla Caritas di Roma, che sono «supermercati di medie dimensioni a cui possono accedere gratuitamente persone che si trovano in temporanea difficoltà e che non riescono a sopperire a tutte le loro necessità»@.

Anche a Torino si è svolto a giugno un evento simile ai Giardini Reali superiori. Il bilancio è stato di una tonnellata di cibo raccolta e distribuita alle famiglie bisognose@.

Chiara Giovetti

© AfMC



Donna, dono e solidarietà

 


Dedichiamo la campagna di Natale alle donne: bambine, adolescenti, adulte, anziane spesso costrette a portare i pesi maggiori nelle loro comunità. Per questo vanno protette, valorizzate e messe in condizione di generare il cambiamento verso società più eque.


Testo di Chiara Giovetti, foto AfMC


Mi chiamo Oyun,
ho dieci anni e vivo alla periferia di Ulan Bataar, la capitale della Mongolia. Sono arrivata qui insieme alla mia famiglia dopo l’ultimo dzud, l’inverno più freddo che c’è. Lo dzud fa diventare tutto bianco e gelido e fa morire moltissime bestie, a volte anche le persone@.

Strage di animali durante lo dzud

Noi, ad esempio, siamo dovuti venire in città perché avevamo perso tutto. Le nostre pecore, i nostri cavalli e i nostri yak. Erano tanti, io non so quanti, papà li conosceva tutti per nome. Papà è stato triste per tanti giorni, stava sempre in silenzio ed era strano, perché papà di solito è un tipo allegro. Una volta l’ho visto davanti a una pecora stesa a terra, anche lui stava immobile e piangeva. Lui dice di no, ma io l’ho visto che gli scendevano le lacrime.

Alla fine, una sera ha parlato a me, a mamma e ai miei tre fratelli. Ha detto che non si poteva più fare niente, che dovevamo prendere la nostra gher (la casa tenda tipica della Mongolia) e andare in città. I miei fratelli avevano delle facce tristi, io no, in città c’ero stata pochissime volte ed ero curiosa di vedere bene com’era. Ma adesso che sono qui da quasi due anni mi manca andare a cavallo nella steppa, aiutare papà e i miei fratelli a far guadare il fiume agli animali, vedere le volpi o le marmotte che sbucano all’improvviso e poi scappano via.

Dove abitiamo ora, le case sono troppo vicine, si sentono i rumori, a volte si sentono anche le persone litigare e dire cose brutte. E poi c’è un odore cattivissimo, tanta polvere e a volte vedo anche del fumo grigio che, quando lo respiri, ti fa bruciare il naso. Dove abitavo prima c’era solo l’odore dell’erba, delle pecore e del latte e quando respiravi non ti bruciava niente@.

Qui in città vado a scuola e, dopo la scuola, vado dai missionari. Anche loro hanno una gher e al pomeriggio noi bambini possiamo andare lì a giocare, disegnare, fare i compiti. Facciamo anche merenda. La mia amica Sarnai l’altro giorno mi ha detto che era contenta di fare merenda perché la sera, a casa, a volte non mangia niente. La sua famiglia era una delle quattro che teneva il proprio gregge insieme al nostro. Anche loro sono dovuti venire in città dopo lo dzud. Il papà della mia amica non ha un lavoro e certi giorni non può comprare da mangiare. Lui è molto arrabbiato per questo e una volta l’ho visto fuori dalla sua gher che urlava e faceva piangere la mamma di Sarnai. Altre volte l’ho visto che camminava in un modo strano, non riusciva a tenere dritte le gambe, sembrava che gli facessero male. Forse è malato.

Io sono più fortunata, perché mio papà ha trovato un lavoro. Un suo amico che viveva già in città gli ha insegnato ad aggiustare le macchine e adesso lavora nell’officina. Così noi abbiamo sempre da mangiare. Solo una volta che mio fratello si era ammalato la mamma ha dovuto comprargli delle medicine e per un po’ di giorni abbiamo mangiato solo pane e latte perché non c’erano abbastanza soldi. Questa è un’altra cosa che ho notato della città: i grandi parlano sempre di soldi. Quando eravamo nella steppa, invece, papà dei soldi non parlava quasi mai e parlava sempre di pecore. Forse i soldi sono le pecore della città.

Donne in festa durante cerimonie di iniziazione nel Samburu, Kenya

Mi chiamo Naisula
e oggi si sposa mia sorella Regina. Sono tornata alla mia manyatta (recinto per gli animali di una famiglia nel quale ci sono una o più capanne secondo il numero delle mogli di un uomo, ndr) vicino a Maralal per un po’ di giorni. Perderò un po’ di lezioni all’università, ma ne vale la pena.

Prima di venire al villaggio sono passata a Wamba per far visita a sister Grace, la missionaria preside della scuola secondaria che ho frequentato: era commossa quando mi ha salutato. Lei sa bene che sono venuta a festeggiare qualcosa di più di un matrimonio ed è anche grazie alla sister se le cose sono andate così.

Era con lei che a scuola parlammo del cut (più esattamente Mgf, mutilazione genitale femminile, ndr), il taglio che le ragazze della nostra «tribù» devono farsi fare per poter essere considerate donne e sposarsi. In quei giorni la nostra preside era molto triste: una delle ragazze della scuola era morta da poco in conseguenza di un’infezione causata proprio dalla Mgf praticata durante le vacanze tra un anno scolastico e l’altro. E pensare che era stata lei a volere il taglio, per non essere trattata con disprezzo – da inferiore – dalle sue compagne di scuola già iniziate.

Noi eravamo spaventate, perché sapevamo che presto la cerimonia poteva toccare anche a noi, o alle nostre sorelle più piccole, come Regina. Allora sister Grace ci parlò della cosa con calma e delicatezza, ma anche con molta determinazione: «Non sono arrabbiata con nessuno – disse -, ma non voglio che questo succeda a un’altra di voi».

Insieme a lei c’era Catherine, una signora di un villaggio non lontano dal mio, anche lei aveva frequentato la stessa scuola anni prima e aveva poi iniziato a lavorare in un centro per la promozione delle donne.

La signora ci parlò a lungo; ci disse di non avere paura, che ci avrebbe aiutate e che sarebbe venuta nei nostri villaggi. Era necessario venire di persona per parlare con i nostri genitori, perché aveva visto che non bastava affrontare la questione solo con noi. Prima che la nostra amica morisse, alcune organizzazioni avevano iniziato a fare delle cerimonie di iniziazione alternative, senza il taglio. Ma le facevano lontane dai villaggi e senza la famiglia, senza il coinvolgimento degli anziani, perciò per la gente del villaggio non valeva niente. E alla fine le ragazze venivano «tagliate» comunque.

Noi sapevamo bene il perché. Nei rituali dell’iniziazione il taglio è solo il culmine più evidente di tanti altri gesti che preparano e celebrano la «nascita di una persona nuova» nella famiglia, nel villaggio, nel clan. E il padre, in tutto questo, ha un ruolo speciale, unico. Ogni padre ci tiene moltissimo, anche il mio. Le famiglie vogliono che sia fatta nella casa dove le ragazze sono cresciute e che la gente del villaggio partecipi alla festa. Anzi, questo è talmente importante che ogni quattordici anni circa, tutte le famiglie di un clan si spostano per mesi in un villaggio speciale, detto lorora, proprio per celebrare l’iniziazione e l’inizio di una nuova generazione.

Catherine venne al villaggio, parlò con la comunità e poi con le singole persone. Parlò anche con i miei tre fratelli e con i loro amici. Spiegò a tutti perché era morta la nostra amica e anche che cosa era successo ad altre ragazze che erano ancora vive ma avevano enormi problemi di salute: erano finite all’ospedale per un’infezione, avevano dolori continui e a causa di questo spesso non potevano lavorare o studiare. La sua proposta era semplice: la cerimonia sarebbe rimasta identica in tutto, tranne che nella parte in cui si faceva il taglio.

Ci volle un po’ perché la gente del villaggio smettesse di rifiutare l’idea. Molti padri e anche diverse madri all’inizio dicevano che, senza taglio, nessuno avrebbe più voluto le loro figlie come mogli. Qualcuno pensava anche che le ragazze avrebbero più facilmente preso malattie come l’Hiv o che sarebbero diventate prostitute.

Catherine rispose a tutte queste obiezioni, con pazienza, tornando al villaggio parecchie volte, anche con gli infermieri dell’ospedale e altre donne che lavoravano con lei al centro. Mio padre a poco a poco si convinse. Disse che non era d’accordo con tutti questi cambiamenti e non li capiva, ma che mia madre aveva ragione su una cosa: le sue figlie non potevano morire come la loro amica. Io e mia sorella ricevemmo il permesso di fare la cerimonia senza il taglio.

Anche gli animali domesitci sono parte delel cerimonie di iniziazione.

Tre anni dopo nostro padre annunciò che stava negoziando la dote con la famiglia di un ragazzo che voleva mia sorella in moglie, una famiglia importante che aveva molto più bestiame di noi. Regina era spaventata. Adesso era entrata anche lei alla secondaria e non voleva lasciarla. E non aveva idea di chi fosse il ragazzo che l’aveva chiesta in sposa. Raccontai tutto a Catherine che tornò al villaggio per parlare con mio padre e mia madre, spiegò loro che Regina era troppo giovane e che per il suo bene era meglio aspettare ancora qualche anno e lasciare che finisse la secondaria. Mio padre si arrabbiò moltissimo: «Ho già accettato la cerimonia come la volete voi», disse, «ora basta. A sposarsi non si muore. Se io non do mia figlia a una famiglia che me la chiede, qualcun altro rifiuterà la propria figlia a un membro della mia famiglia. I miei parenti soffriranno a causa mia e non mi vorranno più fra loro».

Papà sembrava inamovibile e Regina, che si era rassegnata, lasciò la scuola; dimagrì tanto, mangiava a stento e cominciò a non parlare quasi più.

Ma in quei giorni la figlia di un nostro parente perse il bambino che portava in grembo, finì all’ospedale e rimase in vita per un soffio. Aveva sedici anni e il suo corpo, semplicemente, non era pronto per una gravidanza. Mio padre fu molto colpito, credo abbia pensato che quello che era successo era un segno, un messaggio per lui. Non volle vedere nessuno per due giorni, poi chiese lui di vedere Catherine.

Rimasero tanto tempo seduti a parlare su un tronco al limitare della manyatta e quando ebbero finito, mio padre chiamò mia madre, Regina e i miei fratelli e disse a mia sorella che poteva tornare a scuola. Mia madre non mosse un muscolo del viso mentre mio padre parlava, ma Regina dice che appena lui girò le spalle per rientrare in casa lei fece un sorriso come non le aveva mai visto fare.

Regina ha continuato e finito la secondaria e mentre era a Wamba a studiare ha conosciuto Daniel, il giovane uomo smilzo diplomato in elettrotecnica che sta per diventare mio cognato. A dire la verità lo è già: lui e Regina si sono sposati la settimana scorsa in chiesa a Wamba ma hanno voluto fare anche il matrimonio tradizionale qui al villaggio, per rendere omaggio ai loro genitori e alla cultura dalla quale veniamo. La famiglia di Daniel ha anche pagato la dote, come vuole la tradizione.

Guardo il bel viso di mia sorella decorato con ocra rossa, il suo collo ornato di collari colorati, cerco di immaginare la sua gioia quando fra poco indosserà il mporro engorio, la collana delle donne sposate, e ringrazio Dio perché siamo qui.

Donne Warao a Pacaraima, Roraima, Brasile

Mi chiamo Milagros,
ma a scrivere questa lettera è mia nipote, Noellys. Io so leggere ma ho difficoltà a scrivere. Alle donne indigene della mia età non è stato insegnato bene.

Domani partiamo. Lasciamo la nostra terra e andiamo in Brasile. Qui a Tucupita non si può più stare. Il Venezuela ormai è troppo povero. Io ho il diabete e qui non riesco più a comprare le medicine. Mio figlio Raphael ha un lavoro, ma il suo salario di un mese basta appena per mangiare una settimana e niente altro.

Andremo prima in un posto che si chiama Pacaraima. Hanno fatto tutti così. Tutti quelli che sono partiti prima di noi. Sono tantissimi. Poi andremo a Boa Vista oppure a Manaus, così ha detto Raphael. Lui cercherà un lavoro e speriamo di poter stare meglio.

Sono preoccupata, molto preoccupata. Il viaggio è lungo e io sono vecchia. Farò molta fatica. Poi bisogna sperare che tutto vada bene. Che facciamo se i brasiliani non ci vogliono? Se ci cacciano? Se ci attaccano? A qualcuno partito prima di noi è successo@.

E quando saremo di là che cosa succederà? Mio figlio e mia nuora troveranno lavoro? Io potrò aiutarli? Certamente terrò i miei nipoti mentre i loro saranno al lavoro. Io so anche fare le amache e i cesti di moriche. Io e mia sorella Maria lo abbiamo insegnato a tante donne, eravamo le più esperte. Troverò la palma di moriche là dove andiamo? E qualcuno vorrà le mie ceste?

Chiara Giovetti

Queste storie, raccontate da donne immaginarie, non sono inventate, piuttosto le abbiamo messe insieme. Sia le donne che le storie. Le abbiamo ascoltate nella periferia della capitale della Mongolia, dove vivono le bambine come Oyun alle prese con il difficile adattamento alla città. Un’impresa per chi ha vissuto sempre all’aria aperta con le greggi e si trova ora a dover affrontare povertà, alcolismo, violenza ed emarginazione. E un inquinamento mostruoso, con quantità di polveri sottili 133 volte più alte di quelle che l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) considera accettabili e una funzionalità polmonare dei bambini del 40% più bassa rispetto ai coetanei che vivono in aree rurali.

Le abbiamo incontrate in Kenya, dove organizzazioni locali – nelle quali spesso lavorano donne formate nelle nostre scuole – cercano di accompagnare le comunità a comprendere i danni causati dalla Mgf e trovare vie alternative all’iniziazione alla vita adulta e al matrimonio.

Le abbiamo intuite nelle parole delle anziane indigene come Milagros, che si trovano a vivere in un mondo capovolto dove nessuno le può più proteggere e accudire perché possano riposare dopo una vita passata a lavorare e prendersi cura della famiglia ma, al contrario, devono rimettersi in gioco e migrare – come a oggi stanno facendo centinaia di migliaia di venezuelani – o, bene che vada, cavarsela da sole@.

Chiara Giovetti


A tutte queste donne è dedicato il nostro Natale. Perché siamo convinti che prima dei doni da scambiarsi e da aprire venga il dono delle persone. E chi dice donna, dice dono.

Vuoi aiutarci?




Chi dice donna dice… dono


Quest’anno, per la nostra campagna di Natale, parliamo di donne: tanto preziose quanto poco valorizzate in molti dei paesi nei quali lavorano i missionari della Consolata. Le seguiamo in tutte le fasi della loro vita: bambine, ragazze, adulte, anziane, studentesse, lavoratrici, madri, nonne.

«Tanto tempo fa in un discorso fatto all’Onu dissi che volevamo che gli uomini facessero qualcosa per noi. Quel tempo è passato. Non chiederemo agli uomini di cambiare il mondo, lo faremo noi stesse». Così si è rivolta al World Economic Forum di Davos lo scorso gennaio Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace 2014, attivista pachistana per il diritto all’istruzione che nel 2009 i talebani cercarono di zittire sparandole alla testa. Malala ha esortato ogni donna e bambina a farsi sentire, denunciando le discriminazioni e violenze che vedono nelle loro comunità e nelle loro società.

Se le donne e le bambine del mondo decidessero di farsi sentire tutte contemporaneamente, il pianeta diventerebbe un posto piuttosto rumoroso. Risuonerebbero, infatti, le parole di protesta di 34 milioni di bambine in età da scuola elementare che non sono in classe; più forte di tutte sarebbe la voce di 15 milioni di potenziali alunne – 9 milioni nella sola Africa – che probabilmente in un’aula non ci metteranno mai piede.

Si sentirebbe inoltre il lamento del miliardo e duecento milioni di donne che nel corso della vita hanno subito violenza fisica o sessuale almeno una volta e di 750 milioni di donne che si sono sposate prima dei 18 anni. Oggi continuano a essere costrette al matrimonio almeno 23 bambine al minuto, per un totale di 12 milioni all’anno@. Si udirebbe senz’altro il grido di dolore – e in questo caso non è un’espressione retorica – di 200 milioni di donne e bambine che hanno subito una forma di mutilazione genitale in trenta paesi del mondo@.

Questo coro è solo immaginario; ma le singole voci sono reali e ben distinguibili. I nostri missionari le ascoltano ogni giorno nel loro lavoro, cercando di fare loro da megafono e di trovare risposte efficaci.

Spose invece che alunne

Loyangallani, Kenya

Tra i Turkana (nel Nord Ovest del Kenya, distribuiti nelle contee del Turkana, Samburu e Marsabit), nascere femmina in una famiglia di pastori nomadi significa spesso dover rinunciare alla scuola. Lo sanno bene i missionari che operano a Loyiangalani e che da circa dieci anni portano avanti un’iniziativa di alfabetizzazione per bambini (destinati a essere pastorelli) e bambine (destinate al matrimonio precoce) che non sono mai andati a scuola.

La contea Turkana è una di quelle che ha il tasso di scolarizzazione più basso: solo metà dei bambini vanno a scuola, contro il 92% della media nazionale. Per le femmine, l’abbandono scolastico è ancora più probabile e i matrimoni precoci ne sono una causa.

Nella contea Samburu, dove si trova il Wamba Catholic Hospital – gestito dalla diocesi di Maralal di cui è vescovo monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata – la situazione delle bambine è ancora più complessa. Qui, secondo uno studio dell’Unicef (esteso anche ad altre quattro aree dove vivono i gruppi etnici Masaai, Pokot, Somali e Rendille) al problema dei matrimoni precoci si affianca e si lega quello delle mutilazioni genitali femminili (Mgf o – in inglese – Fgm, female genital mutilation). Su un campione di quasi 5.300 donne intervistate, per Wamba i dati sono preoccupanti: la mutilazione (escissione della clitoride senza infibulazione, la quale, quest’ultima, comporta anche la cucitura della vagina, ndr) riguarda il 95% delle donne di 18-49 anni e il 57% delle bambine fra i 10 e i 17@.

Alcuni punti sulla Mgf

La questione delle mutilazioni genitali femminili è complessa e va capita bene nel suo contesto. L’esperienza dei nostri missionari e missionarie evidenzia che:

– è una pratica ben radicata nella tradizione culturale di molti (non tutti) popoli africani;
– non viene praticata per ragioni igieniche e non è un fatto privato;
– è sempre legata a due riti di alto significato culturale e sociale, come l’iniziazione o il matrimonio;
– è il segno della nuova identità sociale della bambina (o giovane) che, con il rito, diventa «adulta».

Si tratta dunque di un fenomeno culturalmente complesso e radicato, al punto che molte ragazze chiedono di essere sottoposte all’escissione prima di iniziare la scuola secondaria per non essere escluse o umiliate dalle loro compagne. Per contrastare questa pratica non basta quindi dire «no alle Mgf»: occorre aiutare la comunità a creare forme alternative e socialmente accettate di rituali di passaggio e iniziazione.

L’abolizione delle Mgf o la loro sostituzione con altri riti devono conciliare il diritto della persona all’integrità del proprio corpo con la sua esigenza di essere pienamente inserita, accettata e rispettata nella sua società e cultura.

Il peso dei condizionamenti sociali

Ragazza samburu con gli ornamenti del giorno del «taglio»

Che la pressione sociale e la mancanza di consapevolezza dei propri diritti spingano molte donne a prendere posizioni che le danneggiano è confermato anche dal dato riportato in un rapporto Unicef del 2014. Nel mondo, quasi la metà delle adolescenti (15-19 anni) pensa che un marito o un partner siano giustificabili se picchiano la moglie o la compagna in alcune circostanze: se la moglie litiga con il marito, esce senza avvertirlo, trascura i bambini, rifiuta di avere rapporti sessuali o brucia il cibo. In Africa subsahariana, Medio Oriente e Nord Africa le adolescenti convinte di questo superano la metà@.

In America Latina, la Colombia è uno dei paesi con il tasso più alto di violenza contro le donne, incluse le giovani dai 15 ai 19 anni, da parte di un marito o di un partner: il 37%@.

Il lavoro dei nostri missionari in questo paese si è recentemente arricchito di un metodo di formazione che si chiama «pedagogia della cura» e che nella zona di Puerto Leguizamo coinvolge gli studenti delle scuole superiori in percorsi di controllo e gestione delle frustrazioni e della rabbia e di risoluzione pacifica dei conflitti interpersonali. Anche attraverso questi percorsi si sta tentando di eliminare la violenza che spesso nasce «in contesti familiari caratterizzati da abuso di alcol, machismo e povertà» e che nella stragrande maggioranza dei casi hanno nelle bambine e nelle donne le principali vittime.

Le barriere invisibili

Gli ostacoli che impediscono alle donne di avere accesso a istruzione e sanità non sono sempre facili da individuare: solo una relazione costante e ravvicinata con le comunità può permettere di scorgerli e rimuoverli. Spesso, infatti, questi ostacoli derivano dalla reticenza ad affrontare temi considerati tabù, come il ciclo mestruale, oppure dal delicato equilibrio nei rapporti fra uomo e donna all’interno della famiglia.

Unicef stima che le scuole prive di servizi igienici adeguati nei paesi a basso reddito siano circa la metà. E basta che una scuola manchi dei servizi perché le ragazze rinuncino ad andare a lezione durante il periodo mestruale. Questo problema, stando ai dati diffusi dall’Unesco, interessa una ragazza su dieci in Africa subsahariana, causando per ciascuna una riduzione del venti per cento del tempo passato sui banchi e, a volte, il totale abbandono del percorso scolastico.

Ecco perché la costruzione di bagni nelle scuole primarie e secondarie è una delle esigenze che i responsabili dei nostri progetti sul campo non mancano di fare presenti@.

Povera sanità

Quanto all’accesso ai servizi sanitari di base: ci sono ostacoli evidenti come la mancanza di strutture, e poi altri meno visibili, ma ugualmente determinanti, come le resistenze culturali. Un esempio è il lungo dialogo tra i missionari della Consolata di Dianra, Costa d’Avorio, e le comunità locali per decidere la costruzione di alcuni centri di salute nei villaggi legati al dispensario di Dianra Village (vedi Cooperando, MC Aprile 2017). Poiché lì le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi (e quindi andare dall’équipe medica per se stesse o i figli), i missionari hanno dialogato con i leader comunitari perché tutti fossero sensibilizzati sull’importanza dell’assistenza sanitaria.

La Costa d’Avorio ha uno dei tassi di mortalità materna più alti dell’Africa subsahariana (645 madri decedute ogni 100mila nati vivi nel 2015@) e quasi tre donne su dieci partoriscono senza l’assistenza di personale qualificato.

Il difficile accesso al mercato del lavoro

La partecipazione attiva delle donne alla vita economica di una comunità genera benefici per tutti. Uno studio McKinsey del settembre 2015 ha stimato che, se le donne fossero economicamente attive alla pari degli uomini, il Pil mondiale aumenterebbe di 28mila miliardi entro il 2025. Se ogni paese, anche non raggiungendo la completa parità di genere, si impegnasse almeno a «copiare» il vicino più virtuoso nel garantire alle donne la partecipazione alla vita economica, l’aumento del Pil sarebbe comunque pari a 11mila miliardi di dollari a livello globale, con un aumento del 12% in Africa e del 14% in America Latina. La sola India vedrebbe aumentare la sua crescita del 16%. Per i paesi in via di sviluppo presi nel loro insieme la fetta di aumento del Pil sarebbe di circa 4mila su 11mila miliardi di dollari@.

Il World Economic Forum ha stilato una classifica dei paesi del mondo che misura la parità di genere: i quattro più vistuosi sono l’Islanda, la Norvegia, la Finlandia e il Ruanda, mentre il primato negativo va allo Yemen, seguito da Pakistan, Siria e Ciad.

Nonostante le numerose conferme del loro valore, le donne rimangono a livello globale meno pagate e più probabilmente disoccupate o occupate in lavori precari rispetto agli uomini. Su di loro ricade quasi sempre l’incombenza di occuparsi dei familiari, si tratti di bambini, anziani o malati.

Investire sulle donne

Le esperienze dei nostri missionari confermano che investire sulle donne paga: i numerosi progetti di piccola imprenditoria e microcredito in RD Congo, Kenya, Costa d’Avorio hanno consentito alle donne di sostenere le proprie famiglie, pagare le spese mediche e coprire i costi per l’istruzione dei figli. Il microcredito che i missionari gestiscono nel Nord della Costa d’Avorio ha percentuali di restituzione del prestito che non scendono mai sotto il 98%. A Camp Garba, in Kenya, il lavoro con le donne dei gruppi etnici turkana e borana iniziato con un progetto di agricoltura e sartoria è stato fondamentale nel ricostruire i rapporti fra le comunità all’indomani degli scontri che nel 2012 opposero i due gruppi etnici e che avevano portato alla morte di trenta persone, alla distruzione di 150 case e all’esodo forzato di tremila sfollati. Oggi, un gruppo consolidato di donne turkana, borana e somale continua a collaborare per mandare avanti le attività ed è riuscito a coinvolgere altri membri della comunità in un progetto di allevamento di bestiame.

Le incerte prospettive per le donne anziane

Il mondo sta invecchiando, avverte la prestigiosa rivista scientifica inglese The Lancet: nel 2015 le persone sopra 60 anni di età erano 900 milioni, nel 2050 saranno due miliardi e la maggior parte di queste vivrà nei paesi in via di sviluppo, principalmente in Asia. Ma anche l’Africa subsahariana vedrà i suoi anziani triplicare: dagli attuali 53 milioni a 150. Eppure, lamenta il direttore dell’International Longevity Centre all’Università di Cape Town, Sebastiana Kalula, nell’agenda politica dei governi africani il fenomeno e il tema di come affrontarlo non appaiono fra le priorità. L’invecchiamento interesserà maggiormente le donne, che tendono a vivere più a lungo degli uomini sia nei paesi ad alto reddito che in quelli più poveri@. A questo fenomeno se ne combinano altri due: in primo luogo, la migrazione verso le città porterà i due terzi della popolazione mondiale a vivere in centri urbani; inoltre, la precarietà del lavoro spingerà le persone a lavorare più a lungo e più lontano da casa. Un possibile effetto del combinarsi di invecchiamento, inurbamento e precarietà potrebbe essere che le donne anziane non solo non saranno accudite dai familiari più giovani, ma potrebbero trovarsi loro stesse costrette a occuparsi dei loro nipoti. Già oggi, la condizione degli anziani abbandonati, ammalati e in povertà assoluta è ben nota ai missionari della Consolata che a Sagana, Kenya, gestiscono una casa per le anziane o che a Guiúa, in Mozambico, hanno avviato un programma per anziani malnutriti fra i quali le donne sono la maggioranza.

Chiara Giovetti


CAMPAGNA

DI NATALE 2018

Un dono…
per riparare i danni

«Chi dice donna dice danno», recita un detto popolare. Nel detto può esserci del vero, a patto di completarlo: «Chi dice donna dice danno… che lei subisce». Ogni giorno, in tutto il mondo.
Il nostro impegno è da sempre quello di proteggere, promuovere e valorizzare le donne, ma quest’anno vogliamo fare di più: ci impegneremo a eliminare i danni che le donne subiscono e aiutarle a dimostrare alle comunità quanto la loro presenza sia un dono.

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nei nostri asili.
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della scuola primaria.




Giovani, missione e cooperazione: l’occasione del Sinodo

 


Dal 3 al 28 di ottobre si svolgerà la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, quest’anno dedicato ai giovani. Vediamo come questo evento può essere un’occasione di riflessione sul rapporto fra giovani, missione e cooperazione.

«Il Sinodo ha un nome lungo – I giovani, la fede e il discernimento vocazionale – ma diciamo: il Sinodo dei giovani. Si capisce meglio». Così Papa Francesco, con il linguaggio diretto che lo contraddistingue, ha indicato quello che sarà il tema su cui i vescovi riuniti a Roma si concentreranno dal 3 al 28 ottobre. «È un Sinodo», ha aggiunto il Santo Padre, «dal quale nessun giovane deve sentirsi escluso, perché è di tutti i giovani». Anche i giovani agnostici, quelli che hanno una fede tiepida, quelli che si sono allontanati dalla chiesa e i giovani atei. A tutti va prestato ascolto. Perché «ogni giovane ha qualcosa da dire agli altri, agli adulti, ai preti, alle suore, ai vescovi e al Papa»@.

Colombia

Il ribaltamento di prospettiva è evidente: per anni la Chiesa si è chiesta come parlare ai giovani, andare verso di loro, raggiungerli, coinvolgerli, in tempi in cui il loro allontanamento si è fatto sempre più evidente. «Se agli inizi degli anni 2000 il 70-80 % dei giovani si dichiarava cattolico», riporta Sara Falco sul sito di Azione Cattolica, «negli ultimi anni la percentuale è scesa al 50%. Osservando gli anni più recenti, si può notare che oggi circa il 50% di adolescenti e giovani si dicono cattolici, circa il 25% è ateo o agnostico e il restante 25% si dichiara cristiano senza altra specificazione»@.

Papa Francesco, invece, ha messo l’accento sull’ascolto, un approccio che propone sempre con forza e su tutti i temi di cui la Chiesa intende occuparsi. Anche nel documento preparatorio del sinodo del prossimo anno sull’Amazzonia, infatti, il pontefice ha sottolineato l’importanza cruciale dell’ascoltare i popoli amazzonici.

Le iniziative ideate per realizzare questo ascolto sono state diverse, a cominciare dall’incontro presinodale dello scorso marzo che ha visto riuniti a Roma 300 giovani da tutto il mondo e che ha analizzato i contributi di circa 15 mila giovani arrivati attraverso la pagina Facebook appositamente creata@.

Tanzania

Al sondaggio preparatorio avevano partecipato 221mila giovani, di cui 100.500 avevano completato il questionario. Fra questi ultimi, «il 73,9% si dichiarano cattolici che considerano importante la religione, mentre i restanti sono cattolici che non considerano importante la religione (8,8%), non cattolici che considerano importante la religione (6,1%) e non cattolici che non considerano importante la religione (11,1%)@».

Altro strumento è stato #Velodicoio@, un progetto del Servizio nazionale per la Pastorale giovanile della Cei che si è proposto di «fornire uno strumento che possa essere messo a disposizione di tutti per favorire un confronto di gruppo con i più giovani su dieci tematiche specifiche: ricerca, fare casa, incontri, complessità, legami, cura, gratuità, credibilità, direzione e progetti».

Una tappa importante verso il sinodo è stato l’incontro che il Papa ha avuto con 70mila giovani da 195 diocesi lo scorso 11 agosto al Circo Massimo, a Roma@.

Durante l’incontro Francesco ha risposto alle domande di alcuni giovani, esortando tutti i presenti a non lasciarsi rubare i sogni e a non stare alla larga dai luoghi di sofferenza, di sconfitta, di morte@.

«Non accontentatevi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila», ha detto il Santo Padre. «Ci vuole il coraggio di rischiare un salto in avanti, un balzo audace e temerario per sognare e realizzare come Gesù il Regno di Dio, e impegnarvi per un’umanità più fraterna. Abbiamo bisogno di fraternità: rischiate, andate avanti!».

Costa D’Avorio

Giovani e missione, quello che c’è

Il Sinodo dei giovani avrà fin da subito uno stretto legame con la missione. Non a caso, il messaggio del Papa per la giornata missionaria mondiale 2018, anch’essa in ottobre, si intitola Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti e comincia proprio con «Cari giovani». Il messaggio sottolinea sin dalle prime battute che «ogni uomo e donna è una missione, e questa è la ragione per cui si trova a vivere sulla terra». Essere attratti ed essere inviati «sono i due movimenti che il nostro cuore, soprattutto quando è giovane in età, sente come forze interiori dell’amore che promettono futuro e spingono in avanti la nostra esistenza». «Le Pontificie opere missionarie», si legge ancora nel testo, «sono nate proprio da cuori giovani», e tanti ragazzi «trovano, nel volontariato missionario, una forma per servire i “più piccoli”».

Molte congregazioni e istituti missionari hanno saputo accogliere, negli ultimi decenni, questa spinta dei giovani a mettersi al servizio, in Italia come all’estero.

Padre Giorgio Licini racconta come il Pime ha prima osservato e poi organizzato questo istinto di solidarietà: «Era la fine degli anni Ottanta, quasi trent’anni fa, quando al Centro Missionario Pime di Milano ci rendemmo conto che un flusso spontaneo di giovani si era incamminato da anni dall’Italia verso le missioni del Pime nel mondo. Si trattava soprattutto di compaesani, amici e parenti dei nostri missionari mossi dalla curiosità e dall’affetto verso coloro che non aspettavano più al ritorno in patria, ma andavano ad incontrare là dove avevano scelto di spendere la vita». Questa presa di coscienza fu presto organizzata e strutturata da un altro padre, Davide Sciocco: «Non più partenze all’arrembaggio e fai da te, ma preparazione, contenuti, motivazioni, obiettivi. Qualcosa che lasciasse un segno indelebile e positivo nella futura vita dell’adulto». Il risultato è stato l’invio in missione di oltre duemila ragazzi in 25 anni e il racconto di queste esperienze è diventato un libro, pubblicato nel 2015 da PIMEdit@.

Inviare giovani in missione per fare esperienza diretta in campi di lavoro in Africa e America Latina era una proposta comune a tutti gli istituti missionari ed era già iniziata negli anni Sessanta con Mani tese, fondata nel 1964 proprio con il contributo di missionari di vari istituti. Campi erano organizzati dagli universitari animati da don Tullio Contiero@ da Bologna, quelli di Africa Oggi a Milano@ e tantissimi altri. I missionari della Consolata dagli anni Settanta hanno inviato alcune migliaia di giovani per questi campi dai loro centri di animazione missionaria e probabilmente altrettanti «turisti» a visitare le loro missioni, prima con Amitour e poi con i viaggi organizzati per anni da padre Adolfo De Col.

Santiago di Compostela – Spagna

Laicato missionario

Vi è poi l’esperienza del laicato missionario, grazie al quale giovani (e anche meno giovani) hanno la possibilità di intraprendere un percorso di fede nel quale la solidarietà e, di fatto, l’impegno nella cooperazione hanno un ruolo centrale.

Fra i laici missionari della Consolata un’esperienza esemplificativa è quella di due laici spagnoli che hanno vissuto per sei anni della loro vita – dai trenta ai trentasei – in missione in Roraima, Brasile. Tutti e tre i loro bambini sono nati in missione. «Sì», raccontava Luis nel settembre 2008, «vedere il nostro progetto di famiglia crescere insieme a questa esperienza in Brasile e ai missionari della Consolata è una delle più grandi soddisfazioni che gli anni di missione ci hanno dato. Essere laici e vivere da missionari tra i missionari ci ha arricchito immensamente»@.

Tante sono anche le esperienze ispirate da un sacerdote con una sensibilità missionaria che hanno preso la forma di organizzazione strutturata e laica. La Lvia, Ong di Cuneo, nasce alla fine degli anni Sessanta dall’intuizione di don Aldo Benevelli.

«Adoperava termini strani (cooperazione, solidarietà, giustizia, comunità)» racconta di lui Riccardo Botta, uno dei primi giovani volontari che si fece coinvolgere da don Aldo. «Ebbe l’intuizione di parlare chiaro in difesa dei poveri e del mondo degli ultimi, di portare all’attenzione del mondo occidentale il cosiddetto terzo mondo». Don Aldo, scriveva lo scorso febbraio Luciano Scalettari su Famiglia Cristiana, «è prima di tutto, uno dei “padri” della cooperazione italiana, quando ancora la parola cooperazione non era nel vocabolario»@. I giovani che lo seguirono abbandonarono lavoro, famiglia e carriera per dedicarsi a una lunga formazione professionale e comunitaria per poi partire alla volta di Kenya, Burundi, Senegal, Burkina Faso, Etiopia. La prima volontaria Lvia, Rosanna Cayre, arrivò a Meru nel 1967, ospitata dai missionari della Consolata, mentre è del 1972 l’arrivo del primo volontario in Etiopia, che lavorerà come insegnante nella scuola tecnica degli stessi missionari a Meki@.

A raccogliere l’eredità di queste intuizioni e a federarle è stata la Focsiv, Federazione degli organismi oristiani servizio internazionale volontario, che ha appena compiuto 46 anni e conta oggi un’ottantina di organizzazioni aderenti. Dalla sua nascita, si legge sul sito, «Focsiv e i suoi soci hanno impiegato 27.000 volontari internazionali e giovani in servizio civile».

Siamo alla rocca di Cornuda con il campo mobile dei ragazzi di prima superiore

Giovani e missione: quello che ancora manca

Le realtà di cooperazione di ispirazione missionaria hanno indubbiamente contribuito a fare da ponte fra il mondo missionario e i giovani: i ragazzi che partono, infatti, non sono necessariamente credenti ma, attraverso un percorso professionale, vengono a contatto con la missione e con i suoi valori.

Questo reciproco conoscersi, come l’impegnarsi su problemi condivisi e confrontarsi lavorando nello stesso contesto permette tanto ai giovani che partono quanto ai missionari che li accolgono di superare i cliché e di trovare un linguaggio comune. «Ho lavorato con un missionario che era proprio “avanti”, non sembrava neanche un prete!», è la frase che chi scrive ha sentito pronunciare in diverse occasioni da ragazzi che, partiti con mille pregiudizi, si sono trovati a condividere mesi di lavoro con missionari capaci di leggere il loro tempo e di reagirvi con efficacia. E di ascoltare i dubbi, le proposte, le ingenuità e le intuizioni di un giovane che voleva confrontarsi con loro.

Questo ascolto e questo confronto li ho vissuti in prima persona: «Capisco la tua rabbia di fronte a un’ingiustizia come quella di una baraccopoli», mi disse una volta un missionario della Consolata oggi scomparso, «ma non hai capito niente se pensi che centinaia di migliaia di abitanti delle bidonville dovrebbero mettersi tutti insieme e marciare armati fino al Parlamento per chiedere case decenti e strade asfaltate. Otterrebbero solo scontri e il dispiegamento dell’esercito. Quello che fanno, invece, è organizzarsi in comitati, associazioni e gruppi e lottare giorno per giorno perché un chilometro in più sia asfaltato, un quartiere in più della baraccopoli sia riqualificato, una scuola e un dispensario in più siano costruiti. E noi siamo qui – e in tutto il mondo, anche a casa – proprio per non lasciare solo in questa lotta chi chiede giustizia».

Con quel «non sembra neanche un prete» i giovani intendono indicare probabilmente qualcosa di molto simile a quello che Papa Francesco ha stigmatizzato senza mezzi termini proprio davanti ai 70mila del Circo Massimo quando ha detto: «Penso tante volte a Gesù che bussa alla porta, ma da dentro, perché lo lasciamo uscire, perché noi tante volte, senza testimonianza, lo teniamo prigioniero delle nostre formalità, delle nostre chiusure, dei nostri egoismi, del nostro modo di vivere clericale. E il clericalismo, che non è solo dei chierici, è un atteggiamento che tocca tutti noi: il clericalismo è una perversione della Chiesa».

Chissà che non sia proprio la missione la chiave di volta per reggere la costruzione di un nuovo rapporto fra i giovani e la Chiesa.

Chiara Giovetti

Argentina

 




Popoli indigeni e alfabetizzazione


In agosto e settembre cadono due ricorrenze che riportano l’attenzione su due temi mai come oggi attuali: la giornata internazionale dei popoli indigeni del mondo (9 agosto) e la giornata internazionale dell’alfabetizzazione (8 settembre).

Era il 1994 quando le Nazioni Unite hanno fissato nel 9 agosto la giornata internazionale dei popoli indigeni. È stato scelto questo giorno perché in esso cade l’anniversario della prima riunione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sui Popoli indigeni, che aveva avuto luogo nel 1982.

Di fatto, l’ingresso delle popolazioni indigene fra i temi all’attenzione dell’Onu è storicamente avvenuto attraverso la porta dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo) che si occupa dei popoli indigeni sin dagli anni Venti, quando l’organizzazione «madre» non era ancora l’Onu, bensì la Lega delle Nazioni.

Il motivo per cui l’Ilo, a suo tempo, ha portato alla ribalta il tema indigeno è che una serie di studi sui lavoratori rurali avevano mostrato come gli indigeni rappresentassero, all’interno di questa categoria, un gruppo piuttosto significativo e altrettanto discriminato.

Uno dei primi aspetti che le organizzazioni internazionali hanno tentato di affrontare è stato quello della definizione di popoli indigeni. Un primo contributo sostanziale è stato la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite durante la sua 62ª sessione in New York il 13 settembre 2007@.

Poi, in un rapporto del 22 novembre 2017, Decent Work for Indigenous and Tribal Peoples in the Rural Economy@, l’Ilo ricorda che: «Non esiste una definizione universale di popoli indigeni e tribali, ma la Convenzione Ilo sui Popoli Indigeni e Tribali del 1989, N. 169, fornisce un insieme di criteri soggettivi e oggettivi che vengono applicati congiuntamente per identificare chi sono questi popoli in un determinato paese».

Il criterio soggettivo sia per i popoli indigeni che per quelli tribali è il sentimento di appartenenza, cioè il sentirsi parte di un gruppo. I criteri oggettivi sono poi, nel caso dei popoli indigeni, il fatto di discendere da popoli che abitavano in quella zona all’epoca della colonizzazione, della conquista o della definizione degli attuali confini dello stato. A questo si aggiunge un secondo criterio oggettivo, cioè il fatto di conservare in tutto o in parte le proprie istituzioni sociali, economiche, culturali e politiche, a prescindere da quale sia il loro status giuridico.

Baragoi, Kenya

Chi è indigeno?

I criteri oggettivi riguardanti i popoli tribali, invece, sono il fatto di avere condizioni sociali, culturali ed economiche che li distinguono dalle altre componenti della comunità nazionale e l’avere uno status regolato in tutto o in parte dalle loro consuetudini e tradizioni o da leggi o regolamenti speciali.

Il rapporto del 2017 precisa, inoltre, che «data la diversità dei popoli che cerca di proteggere, la Convenzione usa la terminologia inclusiva di popoli “indigeni” e “tribali” e attribuisce a entrambi lo stesso insieme di diritti. Ad esempio, in alcuni paesi latino-americani il termine “tribale” è stato applicato ad alcune comunità afro discendenti».

La Convenzione, si legge sul sito di Survival, una delle organizzazioni più attive nel sostenere i diritti dei popoli indigeni, è importante perché «riconosce i diritti di proprietà della terra dei popoli tribali e stabilisce che essi debbano essere consultati ogniqualvolta vengono varati leggi o progetti di sviluppo che possono avere un impatto sulle loro vite. […] riconosce, inoltre, le pratiche culturali e sociali dei popoli tribali, garantisce il rispetto delle loro tradizioni e chiede che le loro risorse naturali vengano protette». A oggi è stata ratificata da 22 stati prevalentemente latinoamericani e, fra gli europei, solo da Danimarca, Olanda, Norvegia e Spagna.@

Per fare alcuni esempi, e limitandosi ad alcuni dei popoli con i quali i missionari della Consolata lavorano, sono identificati come popoli indigeni: i Pigmei in Rd Congo, i Turkana, i Samburu, i Masaai in Kenya, gli Yanomami, i Makuxì in Brasile, i Guarani-Kaiowá, i Toba, i Tupi-Guarani in Argentina.

South Horr, Kenya

Un quadro complesso e variegato, dunque, come lo è la realtà dei popoli indigeni ai quali ad oggi appartengono circa 370 milioni di persone che vivono in 90 stati e parlano una larga maggioranza delle lingue del mondo, le quali, secondo le Nazioni Unite, sono tra 6.000 e 7.000.

Ma ci sono anche alcuni elementi che accomunano la condizione delle popolazioni indigene: il rapporto Ilo indica che queste costituiscono il 5% della popolazione del pianeta ma al tempo stesso rappresentano il 15% dei poveri del mondo e la loro aspettativa di vita, riporta il Programma Onu (Undp) per lo sviluppo, è di 20 anni più bassa rispetto ai non indigeni@. Sono loro che si prendono cura di circa un quinto della superficie terrestre e proteggono quasi l’80% della biodiversità rimanente sulla Terra.

Quest’anno, la giornata del 9 agosto fa da preludio a una serie di iniziative che si terranno nei mesi successivi. Infatti, il 2019 è stato dichiarato Anno internazionale delle lingue indigene@.

«Nonostante il loro valore immenso», si legge nel Piano d’azione per l’organizzazione dell’anno internazionale, «le lingue di tutto il mondo continuano a scomparire a tassi allarmanti. […] Secondo il Forum permanente sulle questioni indigene, non meno del 40% delle circa 6/7.000 lingue parlate nel 2016 rischiavano di scomparire. Il fatto che molte di queste sono le lingue indigene mette a rischio le culture e i sistemi di conoscenza a cui appartengono quelle lingue».

Altro evento che vedrà come protagonisti i popoli indigeni sarà nell’ottobre 2019 il Sinodo sull’Amazzonia. Nella presentazione del documento di preparazione all’Assemblea speciale per la Regione Panamazzonia si insiste molto sulla «urgenza dell’ascolto», sulla imprescindibilità dell’ascoltare i popoli che abitano l’Amazzonia e i popoli indigeni in particolare@ (cfr. MC luglio 2018).

Bayenga, Congo RD

Alfabetizzazione, va meglio ma non basta

L’8 settembre si celebra la giornata internazionale dell’alfabetizzazione. Nel 2017 Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, aveva diffuso alcuni dati statistici aggiornati@: il tasso di alfabetizzazione globale fra le persone da 15 anni in su aveva raggiunto l’86%, dato che aumentava al 91% se si considerava solo la fascia d’età fra i 15 e i 24 anni. Tuttavia, sottolineava Unesco, 750 milioni di persone nel mondo erano analfabete e due terzi di queste erano donne, mentre i giovani fra 15 e i 24 anni non in grado di leggere e scrivere erano 102 milioni.

I tassi più bassi di alfabetizzazione si registrano nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale e sono inferiori al 50% in venti paesi: Afghanistan e Iraq in Asia; Benin, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone e Sud Sudan, in Africa, e Haiti in America Latina.

Quanto ai bambini in età da scuola primaria e secondaria fino a 14 anni, secondo i dati 2016 non sono a scuola 63 milioni fra i 6 e gli 11 anni e 61 milioni fra i 12 e i 14 anni. Non solo: fra quelli in classe il problema è la qualità dell’insegnamento. Secondo un rapporto Unesco del 2014 i cui dati sono tuttora citati@, dei 650 milioni di bambini delle scuole primarie 250 milioni non stanno imparando in modo sufficiente le basi della lettura e della matematica. Di questi, quasi 120 milioni non sono arrivati alla quarta classe, mentre i restanti 130 milioni sono a scuola ma non hanno raggiunto gli standard minimi di istruzione. Questi bambini, precisa il rapporto, spesso faticano a capire una frase elementare e non hanno una preparazione adeguata per il passaggio alla scuola secondaria.

Anche nell’ambito dell’alfabetizzazione e dell’istruzione i popoli indigeni sono spesso penalizzati rispetto agli altri membri della comunità nazionale in cui vivono. Le principali cause sono la carenza di adeguate strutture e di personale qualificato nelle aree indigene e anche il mancato rispetto delle specificità delle culture nei programmi scolastici e nei metodi di insegnamento. Tutto questo fa sì che l’istruzione per i popoli indigeni sia non solo difficilmente accessibile ma anche espressione di una cultura imposta e lontana da loro.

Dianrà, Costa d’Avorio

I progetti dei missionari della Consolata

L’etno educazione è un ambito nel quale alfabetizzazione e cultura indigena trovano un terreno comune. Padre Corrado Dalmonego, che dal 2010 segue diverse attività di etno educazione con gli Yanomami del Catrimani (Roraima, Brasile), riporta che gli obiettivi dell’etno educazione sono quelli di «costruire con le comunità un processo specifico, differenziato, interculturale e bilingue, a partire dalle conoscenze e da una pedagogia propri. L’etno educazione non si riduce solo alla scuola, e neppure solamente all’alfabetizzazione; nasce dal modo di essere Yanomami e si espande attraverso tutte le relazioni interetniche».@

Iniziative che vanno in questa direzione sono in corso anche nella terra indigena di Raposa Serra do Sol, sempre in Brasile, ad esempio a Linha Seca, dove padre Joseph Musito ha seguito la realizzazione delle aule per la scuola Indio Luiz. «Questa scuola», scrive padre Joseph, «non ha solo il ruolo di trasmettere agli alunni le conoscenze sulla società moderna, ma anche la storia e i valori tradizionali attraverso i racconti orali, i canti, le danze, il disegno, le consuetudini e la lingua indigena».

Quanto alle iniziative con i popoli indigeni dell’Africa, ricordiamo la scuola itinerante che padre Andrés García Fernández sta portando avanti a Bayenga, nel Congo Rd, con i pigmei Bambuti@. Si tratta di un percorso prescolare rivolto ai bambini di 33 insediamenti nella foresta, realizzato «con metodi il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti» (cfr. MC giugno ‘17).

Al di là dell’ambito dell’istruzione, poi, il lavoro dei missionari della Consolata con i popoli indigeni consiste anche nell’accompagnare le comunità nel loro sforzo di mettersi in relazione con la cultura dominante senza esserne travolte. È il caso, ad esempio, dei progetti di promozione dell’artigianato Warao o delle attività generatrici di reddito legate alla sartoria nella zona di Tucupita, in Venezuela (vedi MC luglio 2018).

Altra iniziativa che ha come principale obiettivo quello della promozione, valorizzazione e difesa della cultura indigena è il Centro di documentazione Indigena dei missionari della Consolata a Boa Vista, Brasile. Fratel Carlo Zacquini, veterano della missione in Roraima, vi ha riunito le testimonianze e i materiali che, insieme a diversi suoi confratelli, ha raccolto in 53 anni di lavoro con gli Yanomami.

Infine, vale la pena di citare un’iniziativa di alfabetizzazione non legata a popoli indigeni ma attiva in uno dei paesi con tassi di analfabetismo intorno al 50%. A Dianrà, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata organizzano corsi rivolti a circa 220 persone fra adulti e bambini in abbandono scolastico. Si svolgono presso i locali della missione della Consolata e nell’apatam (paillote) costruito a questo scopo in un villaggio vicino. Anche Marandallah, la missione a 80 chilometri da Dianra, ha realizzato progetti dedicati a chi non ha potuto ricevere un’istruzione scolastica o ha dovuto interromperla: fra il 2013 e il 2015 grazie al sostegno dell’Opera di Promozione dell’Alfabetizzazione nel Mondo (Opam) è stato possibile costruire degli apatam e dotarli di impianto fotovoltaico.

Chiara Giovetti

Tucupita, Venezuela

 




Giovani, speranze da non tradire

Testo su Giovani e Giornata della Gioventù di Chiara Giovetti | Foto AfMC |


Il 12 agosto è la Giornata internazionale della gioventù, data fissata dalle Nazioni Unite nel 1999 per promuovere e valorizzare il ruolo dei 15-24enni. Nel 2017 il tema è stato «Giovani che costruiscono la pace», mentre quest’anno sarà «Spazi sicuri per i giovani». Al di là delle celebrazioni, qual è la situazione di questa fascia cruciale della popolazione mondiale?

I giovani sono, nella definizione delle Nazioni Unite, le persone di età compresa fra i 15 e i 24 anni. Sono un miliardo e duecento milioni, circa il 16% della popolazione mondiale. Il World Youth Report@, una pubblicazione delle Nazioni Unite che esce con cadenza biennale, aiuta a farsi un’idea complessiva della loro situazione. Il rapporto più recente (2016, su dati 2015) apre con un’analisi della situazione dei giovani che sottolinea il problema della disoccupazione, «un motivo di preoccupazione quasi ovunque e che interessava, nel 2014, 73 milioni di persone». I giovani che entrano nel mercato del lavoro oggi, si legge nel rapporto, hanno meno probabilità di assicurarsi un lavoro dignitoso rispetto a chi vi ha fatto il proprio ingresso nel 1995.

Se in alcuni paesi sviluppati i tassi di disoccupazione giovanile hanno avuto punte del 50%, in quelli in via di sviluppo – dove vivono quasi nove su dieci dei giovani del pianeta – il problema principale è che i giovani sono sotto impiegati, lavorano nel settore informale, spesso combinando più lavori part time o temporanei, in condizioni lavorative precarie e per un salario basso.

Le statistiche 2013 stimavano che 169 milioni di giovani occupati vivevano con meno di due dollari al giorno, numero che aumentava a 286 milioni per la soglia di 4 dollari al giorno. Le ragazze sono le più esposte ai rischi della precarietà e dello sfruttamento e hanno, fra l’altro, meno probabilità di diventare imprenditrici rispetto ai loro coetanei maschi.

Citando uno studio 2015 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo)@, il World Youth Report avverte che sarebbe necessario creare 600 milioni di posti di lavoro nelle prossime due decadi per assorbire l’attuale numero di giovani disoccupati e gli ulteriori 40 milioni di nuovi lavoratori che entrano annualmente nel mercato del lavoro.

Ovviamente il dato globale maschera differenze anche molto pronunciate nelle tendenze regionali. Il rapporto sottolinea come fra il 2012 e il 2014 il tasso di disoccupazione risultava aumentato ad esempio in Medio Oriente (dal 27,6 al 28,2%) e Nordafrica (dal 29,7 al 30,5%) mentre era diminuito in Africa subsahariana (dal 12,1 all’11,6%) e rimasto quasi uguale in America Latina e Caraibi (dal 13.5 al 13.4%).

Il rapporto menziona anche la condizione dei Neet (acronimo dell’inglese Not in employment, education or training), cioè i giovani che non sono occupati né stanno seguendo un percorso di formazione e istruzione. Il fenomeno interessa a livello globale circa un giovane su cinque e anche in questo caso le donne sono le più esposte. I maschi Neet sono più numerosi nei paesi sviluppati (11,3%); seguono i paesi emergenti (9,6%) e i paesi in via di sviluppo (8%), dove in assenza di meccanismi di protezione sociale i giovani non possono permettersi di non lavorare e sono costretti ad accettare impieghi precari e sottopagati.

Rispetto ai Neet della Ue, un documento del parlamento europeo@ riporta che nel 2015 nell’Unione a essere in questa condizione era il 12% dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni (6,6 milioni di persone), cifra che aumenta a 14 milioni (14,8%) includendo le persone fino a 29 anni. Si tratta di un gruppo sociale molto diversificato, che comprende disoccupati a breve e lungo termine, ragazzi in transizione dalla scuola al lavoro, giovani con responsabilità familiari, persone con disabilità o problemi di salute. La probabilità di essere Neet è inoltre maggiore se si ha un livello di istruzione basso e varia notevolmente da uno stato membro all’altro. Gli ultimi dati della Commissione europea – riferiti però alla fascia di età 24-30 – segnalano Italia e Grecia in cima alla classifica con, rispettivamente, il 30,7% e il 30,5% e Lussemburgo, Svezia e Paesi bassi con i tassi più bassi, intorno al 10%.

Altro dato indicativo è quello sulla partecipazione dei giovani alle consultazioni elettorali: secondo uno studio effettuato in 33 paesi dalla rete World Values Survey, che riunisce studiosi di scienze sociali di tutto il mondo, se il 60% dei cittadini nel loro complesso dichiara di votare a ogni elezione, il dato si contrae al 44% considerando solo le persone fra i 18 e i 29 anni.

Quanto ai dati sull’istruzione, l’aggiornamento più recente sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile@ segnala che nel 2014 circa 263 milioni di bambini, adolescenti e giovani in età scolare non erano a scuola. Di questi, 61 milioni erano bambini della scuola primaria, 60 milioni adolescenti della scuola secondaria inferiore e 142 milioni erano giovani della secondaria superiore. Il 70% di questi bambini e ragazzi viveva in Africa subsahariana e Asia meridionale.

Infine, un dato sul rapporto fra giovani e migrazione: nel 2013 (ultimo dato disponibile) sui 232 milioni di migranti a livello globale circa 28 milioni, cioè un po’ più di uno su dieci, erano giovani fra i 15 e i 24 anni e, nello specifico, 11 milioni fra i 15 e i 19 anni e 17 milioni fra i 20 e i 24@.

I progetti di Mco per i giovani

Nel 2018, il lavoro di Mco si concentra proprio sulla promozione e valorizzazione dei giovani, specialmente dal punto di vista della loro condizione lavorativa. I microprogetti che quest’anno i nostri missionari stanno realizzando riguardano l’avvio di attività generatrici di reddito, l’inserimento lavorativo e la formazione professionale.

Uno dei progetti si svolge in Venezuela, paese ancora oppresso da una pesante crisi economica e da un tasso di inflazione che, riportava Reuters lo scorso maggio citando fonti dell’Assemblea nazionale venezuelana, era arrivato a poco meno del 14mila per cento. Il presidente Nicholas Maduro è stato rieletto lo scorso maggio col 67,7% dei voti, ma l’affluenza è stata moto bassa, intorno al 46%, e numerose sono state le contestazioni della regolarità del voto. Oltre un milione di venezuelani ha lasciato il paese negli ultimi due anni, migrando principalmente in Colombia e in Brasile.

«Il salario minimo», scrive padre Zachariah Kariuki, missionario della Consolata che opera in Venezuela, «è salito fino a un milione e trecentomila bolívar, ma non è sufficiente nemmeno a comprare cibo per una settimana» (cfr. MC giugno 2018, p. 27).

Pescatori e artigiani

I missionari della Consolata hanno una presenza a Tucupita, nello stato di Delta Amacuro, dove lavorano con la comunità indigena Warao. Il progetto che padre Zachariah e i suoi confratelli stanno realizzando mira a sostenere cinquanta giovani pescatori fornendo loro strumenti per la pesca – reti e altri accessori – e contribuendo alla fabbricazione di canoe. Questo supporto dovrebbe permettere ai giovani di fare della pesca non solo uno strumento di sussistenza ma anche un mezzo per generare un piccolo reddito che consenta loro di far fronte alle spese della famiglia, ad esempio quelle sanitarie o quelle collegate alla scolarizzazione dei bambini. I casi di abbandono scolastico, infatti, sono ora molto numerosi perché le famiglie non hanno le risorse per acquistare libri, uniformi e per pagare i costi dei mezzi di trasporto necessari ai figli per raggiungere la scuola.

Un altro intervento sarà coordinato da padre Juan Carlos Greco e coinvolgerà altri 90 giovani, sempre di Tucupita, nella produzione di manufatti artigianali. Il popolo Warao ha un artigianato tradizionale di alta qualità specializzato nella produzione di oggetti come cesti, amache, borse in fibra di moriche (palma) che vengono venduti o scambiati sul mercato locale. Questo progetto prevede anche una contestuale formazione alle modalità di estrazione sostenibile delle risorse naturali, la promozione di forme di aggregazione cooperativa fra i giovani e il rafforzamento delle relazioni e degli accordi con i commercianti locali per permettere ai manufatti di raggiungere in modo più sistematico un mercato più ampio.

Costa d’Avorio, crescita con scosse

A giudicare dai dati della Banca mondiale, la crescita economica in Costa d’Avorio nell’ultimo quinquennio è stata una delle più solide del continente. Tuttavia ha conosciuto un rallentamento (dal 10% del 2012 al 7,6% dell’anno scorso) dovuto soprattutto al crollo del prezzo del cacao, uno dei prodotti su cui si basa l’economia ivoriana, a cui si sono aggiunti l’ammutinamento dell’esercito e a una serie di scioperi nel settore pubblico che hanno creato nel 2017 una situazione temporanea di insicurezza e di stallo.

Se nell’inverno fra i 2016 e il 2017 400mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani a causa della caduta dei prezzi, due mesi fa è stato l’anacardio a creare non pochi grattacapi agli operatori economici del paese. Il prezzo al chilo stabilito a febbraio dal Consiglio cotone-anacardio, organo che regola la filiera, variava dai 500 franchi Cfa a bordo campo ai 584 di prezzo al porto (cioè fra i 76 e gli 89 centesimi di euro). Ma, riportava a maggio il segretario della Federazione nazionale compratori e cooperative dell’anacardio, Abdoulaye Sanogo, «a causa del crollo del prezzo, oggi si negozia entro una forbice che va dai 250 ai 400 franchi». Risultato: oltre 300 camion bloccati con il loro carico nei principali porti ivoriani perché gli esportatori rifiutavano di comprare a un prezzo che giudicavano troppo alto@.

Eventi come questo a livello di chi trasforma le statistiche in grafici sono rappresentati come nulla più che un breve segmento in discesa e possono, nel corso dell’anno, ritornare a valori positivi. Ma, al livello delle economie dei piccoli produttori, creano effetti devastanti in grado di mettere in ginocchio intere famiglie, le quali di solito ricevono per il raccolto venduto solo un acconto e aspettano per mesi un saldo che può anche non arrivare mai.

Un negozio per i giovani

Grand Zattry è un villaggio della Costa d’Avorio sudoccidentale nella regione del Basso Sassandra, di cui la città portuale di San Pedro è il capoluogo. Qui padre James Gichane sta realizzando un progetto che si rivolge ai giovani disoccupati di venticinque villaggi che fanno riferimento alla parrocchia.

Come in gran parte delle zone rurali della Costa d’Avorio, molti ragazzi terminano a fatica la scuola primaria e non proseguono il percorso scolastico. I genitori, infatti, non li sostengono negli studi, in parte perché le famiglie non riescono a coprire i costi per la scuola e in parte perché preferiscono impiegare il prima possibile i ragazzi nelle piccole piantagioni familiari. «Ma in questo modo», spiega padre James, «i giovani si trovano a dipendere totalmente dalla famiglia e a dover condividere il magro reddito che viene dal raccolto invece di acquisire le competenze necessarie a migliorare e ampliare l’attività agricola familiare o ad avviare un’attività propria». In tanti lasciano il villaggio per i centri urbani medi e grandi, finendo per ingrossare le fila dei lavoratori non qualificati, precari e mal pagati.

Il progetto che padre James sta portando avanti prevede l’avvio di un negozio di pagnes (il telo che in gran parte dell’Africa le donne usano come gonna, come porte-enfant, come copertura per i banchetti al mercato e per numerosi altri usi), magliette e polo. Il negozio, che con il progetto si provvederà a costruire ed equipaggiare, permetterà ai giovani coinvolti di avere un reddito e, a poco a poco, dei risparmi con i quali cominciare a loro volta un’attività. Alcuni giovani hanno proposto di utilizzare i guadagni per avviare dei vivai di alberi della gomma e di piante di cacao, le due specie maggiormente coltivate nella zona.

Spagna, da minori stranieri a lavoratori

Un altro progetto che i nostri missionari intendono realizzare è quello del supporto a dieci ragazzi migranti, fra i 18 e i 25 anni, arrivati in Spagna quando non avevano ancora raggiunto la maggiore età. Questi giovani, che escono dal Sistema di protezione dei minori, si trovano ora ad affrontare l’entrata nel mercato del lavoro spagnolo e, in particolare, quello della città di Malaga.

Il progetto prevede di formare i ragazzi come aiuto cuochi e seguirli nel percorso di inserimento lavorativo. Completeranno la formazione anche laboratori grazie ai quali i giovani acquisiranno conoscenze sul settore delle imprese ricettive a Malaga e sulle tecniche per affrontare un colloquio, compilare un curriculum e promuovere la propria candidatura a fronte di un’offerta di lavoro.

Chiara Giovetti




Protezione dell’ambiente: urgenza, non lusso

Presentazione di microprogetti MCO sull’ambiente di Chiara Giovetti |


Alcuni microprogetti del 2017 di Missioni Consolata Onlus hanno avuto come tema la protezione e la salvaguardia dell’ambiente. Ve ne raccontiamo due: uno nella Colombia che faticosamente cerca di liberarsi dal conflitto, e uno in Costa d’Avorio che, come molti paesi africani, ha dichiarato guerra ai sacchetti di plastica.

Buenaventura, un porto fatto città

Buenaventura è una città di 390mila abitanti sulla costa occidentale della Colombia. Il suo porto, uno dei principali del paese, genera un terzo delle tasse doganali complessive, cioè oltre 2 miliardi di dollari su un totale di 6,7@ e ha visto nel 2017 un milione di container movimentati.

Ma la ricchezza che il porto genera per le casse nazionali non torna a Buenaventura sotto forma di servizi per i cittadini e la città è una delle più povere del paese. Nel 2014 Bbc Mundo l’ha descritta come la «nuova capitale colombiana dell’orrore». L’allora vescovo di Buenaventura, monsignor Hernán Epalza, ha raccontato all’emittente britannica: «È come se tutta la cattiveria della Colombia si fosse concentrata qui». L’articolo della Bbc descriveva una realtà in balia di gruppi armati paramilitari che si contendevano il controllo del narcotraffico e del contrabbando in un conflitto caratterizzato da episodi di violenza particolarmente efferata.

Nelle parole di Jaime Alves, ricercatore presso l’Universidad Ices de Cali e assistente di antropologia alla City University di New York, «in questo regime macabro la popolazione nera diventa materia prima non solo per il narcotraffico – che considera Buenaventura una rotta internazionale strategica e i giovani afro come manodopera usa-e-getta -, ma anche per la “guerra al sottosviluppo” del governo, per il quale la presenza nera in aree strategiche è un ostacolo da rimuovere»@. Nel maggio dell’anno scorso la società civile estenuata, stremata dal conflitto e dall’indifferenza che il governo mostrava nei confronti della situazione di Buenaventura, ha deciso di prendere posizione con il paro civico (sciopero civico)@.

Dopo ventuno giorni di proteste (e di blocco delle attività portuali, con i conseguenti danni economici), i leader del paro civico e il governo arrivarono a un accordo che prevedeva investimenti per realizzare opere prioritarie fra cui acquedotti, reti fognarie, unità di terapia intensiva della Ciudadela hospitalaria (cittadella ospedaliera).

A oggi, la situazione (circa l’ambiente) non si può dire significativamente migliorata. Come riferisce il presidente della Camera di commercio locale, Alexánder Micolta, al quotidiano El Tiempo, l’acqua è disponibile mediamente sette ore al giorno. La sicurezza «è migliorata, ma ci sono ancora bande criminali che continuano a far sparire le persone, anche se non si sente più parlare di casas de pique, le case dove le vittime del conflitto venivano letteralmente fatte a pezzi per farle sparire, e gli omicidi sono diminuiti»@.

È poi dello scorso febbraio la notizia dell’uccisione di Temístocles Machado Rentería, uno dei leader del paro civico, mentre gli altri leader ricevono continue minacce di morte@.

Il lavoro dei missionari per l’ambiente a Buenaventura

A Buenaventura i missionari della Consolata sono presenti dal 2016, in quella che nel 2017 è diventata la parrocchia di san Martín de Porres. Padre Lawrence Ssimbwa, ugandese, classe 1982, è il missionario responsabile delle attività. Riportando dati citati dal Cric – Consiglio Regionale Indigeno del Cauca -, padre Lawrence l’anno scorso scriveva: «La realtà di Buenaventura richiede un intervento immediato da parte dello stato. L’indice di disoccupazione è del 62% e il lavoro informale arriva al 90,3%, quello della povertà al 91% nelle zone rurali e al 64% in quelle urbane. (…) Di 407.539 abitanti, 162.512 sono vittime del conflitto armato».

Il corso di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente e le attività di pulizia del quartiere rientrano in una più ampia iniziativa di mobilitazione comunitaria che padre Lawrence sta portando avanti in parrocchia e che comprende anche, tra gli altri, corsi di formazione su diritti umani, identità culturale, arti e mestieri.

«Nei laboratori che abbiamo organizzato», scrive padre Lawrence, «abbiamo sensibilizzato circa 40 adulti, 60 bambini e una ventina di giovani, che hanno approfondito e discusso i problemi che si creano a causa dell’immondizia depositata nelle fognature e nei fiumi e dei roghi di pneumatici, fenomeni purtroppo frequenti nel quartiere».

Si sono poi realizzate quattro giornate di pulizia del quartiere e il risultato di questa attività è stato che alcuni membri della comunità si sono impegnati a organizzare mensilmente giornate di questo tipo (in favore dell’ambiente) per mantenere pulite le strade e le case in cui vivono.

Costa d’Avorio, la guerra contro la plastica

Dal 2013 in Costa d’Avorio (per proteggere l’ambiente, ndr) è vietato produrre, importare, commercializzare, detenere o utilizzare sacchetti di plastica che non siano biodegradabili. Il provvedimento, però, ha faticato e fatica parecchio a essere applicato. Una semplice visita al mercato di Abidjan, riportava Radio France International nel luglio 2017, mostrava chiaramente che la legge sulle buste di plastica era rimasta lettera morta, o quasi. «Sono i clienti che ci chiedono i sacchetti, vanno via come il pane!», spiegava una commerciante intervistata dall’emittente radiofonica francese. Riponendo la merce dentro buste biodegradabili, la signora commentava: «Sono i sacchetti di prima, salvo che sopra c’è scritto “biodegradabile”. Non c’è nulla per rimpiazzarli, eppure vogliono che smettiamo di usarli»@.

Nel marzo dell’anno scorso il governo è passato alle maniere forti, con il ministro della Salubrità, dell’Ambiente e dello Sviluppo sostenibile, signora Anne Désirée Ouloto, che ha accompagnato le forze dell’ordine nei controlli a sorpresa presso le aziende che ancora producono le buste incriminate. Durante le perquisizioni, riporta il sito abidjan.net, il ministro e il suo seguito hanno trovato due fabbriche clandestine di sacchetti di acqua (usati invece delle bottiglie), una con allacciamento abusivo alla rete idrica pubblica e l’altra dissimulata dall’insegna «Livia Couture» per far pensare a una sartoria@.

Quello dei sacchetti di plastica è solo uno dei problemi ambientali che la Costa d’Avorio deve affrontare. Il rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente del 2015, Côte d’Ivoire – Évaluation environnementale post-conflit, ha individuato alcuni ambiti ai quali occorre prestare particolare attenzione, e cioè le foreste, il cui livello di degradazione è definito «grave», la laguna di Ébrié, vicino alla capitale economica Abidjan, i rischi legati all’espansione urbana non pianificata, l’impatto ambientale dello sfruttamento minerario industriale e artigianale e il rischio di sversamento di idrocarburi sul litorale ivoriano@.

«Una delle attività che svolgiamo con i giovani e i bambini durante la semaine de la jeunesse (settimana dei giovani) qui a San Pedro», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, «è proprio quella della pulizia delle strade». Nel popoloso quartiere nel quale i missionari lavorano – abitato soprattutto da operai del porto, piccoli commercianti e contadini – le vie a lato della strada principale asfaltata sono sterrate e sabbiose e mancano delle canalette di drenaggio che permettono all’acqua piovana di defluire. E quando ci sono, i sacchetti, le bottiglie e altra immondizia, prevalentemente di plastica, non di rado finiscono per intasarle del tutto.

Proteggere l’ambiente a Dianrà

Il progetto di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente del 2017 però non si è svolto a San Pedro, bensì a Dianra, nel Nord del paese, dove la comunità Imc gestisce, fra l’altro, un centro di salute, un programma di alfabetizzazione degli adulti e un progetto di apicoltura. «Da qualche anno», scrivono i padri Raphael Ndirangu e Matteo Pettinari, «la nostra missione dispone di un terreno sul quale intendevamo creare uno spazio verde accogliente e ricco di vegetazione all’interno del villaggio. Fino ad oggi non abbiamo potuto concretizzare l’idea perché lo spazio non era protetto e ogni tentativo di piantare alberi è andato perduto a causa della libera circolazione di capre, buoi e anche persone. Queste ultime, non vedendo una valorizzazione effettiva del terreno, se ne sono a più riprese “appropriate” per le loro più diverse esigenze. Di fatto, a volte il nostro spazio è diventato anche una discarica a cielo aperto, invaso in particolar modo da rifiuti di plastica».

Con la prima fase del progetto «Proteggiamo il nostro spazio verde» è stato possibile ripulire, livellare e recintare il terreno. I passi successivi saranno quelli della piantumazione di alberi da frutto e piante ornamentali, della predisposizione di un campo da calcio, della installazione di panchine, altalene, scivoli e altri giochi.

«La nostra», aggiunge padre Matteo, «è una zona di frontiera fra il deserto che avanza e la foresta che scompare. Quest’anno ad aprile la gente si trovava in difficoltà già da un mese per mancanza di acqua: pozzi che erano stati sinora una riserva d’acqua abbastanza sicura, ora sono secchi, la stagione delle piogge si riduce e i raccolti ne risultano danneggiati». Ecco allora, conclude il missionario, che il Nord della Costa d’Avorio può essere una zona strategica per sensibilizzare e possibilmente reagire a questi cambiamenti. Un progetto come quello di Dianra, per quanto piccolo, può accompagnare la comunità nel prendere coscienza e nel cercare soluzioni.

Non si tratta del primo tentativo di creare uno spazio di questo tipo nelle missioni Imc in Costa d’Avorio: a fare da apripista è stato il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’Amicizia). Situato poco fuori dal villaggio di Marandallah – un paio d’ore di pista a Sud Est di Dianra – il giardino è stato a poco a poco creato grazie al lavoro di padre João Nascimento con la comunità. È diventato non solo un’occasione di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente ma anche uno spazio ricco di angoli quieti in mezzo al verde per la riflessione, la preghiera e il riposo. Molte manifestazioni comunitarie si sono svolte presso il Giardino dell’Amicizia, che si è rivelato un utile strumento per quel dialogo interreligioso che è elemento caratterizzante del lavoro dei missionari in questa zona del paese, dove il 72% della popolazione è musulmano, il 25% pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento.

Chiara Giovetti

Clôture di Dianrà per parco giochi e riforrestazione