Torino, gli strumenti per non avere paura

Reportage periferie /
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Erano gli anni
Sessanta quando cartelli affissi sulle porte degli edifici del capoluogo
piemontese avvertivano: «Non si affitta a meridionali». Nel 2014 sono ancora
tanti i torinesi che ricordano quegli anni e citano quelle scritte quasi a
sottintendere che la città ha già affrontato massicci flussi migratori e ha
saputo reagire, accogliere e integrare. Oggi basta salire su un tram come il 16
o spingersi nel quartiere Barriera di Milano per toccare con mano una città che
resta fedele alla sua lunga tradizione di accoglienza e, pur nelle difficoltà e
nelle contraddizioni, continua a cambiare volto.

Nell’inverno 2014 gli enti locali torinesi hanno siglato diversi accordi
il cui tema di fondo era la relazione con le comunità di migranti. Solo per
citare alcuni esempi, sono dello scorso febbraio l’adesione della Provincia di
Torino al protocollo d’intesa sulla prevenzione e il contrasto della tratta degli
esseri umani, e la formalizzazione della collaborazione fra la polizia
municipale e la comunità marocchina per la prevenzione dell’abbandono
scolastico, per la mediazione nei casi di conflitti tra i giovani immigrati e
per l’assistenza alle vittime di violenza domestica.

I temi relativi ai migranti hanno certamente un peso
notevole nel dibattito e nell’agenda politica della città che, sia attraverso
le istituzioni pubbliche sia con l’apporto del cosiddetto «privato sociale», si
attiva per cercare soluzioni ai problemi legati all’accoglienza e
all’integrazione delle comunità straniere. Non mancano ovviamente le polemiche
e le accuse a enti pubblici e associazioni di dare precedenza ai bisogni degli
stranieri rispetto a quelli dei torinesi. Ma in una città dove sono già
presenti le seconde generazioni, dove la crisi economica si fa sentire con tale
forza da spingere talvolta gli immigrati stessi ad abbandonare l’Italia per
rientrare nei paesi d’origine o per spostarsi in altre nazioni europee, dove le
scuole sono da anni laboratori di interculturalità, la rassicurante divisione
noi/loro è un semplicismo che fatica ogni giorno di più a descrivere la realtà.

Il lavoro dell’Upm

L’ufficio per la pastorale migranti (Upm) della diocesi
di Torino è un punto di riferimento fondamentale per le comunità straniere.
Offre numerosi servizi fra i quali lo sportello per il lavoro, le consulenze
legali, l’insegnamento dell’italiano e molti altri. Sergio Durando, direttore
dell’Upm, traccia una sintesi della situazione: «Metà dei 385 mila immigrati
del Piemonte vivono a Torino: sono 200 mila nella provincia di cui 150 mila nel
territorio comunale». Secondo il XXIII Rapporto immigrazione 2013 (vedi
articolo pag. 28) di Caritas e Migrantes, nella regione la comunità più nutrita
è quella rumena, con 137 mila presenze, seguita dalle comunità marocchina,
albanese, cinese e peruviana. Un punto di partenza per provare a mettere ordine
nel complesso insieme di fenomeni legato ai migranti, suggerisce Sergio, può
essere il tema del lavoro: il Piemonte è la regione con il più alto tasso di
disoccupazione al Nord (9,8% nel 2013); l’agricoltura dà ancora lavoro ma
ovviamente non nel contesto urbano del capoluogo piemontese, dove i settori
colpiti dalla crisi sono l’edilizia, in cui tendono a concentrarsi i lavoratori
di origine rumena, l’industria e il settore manifatturiero, nei quali le
comunità di migranti maggiormente rappresentate sono quella marocchina e quella
albanese. «Il problema occupazionale», continua Durando, «si traduce facilmente
in un problema abitativo sia per i cittadini di origine italiana che per gli
stranieri, e per i migranti la marginalità economica diventa anche giuridica,
con la perdita dei permessi di soggiorno: nel 2012 i permessi persi sono stati
maggiori dei permessi di ingresso».

Categorie speciali: rifugiati
e titolari di protezione internazionale

All’interno della comunità dei migranti ci sono poi
delle categorie speciali: i rifugiati e i titolari di protezione
internazionale. Per quanto riguarda i rifugiati, il ministero dell’interno
guidato da Angelino Alfano, nel 2013, aveva aumentato da tremila a diciottomila
il numero dei richiedenti asilo che potevano essere accolti. Ma i tempi di
accoglienza, l’arretrato, l’accumulo di richieste e la difficoltà di reale
inserimento lavorativo rendono di fatto molto difficile approfittare
dell’aumento effettuato. «A Torino le strutture occupate da rifugiati, profughi
e titolari di protezione internazionale, sono sette più una casa di religiosi»,
interviene don Claudio Curcetti, sacerdote assegnato dalla diocesi all’Upm, «e
la situazione più esplosiva è forse quella del ex Moi, il villaggio olimpico
costruito nel 2006 e attualmente occupato da circa quattrocento persone» (vedi MC
8-9/2013, pp. 59-63
). Si tratta di uomini, donne e bambini giunti in Italia
a causa della cosiddetta emergenza Nord Africa, cioè l’arrivo in massa di
migranti in fuga dai paesi del Maghreb interessati dalla guerra, a partire da
quella libica.

L’accoglienza dei rifugiati su tutto il territorio nazionale
è costata mediamente ventitremila euro a persona per circa ventimila persone,
ma gli interventi sono stati disorganizzati e approssimativi: i fondi – a
partire dal rimborso di 40 euro al giorno per rifugiato – hanno raggiunto solo
in minima parte i beneficiari, che si sono spesso trovati abbandonati, relegati
a spazi abitativi degradati e privati di un piano di rientro alla fine
dell’emergenza.

«Uno dei problemi è che le politiche nazionali in
materia di migranti sono più preoccupate della sicurezza che dell’accoglienza», continua don Claudio, «ma questo
genera enormi storture che oltretutto aumentano la tensione e l’insicurezza».
Per non parlare di costi: un «centro di identificazione e espulsione» (Cie)
costa circa 45 euro al giorno per singolo individuo trattenuto; un rimpatrio
arriva a seimila euro. Le periferie e il degrado, conclude Curcetti, sono in
fondo il fallimento di una società la cui amministrazione e la cui urbanistica
non sono state in grado di distribuire il disagio in modo da «diluirlo» nel
tessuto urbano, ma lo hanno concentrato e, in questo modo, amplificato. «Se in
un condominio o in un quartiere ci sono settanta famiglie in condizioni
economiche dignitose e trenta disagiate, le prime possono più facilmente
cercare di andare incontro ai bisogni delle seconde e aiutarle a uscire dal
disagio. Ma se le proporzioni sono invertite, come si può pensare che un trenta
per cento di persone si faccia carico dei bisogni del settanta per cento? È
ovviamente impossibile».

I Rom

La corrispondenza fra periferia e disagio si è andata
allentando negli ultimi decenni, ma resta attuale nel caso dei Rom. Dagli anni
Settanta a oggi la provenienza delle popolazioni rom presenti a Torino è
cambiata, ma le aree in cui risiedono sono rimaste le stesse: baraccopoli ai
margini della città. Gli insediamenti abusivi di Lungo Stura Lazio hanno visto,
a partire dai primi mesi del 2014, un processo di graduale sgombero nell’ambito
di un progetto che mira a coinvolgere le famiglie stesse nello smantellamento
delle baracche attraverso l’autodemolizione. Del programma fanno poi parte la
sottoscrizione da parte dei Rom di un patto di emersione, l’accettazione delle
regole di convivenza e legalità, la compartecipazione alle spese e
l’inserimento in complessi di social housing, cioè soluzioni pensate per
le categorie che, prevalentemente per motivi economici, non sono in grado di
rispondere da sole ai propri bisogni abitativi.

L’intervento di Lungo Stura Lazio, oltre ad aver
provocato le ire degli esponenti della Lega («ai Rom le case popolari, ai
torinesi la mini-imu», ha commentato un esponente torinese), suscita qualche
apprensione anche fra gli addetti ai lavori. Finora lo sgombero di un campo,
avverte uno di loro che preferisce restare anonimo, ha spesso innescato un
processo simile alla mitosi cellulare, ha portato cioè alla formazione di più
campi sparsi. Inoltre occorrerebbe sfatare alcuni miti: ad esempio il fatto che
i Rom vivono nei campi per una questione culturale quando in realtà sono i
primi a non volerli; oppure il pregiudizio per cui l’avversione al lavoro è un
tratto caratteristico dei Rom quando invece ci sono, ad esempio, casi di
ragazze assunte come badanti o colf, le quali, fra l’altro, si guardano bene
dal rivelare che vivono in un campo. In questi casi, l’inserimento lavorativo è
avvenuto al prezzo del rinnegamento della propria origine.

Molto difficoltoso appare infine ridare vigore al patto
scolastico in base al quale i Rom si erano impegnati a mandare i loro figli a
scuola: molti Rom sembrano pensare che dopo quarant’anni di presenza in Italia,
e nonostante la scolarizzazione dei bambini, per loro nulla è cambiato, perché
continuare a impegnarsi?

Imparare per non
avere paura

Se si guarda al settore dell’istruzione, la situazione
appare non meno articolata. In una scuola come la Gabelli di Barriera di
Milano, sempre a Torino, gli alunni con genitori di origine straniera sono il
settanta per cento e salgono al novanta per cento nelle prime classi. Siamo in
un borgo storico caratterizzato dalle cosiddette case di ringhiera, dove gli
affitti sono meno cari e per questo attirano famiglie a basso reddito, come
spesso sono quelle dei migranti. Lavorare in scuole come la Gabelli o la vicina
Pestalozzi richiede competenze specifiche e una professionalità avanzata che
permettano di gestire situazioni complesse come i casi delle iscrizioni ad anno
iniziato, di livelli diversi di conoscenza della lingua italiana e di
situazioni familiari molto difficili. A volte i bambini mostrano chiaramente di
non voler rientrare a casa dopo la scuola, segno questo della presenza di un
ambiente familiare teso, o spiegano di non aver fatto i compiti perché non sono
riusciti a leggere e scrivere a lume di candela, oppure ancora perché nel lungo
e freddo inverno torinese il problema principale della sera è quello di trovare
un modo di scaldarsi sotto le coperte in assenza di riscaldamento. I doveri
scolastici passano così in secondo piano anche a causa dei tagli delle utenze
elettrice, spesso abusive, che rendono ostile perfino l’ambiente domestico.

Ma i lati positivi dell’interculturalità in scuole come
queste non mancano: innanzitutto, i figli di stranieri hanno spesso sviluppato
un grado di autonomia e maturità maggiore e si rivelano più rispettosi delle
regole e più attentamente monitorati dai genitori che non i bambini italiani, i
quali vivono in quelle stesse aree degradate perché spesso appartengono a
famiglie disagiate e problematiche. I pochi italiani che decidono liberamente
di portare i figli in queste scuole, inoltre, lo fanno per una precisa volontà
di preparare i loro bambini a vivere nella Torino che verrà e sono generalmente
entusiasti dell’esperienza che i ragazzi, e loro stessi – spesso attivamente
impegnati nei consigli d’istituto – stanno vivendo.

Per quanto riguarda il doposcuola, molto attiva è
l’Associazione animazione interculturale (Asai), già protagonista fin dagli
anni Novanta dei primi e fruttuosi esperimenti di interculturalità a San
Salvario. Nella sede di via Gené, a Porta Palazzo, il «Cantiere S.O.S.» (Scuola
oltre la Scuola) offre, grazie ai suoi operatori e ai volontari, un servizio di
doposcuola ad almeno un centinaio di bambini delle elementari e medie, corsi di
italiano per minori e adulti e laboratori artistici. Un progetto in corso, spiegano
Fabrizio e Roberto, due degli educatori, è quello di giustizia riparativa (sul
tema, dossier MC 12/2013) che nasce da una collaborazione fra Asai,
Polizia municipale e Tribunale dei minori. «Nei casi di bullismo e reati minori»,
spiega Fabrizio, «la collaborazione consente l’inserimento dei ragazzi in un
percorso di servizio di riparazione alla comunità, mentre la Polizia municipale si occupa
della mediazione con la vittima». «Quello che si cerca di fare qui, attraverso
il progetto di giustizia riparativa come in tutte le altre attività con i
ragazzi» gli fa eco Roberto, «è di dare loro più strumenti per avere meno paura
di ciò che vivono giorno per giorno. Abbiamo visto miglioramenti oggettivi in
diversi casi di adolescenti problematici: se si liberano della paura cominciano
piano piano a liberarsi anche della rabbia».

Il lavoro con gli adolescenti si estende poi a quello
con la comunità. Riccardo, anche lui educatore Asai, racconta delle esperienze
di coinvolgimento dei cittadini in quartieri come San Salvario ma non solo.
L’obiettivo è creare una rete sul territorio che metta insieme le famiglie, i
commercianti, chiunque voglia spendersi per il quartiere, conoscere altre
persone e vivere una realtà più integrata. Riccardo cornordina un collettivo
interculturale di giovani musicisti che si chiama Barriera Republic: «Anche
un quartiere non facile come questo», spiega Riccardo, «è capace di generare
senso di appartenenza. Ci sono ragazzi con grandi capacità come musicisti,
videomaker, attori… Bisogna solo incanalare queste loro abilità in modo che
creino condivisione, confronto, inclusione».

Quanto agli immigrati adulti, è a loro che si rivolge
l’offerta formativa (che comprende anche corsi di italiano) del «Centro
territoriale permanente» per l’istruzione e la formazione in età adulta di
Porta Palazzo (Ctp Parini). «Stiamo sperimentando una vera e propria emergenza
alfabetizzazione che, combinata con leggi complesse e con l’aumento della
burocratizzazione, genera sempre maggior esclusione per tutti coloro, e sono davvero
tanti, che non sanno leggere e scrivere, non sono in grado di compilare moduli
o di acquisire informazioni», avverte Rocco, uno degli operatori del centro. Il
Ctp Parini ha circa duemila utenti di cui un migliaio sono frequentanti. A un
analfabeta occorrono tre o quattro anni per arrivare al livello di
alfabetizzazione A1 del quadro europeo (livello base). Molti, dopo aver
raggiunto quel livello si rendono conto di quanto importante sia lo strumento
che prima non possedevano e decidono di continuare a frequentare.

Chiara Giovetti

I missionari della
Consolata e i migranti

Dal 2013
il lavoro dei missionari della Consolata con migranti di Torino si è
intensificato: padre Antonio Rovelli, responsabile della cooperazione di Mco,
fa ora parte del team di cornordinamento dell’Upm, e padre Godfrey Msumange,
coadiuvato dai viceparroci padre Nicholas Muthoka e padre Francesco Discepoli,
è parroco di Maria Speranza Nostra, una vasta parrocchia nel cuore di Barriera
di Milano a Torino.
I missionari vi hanno iniziato il loro servizio il 20 ottobre del 2013,
giornata missionaria mondiale, e hanno cominciato ad ascoltare, osservare,
visitare le famiglie e programmare. «È un quartiere molto vario», spiega padre
Nicholas, «che ha accolto immigrati del Sud Italia e del Veneto in passato e
che ora ha visto l’arrivo di rumeni, albanesi, nigeriani, polacchi, eritrei,
marocchini, tunisini e diversi latinoamericani». «Per il momento» aggiunge
padre Godfrey «stiamo attivando, o prevediamo di attivare, servizi come lo
sportello lavoro, la distribuzione di cibo e il centro d’ascolto, oltre
all’oratorio che adesso è dedicato all’aggregazione. Ma vorremmo sviluppare
anche attività di doposcuola, corsi e laboratori».

Altra
realtà è quella di San Gioacchino a Porta Palazzo, una parrocchia con sacerdoti
nigeriani, in cui padre José Jesus Ossa Tamayo, missionario della Consolata
colombiano, segue la comunità dei latinos, i migranti provenienti
dall’America Latina. «I latinos sono ventimila in Piemonte, seimila
nella sola Torino», spiega padre Jesus, «e per guadagnarsi da vivere lavorano
spesso come badanti o facendo le pulizie. Hanno una grande fame di Dio e, al di
là della messa, si rivolgono al parroco come a un punto di riferimento per
tante cose: farsi accompagnare a un colloquio di lavoro, chiedere consigli sui
problemi di coppia». A volte le situazioni familiari e le condizioni abitative
sono molto difficili: padre Jesus racconta dell’esperienza di un’anziana che è
stata portata in Italia dai figli perché non restasse sola in patria, ma ha
problemi di mobilità che le impediscono di fare le scale e la costringono in
casa dove «piange, piange e piange, tutto il giorno. Con persone come lei»,
conclude padre Jesus «il ruolo di noi missionari è la presenza: andare e
“piangere” con lei. Ultimamente i parrocchiani si sono offerti di far costruire
un bell’altare: per loro è molto importante, è un segno di appartenenza. Lo
faremo, certo, ma ho detto loro che il primo altare a cui devono pensare è la
vecchietta che piange, o il fratello che non lavora e non ha di che nutrirsi».

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




L’umanitario, che noia. Ma se arriva il VIP… 

Dal concerto Live Aid del 1985 in poi, la
raccolta fondi e la sensibilizzazione passano anche attraverso la musica, il
cinema e i testimonial eccellenti. I Vip riescono a focalizzare l’attenzione su
temi spesso percepiti come noiosi e tristi: tragedie e situazioni di difficoltà
dei paesi del Sud del mondo. Una delle soluzioni più in voga per avvicinare il
grande pubblico sembra essere quella di rendere l’aiuto umanitario qualcosa di
cornol. E oggi sono tanti i Vip che fanno ottenere più visibilità alle campagne
per le quali s’impegnano. Ma a quale prezzo?

«Non andate al pub stasera, restate a casa e dateci il vostro denaro. Ci
sono persone che stanno morendo in questo preciso momento, perciò dateci i
soldi!». Era il 13 luglio del 1985 quando ai microfoni della Bbc Bob Geldof, il
musicista irlandese noto per la sua scarsa propensione a usare mezzi termini,
prorompeva rabbiosamente in questo accorato appello a favore dell’Etiopia in
emergenza carestia. In sottofondo, il bornato delle settantaduemila persone che formavano
il pubblico dello stadio londinese di Wembley accompagnava le esibizioni dei
mostri sacri del rock che si avvicendavano sul palco del Live Aid, il
concerto organizzato dallo stesso Geldof e da Midge Ure, musicista e attivista
scozzese. Il Live Aid era in qualche modo l’approdo di un percorso le
cui tappe precedenti erano state le canzoni Do They Know It’s Christmas
(sempre di Geldof e Ure) e We Are The World, del gruppo di star
statunitensi Usa for Africa.

L’unico precedente di portata e dimensioni comparabili
al Live Aid era stato il concerto per il Bangladesh organizzato dall’ex
Beatle George Harrison e dal musicista indiano Ravi Shankar nel 1971 al Madison
Square Garden di New York, al quale assistette un pubblico di quarantamila
persone e che portò donazioni iniziali per duecentoquarantamila dollari, salite
poi a quattro milioni di dollari con i proventi della vendita dell’album del
concerto.

Ma il Live Aid oscurò di gran lunga il risultato
ottenuto dal pioniere Harrison, imponendosi come uno dei momenti musicalmente
più memorabili del secolo scorso e, dal punto di vista delle donazioni,
raggiungendo nell’immediato circa cinquanta milioni di sterline, e un totale di
centocinquanta milioni aggiungendo i proventi della successiva campagna.

Una cifra colossale destinata ad aiuti umanitari alle
popolazioni del Nord dell’Etiopia afflitte da una carestia che, combinata alle
politiche agricole del governo locale, avrebbe provocato circa quattrocentomila
vittime. Le polemiche non si fecero attendere: cinque mesi dopo l’evento, un
articolo del Washington Post elencava una lunga serie di episodi di
disorganizzazione e incomprensioni fra la Fondazione Live Aid che
gestiva i fondi e le organizzazioni impegnate sul campo per alleviare le
sofferenze degli etiopi. Nel 2005, mentre Geldof stava preparando il Live 8,
un altro mega concerto di sensibilizzazione ai problemi della povertà a
vent’anni dall’illustre precedente, l’opinionista americano David Rieff scrisse
per il Guardian un articolo durissimo in cui spiegava che forse il Live
Aid
aveva permesso, come affermavano i suoi sostenitori, di dimezzare le
vittime della carestia, ma al tempo stesso aveva fornito al governo etiope – il
Derg di Menghistu Hailè Mariam – un sostegno economico che Menghistu usò
per deportare circa seicentomila persone dal Nord al Sud del paese e «villaggizzae»
(cioè riunire forzatamente in villaggi) altri tre milioni. Ufficialmente le
deportazioni e risistemazioni avevano avuto l’obiettivo di salvare la
popolazione da quella carestia che aveva ricevuto ampia attenzione dai media
inteazionali proprio grazie all’iniziativa di Geldof e Ure. In realtà, affermò
Rieff, lo scopo principale del Derg era stato quello di creare un
meccanismo di controllo capillare della popolazione e di contrastare i
movimenti di opposizione intea.

Oltre alle considerazioni riguardanti le conseguenze del
Live Aid sulla popolazione etiope, Rieff avanzava una serie di critiche
che, a ben guardare, possono essere estese anche oggi a tutti gli eventi di cui
la kermesse del 1985 è la madre. Innanzitutto, si chiedeva il
giornalista nel 2005, come si spiegava che l’Africa stesse peggio di vent’anni
prima nonostante le tante iniziative benefiche promosse da personaggi illustri?
E ancora: perché le cause della carestia etiope, che era imputabile non solo
alla natura ma a precise scelte umane (del governo di Menghistu), erano state
totalmente ignorate dagli organizzatori che avevano privilegiato, invece, una
comunicazione basata su semplicismi relativi ai concetti di bisogno, aiuto e
dovere morale?

Le campagne di successo in rete

L’avvento della rete ha offerto ulteriori strumenti alla
mobilitazione e alla sensibilizzazione. Si pensi al caso di Kony 2012.
La campagna contro il sanguinario leader del Lord Resistance Army in
Uganda, Joseph Kony, e le atrocità da lui commesse a danno della popolazione
civile e in particolare dei bambini ha mostrato come un prodotto ben
confezionato dal punto di vista video e altrettanto ben promosso attraverso i social
networks
e i testimonial d’eccezione (due fra tutti: Angelina Jolie e
George Clooney) può ottenere in breve tempo una grande esposizione mediatica.

Anche in quel caso i critici hanno insistito sul
pressappochismo delle informazioni – le operazioni dell’esercito di Kony non si
svolgevano più in Uganda da anni all’epoca della diffusione del video -, sul
fuorviante ricorso a immagini e termini che, pur in grado di coinvolgere
emotivamente lo spettatore, restituivano una visione distorta della realtà e su
come la campagna indicasse come atto umanitario l’invio di truppe statunitensi
in Uganda per «fermare Kony». Eppure, il video è arrivato nel giro di sei
giorni a cento milioni di click fra YouTube e Vimeo, due fra i
principali siti di condivisione dei video.

Italia, il «caso» Mission

Che anche nel mondo della cooperazione italiana stiano
prendendo piede in modo deciso la caccia al testimonial e la conquista
del grande pubblico attraverso una comunicazione spettacolarizzata non è una
novità. Ma Mission, il programma trasmesso in due serate lo scorso
dicembre da RaiUno, è probabilmente l’esempio che più di tutti ha generato
polemiche e sollevato dubbi tutto sommato inediti. Mission, che nelle
parole del direttore della rete Giancarlo Leone è stato «un progetto di social
tv
e non un reality show», ha portato alcuni volti noti della tv e
del giornalismo italiani (Al Bano e le sue figlie, Paola Barale, Emanuele
Filiberto di Savoia, Barbara De Rossi, Michele Cucuzza e altri) per due
settimane nei campi profughi di Giordania, Repubblica Democratica del Congo,
Sud Sudan, Ecuador e Mali allo scopo di prendere parte alle attività delle
organizzazioni umanitarie e di raccontare poi la loro esperienza in studio
commentando le riprese effettuate sul campo. Alla preparazione del programma,
alle riprese e alla trasmissione stessa hanno partecipato funzionari dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) e cooperanti dell’Ong
Intersos, il cui ruolo è stato quello di fornire ai Vip e alla Rai le
informazioni necessarie per evitare di cadere in quella che molti critici, fin
dall’annuncio dell’inizio delle riprese, avevano definito «pornografia
umanitaria». La trasmissione ha ottenuto circa due milioni e duecentomila
spettatori a puntata: un flop per la Rai, ma una mole di persone comunque
irraggiungibile per qualunque campagna di sensibilizzazione di una Ong italiana
di medie o piccole dimensioni.

Se, da un lato, c’è chi ha dato un giudizio positivo su Mission
perché ha acceso le luci su temi che i programmi di prima serata di RaiUno di
solito non affrontano, dall’altro lato molto più numerosi sono stati i critici.
Eugenio Melandri del Coordinamento Iniziative Popolari di Solidarietà
Internazionale (Cipsi) ha parlato di «marchettone natalizio». Luciano
Scalettari di Famiglia Cristiana lo ha definito «il trionfo del dilettantismo e
della noia», «un’occasione sprecata» che ha reso «protagonisti i personaggi
famosi anche se non sanno di cosa stanno parlando». Non così negativa, invece,
l’opinione espressa dal blog Info-cooperazione, punto di riferimento per
gli operatori della cooperazione in Italia, che ha definito Mission un «reportage
compassionevole, il trionfo dell’aiuto assistenziale condito da una televendita
continuativa dell’agenzia Onu per i rifugiati» ma, complessivamente, «nei limiti
della decenza».

Un bilancio

Al di là dei giudizi sulle singole iniziative, ciò che
emerge da una loro analisi è una serie di domande: ottenuta l’attenzione di
milioni di persone, che cosa ne hanno fatto i promotori degli eventi? Quali
messaggi, quali informazioni hanno veicolato? Hanno effettivamente comunicato i
temi dello sviluppo e contribuito a cambiare la percezione del grande pubblico
su di essi? L’impressione è che se l’obiettivo era raccogliere fondi da mettere
poi nelle mani di esperti e tecnici della cooperazione o della risposta alle
emergenze, il bilancio è tutto sommato positivo. Ma se lo scopo era invece
creare consapevolezza nel pubblico, i grandi eventi hanno fallito miseramente.
Il continuo ricorso a termini, immagini e ricostruzioni emotivamente
coinvolgenti ma approssimative e semplicistiche spinge a dubitare che anche
solo uno dei fruitori di queste iniziative sia oggi davvero più informato.
Sarebbe stato necessario mettere in evidenza nel programma televisivo quali
sono gli interessi e i fattori economici, politici e geostrategici che
scatenano conflitti e causano l’esodo in massa di milioni di profughi.

«L’assenza di un’analisi di questo tipo (sulle cause, ndr.)
non ha affatto aiutato i telespettatori a capire come le guerre nei vari paesi
toccati dal reality show facciano guadagnare i commercianti di armi, chi
le produce, le banche che si prestano alle transazioni della compravendita di
armi e i paesi interessati a tener vivo questo business».

«Senza questa essenziale informazione, il programma Mission
ha sollecitato il pubblico a gesti di carità ma ha ridotto l’impegno a un
buonismo sterile che serve solo a superare il nostro senso di colpa. Non è
stato capace, invece, di invitare i telespettatori a un impegno di pace, a individuare
le cause e le complicità che protraggono questi conflitti». Così ha commentato
la Federazione della stampa missionaria italiana di cui MC fa parte.

Che fare?

Resta da capire la parte più importante: perché questa
scelta di comunicazione? Il sospetto è che questo genere di messaggi ed eventi
sia preferito, semplicemente, perché è il più rapido ed efficace per la
raccolta fondi. Esso infatti non richiede un grande lavoro di analisi dei
contesti, e nemmeno uno sforzo di traduzione di quelle analisi in un linguaggio
adatto ai non addetti ai lavori capace di descrivere, spiegare e coinvolgere
senza banalizzare.

La sfida non è quella di raggiungere milioni di persone.
La vera sfida è raccontare storie comprensibili. Coinvolgenti perché più simili
alle loro di quanto non si pensi, o perché riguardano problemi che oggi non
appartengono più a una parte sola del globo, ma a tutti, seppure in misura
diversa da un paese all’altro.

Vengono in mente provocazioni come quella del «meme»
recentemente apparso su Inteet, un’immagine di un panorama africano
accompagnato dalla scritta: «Ogni sessanta secondi, in Africa, è passato un
minuto», in evidente polemica con il modo in cui spesso vengono esposti i dati
sulla mortalità e sulle malattie nel sud del mondo (i vari «Ogni sessanta
secondi in Africa la malaria uccide un bambino» e simili). Oppure ancora lo
spassosissimo video realizzato dal Fondo per l’assistenza internazionale
degli studenti e accademici norvegesi
in cui un paffuto bambino africano
che fa da protagonista per uno spot dal titolo «Salviamo l’Africa!» consola una
giovane donna europea dalle lacrime facili e discute con il regista dello spot
che lo esorta a rispettare il copione. «Dobbiamo creare impegno costruito sulla
conoscenza, non sugli stereotipi», recita la didascalia del video.

Forse, a trent’anni dal Live Aid e considerando i
risultati fin qui ottenuti dalla spettacolarizzazione della comunicazione sullo
sviluppo, gli operatori della solidarietà internazionale, che in definitiva
sono quasi sempre gli attori a cui Vip, media e pubblico in generale  devono appoggiarsi per raggiungere le realtà
di crisi, dovrebbero concentrarsi su strumenti e messaggi più simili a questi
nel ripensare le loro strategie di comunicazione.

Chiara Giovetti

3 DOMANDE A:

Elias Gerovasi,
ideatore e curatore di Info-cooperazione,
il blog degli operatori della cooperazione.

Elias, Info-cooperazione è stato una bella novità degli ultimi anni
nel panorama dell’informazione in Italia, utile non solo per tenere d’occhio i
bandi ma anche per informarsi e partecipare al dibattito sulla cooperazione.
Come è nata l’idea del tuo blog e per quali interlocutori lo hai concepito?

L’idea del blog nasce da alcune esigenze di chi lavora
nella cooperazione, conosciute attraverso il confronto con colleghi che, come
me, operano nel settore per una Ong. Tenersi informati in tempo reale sulle
opportunità di finanziamento è infatti fondamentale per chi deve trovare
quotidianamente le risorse per i progetti. Eppure le informazioni vengono
spesso riservate a cerchie ristrette per interesse sia dei finanziatori che dei
possibili beneficiari. Questo in passato ha limitato molto la competizione tra
Ong e associazioni, e ha anche ristretto le opportunità di partenariato. Poi
c’era una questione di trasparenza che ci stava a cuore: si tratta quasi sempre
di risorse pubbliche, e quindi ci deve essere massima pubblicità e trasparenza.
Fino a pochi anni fa, e forse anche oggi, era difficilissimo sapere come
venissero spesi i soldi, quali fossero, per esempio, gli esiti dei bandi
pubblici. Con il blog abbiamo voluto dare una risposta a questi bisogni e
questo è stato fortemente gradito soprattutto dagli operatori e dai volontari
di Ong e associazioni che non hanno capacità di lobby presso i donatori e le
istituzioni. Certo, abbiamo anche reso la vita più difficile a qualcun altro:
mi viene in mente l’esempio di una Fondazione che normalmente riceveva una
trentina di proposte progettuali da finanziare ogni anno e se ne è viste
arrivare oltre 600 dopo la pubblicazione del bando su Info-cooperazione.

Col passare dei mesi ci siamo resi conto che la
limitazione d’informazioni non riguardava solo le opportunità finanziarie.
Qualche migliaio di operatori del settore, infatti, sentiva una mancanza di
rappresentanza e la necessità di uno spazio di discussione. La rete ha dato
questa opportunità con lo strumento banale e semplice di un blog. Tanti
colleghi hanno iniziato a contribuire mandando suggerimenti su temi da trattare
o articoli con opinioni sugli argomenti caldi che la cooperazione si trova ad
affrontare in un periodo come quello odierno definito ormai da tutti di «crisi
di identità». Il resto si è fatto grazie al tempo e all’interesse dei lettori
che non ci aspettavamo assolutamente potessero arrivare alle cifre attuali.
Tieni conto che il blog si fa nei ritagli di tempo e nel weekend, ed è basato
sul contributo volontario, in tutti i sensi. 

Live Aid, Live 8, star di Hollywood come testimonial; qui
da noi, Lorella Cuccarini a Goma nel 2006 con Trenta ore per la vita e,
più di recente, l’esperienza di Mission. Qual è il tuo bilancio su
questo ruolo, negli ultimi trent’anni, dei grandi eventi e dei grandi
personaggi per comunicare la solidarietà internazionale?

Purtroppo anche questa dinamica è già arrivata alla sua
esasperazione. I testimonial si trovano sui cataloghi delle agenzie di Pr (Public
relations
, ndr) e comunicazione. Trovare testimonial veri e impegnati come
ai tempi di Live Aid è oggi quasi impossibile. Non credo si debba
condannare il coinvolgimento di testimonial in sé. Quando è stato fatto in modo
genuino l’ho trovato anche utile e interessante.

Ma oggi non è più così, le Ong per garantirsi un impatto
forte in termini di visibilità e raccolta fondi si affidano al marketing
e ai comunicatori che replicano su questo settore logiche commerciali molto
raffinate incontrando gli interessi dello show business e dei personaggi
noti alla ricerca di una charity da aiutare. Nel settore ambientale gli
inglesi lo chiamano green-wash, quando un’azienda inquinante sostiene
attività «verdi» per ripulire la propria immagine. Qui in molti casi si tratta
di charity-wash (ripulire la propria immagine attraverso gesti di «carità»).

Purtroppo trattandosi di una simbiosi perfetta credo che
il fenomeno sia destinato a un’ulteriore esasperazione, tanto che alcuni Vip
faranno solo questo di mestiere e alcune Ong avranno più testimonial che
volontari.

Molti, fuori dal «recinto» degli addetti ai
lavori, trovano la solidarietà e lo sviluppo temi noiosi, o tristi, o troppo
impegnativi. Secondo te è un dato di fatto che si tratti di argomenti non
facilmente comunicabili? O siamo noi operatori della cooperazione che sbagliamo
strategia e, in questo caso, che cosa dovremmo cambiare?

Che si tratti di temi tristi e impegnativi non c’è
dubbio. Ma non è vero che non siano comunicabili. Credo che il «problema madre»
del nostro settore in fatto di comunicazione sia solo uno: pretendere di
sensibilizzare l’opinione pubblica e contemporaneamente di raccogliere fondi .
O meglio, in molti casi, sensibilizzare al solo fine di raccogliere fondi.

Hai fatto l’esempio di Mission, la trasmissione
di RaiUno che ritengo abbia rappresentato in pieno questo modello diventando
un’occasione persa. Il mondo dei rifugiati è stato raccontato in modo melenso,
pietista e superficiale al solo fine di veicolare una campagna di raccolta
fondi e di fare il charity-wash della Rai. Eppure in passato mi è
capitato di vedere film o documentari e sentire canzoni che mi hanno fortemente
sensibilizzato su diversi temi legati alla povertà e alla giustizia sociale, ma
non avevano uno scopo di raccolta fondi e credo abbiano raggiunto il loro
obiettivo, quello di aprire gli occhi dell’opinione pubblica su drammi e
ingiustizie del mondo. Ritengo che la sfida di comunicare al grande pubblico,
seppur difficile, sia possibile affrontarla e vincerla soprattutto se si sta
alla larga dal fund raising.

E poi non c’è solo la Tv, pensa ai milioni di email e
lettere che ogni mese le nostre Ong recapitano ad altrettanti italiani: anche
questa è comunicazione e potrebbe essere utilizzata per veicolare qualche
contenuto.

Se ti mando una lettera con una gigantografia di un
bambino denutrito morente accompagnata da un bollettino postale dicendoti che
solo tu potrai salvare quel bimbo, voglio sensibilizzarti sulla malnutrizione
infantile in Africa o semplicemente scucirti soldi raccontandoti una storia
semplice, parziale e volontariamente drammatizzata? Anche queste sono occasioni
perse e perpetuano una comunicazione errata della povertà e dello sviluppo
globale.

Ma prepariamoci al peggio, in futuro questo capiterà
anche con la politica con l’avvento della raccolta fondi dei partiti a seguito
della progressiva abolizione dei finanziamenti pubblici. Pensa ai partiti che
dovranno convincere i cittadini a donare e firmare il 2×1000 dell’Irpef nelle
dichiarazioni dei redditi, non voglio pensare a cosa manderanno nelle nostre
caselle postali!

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Micro è bello (e fa bene)

Il 2 luglio del 1971 Paolo VI istituisce la Caritas
Italiana, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana per la
promozione della carità, che formalizza e lancia uno strumento di fatto
presente dal 1969: la microrealizzazione. Oggi, quarantadue anni dopo, le
microrealizzazioni portate a termine sono oltre tredicimila. Viaggio alla
scoperta di un’idea di solidarietà che continua a godere di ottima salute.

Micro azioni per macro valori

1967
– 1970: guerra del Biafra.
Le immagini e le storie di
milioni di persone colpite dal conflitto e dalla fame nella regione
sudorientale della Nigeria fanno il giro del mondo. L’entusiasmo per la
stagione della decolonizzazione – inaugurata nel 1946 in Medio Oriente da
Libano e Siria e nel Sudest asiatico dalle Filippine, mentre a Sud del Sahara
il primato spetta al Ghana di Kwame Nkrumah nel 1957 – lascia progressivamente
il posto alla presa di coscienza che nuovi drammi e crescente povertà stanno
soffocando il sogno di un’umanità pacificata e incamminata verso un avvenire di
benessere e pace per tutti dopo l’immane tragedia della seconda guerra
mondiale.

Il
Terzo mondo, termine che fino a quel momento aveva indicato quasi asetticamente
il blocco di paesi diversi da quelli aderenti alla Nato o al Patto di Varsavia,
diventa sinonimo di povertà, fame e sottosviluppo.

È
in questo contesto che sui bollettini Italia Caritas appaiono analisi in cui si
denuncia che il 30% dell’umanità dispone dell’85% delle risorse, si afferma che
«i poveri non ce la fanno da soli», che la risposta agli squilibri e
ineguaglianze può venire non solo da grandi interventi e cospicui investimenti
ma anche da piccole opere che incidano sul quotidiano e, infine, che nelle
comunità donatrici, così come in quelle riceventi, occorre un impegno politico
nutrito dalla conoscenza dettagliata delle realtà disagiate per intervenire
davvero sulle cause strutturali e non solo sui sintomi della povertà. La rete
che rende possibile la comunicazione fra le comunità è costituita da Caritas
italiana, Caritas diocesane e parrocchiali, che fanno da ponte fra i gruppi
umani coinvolti nel Nord e nel Sud del mondo e favoriscono uno scambio in
entrambe le direzioni.

La
microrealizzazione, recita il sussidio «Micro azioni per macro valori» della
Caritas (EDB, 2011), si configura come «la messa in opera, in loco, di
un’iniziativa intesa a risolvere con rapidità alcuni bisogni contingenti di una
piccola comunità» e «destinata a sviluppare sul piano umano e sociale il
livello di vita delle persone, delle comunità e quindi di tutto il territorio».
Dal punto di vista di chi dona, non si tratta di semplice «slancio emotivo e
contingente», ma di «crescita nella comprensione della carità che […] è sempre
necessaria come stimolo e completamento della giustizia». Ecco perché gli
elementi fondanti della microrealizzazione (termine sostituito progressivamente
dalla più «tecnica» definizione di «microprogetto») sono la relazione solidale
diretta fra due comunità – una, nel Sud del mondo, che chiama, e una, nel Nord,
che risponde – e l’educazione alla mondialità, che fornisce quelle informazioni
e conoscenze grazie alle quali si supera l’elemento puramente emotivo e si
percepisce la solidarietà come impegno nei confronti di altri inquilini della «casa
comune»: il mondo. Tutti siamo responsabili di tutti, scrive Giovanni Paolo II
nell’enciclica Sollicitudo rei socialis del 1987, come a voler
sintetizzare proprio questa idea.

Il
povero, dunque, non è più qualcuno che passivamente riceve aiuto e assistenza,
ma una persona che realizza la sua dignità in una comunità capace di individuare
i propri problemi, proporre soluzioni e mettersi in contatto con un’altra
comunità in grado di mobilitare le risorse necessarie per attuare quelle
soluzioni, in una collaborazione il cui obiettivo è quello di liberare dal
bisogno, di riparare la barca comunitaria e non solo di tamponare
temporaneamente una falla. Questa spinta dal basso è concepita come elemento
fondamentale anche nel determinare le scelte dall’alto: la consapevolezza dei
meccanismi alla base della povertà, da un lato, e la partecipazione attiva
all’individuazione delle soluzioni, dall’altro, hanno il potenziale di indurre
anche una serie di comportamenti diversi quanto a stili di vita e scelte
politiche dei cittadini e elettori, nel Nord come nel Sud del mondo. Nel
microprogetto, insomma,
carità e giustizia trovano la loro sintesi, sintesi che in tempi più recenti ha
cominciato a concretizzarsi anche attraverso la microfinanza, in particolare il
microcredito: questo tipo di intervento è forse quello che più di tutti
valorizza il beneficiario come persona titolare di diritti e in grado di
assumersi responsabilità di fronte alla propria comunità, che si impegna a
garantire per il singolo coprendo collettivamente i costi di un mancato
rimborso del credito. Non solo. La microfinanza porta con sé una critica
all’attuale economia disumanizzata e incurante dei diritti della persona: la
garanzia, infatti, non è data da un bene che il beneficiario mette a copertura
del credito ricevuto (ad esempio attraverso un’ipoteca sulla casa), ma viene
dal rapporto di fiducia fra il beneficiario e la comunità e fra questa e la
comunità donatrice. L’obiettivo della microfinanza è quella di permettere ai
soggetti cosiddetti non bancabili (che, cioè, non potrebbero avere accesso al
credito delle banche) di disporre comunque di un fondo con cui avviare
un’attività. Tale attività, poi, non ha il solo scopo di garantire il benessere
del beneficiario, ma di migliorare la condizione collettiva di una comunità e
di includere ulteriori persone nell’accesso al credito. La più che
quarantennale esperienza delle microrealizzazioni dimostra che sono proprio gli
anelli più deboli della catena comunitaria ad aver risposto in modo più
soddisfacente alla proposta della microfinanza e ad essee valorizzati: le
donne e i giovani emarginati.

Missioni Consolata Onlus e i microprogetti

Il
microprogetto ha un vantaggio fondamentale rispetto agli altri, più estesi e
complessi, progetti di cooperazione allo sviluppo: è concreto, immediato e più
facilmente gestibile. In un contesto come quello missionario in cui il grado di
conoscenza dei «nuovi» strumenti di solidarietà (nuovi rispetto alla più
classica forma della donazione da parte di un benefattore) varia molto da
contesto a contesto e da missionario a missionario, il microprogetto è il modo
più efficace per coniugare semplicità e rigore e per consentire alle comunità
di acquisire dimestichezza con lo strumento del progetto.

Missioni
Consolata Onlus collabora con Caritas da anni. Solo dal 2010 a oggi sono
quattordici i progetti dei missionari della Consolata che Caritas ha sostenuto
in Africa, Asia e America Latina. Ne passiamo brevemente in rassegna alcuni,
quelli che meglio permettono di illustrare i diversi tipi di intervento.

Il
progetto Emergenza zud ha permesso di assecondare lo sforzo dei
missionari nel sostenere le comunità colpite nel 2010 in Mongolia da un’ondata
anomala di gelo che aveva messo in ginocchio migliaia di persone e il bestiame
da cui queste dipendevano. Si è trattato di un tipo di intervento contemplato
da Caritas, quello appunto di risposta alle emergenze, che però riserva fin da
subito un occhio attento al «dopo» per non creare dipendenza nelle popolazioni
soccorse e per ideare fin da subito strategie di stabilizzazione post-crisi
umanitaria.

Il
progetto Avvio di un allevamento di capre a Monte Santo, Bahia
(Brasile) è un esempio di attività generatrice di reddito impeiata
sull’acquisto e distribuzione di capre a un gruppo di famiglie locali, che si
sono impegnate a fornire come contributo locale i serragli per il bestiame. Nel
medio periodo, l’intenzione è quella di passare dalla produzione di latte per
l’autoconsumo alla vendita a una cornoperativa locale che produce latticini.

Il
progetto Formazione professionale delle ragazze di Bisengo Mwambe,
Kinshasa (RD Congo) ha permesso a sessantadue ragazze congolesi di ricevere
formazione in sartoria e disporre delle macchine da cucire e della stoffa
necessarie per la pratica e la produzione, a fine corso, di manufatti per la
vendita.

Chiara Giovetti

 
L’Opinione
 


Tre domande a Francesco Carloni,


di Caritas Italiana

1. Puoi fare uno o più esempi di microprogetti «di successo»,
cioè piccoli progetti che più di altri hanno generato nella comunità ampie
ricadute innescando meccanismi di consapevolezza e volontà di elaborare autonomamente
soluzioni ai problemi della comunità stessa?

Il primo microprogetto di sviluppo, finanziato e realizzato
nel giugno del 1970, riguardava l’acquisto di materiale e attrezzatura
sanitaria per un reparto di pediatria a Maracha in Uganda; quel piccolo
intervento fu determinante per accreditare l’ospedale nel più vasto circuito
della sanità del paese. Nel 2013 l’ospedale è ancora funzionante, a pieno
regime. Da allora, senza soluzione di continuità, sono stati finanziati oltre
tredicimila microprogetti in quasi tutti i paesi e in oltre la metà delle
diocesi del mondo. Durante questo lungo percorso di cooperazione con le chiese
e le comunità locali, tanti sono stati gli ambiti di bisogno che sono stati
oggetto di microprogetto. Oltre ai tradizionali settori d’intervento, come
l’acqua, l’agricoltura, la sanità, negli ultimi anni molte delle richieste
pervenute hanno avuto come oggetto il lavoro.

Mi chiedi alcuni esempi: in Paraguay, con un finanziamento
di 3.200 euro, 15 famiglie indios trasferitesi a Ciudad del Este hanno
acquistato 10 carretti per intraprendere autonomamente la raccolta di carta e
ferro ottenendo in pochi mesi un aumento significativo del proprio reddito. In
Guinea Conacry, con 4.500 euro, 50 detenuti della prigione di Zérékoré hanno acquistato
attrezzature e materiali per avviare un laboratorio che produce sapone per il
mercato locale. In Vietnam 200 famiglie, con 5.000 euro, hanno potuto
acquistare 35 kg di semi di riso per riprendere la produzione nelle loro risaie
devastate da un tifone: la solidarietà vicendevole permette loro oggi di
congiungere la produzione per la vendita e la ridistribuzione dei semi.

2. L’educazione alla mondialità è fondamentale, specialmente
oggi, ma a volte rischia di raggiungere solo gli addetti ai lavori e chi già ha
sviluppato questo tipo di sensibilità. Che cosa si può fare per raggiungere
fasce sempre più ampie di cittadini e come la si può «raccontare» in modo che
emerga in modo comprensibile a tutti la sua rilevanza nell’oggi?

Per uscire dalla «cerchia degli addetti ai lavori» una
strada, che ritengo vincente oggi, è quella di riproporre con forza, a tutti
gli uomini di buona volontà, dei segni concreti che riportino la dimensione
della mondialità a essere trasversale e strettamente connessa alle azioni di
solidarietà internazionale e tutela dei dritti: significa costruire, proporre,
realizzare progetti «parlanti».

3. Una domanda scomoda: che cosa risponderesti a chi dice
che i microinterventi rischiano di essere delle «pezze» che tengono
faticosamente insieme nell’immediato delle realtà nel Sud del mondo? Non pensi
che richiederebbero un ripensamento molto più ampio circa le dinamiche alla
base della povertà, dell’ingiustizia, dell’esclusione e un cambio di rotta più
netto (specialmente da parte delle élites politiche locali) nella direzione di
una più equa distribuzione della ricchezza?

Rispondo che l’efficacia di un microprogetto di sviluppo
pensato, progettato e realizzato dagli stessi soggetti che si trovano in un
determinato bisogno, ha fin dalla sua fase di studio la stessa altissima
possibilità di successo di un grande progetto, che in fondo è costituito da
tanti microprogetti. La costruzione di risposte dal basso, pensate da chi ne
dovrà beneficiare, rappresenta in tutte le parti del mondo, oggi in particolar
modo, non una «pezza» ma un vestito di tessuto pregiato, il pregio derivando
dal fatto che trama e ordito sono un originale intreccio di peculiarità,
conoscenze e «voglia di fare» locali. (C. Gio.)


Chiara Giovetti




Uno sviluppo a tutto biogas

Produrre energia pulita con prodotti, rifiuti e residui
biodegradabili locali, liberandosi progressivamente della dipendenza dai
combustibili fossili come il petrolio e dai conflitti a essi legati, e
diminuendo i costi per i cittadini e le aziende. Non si tratta di uno slogan
che descrive il sogno a occhi aperti di un manipolo di visionari, ma di una
realtà che va prendendo forma nella vita di milioni di persone, e che getta
tutto il suo peso sulla bilancia dei temi che decidono le consultazioni elettorali.

Le
fonti di energia rinnovabili hanno oggi un peso che era impensabile solo pochi
anni fa, se è vero che nelle recenti elezioni tedesche, che hanno confermato Angela
Merkel alla guida del paese, sono state uno dei temi caldi. Quel tipo di fonti è
responsabile di ben un quinto della produzione energetica della Germania.
L’ambizioso piano tedesco per abbandonare i combustibili fossili entro il 2050
si sta rivelando più costoso del previsto per i cittadini, che si sono trovati
un aumento di circa il venti per cento sulla quota della bolletta che va a
sostenere gli incentivi alle rinnovabili (da 5,3 a 6,5 centesimi di euro per
chilowattora).

Fra queste fonti rinnovabili ci sono le biomasse che la
Direttiva Europea 2009/28/CE definisce come «la frazione biodegradabile dei
prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura
(comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie
connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile
dei rifiuti industriali e urbani». Sottoponendo una biomassa a un processo di
digestione o fermentazione anaerobica (cioè in assenza di ossigeno) è possibile
produrre biogas, composto per circa il settanta per cento da metano, che può
essere usato per la combustione (cioè ad esempio per far funzionare un
fornello) oppure, attraverso un ulteriore passaggio in un cogeneratore,
trasformato in energia elettrica. Il digestato, cioè il sottoprodotto della
digestione, può essere utilizzato come fertilizzante. Oltre al metano, il
processo di digestione produce anidride carbonica (CO2); questo,
tuttavia, non ha effetti sul riscaldamento globale poiché quella quantità di
anidride carbonica sarebbe stata prodotta comunque dalla biomassa nel suo
naturale decomporsi.

Secondo il rapporto 2012 della Iea, l’agenzia
internazionale per l’energia fondata dall’Organizzazione per la Cooperazione e
lo sviluppo economico (Ocse), i biocombustibili, fra cui il biogas,
rappresentano a livello mondiale circa il dieci per cento della produzione
totale di energia. In Italia, secondo il rapporto 2013 dell’Osservatorio
Agroenergia, a fine 2012 erano 850 gli impianti di biogas in funzione, per un
fatturato complessivo di due miliardi e mezzo di euro e un potenziale di
produzione pari a 5,6 miliardi di metri cubi l’anno. L’Osservatorio ha
calcolato che «il biometano può arrivare a coprire fino al dieci per cento del
consumo lordo di energia (scenario di “crescita accelerata”) o circa il 5%
(scenario di “crescita moderata”) al 2020». Il Consorzio italiano biogas stima
in un miliardo e mezzo di euro il risparmio che deriverebbe dal non dover
comprare gas dall’estero e ricorda che l’industria italiana del biogas dà
attualmente lavoro a circa dodicimila addetti.

Sulla carta, quindi, quella delle biomasse è
un’opportunità da non perdere per ridurre la dipendenza italiana dal gas
importato, pari a circa settanta miliardi di metri cubi l’anno. La
realizzazione pratica, tuttavia, non si sta svolgendo senza intoppi. Da un
lato, infatti, ci sono casi di successo come quello di Bertiolo, in provincia
di Udine, dove il biogas è stato ribattezzato il «petrolio verde». L’impianto
della Greenway, società che riunisce dieci aziende agricole locali,
produce oltre ottomila megawattora di elettricità in dodici mesi e ha creato un
giro d’affari di circa un milione di euro all’anno. La filiera corta, cioè
basata su operatori che agiscono in un territorio circoscritto e in contatto diretto
fra loro, è indicata dai produttori come una condizione imprescindibile per il
successo dell’iniziativa: i produttori, infatti, ricavano da circa trecento
ettari di coltivazioni locali tutta la materia prima necessaria per far
funzionare l’impianto, senza spese aggiuntive per trasporti delle materie prime
e creando un indotto importante per i piccoli paesi della zona.

Ma accanto a casi virtuosi come quello friulano, ce ne
sono altri nei quali la situazione non è così rosea: a Ponte Guerro, in
provincia di Modena, i cittadini hanno ingaggiato una lunga battaglia con Hera,
il gestore dell’impianto di biogas, esasperati dai miasmi prodotti dalla
centrale locale; il Centro Documentazione Conflitti Ambientali, nell’ambito
della campagna Green Lies (Bugie Verdi) che indaga i lati oscuri della green
economy
ha poi raccolto in un documentario le testimonianze dei cittadini
di Bondeno (Ferrara) e Mezzolara (Bologna) dai quali emerge che l’alimentazione
degli impianti a biogas previsti dal piano energetico regionale richiederebbero
seicentomila ettari di mais coltivati localmente e il conseguente
sconvolgimento dell’uso tradizionale dei terreni agricoli del ferrarese e del
bolognese.

Il documentario segnala inoltre «mancanza totale di
coinvolgimento e corretta informazione dei cittadini (…); piani di sviluppo
lontani dalle necessità e dall’esigenza dei territori e dei cittadini che lo
abitano; sistemi di incentivi sregolati che non permettono lo sviluppo graduale
e sostenibile di nuove economie locali a medio e lungo termine; assenza di
reali e efficienti misure di valutazione dei progetti, di controllo degli
impianti e del trattamento dei residui pericolosi e di future misure di
bonifiche; mancanza di conoscenza e curiosità tecnica da parte dei decisori che
avallano progetti inadatti».

Infine va considerato lo stravolgimento dei prezzi di
mercato nei casi di siccità (come è successo nel 2012) e, quindi, di scarsa
produzione, perché il bisogno di biomasse assorbe anche il prodotto vergine
destinato all’alimentazione animale e umana.

In assenza di una regolamentazione chiara e univoca e
guardando al biogas nella sola ottica del business, insomma, il rischio è
quello di trasformare una possibile occasione di crescita economica in
un’attività che danneggia il territorio. L’Energy & Strategy Group
del Politecnico di Milano, proprio partendo dall’analisi di questi rischi, ha
raccomandato di tornare al principio del chilometro zero: piccoli impianti
sostenibili alimentati da scarti agricoli e forestali locali e non da biomasse
vergini, cioè da prodotti coltivati ex-novo con lo scopo di essere
utilizzati per la produzione di biogas.

Il biogas nel Sud del mondo

Il biogas sta rivelandosi una novità dai risvolti
potenzialmente decisivi anche per le economie del Sud del mondo. Si
moltiplicano, anno dopo anno, i progetti sostenuti dalle istituzioni
inteazionali e dalle Ong con l’obiettivo di rispondere alla crescente domanda
di energia dei paesi in via di sviluppo, e diversi rapporti illustrano i
vantaggi di cui beneficia chi si è lanciato nella nuova avventura del biogas.
La Thomas Reuters Foundation riporta il caso di Parshottambhai Shanabhai
Patel, un contadino dello Stato di Gujarat, nell’India nord-occidentale, che
dal 2009 produce biogas grazie al quale fa funzionare il suo impianto di
irrigazione. Con duecento chili al giorno di letame delle sue vacche riesce a
produrre energia per otto – dieci ore e non deve più affrontare il costo, pari
a quattrocento euro l’anno, per il gasolio che alimentava la pompa. Inoltre,
soddisfatti i bisogni della propria fattoria, Patel può vendere l’energia in
avanzo agli altri coltivatori per sessanta rupie (circa un dollaro) all’ora.

Il Christian Science Monitor illustra poi
l’esempio della scuola di Gachoire, nel Kenya centrale, dove le acque reflue
delle latrine usate dagli oltre ottocento ragazzi della scuola vengono
convogliate nel digestore e convertite in gas per i fornelli della cucina. E
ancora, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), gli
scarti di un mattatornio a Dagoretti e la raccolta dei rifiuti a Kibera (due slums
di Nairobi) permettono di soddisfare, rispettivamente, il fabbisogno energetico
per il funzionamento del mattatornio e il fornello comunitario. I benefici per
l’ambiente derivano ovviamente anche dal fatto che i rifiuti animali del
macello non finiscono più nel vicino fiume (che era stato ribattezzato «il
fiume di sangue») e che la raccolta di rifiuti ha migliorato la salubrità del
quartiere.

Energypedia,
l’enciclopedia dell’energia avviata fra gli altri dall’agenzia di cooperazione
internazionale tedesca (Giz – Gesellschaft für Inteationale Zusammenarbeit),
riporta che il consumo energetico kenyano viene soddisfatto per oltre due terzi
dalla legna da ardere e dalla carbonella; la richiesta di legna sarebbe pari a
trentacinque milioni di tonnellate annue e rimane inevasa per oltre la metà.
Con questi numeri, è evidente che il rischio di deforestazione per il paese è
altissimo e il biogas può davvero rappresentare una svolta verso una soluzione
che impedisca la devastazione del patrimonio forestale del paese.

Mediamente, nei paesi in via di sviluppo, gli impianti
sono di piccole, se non piccolissime, dimensioni e vanno a sopperire alla
richiesta energetica di singole famiglie o comunità. Il rischio, nel Sud del
mondo come nel Nord, è quello delle speculazioni da parte di grandi produttori
industriali o società finanziarie.

Chiara
Giovetti

Progetto_____________________

La Fiamma di Natale

Quest’anno, la campagna di
Natale di Missioni Consolata Onlus si concentra su un tema
apparentemente poco natalizio: il biogas.

Questa volta abbiamo dato
un’interpretazione diversa del «regalare la vita» (lo slogan delle nostre
passate campagne): «preservare la vita che ci dà la Terra».

Su un pianeta che si sta
suicidando, utilizzando indiscriminatamente le risorse naturali a vantaggio di
pochi, l’attenzione per i temi dell’ambiente non può essere un lusso radical
chic
da occidentali ma un problema di tutti, ovunque. Un cittadino del Sud
del mondo ha diritto come chiunque altro a vivere in un ambiente pulito,
salubre, in un territorio non devastato da disastri ambientali provocati dalla
deforestazione e dall’inquinamento. L’energia, che permette di cucinare, di
pulire, di illuminare deve poter essere a disposizione di tutti.

Ecco perché quest’anno
abbiamo scelto di sostenere il progetto biogas di Familia ya Ufariji, a
Kahawa West, un quartiere della periferia di Nairobi.

Familia ya Ufariji
(Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di
strada fondata nel 1996 dai Missionari della Consolata. Oggi ospita sessanta
bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Da anni, Familia
ha avviato una serie di attività agricole che hanno il doppio risultato di
permettere alla struttura di contribuire al proprio mantenimento e ai ragazzi
ospitati di collaborare alle attività, apprendendo tecniche agricole che
permetteranno loro di avere una competenza professionale da utilizzare per il
proprio sostentamento.

Nella piccola fattoria di Familia
ci sono attualmente sei vacche e tre vitelli che possono fornire letame per far
funzionare un impianto per la produzione di biogas. Il gas prodotto sarà
utilizzato per integrare ed eventualmente sostituire la legna, il gas Gpl e gli
scarti del mais attualmente utilizzati per il fuoco della cucina. Un digestore
di ventiquattro metri cubi sarà sufficiente per fornire il gas a un fornello.

Padre Lorenzo Cometto e
fratel Kenneth Wekesa si occuperanno della realizzazione del progetto,
coadiuvati da tecnici locali specializzati per garantire che il piccolo
impianto sia costruito e messo in funzione nel rispetto delle norme di
sicurezza. Il costo del progetto è di 8.156 euro. Anche una piccola donazione
può servirci per acquistare le cistee, il cemento, i tubi e tutto il
materiale necessario alla realizzazione del digestore e alla sua messa in
funzione. (Chi. Gi.)

Maggiori informazioni sui dettagli del progetto sono
disponibili sul sito di Missioni Consolata Onlus:
www.missioniconsolataonlus.it

Chiara Giovetti




Carità? Per carità!

Due libri provocano un acceso dibattito sulla cooperazione: «L’industria
della carità» di Valeria Furlanetto e «La carità che uccide» di Dambisa Moyo.
Il primo, recentissimo, si riferisce alla cooperazione delle organizzazioni
no-profit, il secondo, del 2010, è critico sugli aiuti mandati da nazioni ed
enti inteazionali. Quando la cooperazione si riduce a carità» – non certo
quella evangelica – invece di far crescere può uccidere o mantenere nella
dipendenza.

La carità che non funziona

Feste
a base di alcol e musica cornol in mega-ville stile Califoia alle porte
di città africane martoriate dalla guerra, jeep che sfrecciano sugli sterrati
del Sud del mondo per portare i cooperanti dall’ufficio alla palestra e poi al
ristorante di lusso, bilanci non pubblicati o non trasparenti, donazioni che si
perdono per strada, milioni di euro spesi in marketing e pubblicità. E
ancora: volontari che strattonano vecchiette terremotate per trascinarle
davanti a una telecamera e farsi riprendere mentre le «aiutano»; offerte
investite in titoli azionari invece che inviate sul campo; bambini fatti
diventare magicamente orfani con un tratto di penna su un documento per darli
in adozione a ignare coppie nel Nord del mondo; organizzazioni no-profit
tramandate ereditariamente di padre in figlio come fossero aziende; manager
strapagati e accordi con i «cattivi» delle multinazionali. Il mondo della
beneficenza che Valentina Furlanetto descrive nel suo libro L’industria
della carità
, uscito nel gennaio 2013 e edito da Chiarelettere, assomiglia
più a un brutto cine-panettone che all’ambiente virtuoso dove opera «l’Italia
migliore che non teme il mondo», come l’ex ministro per la Cooperazione Andrea
Riccardi ha definito gli operatori della solidarietà internazionale al Forum di
Milano dello scorso autunno.

Criticato
ancora prima che uscisse, il libro è stato definito dai suoi (tanti) detrattori
«scientificamente inconsistente» (Stefano Zamagni, presidente della non più operativa Agenzia per il Terzo Settore), «un
pasticcio dove si mescolano tutto e il contrario di tutto» (Andrea Pinchera di Greenpeace),
«un’occasione persa» (Konstantinos Moschochoritis di Medici senza Frontiere),
solo per citare alcune opinioni. Che realtà anche molto diverse (Ong, onlus,
cornoperative, livello nazionale e internazionale, aiuti pubblici e privati)
vengano nel libro superficialmente sovrapposte e appiattite è un dato di fatto;
che lo stile dell’autrice tradisca a volte la volontà di polemizzare più che
quella di mantenere l’obiettività – tante lo occasioni in cui dice: «dovrebbe
essere così. Peccato che sia cosà» – è pure vero. Che alcuni dati
citati siano discutibili o approssimativi è indubbio. Infine, che a pagina 189
la lingua dell’Etiopia diventi l’aramaico (invece che l’amarico) fa perfino un
po’ sorridere.

Al
netto di questi tanti limiti anche chi scrive trova che il libro della
Furlanetto sia un’occasione persa, ma per motivi opposti a quelli dei critici
citati sopra: è un’occasione persa per fare autocritica. E per provare a
spiegare al pubblico come stanno le cose senza facili indignazioni, altezzosa
autoreferenzialità e quell’orribile linguaggio «sviluppese» che non solo è
sgradevole, ma anche incomprensibile ai più, vediamo in dettaglio alcuni punti.

Cose che il libro non dice

Furlanetto
non dice che il mondo del no-profit è tutto un magna-magna. Non
sono forse di cooperanti delle Ong (Viviana Salsi, Enrico Crespi, Silvana e gli
altri) le critiche più feroci al «circo umanitario» citate nel libro? Segno che
l’autrice sa che la solidarietà (o beneficenza, che però è tutta un’altra cosa;
ma su questo toeremo dopo) non consiste solo in sprechi, errori, distrazioni
di fondi, ma è fatta anche di persone e organizzazioni oneste e appassionate.
Di Medici Senza Frontiere, ad esempio, Furlanetto ricorda la serietà di cui
l’organizzazione diede prova, nel 2004, nel comunicare che i fondi raccolti per
lo tsunami avevano superato le capacità operative dell’organizzazione e
nell’offrire ai donatori di scegliere tra farsi restituire i soldi o dare
l’assenso perché fossero impiegati altrove.

Fatta
eccezione per questi contenuti, l’autrice non parla del buono e dà ampio spazio
al marcio. Ma il titolo del libro non è «Trattato sulla cooperazione», non ha
pretese di esaustività e analizza dichiaratamente un lato, o un volto, di un
fenomeno. Si trattasse anche di un Giano bifronte, se non di un poliedro a più
facce, resta chiaro che c’è almeno un altro volto e che, semplicemente,
Furlanetto non lo sta raccontando.

La
giornalista trevigiana, però, sembra sbilanciata (forse un po’ demagogicamente)
verso il lato dei piccoli donatori interessati a sapere che fine fanno i loro
soldi, mentre la sensazione è che la presenza di questo interesse da parte di
chi dona non sia sempre così scontata. Siamo sicuri che chi invia due euro via
sms dopo aver visto il viso sfigurato dal pianto di un bambino di Haiti voglia
davvero sapere, vedere, toccare con mano il fatto che quei due euro sono
diventati il riso che quel bambino sta mangiando? In Italia gli utenti iscritti
a Facebook sono ventidue milioni: possibile che chi è tecnologicamente
alfabetizzato abbastanza per scambiarsi battute su un social network con gli
amici non sia anche in grado di scrivere una mail a un’associazione per
chiedere conto dell’utilizzo dei fondi? Eppure non succede, o succede solo
molto di rado: perché? Perché spesso la solidarietà in Italia è appunto solo
carità (non nel senso usato nell’editoriale di MC 3/2013, ndr), se non
una mera reazione di pancia, non interessata a capire e conoscere quello che
sta attorno all’immagine del bambino che piange e come quell’attorno,
passaggio dopo passaggio, arrivi fino al nostro quotidiano, al carrello delle
spesa, al telefonino che compriamo, al mezzo con cui ci spostiamo.

La
misura del fallimento della solidarietà internazionale – italiana come estera –
non è solo nel saldo fra danno e utile nelle azioni compiute sul campo, ma
anche, e forse soprattutto, nei numeri irrisori di persone che le
organizzazioni sono state fin qui capaci di sensibilizzare e informare davvero.
Se ci fosse un modo semplice ed efficace per illustrare, ai donatori e al
pubblico in generale, come quello che scegliamo di comprare, mangiare, usare ha
conseguenze molto più ampie di quel che sembra e rischia di elidere i benefici
portati da una donazione, la solidarietà internazionale cambierebbe
radicalmente. Ma un modo semplice non c’è. Ed è proprio nella ricerca di un
metodo efficace che le organizzazioni di solidarietà internazionale si sono
miseramente arenate, cedendo invece a un marketing a volte pietistico
che nulla ha a che fare con lo sforzo di informare – «educare» è un termine di
cui preferiamo non abusare – l’audience esposta ai messaggi promozionali.

Cose che il libro dice

Furlanetto
parla di sprechi, di truffe e di cooperanti che in Italia pagherebbero duecento
euro per un letto in una stanza doppia alla periferia di una grande città e
invece sul campo hanno begli appartamenti con cuoco, servizio di pulizia,
autista e guardiano; di funzionari che parlano di «progetti che vendono», di
manager di Ong inteazionali che guadagnano quanto i loro omologhi delle
multinazionali, di colossi del profit che si lavano coscienza e immagine
collaborando con enti no-profit e di Ong che si prestano a questi
connubi sostenendo che in tal modo possono meglio controllare i «cattivi».

Che
faccia più notizia uno di questi eccessi di quanto lo facciano i progetti e le
realtà che funzionano non è nulla di nuovo; ciò non toglie che gli eccessi
esistano davvero e chiunque è stato nel Sud del mondo per più di una settimana
ha avuto modo di imbattersi in una o più di queste situazioni. Molte delle
critiche al libro utilizzano la formula: «È vero, la mala gestione esiste, ma
le cose che funzionano sono di più di quelle che non funzionano». Ma è anche
vero che ci sono tonnellate di campagne di promozione dei progetti e di
comunicati stampa che ci spiegano quanto bene operino le organizzazioni attive
nell’umanitario o nelle emergenze e quante belle cose facciano. Per questo le
bordate à la Furlanetto – ovviamente quando verificate, ben documentate
e equilibrate – controbilanciano quell’incensare se stesse in cui le
organizzazioni spesso finiscono per indulgere.

A
questo proposito, l’autrice insiste molto proprio sulla grande quantità di
risorse che vengono impiegate dalle Ong per marketing e promozione.
Furlanetto non è sola nell’avanzare perplessità. Il 43° World Economic Forum
di Davos, Svizzera, ha dedicato un approfondimento proprio al mondo delle Ong,
rilevando che queste appaiono sempre più perse nella burocrazia e sottolineando
che chi vince nella raccolta fondi è spesso non chi fa meglio il proprio lavoro
ma chi è più efficace nella comunicazione.

La carità che uccide

Ma
non è solo quello che non funziona che merita di essere dibattuto e il rischio
connesso alle discussioni provocate da L’industria della carità è quello
di spostare l’attenzione da temi che stanno un passo indietro (o un gradino
sopra) rispetto alla mala gestione, e cioè la riflessione sul perché, più che
sul come, della cooperazione.

Un
merito del libro della Furlanetto è quello di riprodurre in modo abbastanza
fedele il punto di vista del grande pubblico attraverso semplici scelte
lessicali: termini come «beneficenza», «carità», «generosità» e «aiuto» ci
dicono forse molto di più di quello che era nelle intenzioni dell’autrice e cioè
che nel nostro paese (e probabilmente anche all’estero) la solidarietà continua
a essere percepita più come un gesto di buoni sentimenti a senso unico che una
effettiva partecipazione a bisogni e assunzione di responsabilità che sempre di
più travalicano i confini nazionali e riguardano la comunità umana nel suo complesso.
Nei forum sulla cooperazione continuano a emergere in maniera sempre più
chiara una serie di dati di fatto che mettono in discussione il senso stesso
della cooperazione, se è vero che il più grande contributo al benessere dei
paesi del Sud del mondo viene dalle rimesse dei loro stessi cittadini emigrati
all’estero e che paesi un tempo beneficiari degli aiuti sono ora potenze
economiche in ascesa.

Non
solo. Non si era ancora spenta l’eco delle polemiche suscitate dal libro della
sociologa camerunese Axelle Kabou, E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?
– uscito in Italia nel 1995 e fortemente critico nei confronti delle élite e
delle popolazioni africane a suo parere responsabili del sottosviluppo quanto,
se non di più, dei paesi ex colonizzatori e delle istituzioni finanziarie
inteazionali – che l’economista zambiana Dambisa Moyo ha rincarato la dose
con il suo La carità che uccide.

Il
testo di Moyo, anch’esso criticatissimo, parte dalla constatazione che dopo
cinquant’anni di interventi e mille miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo
riversati sul continente nero dalle istituzioni inteazionali (Moyo non si
occupa di Ong) l’Africa sta peggio di prima e si chiede, quindi, se non sia il
momento di interrogarsi seriamente sul senso stesso di questo aiuto che ha
creato nazioni di mendicanti condannate a una perenne adolescenza economica.
Secondo l’economista zambiana, la via che l’Africa dovrebbe seguire per uscire
dalla dipendenza sarebbe quella di prendere esempio dalle economie emergenti
asiatiche, incoraggiare le politiche cinesi di investimento su larga scala in
Africa, battersi per una reale apertura al libero commercio in ambito agricolo,
promuovere la microfinanza, rendere meno costoso per gli emigrati l’invio delle
rimesse e riconoscere agli abitanti delle baraccopoli il titolo di proprietà
legale sulla casa in modo che questa possa essere usata come garanzia. Kabou e
Moyo concentrano la loro attenzione sull’Africa; ovviamente Asia e America
Latina meriterebbero una trattazione a parte dei loro problemi specifici.
Tuttavia, molte delle riflessioni sulla dipendenza creata dagli aiuti e sulla
differenza fra carità e giustizia valgono anche per continenti diversi
dall’Africa.

Ben
vengano i dibattiti provocati da libri che raccontano storie di mala
cooperazione. Quella di una comunità umana con legami sempre più inestricabili
che vive drammi globali tangibili per tutti, però, è un’altra storia e non si
racconta né si fa con un sms.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Processo di pace: facciamo il punto

In queste pagine offriamo un quadro sintetico della situazione
di conflitto endemico tra stato e guerriglia che da anni insanguina la
Colombia. In questo contesto nel Caquetá, sta nascendo il progetto «Centri
d’incontro e ascolto» da un’idea di p. Renzo Marcolongo, missionario della Consolata
e psicologo clinico con un’esperienza di 24 anni come terapeuta e moderatore di
seminari sull’ascolto empatico.

Colombia. Sviluppo rurale,
partecipazione politica, smobilitazione, narcotraffico e diritti delle vittime
del conflitto. Sono questi i cinque temi discussi dal governo colombiano
guidato dal presidente Juan Manuel Santos e dalle Farc (Fuerzas Armadas
Revolucionarias de Colombia
) nel corso delle negoziazioni lanciate
nell’ottobre 2012 a Oslo, in Norvegia, e continuate poi con i colloqui a
l’Avana (Cuba). I colloqui hanno avuto uno stallo dopo che un momento di
tensione a fine gennaio – il sequestro da parte delle Farc di due agenti di
polizia e l’uccisione di quattro militari – ha rischiato di far saltare il
tavolo delle trattative, ma a marzo il settimo round di negoziazioni si è
svolto regolarmente. Ognuno dei cinque punti nasconde un’insidia sia per il
governo colombiano, che non può permettersi di concedere troppo, sia per i
vertici delle Farc, che non possono permettersi di ottenere troppo poco.

I protagonisti

Il
governo di Santos ha nell’estate 2014 la scadenza per presentarsi al paese con
un successo in tasca: l’anno prossimo, infatti, si svolgeranno le elezioni
presidenziali e legislative e il partito del presidente, a prescindere dalla
decisione di Santos di correre o meno per un secondo mandato, avrebbe un
fondamentale punto a suo favore nella campagna elettorale se potesse affermare
di essere stato la forza politica capace di chiudere il conflitto armato che da
oltre mezzo secolo devasta il paese.

I
rappresentanti delle Farc, dal canto loro, devono fare i conti con
l’indebolimento ormai evidente della loro forza militare, che nel corso degli
ultimi anni ha visto ridursi il numero dei combattenti dai ventimila delle prime
negoziazioni con il governo (tardi anni Novanta) ai circa ottomila della fine
del secondo mandato del presidente Alvaro Uribe (2010). Sotto la presidenza
Uribe, le Farc hanno ricevuto duri colpi dall’esercito colombiano e hanno visto
decapitata la propria dirigenza. Il 2008 è stata l’anno della scomparsa, fra
gli altri, di Pedro Antonio Marín, alias Tirofijo, capo fondatore delle
Farc. Se Tirofijo è morto di infarto, il suo successore, noto come Alfonso
Cano, è caduto invece in seguito a un bombardamento da parte dell’esercito
nella regione del Cauca. Il capo supremo è oggi il cinquantaduenne Rodrigo
Londoño, detto Timochenko, cui spetta il difficile compito di
traghettare fuori dalla clandestinità una compagine in cui fra l’altro esiste
un forte scollamento fra vertici e retrovie.

Secondo
padre Feando Patiño, missionario della Consolata colombiano, una delle chiavi
di volta per i successi dell’esercito sulle Farc è stata la superiorità
tecnologica: «Basta pensare», spiega padre Feando, «a come hanno catturato el
Mono Jojoy, capo militare e secondo nella linea di comando delle Farc, tradito
da un paio di stivali nei quali l’intelligence era riuscita a infilare un
microchip prima della consegna a Jojoy, individuando così l’esatta posizione
Gps del campo nel quale lui si trovava».

Il fantasma del Caguán

Le
attuali negoziazioni non sono le prime nella storia del conflitto fra governo
colombiano e Farc. Il precedente è rappresentato dai colloqui intercorsi fra il
1998 e il 2002 durante la presidenza di Andrés Pastrana. In quell’occasione, il
presidente decise di smilitarizzare la zona del Caguán e di svolgere lì i
colloqui, ma il processo si concluse con un pesante fallimento e con un
rafforzamento delle Farc, che approfittarono dell’assenza di controllo militare
governativo nel Caguán per far entrare grandi quantità di armi. Oggi, però, ci
sono differenze rispetto ai primi anni Duemila, differenze che possono far
pensare a una conclusione positiva dei colloqui. Nel settembre 2012, il
settimanale colombiano La Semana sintetizzava così queste differenze: «Oggi
c’è uno stato più forte da un punto di vista sia politico che militare, mentre
la guerriglia ha vertici molto indeboliti; c’è una strategia chiara per porre
fine al conflitto, strategia che include un pre-accordo e delle regole di
funzionamento; i colloqui si svolgono all’estero e non esigono la sospensione
immediata delle ostilità; infine, pesano l’influenza del defunto presidente
venezuelano Hugo Chavez e dell’accompagnamento internazionale [di Norvegia, Venezuela,
Cuba e Cile, ndr] nei colloqui e il contesto interno colombiano, a metà
di una legislatura di un governo con prospettive di rielezione».

La
scomparsa del presidente venezuelano ha aperto qualche interrogativo sul ruolo
del Venezuela nelle negoziazioni. Il successore, Nicolas Maduro, da Caracas, fa
sapere che in ossequio al giuramento fatto al suo comandante (Chavez, appunto)
il Venezuela continuerà a impegnarsi nel processo di pace colombiano. Christian
Völkel, analista dell’Inteational Crisis Group, osserva poi che per
quanto il ruolo del Venezuela sia stato importante nella fase segreta dei
colloqui, ora le negoziazioni hanno abbastanza forza in se stesse per reggersi
senza bisogno di supporti estei.

I rospi da ingoiare

Bastano
alcuni esempi per farsi un’idea della complessità della situazione. A proposito
del primo punto, relativo alla distribuzione delle terre, secondo Marco Romero,
analista della Consultoría para los Derechos Humanos y el Desplazamiento,
i colloqui dovranno trovare un punto di convergenza fra il modello di sviluppo
agroindustriale, che pare più vicino alla linea politica del governo e agli
impegni che la Colombia ha assunto con i trattati inteazionali di libero
commercio, e l’appoggio al campesinado, cioè ai piccoli agricoltori, che
le Farc indicano come prioritario.

Altro
aspetto da affrontare sarà la partecipazione politica delle Farc: una prima
difficoltà sarà di natura legale, poiché in Colombia una legge impedisce
l’entrata in politica a chi ha pendenze con la giustizia. C’è poi la questione
dei diritti delle vittime del conflitto, a sua volta strettamente legata alla
distribuzione delle terre e alle modalità della partecipazione politica delle
Farc: secondo i critici del processo, una pace davvero sostenibile non può basarsi
sull’impunità dei perpetratori delle violenze.

In
nome della pace, avverte il presidente Santos, occorrerà comunque «ingoiare
qualche rospo». Resta da vedere se la digestione di questi rospi sarà
abbastanza indolore da tenere in piedi un processo di pace che, rispetto al
precedente, sembra avere davvero il potenziale per liberare la Colombia da uno
dei suoi conflitti più sanguinosi. Anche nell’ipotesi di successo resteranno in
Colombia molti nodi da sciogliere, relativi ad esempio alla presenza dei
paramilitari e al peso del narcotraffico. Ma nessun effetto domino di
pacificazione del paese sembra possibile senza la caduta della prima tessera,
rappresentata appunto dall’accordo fra governo e Farc.

Chiara Giovetti
__________________

Arturo
Wallace
di Bbc Mundo ha sintetizzato in modo molto efficace le sfide
connesse a ciascuno dei cinque punti sul tavolo delle negoziazioni: la sua
analisi è disponibile all’indirizzo web

http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2012/10/121006_colombia_proceso_de_paz_nudos_aw.shtml 

Chiara Giovetti




Cooperazione per l’acqua

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2013 anno internazionale
della cooperazione per l’acqua e hanno incaricato l’Unesco, la loro agenzia più
multidisciplinare, di cornordinare le iniziative legate a questo tema che tocca
in modo trasversale ambiti diversi, dalle scienze naturali e sociali,
all’istruzione, alla cultura, alla comunicazione.

Obiettivo dell’Anno Internazionale, si legge
nel sito dell’agenzia Onu che si occupa dell’acqua, Un Water, è quello
di accrescere la consapevolezza sia delle aumentate possibilità di cooperazione
su questo tema sia delle sfide relative alla gestione dell’acqua. Sarà anche
un’occasione, conclude Un Water, per sfruttare il momentum, lo slancio
generato dalla Conferenza Onu sullo sviluppo sostenibile, nota come Rio+20
poiché si è svolta vent’anni dopo una precedente conferenza organizzata proprio
a Rio de Janeiro, in Brasile, sullo stesso tema.

A
quale momentum le Nazioni Unite si riferiscano rimane piuttosto dubbio,
visto che molti degli esponenti della società civile internazionale intervenuti
a Rio+20 hanno giudicato l’evento un flop e il documento conclusivo, intitolato
Il futuro che vorremmo, una semplice raccolta di buoni propositi priva
di qualunque rilevanza operativa e concreta. Non sono state date risposte
efficaci a gridi d’aiuto come quello di una donna mozambicana riportato da p.
Alex Zanotelli su Nigrizia nei suoi articoli da Rio: «La multinazionale
brasiliana Vale do Rio Doce – ha urlato la donna al microfono – sta costruendo
una diga nel mio paese, derubandoci delle nostre terre e delocalizzando la
nostra gente».

L’importanza
dell’acqua per la vita umana è di un’evidenza che non richiede dimostrazioni,
ma è interessante citare alcuni esempi di come la sua gestione crei diatribe
che si trasformano molto spesso in veri e propri conflitti armati. World
Water
, un progetto del pluripremiato istituto di ricerca Pacific
Institute
di Oakland, Califoia, ha stilato una lista che conta 225
conflitti legati all’acqua dal 3.000 a.C. al 2010. Il sito del Centro di
Documentazione dei conflitti ambientali
, con sede a Roma, fornisce i
dettagli di oltre sessanta conflitti in corso che riguardano la gestione
dell’acqua: deviazione di fiumi, costruzione di dighe, fumigazione di
coltivazioni illegali e altri interventi simili stanno pesantemente inquinando
le acque del globo e mettendo in discussione l’esistenza di interi popoli.

Avere a disposizione acqua pulita fa la differenza fra
vivere e morire in moltissimi contesti. Secondo Un Water, la diarrea
rimane la principale causa di malattia e morte nel mondo e nove casi di decesso
su dieci, tra quelli causati da malattie intestinali, sono dovuti alla mancanza
di acqua potabile e di igiene. Ogni venti secondi un bambino muore a causa
delle condizioni igieniche insufficienti. Lavarsi le mani con il sapone e acqua
pulita potrebbe ridurre di quasi la metà queste morti.

Altro esempio: il tracoma, infezione agli occhi diffusa
nel sud del mondo, colpisce circa quaranta milioni di persone; circa sei
milioni sono gli abitanti del pianeta oggi privi della vista a causa di questa
malattia, che si diffonde principalmente dove le condizioni igieniche sono
insufficienti per la mancanza di acqua e di sanificazione. Secondo l’Unicef,
intervenire per migliorare l’accesso a fonti idriche adeguate potrebbe ridurre
del 25% l’infezione.

Unicef ricorda poi che anche nella lotta all’HIV l’acqua
ha un ruolo cruciale: i pazienti affetti da Aids sono più suscettibili alle
malattie legate all’acqua di quanto lo siano gli individui sani e si ammalano
più gravemente per questo tipo di infezioni rispetto a persone il cui sistema
immunitario non è compromesso. Per questo è ancora più importante garantire
loro accesso ad acqua adeguata.

Molti
sarebbero gli esempi da citare per illustrare il peso decisivo dell’acqua nel
salvare vite umane o anche solo nel garantire standard di vita accettabili;
altrettanti, però, sono gli esempi di abuso delle risorse idriche che minaccia
la piena fruizione di questo bene fondamentale. Questa rivista si occupa da
anni di segnalare tali abusi, che vanno dal prosciugamento delle falde
acquifere del Kerala (India) da parte di Coca Cola Company (vedi Moiola,
Acqua del rubinetto? Sì, grazie!
, MC 6/2006) all’utilizzo di acqua nella
coltivazione di fiori per i mercati europei in paesi, come il Kenya (ma non
solo), pur afflitti con cadenza annuale da ondate devastanti di siccità
(Anataloni, La vergogna della fame, MC 9/2011).

I missionari della Consolata per l’acqua

L’accesso
all’acqua è uno dei temi portanti del lavoro dei missionari della Consolata nel
mondo e i progetti realizzati nelle missioni spaziano dai micro-interventi alle
iniziative di più ampia portata, dalla risposta alle emergenze all’ascolto
delle esigenze quotidiane delle comunità. Qui, per ragioni di spazio, ne
vediamo solo alcuni fra i più recenti e significativi.

Africa – Kenya


Il
più monumentale degli interventi legati all’acqua è probabilmente quello che da
quarant’anni fratel Giuseppe Argese porta avanti a Mukululu con il Tuuru
Water Scheme
. I numeri del sistema idrico messo in piedi da fratel Argese
con la diocesi di Meru fanno impressione: oltre un quarto di milione di persone
e oltre settantamila capi di bestiame della zona circostante la foresta di
Nyambene ricevono acqua grazie a questo enorme impianto che, con i suoi 250
chilometri di tubature, conta centinaia di punti di erogazione d’acqua e serve
dispensari, strutture sanitarie, scuole e privati. Ciò che vale la pena di
ricordare è che fratel Argese sta portando avanti i lavori – con tutte le
difficoltà connesse – per costruire la terza diga, che permetterebbe di
risolvere in maniera definitiva i problemi di siccità della zona (vedi
Anataloni, Mukululu: ricominciare, sempre, MC 1/2013). Su questo
progetto si è critto molto negli anni e c’è buona documentazione. L’iniziativa
di sponsorizzare i punti di distribuzione dell’acqua sta raccogliendo buoni
consensi. Il progetto si può sostenere anche online attraverso ilMiDono.

Meno noto è il grande lavoro delle diocesi di Marsabit e
di Maralal, perennemente alle prese con la mancanza di acqua o con la presenza
di acqua salata. Hanno scavato centinaia di pozzi, sistemato cistee per la
raccolta di acqua piovana vicino a ogni tetto di asili, scuole, centri sanitari
e missioni, piazzato mulini a vento, risanato sorgenti dividendo l’accesso del
bestiame da quello delle persone, aiutato la gente a costruire piccoli bacini
artificiali per la raccolta della pioggia, propagandato l’uso corretto
dell’acqua per vincere le malattie attraverso corsi di formazione per donne,
leader, operatori sanitari… una miriade di iniziative che hanno certo
contribuito al miglioramento della vita in una regione semi-desertica. L’enorme
diocesi di Marsabit, prima della divisione da Maralal, aveva un gruppo
specializzato per seguire esclusivamente i numerosissimi progetti sull’acqua su
tutto il territorio. Ora le due diocesi continuano l’impegno attraverso i
rispettivi Uffici dello Sviluppo.

Sempre
in Kenya, Missioni Consolata Onlus ha seguito l’anno scorso la realizzazione di
un progetto idrico – sostenuto con fondi messi a disposizione da Caritas
e da un’associazione calabrese amica – che ha premesso alla scuola secondaria
di Mukothima, nel Tharaka, di dotarsi di una fonte d’acqua per irrigare il
campo adiacente alla scuola. Grazie al campo e alla serra costruita accanto a
esso, è ora possibile coltivare frutta e verdura per la mensa della scuola e
abbattere così i costi di gestione.

RD Congo e Mozambico


In
Repubblica Democratica del Congo, presso l’ospedale Notre Dame della Consolata
di Neisu, è in corso un progetto finanziato dalla Water Right Foundation della
Toscana e da altri partner della zona dell’ATO3 Medio Valdao. Il
progetto prevede la costruzione di tre pozzi nei dispensari che fanno capo
all’ospedale e la formazione della popolazione locale sul corretto uso delle
risorse idriche e, in Italia, diverse iniziative di sensibilizzazione
sull’acqua (vedi MC 3/2013).

Ai progetti classici sull’acqua, che comprendono la
costruzione di pozzi (come quello ultimato l’anno scorso a Nseue, Mozambico), l’installazione
di cistee per le scuole e le risposte alle emergenze siccità come quella del
2012 nel nord del Kenya, i missionari affiancano ormai da diversi anni altre
iniziative che riguardano meno il fare, il costruire e si
concentrano invece più sulla formazione delle persone. Si stanno cioè
moltiplicando i progetti che, da un lato affiancano alla foitura dell’acqua i
corsi di formazione su come gestirla correttamente e, dall’altro mirano ad
aumentare nelle comunità la consapevolezza del proprio diritto all’acqua.

Obiettivo
di questa formazione è sostenere la popolazione locale nel suo tentativo di
relazionarsi con le istituzioni pubbliche locali per esigere dai propri
amministratori interventi incisivi che ampliino l’accesso all’acqua pulita.
Indicativo è stato l’esempio del Mozambico, al quale Mco ha dedicato la
campagna di Natale del 2012: i missionari della Consolata che operano nel
gigante lusofono dell’Africa meridionale hanno segnalato all’unisono e con
molta decisione l’urgenza di mettere le comunità locali in condizione di
partecipare alla crescita economica del paese, creando in esse competenze
professionali e conoscenze giuridiche attraverso le quali tentare di avere voce
in capitolo nella ripartizione delle risorse nazionali, fra cui l’acqua, che
rischiano oggi di essere invece alienate e svendute a multinazionali straniere.

America Latina


Mco
ha seguito lo scorso anno due progetti a Bahia (Regione Nordeste del
Brasile), a Monte Santo e Jaguararì. Le due municipalità si trovano nel
cosiddetto poligono della siccità, caratterizzato dal bioma della caatinga,
foresta grigia, nome che deriva dalla presenza di piante che sono per la
maggior parte dell’anno secche. Le precipitazioni sono cronicamente scarse e la
struttura geologica della zona rende molto difficile raccogliere e
immagazzinare acqua. I fiumi sono stagionali e nella maggior parte dei casi
l’acqua del sottosuolo è salina, utilizzabile per la pulizia e l’abbeveraggio
del bestiame ma inadatta al consumo umano. Nell’entroterra,
una grande parte della popolazione locale riceve acqua potabile attraverso il
cosiddetto carro-pipa (camion cisterna), un servizio fornito
dall’esercito, mentre le città sono alimentate dalla Empresa Baiana de Águas
e Saneamento
(Embasa), una società privata il cui maggior azionista è il
governo dello stato di Bahia. Il rifoimento di acqua avviene una volta al
mese.

Durante
l’estate 2012, quest’area ha sperimentato la peggiore siccità degli ultimi
quarantasette anni (vedi MC 7/2012). Per dodici mesi non ci sono state
precipitazioni e le dighe e i fiumi che, in condizioni normali, riescono a
rifoirsi di acqua durante le piogge, si sono completamente prosciugati. «La
gente di Monte Santo», scriveva all’epoca dell’emergenza p. Stanley Thinwa
Muriuki, «spende anche un’intera giornata a cercare fonti spostandosi a piedi o
a dorso d’asino per lunghe ore. I bambini, anche loro coinvolti in questo
sforzo, sono costretti a perdere le lezioni scolastiche per aiutare le famiglie
a procurarsi acqua. Gli animali, spesso unica fonte di sostentamento in una
zona dove coltivare è praticamente impossibile, sono sempre più debilitati».

Per
far fronte a questa emergenza P. Stanley e P. Vidal Moratelli hanno proposto
una serie di iniziative che Mco ha riunito in una campagna di raccolta fondi
lanciata nel corso dell’estate 2012: oltre alla risposta immediata, che
prevedeva il trasporto di acqua alle comunità attraverso camion cisterna e
taniche, i missionari hanno previsto anche la perforazione di pozzi e
l’installazione di cistee che possano, in futuro, mettere al riparo la
popolazione dai danni della siccità endemica nella zona.

Jaguararì, a circa 150 chilometri da Monte Santo,
condivide gli stessi problemi. Per questo, i padri Domingos Forte e Aquileo
Fiorentini si sono impegnati nella costruzione di cistee da installare presso
le abitazioni delle famiglie della zona in modo che possano immagazzinare acqua
durante la stagione delle piogge e far fronte così ai momenti più difficili.
Grazie al sostegno di diversi donatori, l’intervento procede in modo lento ma
costante e di recente otto nuove cistee sono state installate. «In un primo
momento sono state scelte le aree dove era più grave la mancanza di acqua»,
scriveva p. Aquileo lo scorso novembre raccontando lo svolgimento del progetto,
«per poi passare all’identificazione delle famiglie più bisognose, cioè quelle
più numerose e con presenza di bambini. Famiglie che vivono vicine hanno
accettato di condividere una cisterna. Un bel segno di condivisione». E di
cooperazione. Per l’acqua.

Chiara Giovetti
Alcuni articoli sull’acqua in MC:
C. Giovetti, Acqua per la salute, 3/2013.
J. Patias, Questione di vita o di morte, 7/2012.
L. Anataloni – S. Tavella, Come una goccia di rugiada, 9/2010.
U. Pozzoli, Acqua delle nostre brame, 5/2009.
L. Anataloni, Mukiri, l’uomo dell’acqua, 2/2008.
AA.VV., Le mani sull’acqua (dossier), 6/2006.

Chiara Giovetti




Acqua per la salute (a Neisu)

Un
progetto per l’ospedale di Neisu nel Nord-Est della RD
Congo finanziato
da Water Right Foundation della Toscana.

Il
progetto «Acqua per la salute» in corso all’Ospedale Nostra Signora della
Consolata di Neisu (RD Congo) è al giro di boa: dopo sei mesi dall’inizio delle
attività, avviate nel settembre 2012, è tempo di tracciare un parziale bilancio
dell’iniziativa proposta da Mco e «Annulliamo la Distanza» alla Water Right
Foundation
e ai comuni di Calenzano e Scandicci, che hanno accolto e
finanziato il progetto.

L’intervento
prevedeva la costruzione di tre pozzi (con pannelli fotovoltaici, pompa,
cisterna e lavabi) in altrettanti dispensari periferici collegati all’ospedale
di Neisu, la sostituzione della pompa dell’ospedale e l’organizzazione di corsi
di formazione della popolazione e attività di sensibilizzazione sul corretto
utilizzo dell’acqua. Allo stato attuale, la pompa è stata acquistata, il corso
di formazione realizzato e i pozzi sono in fase di completamento. Vediamo nel
dettaglio la genesi e lo sviluppo dell’intervento.

L’Ospedale di Neisu, la forza di una rete sanitaria

Una delle caratteristiche che contraddistingue
l’Ospedale di Neisu è quella di essere il centro attorno a cui gravita una rete
sanitaria: tredici dispensari periferici, denominati centres o postes
de santé
(centri o postazioni di salute) a seconda delle dimensioni e dei
servizi offerti, fanno capo all’ospedale vero e proprio e garantiscono la
copertura capillare di un territorio difficile, privo di infrastrutture e di
collegamenti, che dall’esterno si raggiunge praticamente solo volando da Kampala,
in Uganda, e impiegando fino a una settimana di viaggio lungo i percorsi
dissestati che collegano l’Uganda alla Provincia Orientale della Repubblica
Democratica del Congo, dove si trova Neisu.

Il centro più lontano dall’ospedale si trova a oltre
sessanta chilometri dal villaggio di Neisu, in una zona totalmente priva di
strade asfaltate dove i tempi di percorrenza in 4×4 possono arrivare a intere
giornate per poche decine di chilometri. Il mezzo di trasporto più conveniente
per percorrere i laghi fangosi in cui si trasformano le strade durante la
stagione delle piogge sono le moto di piccola cilindrata, che possono seguire
la minuscola striscia di terra asciutta ai bordi della strada principale. Sono
diffuse anche le biciclette, che non di rado si rivelano le uniche ambulanze
possibili e vengono perciò riadattate con una seduta posteriore (spesso una
semplice sedia di legno legata al portapacchi) per il trasporto del paziente.

In un contesto del genere, la presenza di centri
sanitari periferici è fondamentale perché raggiungere l’ospedale centrale
richiede tempi che possono mettere seriamente a rischio la sopravvivenza del
malato. Fino all’approvazione del finanziamento da parte della Water Right
Foundation
, tre dei centri periferici non disponevano ancora di un pozzo.
Gli infermieri responsabili delle piccole strutture, dunque, erano costretti a
recarsi ai vicini fiumi per procurarsi l’acqua e dovevano poi procedere a
depurarla con metodi – come la bollitura – che richiedevano tempo sottratto
all’assistenza ai pazienti senza garantire una soddisfacente salubrità
dell’acqua. Con il completamento dei pozzi, la qualità dell’acqua e
dell’assistenza sanitaria subirà un decisivo miglioramento.

Il lavori di scavo e costruzione dei pozzi sono stati
effettuati a mano, da una squadra di operai armati di badili e picconi. A
Neisu, dove il suolo è costituito da rocce relativamente friabili di caolino,
limonite e argilla e dove basta scavare una ventina di metri per trovare
l’acqua, lo scavo manuale è certamente difficoltoso ma comunque possibile. Ciò
che invece risulterebbe impossibile è trasportare sulle strade sterrate locali
trivelle e attrezzature meccaniche per lo scavo.

L’altro intervento strutturale previsto dal progetto era
l’acquisto e installazione di una pompa per l’ospedale principale, poiché
quella in uso stava dando preoccupanti segni di cedimento. «Abbiamo subito
comprato la pompa», scrive padre Richard Larose, responsabile del progetto
all’ospedale di Neisu, «ma abbiamo preferito non installarla fino alla fine
della stagione delle piogge: non volevamo rischiare che un fulmine ce la
bruciasse subito». Certo, il problema dei fulmini si ripresenterà alla prossima
stagione delle piogge; ma evitare un danno nell’immediato e assicurare qualche
mese in più all’attrezzatura a disposizione è spesso l’unica strategia che un
missionario può mettere in atto in una zona come Neisu.


L’importanza dell’acqua pulita

Che
ci sia una relazione diretta, e fondamentale, fra acqua pulita e qualità del
servizio sanitario è ovvio: basta pensare all’importanza dell’acqua per la
pulizia e sanificazione degli ambienti e strumenti sanitari e alla quantità di
patologie (ferite da taglio o malattie sessualmente trasmissibili, solo per
fare due esempi) che vengono aggravate dalla presenza di agenti patogeni
nell’acqua utilizzata per lavarsi. È vero che la falda da cui attinge il pozzo
non è necessariamente pulita e diversi accorgimenti vanno utilizzati pur avendo
a disposizione un pozzo. Ma la probabilità che l’acqua di un pozzo si contamini
è significativamente più bassa rispetto a quella di un fiume, dove vengono
scaricati i rifiuti dei villaggi vicini e dove è possibile trovare elementi
inquinanti come le carcasse di animali.

Ciò
che è meno ovvio, invece, è che in una realtà come Neisu siano chiare e note le
regole per l’utilizzo corretto dell’acqua e per avere comportamenti
igienicamente adeguati. «La formazione sull’acqua prevista da questo progetto è
fondamentale», scriveva la dottoressa Barbara Terzi, in forze all’Ospedale di
Neisu fino al 2012. «A volte mi capita di vedere mamme che cambiano il
pannolino ai loro bambini e subito dopo danno loro da mangiare, senza lavarsi
le mani. O, ancora, c’è chi va a prendere acqua al fiume prelevandola a poca
distanza da un animale in decomposizione».

Spiegando
che certi accorgimenti possono salvare vite, sarà possibile alleggerire il
carico di lavoro dell’ospedale prevenendo malattie evitabili. A questo scopo,
sono stati coinvolti nel progetto i membri dei cosiddetti comitati di salute (Codesa)
dei villaggi dove si trovano i centri periferici. I comitati, composti da
alcuni membri delle comunità, hanno una funzione fondamentale poiché sono
l’anello di congiunzione fra struttura sanitaria e popolazione locale. Queste
persone ricevono periodicamente una formazione che permette loro di diffondere
nei villaggi conoscenze relative alle pratiche igieniche corrette e ai servizi
a disposizione presso le strutture della rete sanitaria; al tempo stesso,
operano una costante osservazione delle patologie che si manifestano nelle
proprie comunità e riferiscono al personale sanitario in modo che questo possa
intervenire il più tempestivamente possibile. Nel caso di questo progetto, i
membri dei Codesa hanno seguito un corso di formazione sull’acqua di
cinque giorni a Neisu e sono ora al lavoro per condividere con il resto della
comunità quanto hanno imparato.

Educare al valore dell’acqua: le
attività in Italia

Parte
integrante dell’iniziativa sono anche una serie di eventi pubblici in Italia il
primo dei quali è stato una conferenza stampa di presentazione del progetto che
si è tenuta a fine settembre 2012 a Calenzano; il secondo evento, realizzato a
metà ottobre durante la fiera di Scandicci, ha visto i partner del
progetto impegnati in un dibattito pubblico dal titolo «Una goccia d’acqua per
tutti», che ha registrato una buona partecipazione.

La
Water Right Foundation, come ha ricordato nel corso degli incontri uno
dei suoi referenti, Oliviero Giorgi, nasce per volontà di Publiacqua
l’azienda che gestisce il servizio idrico nel territorio dell’Ato 3 Medio
Valdao
– con il contributo degli enti locali e del mondo scientifico e
accademico. Accantonando un centesimo di euro per ogni metro cubo di acqua
consumato dagli utenti, Publiacqua ha costituito il Fondo «L’Acqua è di
tutti» e ne ha affidato la gestione alla Wrf che da anni finanzia numerose
iniziative in paesi dove l’acqua è carente o male utilizzata.

Monica
Squilloni, assessore alla Cooperazione internazionale del Comune di Calenzano e
Gabriele Coveri, suo omologo al Comune di Scandicci, hanno ribadito
l’importanza di sostenere la solidarietà internazionale e hanno sottolineato il
ruolo delle istituzioni locali italiane nel continuare a sensibilizzare i
propri cittadini a valorizzare le risorse idriche ed evitare gli sprechi. I
prossimi eventi sono previsti a fine progetto, a settembre 2013, e daranno
conto dei risultati ottenuti nel corso dei dodici mesi di attività.

Chiara Giovetti

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Chiara Giovetti




IL MONDO CATTOLICO E LA COOPERAZIONE

Nel
numero di dicembre
abbiamo raccontato il Forum Cooperazione che si è svolto lo scorso ottobre
a Milano, rilevando
fra l’altro l’assenza di una rappresentanza organizzata
e coesa delle Ong d’ispirazione cattolica e degli istituti missionari
all’evento. Eppure
il mondo cattolico s’interroga sulla mondialità e
fa cooperazione, eccome. Il «Forum Mondialità e pedagogia dei fatti in tempo di
crisi», organizzato
dalla Caritas Italiana a Roma il 14 e 15 novembre
2012, è stato anche un’occasione
per fare il punto della situazione.

«Operare
nella solidarietà internazionale per educare alla cittadinanza globale». Il
sottotitolo del forum sulla mondialità promosso dalla Caritas non lascia spazio
a dubbi: anche il modo di esprimersi testimonia l’interesse della Chiesa
cattolica per i temi affrontati dal Forum Cooperazione di Milano. La specificità
della Chiesa, dunque, sta nel trattare i medesimi problemi utilizzando
strumenti e linguaggio propri, perché quegli strumenti e quel linguaggio sono
il concretizzarsi di qualcosa di molto profondo che viene dall’umanità
realizzata nello «stare al mondo» di Gesù di Nazareth.

Che
i temi al centro del dibattito siano gli stessi rispetto al mondo «laico» lo si
è visto fin dalle prime battute del Forum Caritas, che si è aperto con la
presentazione del quarto rapporto di ricerca su finanza e povertà, ambiente e
conflitti dimenticati dal titolo «Mercati di guerra», realizzato da Caritas
Italiana
, Il Regno e Famiglia Cristiana e edito da Il
Mulino
. È un rapporto dettagliato e puntuale sui legami fra finanza,
mercati e guerra e va dritto al cuore del problema, a cominciare dal capitolo
sul cibo come elemento scatenante dei conflitti.

Che
Caritas sia una risorsa imprescindibile nell’analisi delle dinamiche odiee
non è un dato nuovo: come ha ricordato al forum don Antonio Sciortino,
direttore di Famiglia Cristiana, negli anni i rapporti Caritas sui
migranti sono stati fondamentali nel fare piazza pulita delle false
informazioni e privare di fondamento tanti pregiudizi sul fenomeno
dell’immigrazione in Italia. Semmai, aggiunge Sciortino, rivolgendosi a chi fa
informazione, è tempo di fare un passo oltre e di essere non più cronisti
distaccati ed equidistanti, ma coinvolti ed «equivicini».

Tanto
più che il cristiano, ha argomentato un altro dei relatori, Carmelo Dotolo
della Pontificia Università Urbaniana, è in una posizione privilegiata per
avvicinarsi a una realtà di crisi come quella di oggi: «Il cristianesimo»,
infatti, «è una religione della crisi»; vivere e produrre cambiamenti fa parte
del suo Dna, e far teologia è anche lo sforzo, la fatica di mettere in
relazione l’essere credenti con la realtà storico-culturale in cui si vive,
anche quando questo significa essere contro-culturali.

Un’analisi che annaspa

Nel
forum della Caritas, come in quello di Milano, non ci sono state grosse novità
per quanto riguarda l’analisi della globalità e del fenomeno della
globalizzazione: dai tempi di Dueling Globalizations, il celebre botta e
risposta fra il direttore di Le Monde Diplomatique, Ignacio Ramonet, e
l’editorialista del New York Times, Thomas Friedman – era il 1999 -,
l’acqua passata sotto i ponti del pensiero politico non ha portato con sé
intuizioni decisive, fatta eccezione per qualche elaborazione che ci ha messo a
disposizione aggettivi (come il «liquido» e il «glocale» di Zygmunt Bauman) con
cui definire in modo più immediato, quotidiano e fruibile i fenomeni
contemporanei. Mentre l’analisi annaspa nella difficoltà di immaginare il
domani, l’oggi ha visto realizzarsi le profezie nefaste dei primi anni Duemila:
gli effetti devastanti della tracotanza della finanza internazionale sono
evidenti a tutti. Questo rende ancora più urgente proporre soluzioni concrete
che implicano una traduzione in linee d’azione di quella innata vocazione del
cristianesimo al cambiamento che Dotolo sottolinea.

Dalle idee ai fatti

Ma
tradurre in pratica le conclusioni teoriche è questione molto complicata; al
forum Caritas è toccato ad Antonio Nanni (Centro di educazione alla mondialità
– CEM) misurarsi con l’ingrato compito di definire il che fare. In un lungo
intervento dal titolo «Educare alla cittadinanza globale oggi, in tempo di
crisi. Obiettivi, strumenti, linguaggio», Nanni ha descritto le difficoltà
dell’azione educativa a partire dall’analisi della crisi in cui versa
l’educazione stessa. Particolarmente interessante la riflessione sui valori:
appellarsi a essi, ha detto Nanni, è paradossalmente controproducente in un
contesto come quello contemporaneo, perché aumenta la frammentazione invece di
diminuirla. Come se l’appello ai valori, un tempo potente magnete in grado di
attrarre o respingere (e quindi riordinare) fenomeni, eventi e gruppi umani,
avesse perso il suo potere su una realtà che non reagisce più, o reagisce solo
in parte. Quell’appello non più un agente ordinatore ma un’ulteriore spinta
alla separazione.

Nanni
ha poi indicato una serie di obiettivi – formulazione di un nuovo pensiero,
solidarietà e giustizia sociale, integrazione, partecipazione, global
governance
– e proposto una vera e propria «cassetta degli attrezzi» per
raggiungerli. Fra gli strumenti, la Tobin Tax, la promozione del
servizio civile volontario, la partecipazione ai Gruppi di acquisto solidale
(Gas), la definizione e la difesa dei beni comuni, la diffusione dei contenuti
di diversi documenti di riferimento (raccomandazioni del Parlamento europeo,
documentari sull’integrazione, testi del Pontificio Consiglio della Giustizia e
della Pace, eccetera), la predisposizione di eventi e spazi di condivisione
come le feste dei popoli e i centri interculturali, e molto altro.

Rispetto
al Forum Cooperazione di Milano, dove le indicazioni sull’agire sono mancate
quasi del tutto, il Forum Mondialità registra certamente un passo in avanti
nella direzione di una maggior concretezza. L’intervento di Nanni, pur non
proponendo strumenti nuovi, rappresenta un’ottima – e necessaria – raccolta e
sistematizzazione di quelli esistenti, che vanno quindi potenziati e sostenuti.

Cooperazione missionaria

Attento
all’esigenza delle comunità cristiane di declinare in modo praticabile
l’educazione alla cittadinanza globale, il forum Caritas ha poi proposto gruppi
di lavoro tematici organizzati nei quali all’esposizione di un tema da parte di
un esperto (tecnico) seguiva l’intervento di un esponente di un organismo ecclesiale
che lo declinava in termini pastorali.

Il
gruppo di lavoro «Educare alla cittadinanza globale e agli obiettivi di
sviluppo del millennio» (Campagna Beyond 2015) ha visto dunque la
partecipazione di Andrea Stocchiero (Federazione Organismi Cristiani Servizio
Internazionale Volontario – Focsiv) in veste di esperto e di don Gianni Cesena
(direttore dell’Ufficio Nazionale Cei per la cooperazione missionaria tra le
Chiese) come referente pastorale. La relazione di Stocchiero ha evidenziato
come nei paesi che hanno ottenuto maggior successo nell’avvicinarsi agli
obiettivi del millennio l’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) ha avuto un ruolo
marginale. Quei paesi non stanno meglio grazie agli aiuti, ma grazie alla loro
capacità di attirare investimenti stranieri e alle rimesse dei loro cittadini
che lavorano all’estero (le rimesse sono pari a tre volte il totale dell’Aps).
Un dato, questo, che ha un peso evidentemente cruciale nel valutare l’efficacia
dell’aiuto.

L’intervento di don Gianni Cesena, infine ha proposto
riflessioni e dati sulla cooperazione missionaria e ha indicato una serie di
esempi concreti da applicare a livello di consigli pastorali parrocchiali per
valutare se e quanto i messaggi relativi all’educazione alla cittadinanza
globale sono effettivamente inseriti nelle attività delle comunità cristiane.

A proposito degli obiettivi del millennio, don Cesena ha
precisato che non sono stati formulati all’interno della Chiesa o con un suo
coinvolgimento e che pertanto traslarli nella pastorale sarebbe una forzatura.
Tuttavia, ha concluso, anche in essi è possibile riconoscere la «quota di
Spirito» che può giustificare l’impegno e la volontà di recepie alcuni
aspetti. Il suo intervento si è poi concluso con l’indicazione di due stili
missionari oggi superati: nella cooperazione missionaria, ha detto don Cesena,
non c’è più posto per «eroi e navigatori solitari» e il dono non può più essere
un gesto unilaterale ma uno scambio.

La «Quota di spirito»

Forse,
proprio a partire dall’espressione «quota di Spirito» si possono trarre lumi
per spiegare, almeno in parte, la partecipazione in sordina del mondo
missionario e delle Ong cattoliche al Forum Cooperazione di Milano. Le Ong
cattoliche sono molto spesso il braccio operativo della realtà missionaria che
le ha fondate, si tratti di un istituto, di un centro missionario diocesano o
di un gruppo di persone legate a un particolare sacerdote. Queste realtà vivono
la cooperazione allo sviluppo come uno dei tanti strumenti
dell’evangelizzazione e, in particolare, uno strumento per l’evangelizzazione
attraverso le opere sociali, che non sono le sole opere contemplate dall’agire
missionario. Per questo, l’ordine nella scala delle priorità che i religiosi
(e, di conseguenza, le loro Ong) attribuiscono a un evento come il Forum di
Milano dipende – per usare il linguaggio di don Cesena – dalla «quota di
Spirito» che i religiosi stessi scorgono nella cooperazione allo sviluppo. Se
questo è vero, rimane da chiedersi perché il mondo missionario ha giudicato la
quota di Spirito a Milano troppo ridotta per mobilitarsi e fare sentire la
propria voce.

Chiara Giovetti

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Chiara Giovetti




Colorare di speranza…

Il sostegno a distanza di MCO visto da dentro

Nel numero di giugno abbiamo pubblicato la prima puntata dell’articolo in cui abbiamo descritto che cos’è e come funziona il Sostegno a distanza (SaD), mostrando il suo peso fondamentale nel comporre la cifra annuale che in Italia si destina alla cooperazione e alla solidarietà internazionale.
Abbiamo anche proposto ai lettori una breve panoramica del SaD nel nostro paese dove, accanto a giganti delle adozioni come ActionAid o Avsi, ci sono tante altre associazioni di dimensioni medie e piccole (come quelle che sostengono tanti progetti legati alle missioni della Consolata) e cornordinamenti nazionali come il ForumSad e La Gabbianella che riuniscono molte di queste realtà intorno a una carta dei principi condivisa e a dei criteri di qualità.
Abbiamo, infine, raccontato com’è cambiato il sostegno a distanza nel tempo, anche in seguito agli scandali degli anni Novanta, nell’ottica di garantire maggior trasparenza nei confronti dei donatori e superare alcuni limiti come il talvolta scarso coinvolgimento della comunità nella quale vive il bambino adottato.

Mco gestisce circa 7.000 adozioni a distanza attraverso il suo Ufficio Adozioni dove Antonella Vianzone da 15 anni segue una per una le pratiche e risponde alle richieste dei donatori.
Antonella, com’è nato il programma SaD di Missioni Consolata Onlus?
È nato come una delle attività dell’ufficio cooperazione, aperto nel 1970 da p. Mario Valli, sostituito qualche anno fa da p. Giuseppe Ramponi. Da una fase iniziale, in cui ai missionari che seguivano le adozioni sul campo non erano richieste informazioni particolarmente dettagliate, si è poi passati a una seconda fase, iniziata negli anni Novanta, in cui i donatori hanno cominciato a voler sapere di più dei bambini adottati per seguirli meglio e con maggior frequenza di contatti. Questo cambiamento è coinciso con una riorganizzazione intea, poiché i missionari che non se la sentivano di far fronte a queste nuove richieste hanno preferito rinunciare per evitare figuracce con i donatori. Le primissime adozioni sono state fatte in Kenya e in Etiopia, allargandosi poi agli altri paesi. Oggi abbiamo sostegno a distanza in quasi tutte le presenze Imc in Africa, in Brasile, in Ecuador e in Colombia. Anche la Mongolia dovrebbe entrare a pieno regime nel programma in un prossimo futuro.
Una volta avviato il sostegno a distanza, ci sono tre appuntamenti annuali nei quali il donatore viene contattato: a Natale e Pasqua quando, insieme agli auguri, gli vengono mandate alcune notizie del bambino, e un terzo momento in cui si informa il donatore dei progressi scolastici e della vita quotidiana del bambino in modo più dettagliato. Sono i missionari che si occupano direttamente di scrivere ai donatori in queste occasioni (aggiungendo magari anche la lettera o il disegno fatto dal bambino). In alcuni casi, inviano notizie anche più spesso delle tre volte stabilite. Devo dire che l’impegno paga: più i missionari mandano notizie, più le adozioni che gestiscono tendono ad aumentare. Anche perché spesso i nostri donatori diventano tali grazie al passaparola ed è chiaro che, se un missionario ha fama di essere puntuale e preciso, più persone si fideranno di lui.
In che cosa consiste esattamente il lavoro del tuo ufficio?
Io intervengo innanzitutto nella fase iniziale di molte adozioni, quando i donatori chiamano per avere informazioni preliminari e quando richiediamo ai missionari le garanzie necessarie ad accertarci che rispetteranno le scadenze. Inoltre mi attivo in tutti quei casi in cui, per qualche motivo, il donatore non ha ricevuto le notizie che si aspettava e chiama il mio ufficio segnalandomi il disguido. In ufficio conservo le schede e le foto di ciascun bambino perciò posso rapidamente risalire al missionario responsabile, capire le cause del ritardo e riferire al donatore.
Quante chiamate ricevi in una giornata?
Di solito sono circa dieci, che aumentano specialmente durante le feste di Natale, momento nel quale riceviamo più richieste di adozione rispetto agli altri mesi. C’è un rapporto umano costante con i donatori, che attribuiscono molta importanza al fatto di poter sentire una voce e non solo ricevere lettere e email. A volte alcuni chiamano anche solo per fare una chiacchierata… Forse questo è il nostro principale valore aggiunto: la presenza di un punto di riferimento, qualcuno che si può chiamare o anche vedere di persona, tanti donatori vengono qui in ufficio proprio per poter parlare con una persona reale.
Come hai visto cambiare il sostegno a distanza in questi vent’anni?
Alcune cose non sono cambiate molto, ad esempio la preferenza delle persone per l’adozione individuale e non per un gruppo: vogliono avere la percezione chiara che stanno aiutando un bambino preciso e seguirlo passo passo. Sta cambiando invece l’età dei donatori. Oggi ci sono più giovani che nel passato e questo è rivelatore di una positiva mentalità di solidarietà. Immutati sono la volontà e il desiderio di fare del bene.
Puoi tracciare un «identikit» del donatore?
Non c’è un profilo che valga per tutti. Ci sono persone che arrivano all’adozione dopo un’esperienza personale dolorosa. Allora l’adozione diventa un modo positivo di reagire al dolore vissuto, donandosi a qualcuno nel bisogno. Ci sono delle famiglie che la vivono come momento educativo nei confronti dei propri figli per aiutarli alla sobrietà e condivisione e per insegnare loro il rispetto di altri popoli e culture. Molti sono anche i benefattori anziani che così si sentono ancora utili. Ci sono anche molte scuole che promuovono adozioni per stimolare i bambini all’accoglienza del lontano e alla solidarietà con i poveri del mondo. Ci sono poi donatori che hanno richieste molto particolari e altri che semplicemente dicono di «dare a chi ha più bisogno».
Ci sono richieste difficili da soddisfare?
Sì, ci sono richieste impossibili. A volte – anche se raramente – qualcuno chiede che il bambino abbia certe caratteristiche specifiche come un certo nome o una ben precisa data di nascita. Ovviamente è quasi impossibile esaudire simili desideri. Succede anche che qualcuno mi chiami per avere informazioni su un bambino adottato trent’anni fa in una missione che è già stata consegnata al clero diocesano o al tempo di un padre che magari è già andato in paradiso. Allora devo spiegare che normalmente si seguono i ragazzi fino ai 17-18 anni, alla fine della scuola secondaria o della scuola tecnica, dopo di che diventa quasi impossibile mantenere traccia del bambino ormai cresciuto che può anche essersi trasferito in un’altra parte del paese.
Quali sono le difficoltà principali?
Le difficoltà? Beh, tante, certamente. C’è chi fa una donazione attraverso un conto corrente, senza scrivere il proprio indirizzo e poi chiama prendendomi a «male parole» perché ha fatto la donazione e non ha saputo più niente… Ma noi non avevamo proprio idea di come fare a mandare una ricevuta o una lettera di conferma. C’è chi vorrebbe notizie più regolari dell’adottato, ma il missionario non scrive molto, non manda foto o lettere. Allora è difficile spiegare che bisogna aver pazienza, che probabilmente quel missionario è preso da tanti impegni, che ci sono oggettive difficoltà di comunicazione, che ci sono missionari che scrivono solo a Natale e raramente a Pasqua, ma che comunque si prendono cura dei bambini, li seguono a scuola e fanno tutto il necessario. Spesso mi capita di dover fare l’avvocato difensore dei missionari. Ti assicuro che alcuni dei missionari fanno perdere la pazienza anche a me. So bene che tutto quello che ricevono va per i loro beneficati, ma se scrivessero qualche volta di più, faciliterebbero certamente il mio servizio.
Trovo anche difficile far capire ai donatori la scelta di alcuni missionari di «adottare» una scuola invece che singoli individui. È una scelta che viene fatta da alcuni soprattutto quando tutto il contesto sociale è molto povero e tutti i bambini hanno bisogno di aiuto. Ma dal punto di vista delle pubbliche relazioni è più difficile da spiegare, perché molti benefattori preferiscono adozioni individuali.
Oltre a queste difficoltà ci
saranno anche tante soddisfazioni…
Certo, assolutamente. A volte qualcuno chiama e dice: «Sai, stavo male, ero proprio abbattuto, ma poi è arrivata la lettera del bambino che ho adottato e mi sono sentito meglio». Oppure quando un missionario passa a visitarmi in ufficio e mi racconta di questo e di quello e di come sono aiutati i bambini e dei loro progressi. Entusiasma anche me a continuare il questo servizio.
Ci sono state disdette di adozioni a causa della crisi economica?
Sembra incredibile, ma abbiamo avuto solo due disdette in due anni… praticamente niente. Anzi, stanno perfino arrivando nuove adozioni. Pensa che ci sono persone che pur avendo perso il lavoro continuano a sostenere il bambino, magari sacrificando altre spese.
Che consiglio daresti a qualcuno che vuole fare un’adozione a distanza?
Consiglierei di vivere l’adozione come un’esperienza in cui si impara a aprire gli occhi sul mondo, senza voler nulla in cambio, di vedere il sostegno a distanza non come carità ma come uno scambio in cui si ha l’occasione di conoscere, oltreché di aiutare, un’altra persona e il luogo dove vive. Penso che il tutto possa essere riassunto davvero in questa frase: «Colora di speranza la vita di un bambino»!

Chiara Giovetti


Chiara Giovetti