Piano Mattei, le condizioni per farlo funzionare


Il Piano Mattei per l’Africa, varato dal governo Meloni nel novembre del 2023 e lanciato con il vertice Italia – Africa a Roma lo scorso gennaio, sta suscitando molto dibattito in vari settori della società. Abbiamo provato a riunire alcuni punti di vista.

Il Piano Mattei per l’Africa, per ora, consiste in un decreto legge@ del novembre 2023, convertito in legge il 14 gennaio del 2024, e in un vertice internazionale tenutosi il 28 e 29 gennaio 2024 che lo ha lanciato davanti ai rappresentanti di 46 Paesi africani. Durante l’evento, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha detto@: «L’Italia ha tutte le carte in regola per diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa: è un obiettivo che possiamo raggiungere se usiamo l’energia come chiave di sviluppo per tutti».

È a realizzare questo sviluppo che si rivolge il Piano, concentrandosi su «cinque priorità di intervento: istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia», intorno alle quali costruire una relazione di «cooperazione da pari a pari», non predatoria e non caritatevole, con i Paesi africani.

Il Piano, ha annunciato Meloni, potrà contare su una dotazione iniziale di oltre 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, dei quali circa 3 miliardi dal Fondo italiano per il clima e circa 2,5 miliardi dalle risorse della cooperazione allo sviluppo, oltre che sull’impegno del governo italiano a coinvolgere altri donatori e istituzioni finanziarie internazionali e a creare assieme a Cassa depositi e prestiti, entro il 2024, un nuovo strumento finanziario per agevolare gli investimenti del settore privato nei progetti del Piano Mattei.

In questa prima parte del 2024 è presto per dire se siamo davanti a un cambio di paradigma in grado di reimpostare le relazioni con l’Africa rendendole paritarie, a un’operazione di maquillage, o a una terza variante fra questi due estremi.

Fra le preoccupazioni principali emerse subito dopo il vertice c’era quella che la priorità di intervento relativa all’energia finisca per fagocitare tutte le altre e che si concentri sul gas e altri combustibili fossili invece che sulla promozione di energia da fonti rinnovabili. Altre perplessità sorgevano poi dalla poca chiarezza riguardo la dotazione finanziaria: che cosa significa, esattamente, che i 5,5 miliardi verranno destinati dal Fondo per il Clima e dalle risorse per la cooperazione? Verranno ridefiniti i Paesi prioritari per la cooperazione? Verranno spostati fondi, ne verranno aggiunti? O ci si limiterà a quello che il sito «info-cooperazione» ha definito re-branding, cioè l’apporre un’etichetta con il logo del Piano Mattei sulle iniziative già esistenti, senza però modificarne la sostanza@?

L’operazione più onesta, in attesa di risposte certe a queste – e molte altre – domande, è quella di spacchettare ciò che si sa del Piano e individuare le condizioni per le quali potrebbe funzionare. È in questo che si stanno cimentando le varie articolazioni della società, italiana e africana, che si aspettano di essere più coinvolte di quanto lo siano state finora nella definizione del Piano.

Campo di rifugiati nelal regione di Capo Delgado, Mozambico.

Che cosa ne pensano gli africani

Pochi giorni prima del vertice, infatti, la campagna Don’t gas Africa, che riunisce decine di associazioni della società civile africana, ha diffuso una lettera e un comunicato stampa@ per lamentare la mancata consultazione proprio di quelle organizzazioni che cercano di dar voce alle comunità nel continente, incluse quelle più marginalizzate. Secondo il responsabile della campagna, Dean Bhekumuzi Bhebhe, il Piano Mattei è «un simbolo delle ambizioni dell’Italia sui combustibili fossili» e «minaccia di trasformare l’Africa in un mero canale energetico per l’Europa», rinunciando a sostenere il continente in una equa transizione energetica verso le rinnovabili.

Durante il vertice, il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, ha poi usato parole di apertura ma anche di monito: dopo aver elencato le priorità africane – agricoltura, infrastrutture, ambiente, energia, sanità, istruzione, digitalizzazione – e le difficoltà che il continente deve affrontare per realizzarle – il peso del debito, il cambiamento climatico, l’estremismo violento e il terrorismo, l’instabilità, la mancanza di finanziamenti adeguati e i gravi errori di governance – ha commentato che il Piano Mattei, «sul quale avremmo voluto essere consultati, appare coerente» con le esigenze africane. «L’Africa è pronta a discutere i contorni e le modalità della sua attuazione», ha concluso Faki Mahmat, sottolineando però «la necessità di far corrispondere le azioni alle parole. Capirete che non possiamo accontentarci di promesse che spesso non vengono mantenute»@.

Maguga Dam in eSwatini

Che cosa ne pensa il mondo della cooperazione

Anche dalle parole di Ivana Borsotto, presidente della Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana (Focsiv)@, emerge una complessiva apertura di credito nei confronti del Piano Mattei: «Che l’Africa sia messa al centro del dibattito è un fatto positivo, mai avvenuto prima, e nelle parole della presidente Meloni ci sono alcune prese di posizione importanti: ad esempio, ha riconosciuto che il nostro destino è legato intrinsecamente all’Africa e che il modello di relazione non deve essere paternalistico». Gli organismi di volontariato, sottolinea Borsotto, sostengono e praticano questo approccio da sessant’anni ed è senz’altro positivo che ora risuonino anche nel discorso della premier.

Ma ci sono delle condizioni, oggettive e misurabili, da soddisfare perché il Piano sia efficace: «La prima è che le risorse finanziarie siano adeguate e garantite nel tempo». Borsotto è anche portavoce della Campagna 070@ per innalzare allo 0,70% del prodotto nazionale lordo i fondi destinati allo sviluppo, in linea con gli impegni presi dall’Italia in sede Onu. Fa notare che nel 2022 l’Italia è arrivata a destinare lo 0,32%: circa 6,15 miliardi di euro, cioè meno della metà dei 13 miliardi necessari per raggiungere l’obiettivo.

Famiglia di pigmei nelal foresta a Bafwasende, Congo RD

La seconda condizione riguarda la «condivisione a livello europeo». Il Global Gateway, la strategia dell’Unione europea per sviluppare infrastrutture e servizi in tutto il mondo, ha un valore complessivo di circa 300 miliardi di euro e il suo pacchetto Africa-Europa prevede investimenti per 150 miliardi: «L’iniziativa italiana deve armonizzarsi con questi strumenti e risorse messi a disposizione dall’Ue». Considerando la scala di grandezza del piano europeo, del resto, non è pensabile che l’Italia possa risultare davvero incisiva se mira ad agire da sola.

La terza condizione è quella di «evitare il superamento operativo della legge 125/14» (che ha riformato l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ndr): con questo, la presidente Focsiv si riferisce al fatto che il Piano Mattei prevede la creazione di una struttura di missione in capo alla presidenza del Consiglio, finanziata con 2,3 milioni di euro l’anno a partire dal 2024, che rischia di sovrapporsi all’operato dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, entità già esistente, legata al ministero degli Esteri e incaricata, appunto, di coordinare le iniziative di cooperazione.

Nel suo intervento al vertice Italia – Africa, Giorgia Meloni ha annunciato come inclusi nel Piano Mattei nove progetti pilota in Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Repubblica del Congo e Mozambico: «Noi organizzazioni della società civile» aggiunge Ivana Borsotto, «attendiamo fiduciose anche di essere coinvolte nella definizione di questi progetti». E conclude: «La politica estera dice chi siamo e come vogliamo stare al mondo: ricordiamo allora che è la legge 125 stessa a indicare nella cooperazione allo sviluppo una parte integrante e qualificante della nostra politica estera».

Che cosa ne pensa il mondo missionario

Anche padre Giulio Albanese, missionario comboniano oggi direttore dell’ufficio per le Comunicazioni sociali e di quello per la Cooperazione missionaria tra le Chiese della diocesi di Roma, appare cauto ma possibilista: accoglie come positiva la dichiarata volontà del Piano Mattei di andare oltre l’approccio caritatevole, se con questo si intende il superamento di quella «carità pelosa» alla quale padre Giulio da anni rivolge dure critiche. Ma, constata il missionario, il piano Mattei per ora è un contenitore di buone intenzioni: occorrerà vedere come si concretizzerà e su quante risorse potrà effettivamente contare.

Riflettendo poi sull’apporto che potrebbe venire dal mondo missionario, padre Giulio ricorda che questo ha fatto «senz’altro progressi nell’allontanarsi da uno stile paternalistico e da un modello emergenziale per concentrarsi di più sullo sviluppo sostenibile». Ma resta una certa frammentazione, una difficoltà a parlare con una sola voce, e questo rischia di rendere meno efficace il contributo dei missionari nell’eventualità in cui il Governo li interpellasse per delineare i contenuti del Piano.

«È mancata una reazione compatta e incisiva da parte del mondo missionario», aggiunge padre Antonio Rovelli, missionario della Consolata in servizio alla Casa generalizia di Roma. In effetti, non risulta a chi scrive che gli organismi missionari abbiano preso posizione in modo unitario e ufficiale, mentre farlo avrebbe aiutato a dimostrare che il mondo missionario è consapevole della necessità di vigilare sulla formazione delle politiche che riguardano l’Africa e si sforza di inserirsi nel dibattito per contribuire a determinarle.

Nigeria. Disastri da petrolio nel delta del Niger. Foto Sosialistik Ungdom, common credits

Il ruolo delle imprese

Il cuore del Piano Mattei riguarderà l’ambito imprenditoriale. Questa la previsione di Mario Giro, membro della Comunità di Sant’Egidio e sottosegretario, poi viceministro, degli Esteri fra il 2013 e il 2018, riportata sul numero speciale di gennaio 2024 della rivista «Africa e Affari» dedicato al Piano Mattei@. Si tratterà, a detta dell’esperto, di soft loans, cioè prestiti a tassi agevolati rispetto a quelli di mercato, «che verranno usati tendenzialmente per le imprese come tentativi di fare equity», cioè acquisto di azioni, «e di comprare imprese o parti di imprese africane e sostenere imprese o joint venture di imprese africane».

Giro giudica «intelligente, lungimirante» da parte del Governo, lo sforzo di rafforzare le relazioni con il sempre più vivace settore privato africano: operazione che altri membri Ue portano avanti da anni. Ma non manca di porre alcune domande cruciali: «Chi applicherà la teoria? Chi acquisterà tutta o parte di un’impresa africana? […] Esistono in Italia consulenti che conoscono talmente bene l’Africa da poter segnalare per un dato Paese quali sono le dieci imprese da finanziare e quali altre invece è meglio lasciare perdere?».

Se non si pone attenzione a questi aspetti, conclude l’esperto, si finisce per finanziare i progetti delle banche di sviluppo: scelta lecita, ma – aggiungiamo – che condividerebbe lo stesso limite mostrato negli anni dalla cooperazione allo sviluppo, per la quale l’Italia ha spesso usato il canale multilaterale – cioè le agenzie internazionali – molto più di quello bilaterale, di fatto delegando ad altri il ruolo e l’incisività in politica estera che nelle dichiarazioni di intenti rivendica per sé@.

Chiara Giovetti

Campo di rifugiati a Cabo Delgado, Mozambico

 




Clima, Cop28: meglio del previsto o solo parole?


Alla Cop28 di Dubai i Paesi del mondo hanno raggiunto un accordo che va oltre le basse aspettative della vigilia. Ma realizzarlo è tutta un’altra storia e le incognite continuano a essere tante.

A riguardarla ora, a mesi di distanza, la traiettoria della scorsa conferenza sul clima ricorda molto il profilo a saliscendi delle montagne russe. Partita con premesse poco promettenti e con aspettative bassissime, ha avuto un’apertura dei lavori incoraggiante, parecchi momenti tesi e perfino tragici durante lo svolgimento, una conclusione più positiva del previsto e, infine, un immediato ridimensionamento dell’ottimismo generato da questa conclusione.

La Cop28 – cioè la «Conferenza delle parti aderenti alla convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici» – si è svolta a Dubai, negli Emirati arabi uniti, dal 30 novembre al 13 dicembre 2023. Essa ci mostra un mondo che ha giudicato del tutto insufficienti gli sforzi fatti finora per mettere in pratica l’accordo di Parigi del 2015 sul clima, e ha deciso di intensificarli rinunciando ai combustibili fossili. Non è riuscita, tuttavia, a spingere le parti fino all’adozione di decisioni legalmente vincolanti.

Il dibattito fra chi vede nelle decisioni prese alla Cop28 un buon risultato e chi non lo vede si gioca in definitiva su questo: per la prima volta c’è un accordo ufficiale sul fatto che il mondo debba andare verso l’abbandono dei combustibili fossili, ma non c’è alcuna garanzia che i Paesi rispetteranno questo accordo e non tenteranno di piegare i suoi passaggi più vaghi ai propri interessi immediati.

Allagamenti a Rio do Oeste (foto Marco Favero / Governo de SC)

Dove eravamo rimasti

La Cop27 di Sharm El-Sheik, in Egitto, si era conclusa con un unico risultato degno di nota: la decisione di creare un «Fondo perdite e danni», destinato a compensare per i danni subiti finora i Paesi più vulnerabili, dove le conseguenze del cambiamento climatico sono già molto pesanti.

Sulla mitigazione, cioè su quell’insieme di interventi necessari per contrastare il fenomeno stesso del cambiamento climatico, e quindi prevenire danni e perdite, non c’erano stati progressi. L’Egitto, Paese ospitante, aveva anche approfittato della Conferenza sia per portare avanti la propria agenda di esportatore di gas, sia per tentare di ripulire l’immagine del governo di Al-Sisi, danneggiata dalle sistematiche violazioni dei diritti umani che il regime mette in atto e dal progressivo impoverimento della popolazione egiziana@.

La scrittrice e attivista Naomi Klein a questo proposito aveva commentato che il vertice sul clima stava andando «ben oltre il greenwashing di uno stato inquinante: è il greenwashing di uno stato di polizia»@.

L’annuncio, giunto come da tradizione nei giorni di chiusura della Cop, che la sede per il successivo summit sarebbe stata Dubai, uno degli Emirati arabi uniti – cioè un altro Paese la cui economia si basa sui combustibili fossili – aveva poi contribuito a creare il clima di rassegnata sfiducia che si è trascinato fino all’apertura della Cop28. Si era allora a fine novembre 2022, tempo nel quale tutti gli scienziati stavano già anticipando quello che ora sappiamo per certo: che il 2023 sarebbe stato l’anno più caldo mai registrato@.

Loyangallani, El Molo Bay, Ol Molo Village, l’isola di Komote nel 2009 (foto Gigi Anataloni)

Una conferenza tesa

La Conferenza del 2023, ospitata nella Expo city sorta nel 2020, si è aperta con l’accordo che rende operativo il Fondo perdite e danni, quello che la Cop27 aveva solo stabilito di creare. Secondo Jacopo Bencini, dell’organizzazione Italian climate network (Icn), la presidenza emiratina della Cop28, guidata dal sultano Ahmed Al Jaber, ha voluto con quella mossa «fugare il più possibile dubbi e sospetti rispetto a questa prima Cop presieduta da un Ceo (amministratore delegato, ndr) di un’azienda petrolifera»@.

Al Jaber è infatti direttore generale e amministratore delegato di Adnoc, la compagnia petrolifera di stato di Abu Dhabi, un altro dei sette emirati federati. Aveva ricevuto molte critiche quando, una settimana prima della Cop, aveva detto che non esistono prove scientifiche a dimostrare che eliminare i combustibili fossili permetterà di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali come richiede l’accordo di Parigi@.

La conferenza, raccontava Ferdinando Cotugno nei suoi dispacci@ pubblicati sul quotidiano Domani e nella sua newsletter Areale, è poi proseguita con negoziati costretti a farsi largo nella melma di risentimenti e tensioni che si agglutinava intorno a troppi elementi di disturbo: scorie delle fratture e dei conflitti del mondo esterno alla Cop che inquinavano l’atmosfera pacificata della Expo city.

Innanzitutto, il veto del presidente russo Vladimir Putin, ostile all’ipotesi che una capitale dell’Unione europea potesse ospitare la Cop29; ma anche le molte resistenze delle economie basate sul fossile, rivelate dalle agenzie Reuters e Bloomberg con la pubblicazione dei contenuti di alcune lettere inviate dall’Opec, l’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio, agli Stati membri. Le lettere contenevano una consegna inequivocabile: respingere ogni proposta di accordo che attaccasse direttamente i combustibili fossili invece delle emissioni@.

Secondo alcuni osservatori, nel rompere lo stallo potrebbe aver giocato uno strumento tradizionale della cultura araba, il majlis, che – riportava@ nella sua analisi sul New York Times il giornalista economico Peter Coy – è sia un luogo che un evento. È la zona di un’abitazione araba dove i padroni di casa si siedono con gli ospiti. Nella versione della Cop28, il majlis ha preso le sembianze di una riunione più informale, a porte chiuse, con i delegati seduti in cerchi concentrici a dar vita a una condivisione più personale e immediata.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Sullo sfondo l’isola di Komote nel 2024. (Foto Anna Pozzi)

La prima bozza

Ma, nonostante gli accorgimenti per rendere la negoziazione più fluida, la prima bozza di accordo uscita l’11 dicembre si è rivelata molto problematica@. La principale pecca era quella di non contenere il cosiddetto phase-out dei combustibili fossili (cioè la scelta di smettere del tutto di usarli), nemmeno per il carbone, sull’abbandono del quale la comunità internazionale sembrava invece più concorde. Il testo era più attento a promuovere i metodi per catturare e stoccare l’anidride carbonica, prevedendo una riduzione dei soli combustibili fossili le cui emissioni non possano essere abbattute appunto con quei metodi (unabated, nell’espressione inglese). Ma è noto che la ricerca sulle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 è ancora molto lontana dall’aver trovato soluzioni che permettano di abbattere emissioni su larga scala@.

Il culmine delle tensioni è stato probabilmente raggiunto con la frase – molto ripresa dai media – di John Silk, capo delegazione delle Isole Marshall, che così ha commentato la bozza: «La Repubblica delle Isole Marshall non è venuta qui per firmare la sua condanna a morte. Quello che abbiamo visto oggi è totalmente inaccettabile. Non andremo alle nostre tombe d’acqua in silenzio»@.

L’accordo che nessuno si aspettava

Aree allagate di Kinshasa dopo le piogge del 14 dicembre 2023 e 4 gennaio 2024 che hannop causato lo straripamento del fiume Congo (foto Cesar Balayulu)

Dopo un’ulteriore ultima nottata di negoziati, i delegati sono tuttavia arrivati a un documento finale – il primo Global stocktake, o Gst (in italiano: inventario globale)@ – che, a detta di molti osservatori, contiene alcuni passaggi storici. Un’analisi completa del documento è disponibile sul sito di Icn@; i punti che rappresentano una svolta sono i seguenti.
Per la prima volta in 28 anni, la conferenza sul clima fa ufficialmente proprie le posizioni della comunità scientifica, riconoscendo che il riscaldamento del pianeta è «in modo inequivocabile» causato dall’uomo, e invita tutte le parti a contribuire agli sforzi globali per allontanarsi (transitioning away, nel testo originale) dai combustibili fossili nei sistemi energetici in modo giusto, ordinato ed equo – ammettendo così di fatto che questo tipo di combustibili è, per così dire, il grosso del problema – e per triplicare l’energia prodotta con fonti rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica.

L’impegno a non superare la soglia del grado e mezzo rimane «la stella polare», ha detto l’inviato per il clima ed ex segretario di stato Usa, John Kerry e, anche se da Dubai non è uscita una tabella di marcia precisa, l’accordo dice in modo chiaro che per onorare questo impegno occorre limitare le emissioni del 43% entro il 2030, del 60% entro il 2035, e arrivare infine a zero emissioni nette entro il 2050.

Il Gst contiene un riferimento all’energia nucleare su cui il dibattito italiano si è molto focalizzato. Eppure, osservava Cotugno nella sua newsletter del 13 dicembre, il testo uscito da Dubai è ben lontano dal dare lo stesso peso a rinnovabili e nucleare: riconosce quest’ultima opzione come legittima, ma l’impegno verso le rinnovabili è molto più marcato.

Aree allagate di Kinshasa dopo le piogge del 14 dicembre 2023 e 4 gennaio 2024 che hannop causato lo straripamento del fiume Congo (foto Cesar Balayulu)

Tante incognite

Già durante la plenaria conclusiva della conferenza hanno cominciato a emergere gli elementi su cui occorrerà vegliare perché l’accordo non venga svuotato del suo senso.

A nome dell’Alleanza dei piccoli stati insulari, la capo negoziatrice samoana Anne Rasmussen ha rilevato la presenza nell’accordo di una «sequela di scappatoie»@. Il delegato del Senegal, a nome dei 46 paesi meno sviluppati, ha espresso preoccupazione per «i bassi contributi complessivi»@ che i vari fondi per il clima@ hanno nei fatti ricevuto, e che sarebbero vitali sia per finanziare interventi di adattamento, sia per limitare i danni subiti da una crisi climatica della quale i Paesi da lui rappresentati sono i meno responsabili.

Solo per fare un esempio: pochi giorni dopo l’effettiva creazione del Fondo perdite e danni con cui si è aperta la Cop, i Paesi ad alto reddito avevano promesso 700 milioni di dollari. La cifra però rappresenta solo lo 0,2 per cento dei 400 miliardi che, secondo la stima più citata negli ultimi mesi, sarebbe necessaria per le compensazioni.

Se la professoressa Valeria Termini, intervistata da Lucia Capuzzi su Avvenire@, vede la svolta di Dubai in un cambio di approccio della Cina – apparsa, dice Termini, più pronta a sostenere i Paesi in via di sviluppo e meno legata a quelli produttori di petrolio -, il giornalista esperto di clima David Wallace-Wells ha scritto che ai ritmi di emissioni attuali la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento è già fuori dalla nostra portata@. Citando il Global Carbon Budget, pubblicazione coordinata dall’Università di Exeter, nel Regno Unito, che ogni anno sintetizza i risultati del lavoro di numerosi gruppi e centri di ricerca, Wallace-Wells riporta che le emissioni dovrebbero raggiungere lo zero non molto oltre il 2040: dieci anni prima di quanto indicato nell’inventario globale di Dubai.

A pesare sulle prospettive di gestione della crisi climatica c’è anche l’incognita delle elezioni negli Stati Uniti che, alla data di chiusura di questo articolo vedono l’ex presidente Donald Trump in largo vantaggio nelle primarie del partito repubblicano. Già durante il suo mandato, Trump aveva ritirato gli Usa – secondo Paese al mondo per emissioni – dall’accordo di Parigi e riempito le agenzie governative di lobbisti dei combustibili fossili, e c’è da aspettarsi un secondo mandato ancora più aggressivo, scriveva Politico lo scorso gennaio@.

Allo scenario del disimpegno degli Usa va poi aggiunta la disinformazione, che ha modificato forma e ha smesso quasi del tutto di negare che il cambiamento climatico esiste per dedicarsi invece ad attaccare le soluzioni, sostenendo ad esempio che le rinnovabili e i biocombustibili non funzionano o che le politiche per il clima ci impoveriranno.

È questo che emerge da uno studio del Center for countering digital hate, che ha analizzato l’evoluzione dei contenuti dei video negazionisti su YouTube. Il compito dell’ambientalismo nel 2024, twittava a proposito Ferdinando Cotugno, «è proteggere le ragioni della transizione dalla nuova ondata di bugie»@.

Chiara Giovetti

Mungitura in una stalla. L’allevamento intensivo degli animali è uno degli imputati principali del cambiamento climatico (foto Gigi Anataloni)




Troppo cibo sprecato


Il cibo perso o sprecato continua a essere troppo mentre guerre  e cambiamento climatico peggiorano la situazione. Ma qualcosa si sta facendo, sia nel Nord che nel Sud del mondo, per contrastare lo spreco. E anche le nostre missioni cercano di ideare soluzioni.

Il 13% del cibo prodotto a livello globale viene perso nella filiera produttiva, nelle fasi intermedie tra raccolto e commercializzazione, mentre un ulteriore 17% viene sprecato da famiglie, servizi di ristorazione e nella vendita al dettaglio: si tratta di una quantità di cibo che sarebbe sufficiente per nutrire oltre un miliardo di esseri umani@.

Secondo le ultime stime, nel mondo le persone affamate sono fra i 691 e i 783 milioni@.

Sono queste le più recenti statistiche fornite dalla Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, e l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Nella divisione del lavoro che le agenzie internazionali si sono date per valutare i progressi verso il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, la Fao è responsabile di misurare le perdite di cibo, mentre all’Unep spetta la misurazione dello spreco.

Misurare lo spreco

Si tratta infatti di due fenomeni diversi, il cui risultato è comunque quello di rendere non disponibile cibo che poteva esserlo.

La perdita avviene nella fase di produzione e trasformazione, mentre lo spreco si colloca nella fase della vendita e del consumo.

Se nelle pubblicazioni più recenti della Fao non si leggono dati che quantifichino i volumi di cibo perso, l’Unep si sbilancia un po’ di più, fornendo nel «Food and waste index report» del 2021 una stima del cibo sprecato, che sarebbe pari a 931 milioni di tonnellate, di cui 569 milioni a causa del consumo nelle famiglie, 244 nei servizi di ristorazione e 118 nella vendita@.

Se si cede alla tentazione di fare un calcolo piuttosto sbrigativo partendo dal presupposto che 931 milioni di tonnellate di cibo sprecato rappresentano il 17% del totale, allora il 13% – cioè il cibo perso – risulta pari a circa 712 milioni di tonnellate, per un totale di 1,6 miliardi fra cibo perso e sprecato. Un dato che trova conferma nelle rielaborazioni fatte dal Boston consulting group, una società di consulenze statunitense, che aggiunge: continuando ai ritmi attuali, nel 2030 arriveremmo a buttare via 2,1 miliardi di tonnellate, pari a un valore stimato di 1.500 miliardi di dollari, contro i 1.200 miliardi attuali@.

Si tratta di stime, ma negli ultimi dieci anni sono state comunque corrette al rialzo, se nel 2011 il cibo sprecato e perduto era quantificato in 1,3 miliardi di tonnellate totali.

La più aggiornata stima delle emissioni di gas serra imputabili a questo fenomeno non si discosta invece dalle precedenti: fra l’8% e il 10% dei gas serra globali sembrano legati al cibo che viene prodotto, trasformato e trasportato ma non consumato. Inoltre, gli alimenti gettati in una discarica e lasciati a decomporsi producono a loro volta metano che si aggiunge agli altri gas serra.

«Se la perdita e lo spreco di cibo fossero un Paese», scrive la direttrice di Unep, Inger Andersen, nella prefazione del Food and waste index report citato sopra, «sarebbe la terza fonte di emissioni di gas serra» del pianeta, dopo Cina e Stati Uniti, e prima dell’India@.

I disastri che «mangiano» il cibo

A far diminuire la disponibilità di cibo ci sono anche le catastrofi. Sempre la Fao, quest’anno, ha voluto dedicare particolare attenzione a questo aspetto con un rapporto dal titolo «The impact of disasters on agriculture and food security»@.

Le catastrofi sono definite come «gravi interruzioni del funzionamento di una comunità o di una società», e il rapporto si concentra su quelle connesse con cinque macrocategorie di rischi cui l’agricoltura è più esposta: rischi meteorologici e idrologici, fra cui siccità e inondazioni; rischi geologici, dai terremoti agli tsunami; rischi ambientali, come gli incendi, rischi biologici, ad esempio le infestazioni da locuste; e rischi sociali, principalmente i conflitti armati.

Gli eventi catastrofici, si legge nel rapporto, sono passati da circa 100 all’anno negli anni Settanta del secolo scorso ai 400 all’anno nel ventennio dal 2000 al 2021. A causa di questi eventi il mondo ha perso il 5% del Pil agricolo annuo globale per un totale di 3.800 miliardi di dollari. La perdita di Pil agricolo sale fino al 10-15% nei paesi a reddito medio basso e basso e al 7% nei piccoli Stati insulari in via di sviluppo@, che si trovano principalmente nei Caraibi, nell’Oceano Indiano e nel Pacifico.

Esempi di disastri

Gli esempi recenti di catastrofi non mancano: lo scorso maggio Reliefweb, il servizio informazioni dell’ufficio Onu per gli affari umanitari, riportava@ che il Corno d’Africa ha avuto cinque stagioni consecutive di piogge scarse o assenti, cioè un’ondata di siccità che ha superato negli effetti e nella durata quelle del 2016/2017 e del 2010/2011.

Più di 13,2 milioni di capi di bestiame erano già morti in tutta la regione, causando la perdita di oltre 180 milioni di litri di latte dall’inizio della siccità e privando 1,4 milioni di bambini sotto i 5 anni della possibilità di consumare un bicchiere di latte al giorno, con gravi conseguenze per il loro status nutrizionale.

A novembre 2023, la regione si preparava poi a possibili inondazioni dovute fra l’altro al previsto arrivo di El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che interessa in misure diverse quasi tutto il globo e che nel Corno d’Africa tende a provocare precipitazioni più abbondanti fra marzo e maggio.

Quanto poi alle catastrofi legate ai conflitti, un’infografica sui siti del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione europea@ mostra come la guerra in Ucraina ha ridotto di un terzo la produzione di cereali nel paese e ha duramente colpito quella dell’olio di girasole, di cui l’Ucraina era il primo esportatore mondiale prima dell’invasione russa. «Le esportazioni ucraine, in particolare di frumento», si legge sul sito del Consiglio, «rivestono un’importanza cruciale per alcuni paesi asiatici e africani, che dal 2016 al 2021 hanno ricevuto il 92% del frumento ucraino».

Nairobi, Kenia. Agosto 04/2020. Hogar Familia Ya Ufariji. Huerta en Ngomongo. © Bruno Cerimele

Campagne, app e tecnologia contro lo spreco

Le iniziative per affrontare fame e cambiamento climatico stanno emergendo in tutto il mondo, scriveva nell’ottobre del 2022 Somini Sengupta sul New York Times in articolo dal titolo «Inside the global effort to keep perfectly good food out of the dump»@.

A Seoul, riportava Sengupta, i bidoni della spazzatura pesano automaticamente la quantità di cibo gettato nella spazzatura. A Londra, i negozi di alimentari non mettono più le etichette con la data di scadenza su frutta e verdura per evitare confusione su ciò che è ancora commestibile. La California impone ai supermercati di regalare il cibo invenduto ancora buono da mangiare invece di buttarlo.

E ancora: la Cina aveva lanciato nel 2020 la campagna «Piatto pulito» per ridurre lo spreco di cibo, incoraggiando le persone a evitare di ordinare di più di quello che consumano e invitando i video blogger che si riprendono mentre mangiano grandi quantità di cibo a non farlo più.

Esistono poi diverse applicazioni per cellulari che aiutano a limitare lo spreco: una di queste è Too good to go, azienda fondata in Danimarca nel 2015, che nel suo Impact report del 2022@ sostiene di aver impedito lo spreco di circa 79 milioni di pasti. L’app permette di vedere quali esercizi mettono a disposizione cibo avanzato a un prezzo molto più basso di quello iniziale ed è possibile prenotare il cibo per poi passarlo a ritirare nella fascia oraria indicata. A ottobre 2023, Too good to go ha lanciato la campagna «Salva il pianeta in ogni angolo di Roma» che ha permesso di recuperare nella capitale mezzo milione di pasti, come riferiva ai microfoni di Askanews Mirco Cerisola, il direttore per l’Italia dell’azienda di Copenaghen@.

Nei paesi in via di sviluppo

Anche nei paesi in via di sviluppo ci sono iniziative contro lo spreco e la perdita di cibo: in Kenya, riporta ancora l’articolo di Sengupta, un imprenditore ha costruito frigoriferi a energia solare per aiutare gli agricoltori a conservare i prodotti più a lungo. Si tratta di Dysmus Kisilu, trentunenne keniano che a 27 anni, dopo gli studi all’Università della California, a Davis ha fondato Solar Freeze, l’azienda che ora gestisce insieme a un team composto da una decina di coetanei.

Nel video per Fast Forward, un’organizzazione che promuove aziende startup capaci di combinare tecnologia e sostenibilità, Kisilu racconta che ha capito l’importanza di fornire ai piccoli agricoltori africani un sistema di refrigerazione sostenibile vedendo la nonna, contadina del Kenya orientale, perdere metà del raccolto prima ancora di raggiungere i banchi del mercato a causa della mancanza di un frigo dove conservare i prodotti@.

L’esperienza nelle missioni

Proprio nella capitale del Kenya, Nairobi, su un appezzamento di terreno di 21 acri (circa 8 ettari), i Missionari della Consolata gestiscono una fattoria, la Njathaini farm, che garantisce la sicurezza alimentare alla scuola che si trova sullo stesso terreno, alla casa per ragazzi di strada Familia ya Ufariji e alla comunità della zona.

Le attività agricole, riporta Naomi Nyaki, responsabile dell’ufficio progetti Imc a Nairobi, riguardano la coltivazione di mais, fagioli e diversi tipi di colture orticole come la belladonna africana, o managu in lingua locale, l’amaranto (terere) e una varietà di cavolo che nella lingua locale si chiama sukuma wiki, traducibile, in modo approssimativo, come «spingi settimana» (un cavolo di origine sudafricana che i missionari della Consolata hanno portato in Kenya di ritorno dagli anni di prigionia durante la Seconda guerra mondiale, ndr), cioè il cibo che serve per sopravvivere durante la settimana. Alla fattoria i missionari allevano anche capre, pecore e polli. «Alla Njathaini farm», prosegue Naomi, «le difficoltà principali riguardano lo stoccaggio dei prodotti agricoli dopo la raccolta, in particolare delle verdure deperibili, ma anche le possibili infestazioni da parassiti». A Familia ya Ufariji, invece, l’allevamento di vacche e maiali permette di garantire ai bambini ospitati – che possono arrivare fino a 90 – di avere una dieta adeguata.

Ma, spiega Naomi, stiamo cercando di creare un sistema più razionale per usare i prodotti dell’allevamento, «ad esempio comprando più frigoriferi che ci permettano di tenere separati latte e carne e di conservarli più a lungo. Anche fare lo yoghurt aiuterebbe a sfruttare meglio il latte, ma ancora non abbiamo una macchina a disposizione per produrlo in modo sistematico».

Anche in Tanzania i missionari cercano soluzioni per sfruttare al meglio il cibo. «Il problema qui riguarda più la perdita di cibo che lo spreco», scrive da Iringa Modesta Kagali, la responsabile dell’ufficio progetti dei Missionari della Consolata.

Nelle diverse case dei missionari, soprattutto in quelle che ospitano molte persone, come le case di formazione, si usano diversi modi per proteggere il cibo dal deterioramento: dalla conservazione del pesce sotto sale all’essiccazione, dall’uso del miele per isolare la carne dall’umidità all’utilizzo di celle frigorifere solari. Un metodo interessante è quello del refrigeratore fatto con il carbone (charcoal cooler). «La camera funziona senza bisogno di elettricità, secondo il principio del raffreddamento evaporativo. È costituita da un telaio in legno aperto con i lati riempiti di carbone trattenuto da reti metalliche. Il carbone viene costan- temente inumidito e quando l’aria calda e secca passa attraverso il carbone umido produce un notevole effetto rinfrescante. L’efficacia di conservazione dipende dal tipo di alimento: nel caso della verdura, questo refrigeratore ha mostrato di riuscire ad allungarne la conservazione di circa dieci giorni».

Chiara Giovetti




Biogas, istruzione e salute: il 2023 di Mco


L’anno che sta per concludersi ha visto la realizzazione di diversi progetti, sia nei settori tradizionali per i Missionari della Consolata – cioè la sanità e l’istruzione – sia in settori nuovi, come la promozione di energia pulita. E l’Africa, anche quest’anno, è stata la grande protagonista.

Lo scorso settembre, durante il vertice del G20 a Nuova Dehli, India, diciannove paesi e dodici organizzazioni internazionali hanno lanciato la Global biofuel alliance (alleanza globale per i biocarburanti). L’obiettivo dell’alleanza, di cui fanno parte fra gli altri anche l’Italia, gli Usa, l’India e, fra le organizzazioni, il World economic forum, la Banca mondiale e la Banca asiatica di sviluppo, ha l’obiettivo di promuovere l’uso dei biocarburanti sostenibili@.

I biocarburanti sono un tipo di bioenergia; quest’ultima, si legge nella sintesi del rapporto 2011 sulle fonti energetiche rinnovabili del «Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico», può essere prodotta da una varietà di materie prime di biomassa, cioè materia organica, come i residui forestali, agricoli e zootecnici, alcune colture, la parte organica dei rifiuti urbani, eccetera. Queste materie prime, attraverso vari processi e tecnologie, possono essere utilizzate direttamente per produrre elettricità e calore, oppure per ricavare combustibili gassosi, liquidi o solidi@.

Vecchie delusioni, nuove prospettive

La bioenergia, spiega sul suo sito l’«Agenzia internazionale dell’energia» (Iea, nell’acronimo inglese), rappresenta il 55% dell’energia rinnovabile a livello globale e oltre il 6% della fornitura energetica complessiva.

La moderna bioenergia, riporta ancora la Iea, è un combustibile a emissioni quasi zero, perché – per dirla in modo molto semplificato – l’anidride carbonica che si libera durante la combustione della biomassa si compensa in larga parte con quella che le piante coltivate per creare la biomassa assorbono con la fotosintesi.

All’inizio di questo secolo, i biocarburanti – ad esempio il biodiesel – avevano già ricevuto grandi attenzioni e generato aspettative che si erano però rivelate troppo ottimistiche@.

Le emissioni di anidride carbonica imputabili ai biocarburanti, infatti, non erano poi così basse, considerando la quantità di terra, acqua ed energia necessarie a produrre le piante per formare le biomasse di base. Inoltre, queste piante spesso rimpiazzavano le coltivazioni destinate alla produzione di cibo, provocando aumenti significativi dei prezzi dei prodotti agricoli. Da qui il dibattito, tuttora in corso, sintetizzato dall’espressione food vs. fuel, cibo contro carburante. Si parla oggi quindi di bioenergia moderna e biocarburanti sostenibili proprio in contrapposizione a queste prime esperienze di vent’anni fa e al loro parziale insuccesso.

Biogas e biometano

Anche il biogas rientra fra le bioenergie. Esso, spiega la Iea in un rapporto del 2020, è una miscela di metano, anidride carbonica e piccole quantità di altri gas prodotta dalla digestione anaerobica di materia organica in un ambiente privo di ossigeno.

Una delle tecnologie in grado di produrre biogas utilizza i biodigestori, cioè contenitori o cisterne ermetici nei quali il materiale organico, diluito in acqua, viene scomposto da microrganismi presenti in natura. Altri modi di produzione includono poi la «cattura» del biogas che si forma per la decomposizione dei rifiuti solidi urbani nelle discariche e il recupero dei fanghi di depurazione degli impianti di trattamento delle acque reflue. I fanghi, infatti, possono contenere materia organica e sostanze come azoto e fosforo e, con un ulteriore trattamento, possono essere utilizzati come base per produrre biogas in un digestore anaerobico@.

Il biogas può poi essere trasformato in biometano attraverso un ulteriore processo che rimuove l’anidride carbonica e le impurità. Il 90% del biometano prodotto oggi nel mondo si ottiene con questo metodo, detto upgrading, traducibile con miglioramento, passaggio alla categoria superiore.

Il biogas a Kimbiji

Secondo la Iea, 2,7 miliardi di persone nel mondo non dispongono di energia pulita per cucinare e usano biomassa solida: legna da ardere, carbone, sterco bruciato all’aperto, oppure cherosene. Circa un terzo di queste persone vive nell’Africa subsahariana.

Se fossero raggiunti tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile, nel 2040 il biogas potrebbe fornire energia pulita per cucinare a ulteriori 200 milioni di persone, metà delle quali in Africa, riducendo così l’inquinamento domestico causato da fornelli inefficienti e inquinanti che, secondo i dati del 2018, è direttamente collegato a circa mezzo milione di morti premature annuali nell’Africa subsahariana e a 2,5 milioni a livello globale.

Anche a Kimbiji, villaggio a circa quaranta chilometri a sud di Dar Es Salaam, in Tanzania, i missionari della Consolata registrano questa mancanza di alternative al carbone e alla legna da ardere come combustibili per cucinare. Per questo, padre Domnick Otieno, missionario di origine
keniana che lavora a Kimbiji da quasi tre anni, ha proposto di realizzare un biodigestore da alimentare con gli scarti generati dalla piccola porcilaia realizzata nel 2022 con il contributo della Caritas italiana. Questa ne ha sostenuto la costruzione per permettere a un gruppo di giovani locali di avviare un’attività generatrice di reddito.

«Siamo consapevoli», scriveva padre Domnick lo scorso marzo, «che una parrocchia dovrebbe essere un luogo di trasformazione nella società, un luogo in cui le persone imparano anche a prendersi cura dell’ambiente. L’installazione del biogas nella missione ci permetterà di avere sufficiente gas per l’uso domestico e potremo abbassare la retta per l’asilo, così i genitori dei nostri ottantasei alunni non dovranno più portare legna e carbone per pagare la parte di retta che non possono coprire in denaro. Il sistema a biogas offrirà inoltre a coloro che verranno alla missione la grande opportunità di conoscere l’importanza di questa fonte per ridurre l’inquinamento».

Scuola ad Alaba

Etiopia, istruzione in affanno

L’Etiopia, riporta il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), ha fatto progressi significativi verso l’istruzione primaria universale, con l’88,7% dei bambini iscritti nell’anno 2021/2022@.

Ma alcuni studi del ministero dell’Istruzione etiope e i risultati degli esami per l’accesso all’università di quest’anno costringono a ridimensionare questo dato incoraggiante.

Secondo Africanews, il sito di notizie legato alla rete televisiva Euronews, solo il 3% degli studenti etiopi di scuola secondaria ha passato l’esame di ammissione all’università@, mentre il ministero fa sapere che l’85,9% delle scuole elementari e medie e il 70,9% delle scuole superiori in Etiopia sono «completamente al di sotto degli standard@».

«I risultati peggiori», riferisce padre Marco Marini, missionario della Consolata in Etiopia, «sono spesso nelle scuole private, anche se le scuole cattoliche continuano a mantenere un buon livello e quindi un buon nome».

Ad Alaba, 250 chilometri a sud della capitale Addis Abeba, i missionari della Consolata gestiscono una scuola con 730 alunni, seguiti da quattordici maestri; ci sono poi otto persone che svolgono altri servizi, dalla segreteria alla sicurezza. Le classi vanno dall’asilo alla quinta, ma i missionari intendono attivarne altre, fino all’ottava (equivalente alla nostra terza media, ndr), che è l’ultima del ciclo primario.

L’intervento realizzato ad Alaba ha permesso di fornire alla scuola quarantacinque banchi necessari per avviare la sesta classe e per sostituire quelli danneggiati nelle classi già esistenti. «In Etiopia – spiega padre Marco -, i banchi per la scuola sono pensati per tre studenti e hanno una struttura in ferro su cui sono poggiati i ripiani in legno che servono per scrivere e sedersi. I nuovi banchi possono quindi accomodare un totale di 135 studenti. Li ha realizzati la falegnameria della missione di Shashemane, a sessanta chilometri da Alaba».

Studenti in cortile della nuova scuola di Alaba

Kenya, la sanità fra riforme e vecchi problemi

Secondo i dati dell’Organizzione mondiale della sanità (Oms), il Kenya ha oggi un’aspettativa di vita di 66,1 anni, circa 7 anni sotto la media globale, ma 12,2 anni in più rispetto all’anno 2000@. Tuttavia, si legge nel rapporto 2022 dell’ufficio dell’Unicef in Kenya@, la povertà rimane alta e interessa 16 milioni di persone, cioè un keniano su tre. La metà della popolazione – 23,4 milioni di persone (o addirittura quasi 29 oggi, ndr), di cui 11,7 milioni sono bambini – non ha accesso a servizi di base come assistenza sanitaria, acqua potabile, servizi igienicosanitari, nutrizione e alloggio.

Il Kenya, continua il rapporto, si è impegnato a porre fine alla diffusione dell’Hiv/Aids, che è una minaccia sempre attuale per la salute pubblica, e alle gravidanze delle adolescenti entro il 2030. Se gli sforzi per garantire agli adulti l’accesso alle terapie per il trattamento dell’Hiv sono stati efficaci, tante infezioni nelle persone più giovani non vengono rilevate né trattate. Si stima che quasi 38mila bambini e adolescenti affetti da Hiv non siano in terapia.

Inoltre, secondo il ministero della salute keniano, come riportava lo scorso anno il giornale The Nation, una su cinque adolescenti fra i 15 e i 19 anni è madre o è incinta.

Uno studio pubblicato su Health economic review, rivista del gruppo anglo-tedesco Springer nature, rivela che solo un quinto dei keniani è coperto da una qualche forma di assicurazione sanitaria@ privata o pubblica (il Nhif, National health insurance fund del ministero della Salute, iniziato nel 1966, però collassato a causa della corrotta amministrazione di questi ultimi anni, ndr). Diverse testimonianze dirette da parte di missionari della Consolata, oltre a confermare sul campo questo dato, riportano che, di fatto, soltanto pagando è possibile ottenere cure adeguate.

Recentemente, il governo@ ha lanciato una riforma del fondo che però sembra peggiorare la situazione. Prima della riforma, i keniani pagavano dal loro stipendio o in forma volontaria cifre che andavano da 150 a 1.700 scellini keniani al mese (da poco meno di un euro a circa 11 euro) per il Nhif. Il nuovo fondo prevede un contributo minimo pari al doppio e, per i lavoratori dipendenti, un maggior prelievo percentuale sulla retribuzione.

Troppe persone oggi non hanno un lavoro regolare che dia loro diritto al Nhif o permetta loro di acquisirlo in forma volontaria e, tantomeno, di accedere alle cure sanitarie a pagamento.

Timbwani, la nuova clinica

Una delle zone in cui la povertà è più diffusa è la periferia di Mombasa, grande città portuale sull’Oceano Indiano, dove i missio-
nari della Consolata sono presenti a Likoni e a Timbwani, sulla costa sud oltre lo stretto che separa dalla città antica. Proprio a Timbwani, i missionari hanno di recente completato la costruzione di una nuova struttura sanitaria.

L’aiuto richiesto a Missioni Consolata Onlus dal responsabile, padre Joseph Waithaka, riguarda l’acquisto e installazione di mobilio e attrezzatura per la sala consultazioni, per il triage, per la sala delle cure prenatali e di materiale per le consultazioni pediatriche. La clinica di Timbwani lavorerà di concerto con il dispensario di Likoni, di cui è di fatto un’estensione, e avrà un bacino di utenza di circa 10mila persone. «Chi vive nella zona di Timbwani», scriveva lo scorso marzo padre Waithaka, «deve prendere il traghetto e attraversare lo stretto per raggiungere la struttura sanitaria pubblica più vicina. Questo nuovo centro sanitario ci permetterà di offrire assistenza ai malati e programmi di consulenza ai giovani tossicodipendenti e alcolisti». Mombasa si trova, infatti, su una delle nuove rotte del traffico mondiale di eroina e questo ha reso il Kenya un paese non solo di transito, ma anche di consumo@.

Chiara Giovetti




5 per mille 2022, più firme e più esclusi


Nel 2022, 16,5 milioni di contribuenti hanno destinato il loro 5 per mille generando un totale di 510 milioni di euro da distribuire fra enti di interesse sociale e comuni. Ci sono stati tanti esclusi, oltre 8mila, e secondo alcuni osservatori c’entrano gli effetti e i ritardi legati alla riforma del Terzo settore.

Si conclude con il mese di novembre il periodo per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi e, quindi, per la destinazione del 5 per mille, la quota di imposta Irpef che ogni contribuente ha facoltà di donare a enti che svolgono attività di interesse sociale o alle attività sociali del proprio comune di residenza.

Nel 2022, su un totale di 41,5 milioni di contribuenti in Italia, a destinare il proprio 5 per mille sono stati 16,5 milioni, circa il 40%. Benché le firme siano 193mila in più rispetto all’anno precedente, le persone che non donano ad alcun ente restano comunque sei su dieci. Le quote non assegnate rimangono a disposizione dello Stato, che le riceve con le imposte ma non deve poi distribuirle agli enti o ai comuni.

Il totale distribuito, riportava il comunicato stampa@ dell’Agenzia delle entrate lo scorso giugno, sarà intorno ai 510 milioni di euro: 324 milioni, cioè il 64%, andranno agli Enti del terzo settore e alle Onlus, quasi 81 milioni alla ricerca sanitaria, 68 milioni a quella scientifica. I comuni riceveranno 16 milioni di euro, le associazioni sportive dilettantistiche 17,4 milioni, gli enti per la tutela dei beni culturali e paesaggistici 2,3 milioni e gli enti gestori delle aree protette 814mila euro.

Il valore medio del contributo, riportava Sara De Carli sul periodico Vita.it lo scorso giugno, è di 31,69 euro@. A che reddito corrisponde questa quota di 5 per mille? I conti in realtà non sono semplici, perché nel determinare l’imposta netta Irpef (su cui si calcola il valore della donazione) concorrono diversi fattori, ad esempio le detrazioni a cui il contribuente ha diritto. Tuttavia, alcune organizzazioni, anche per invogliare le persone a donare aiutandole a farsi un’idea di che cosa sarà possibile fare con il loro contributo, hanno messo sui loro siti schemi o calcolatori automatici, specificando che si tratta comunque di approssimazioni. Usando il calcolatore automatico di Fondazione Airc@, ad esempio, una quota di 31,69 euro corrisponde a un reddito da lavoro dipendente pari a 25.700 euro. Nello schema proposto da Medici senza frontiere@, un reddito di 28mila lordi genera un 5 per mille pari a 33 euro.

Chi sono i beneficiari

A dividersi i 510 milioni di euro, riporta ancora il comunicato stampa, sono 71.674 soggetti: per il 70% (oltre 50 mila) sono enti del Terzo settore e Onlus, seguiti da 13mila associazioni sportive dilettantistiche, da quasi 8mila comuni e poco più di 700 fra enti impegnati nella ricerca scientifica, nel settore della sanità, nella salvaguardia dei beni culturali e paesaggistici e nella gestione delle aree protette.

Nella lista dei primi dieci beneficiari@ non ci sono grandi cambiamenti rispetto all’anno scorso: la Fondazione italiana per la ricerca sul cancro – Airc ha ricevuto quasi 1 milione e 600mila preferenze e un totale di 70 milioni di euro. La seconda della lista è la Fondazione piemontese per la ricerca sul cancro, con oltre 262mila firme e totali 12,4 milioni di euro, mentre Emergency, l’associazione fondata da Gino Strada, si conferma al terzo posto con più di 306mila firme e 12 milioni di euro. Seguono, con importi decrescenti da 9 a 5,4 milioni di euro, Lega del filo d’oro, Istituto europeo di oncologia, Medici senza frontiere, Associazione italiana contro le leucemie, Save the children Italia, la Fondazione italiana sclerosi multipla e la Fondazione dell’ospedale pediatrico Anna Meyer. Questi primi dieci enti raccolgono insieme oltre un quarto dei fondi e un quinto delle firme dei contribuenti.

Dal lato opposto della lista dei beneficiari ammessi, ci sono più di 9.600 organizzazioni – il grosso dei quali sono Enti del terzo settore e Onlus oppure associazioni sportive dilettantistiche – che non hanno ottenuto contributi. Fra questi enti, un po’ meno di metà non hanno ricevuto firme, mentre gli altri avrebbero ottenuto importi inferiori ai 100 euro che però, dal 2020, non vengono più liquidati ma «rimessi in palio» per essere ridistribuiti fra chi ad almeno 100 euro ci è arrivato. Un altro meccanismo di ridistribuzione è poi legato alle scelte generiche: se un contribuente mette la propria firma, poniamo, nella casella della ricerca sanitaria ma non indica un ente preciso scrivendone il codice fiscale, allora il suo contributo si sommerà alle altre scelte generiche, che verranno poi ridistribuite fra tutti gli enti di ricerca sanitaria in proporzione alle scelte dei contribuenti che invece hanno selezionato un ente specifico. Come se il contribuente dicesse: a me interessa aiutare la ricerca sanitaria, ma lascio scegliere agli altri contribuenti a quali enti andrà di più o di meno all’interno di quel settore.

Molte esclusioni, cause da chiarire

Ma il dato che colpisce di più, rilevava ancora De Carli nell’articolo su Vita citato sopra, è quello degli esclusi: 8.291 enti hanno ricevuto complessive 413mila firme per un totale di quasi 14 milioni di euro, ma non li riceveranno perché sono stati esclusi, né i fondi saranno distribuiti agli enti ammessi: resteranno a disposizione dello Stato. Le esclusioni ci sono ogni anno e le cause possono essere varie, ad esempio i ritardi delle organizzazioni negli adempimenti amministrativi. Ma nel 2021 i casi erano stati poco più di 1.600, un quinto.

Mario Consorti, presidente dell’azienda di servizi per il Terzo settore Np Solutions, scriveva su Vita lo scorso luglio@ che molte organizzazioni stanno ancora valutando la possibilità di diventare Enti del terzo settore (Ets) come richiesto dalla riforma avviata nel 2016, e per questo non si sono ancora iscritti al Runts, il Registro unico nazionale del terzo settore. L’iscrizione però è necessaria per poter partecipare alla ripartizione del 5 per mille: gli enti, quindi, hanno rinunciato al contributo ma, nel contempo, non hanno fatto una campagna per informare i donatori di questa rinuncia, in modo da non disperdere il bacino di firme che avevano costruito. Perché, sottolinea ancora Consorti, l’idea che sembra prevalente nell’orientare le scelte dei contribuenti è «fai come l’anno scorso»: per gli enti beneficiari, dunque, comunicare ai sostenitori un’interruzione, per quanto temporanea, della possibilità di donare loro il 5 per mille rischia di tradursi in firme perse poi molto difficili da recuperare. A proposito degli effetti della riforma@, il sito Cantiere terzo settore riportava lo scorso settembre che al Registro stanno ancora aspettando di iscriversi anche 22mila onlus, «in attesa che si definisca il quadro fiscale per scegliere se entrare o meno nel Runts». E questo quadro fiscale dipende anche dall’autorizzazione della Commissione europea, per ottenere la quale il governo guidato da Mario Draghi, nel 2022, aveva già riformato l’impianto normativo, semplificandolo@. A differenza degli enti esclusi, nel 2022 le Onlus erano state ammesse al 5 per mille con una proroga nella scadenza per l’iscrizione al Registro: proroga motivata, appunto, da questa attesa dei chiarimenti degli aspetti fiscali.

Breve storia del 5 per mille

Il 5 per mille fu istituito nel 2006, con la legge finanziaria per il 2007, e fu promosso dall’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nel governo Berlusconi III. In un’intervista a Nicola Saldutti su Corriere buone notizie, lo spazio del Corriere della sera dedicato al Terzo settore, nel dicembre 2020 Tremonti spiegava che l’idea alla base era quella di rompere la dicotomia Stato-individuo, per cui «i cittadini votano e lo Stato decide come spendere le entrate fiscali. Dal basso verso l’alto il voto, dall’alto verso il basso le decisioni su come utilizzare i soldi. C’era lo schema Thatcher: non esiste la società, esistono gli individui. Con il 5 per mille andammo all’opposto di questi due modelli: l’individuo può decidere, ha potere di scelta sulla destinazione delle imposte, in settori considerati meritevoli dalla legge».

Nel 2017 Gabriella Meroni su Vita@ ripercorreva la storia del 5 per mille a dieci anni dalla sua nascita: all’inizio, la misura doveva essere inserita nella finanziaria anno per anno e a volte i governi non lo facevano, oppure stanziavano somme insufficienti per finanziarla. Fra il 2010 e il 2013, poi, i governi imposero limiti di raccolta a causa dei quali vennero «persi 310 milioni». Nel 2014, il 5 per mille venne stabilizzato: la legge di stabilità del 2015, fatta dal governo Renzi, stabilì che le disposizioni «relative al riparto della quota del cinque per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in base alla scelta del contribuente, si applicano anche relativamente all’esercizio finanziario 2015 e ai successivi». Il governo, inoltre, autorizza la spesa di 500 milioni di euro per liquidare il contributo.

Dopo il 2017, fra i cambiamenti più rilevanti ci sono stati l’ulteriore innalzamento del tetto di spesa a fino agli attuali 525 milioni, e nel 2020, durante la pandemia, la liquidazione di due annate di contributo invece di una. In questo modo, oggi gli enti ricevono il 5 per mille raccolto l’anno fiscale precedente, mentre con le regole passate veniva loro liquidato quello di due anni prima, rendendo molto più complesso, ad esempio, valutare e calibrare le campagne organizzate per invogliare i contribuenti a firmare.

Gli omologhi all’estero

Esiste il 5 per mille negli altri Paesi? Secondo uno studio del 2020 dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), dal titolo Tassazione e filantropia@, la risposta è sì: anche Slovenia, Portogallo, Ungheria, Lituania, Romania e Slovacchia hanno metodi simili, che il rapporto chiama «sistemi di assegnazione» e che permettono ai contribuenti di indicare alle autorità fiscali a quali enti o cause filantropiche deve essere destinata una determinata percentuale della loro imposta sul reddito. Questi sistemi, dice il rapporto, decentralizzano la decisione affidandola ai contribuenti stessi.

Di gran lunga più diffusa come incentivo fiscale alla donazione per le persone fisiche è la deduzione, cioè la possibilità di sottrarre l’importo di una donazione dal totale del reddito su cui verrà calcolata l’imposta. La deduzione è presente in 22 paesi sui 39 considerati nel rapporto, mentre 12 Paesi utilizzano invece il credito d’imposta, del quale è un esempio il social bonus in Italia@ che è l’unico paese ad avere tutte e tre queste forme di incentivo a donare.

Vi è poi un quarto metodo, denominato matching nel rapporto, che prevede un’aggiunta percentuale da parte dello Stato per ogni donazione fatta da un contribuente. Ad esempio, nel programma Gift Aid del Regno Unito per ogni sterlina donata dal contribuente le organizzazioni beneficiarie possono reclamare ulteriori 25 pence che vengono aggiunti dallo Stato. Inoltre, i contribuenti che pagano l’imposta con l’aliquota più elevata – il 40% – possono richiedere uno sgravio fiscale pari al 20% dell’importo della donazione finale, compresa la parte aggiunta dallo Stato.

Chiara Giovetti

Com’è andata per MCO

Nel 2022, Missioni Consolata Onlus ha raccolto 84.624,67 euro grazie alle firme di 1.905 donatori. È stato il primo anno di crescita dei fondi ricevuti (+4.388,99 euro) dopo quattro di calo. Le firme invece sono diminuite di 88 unità.
La quota media è di circa 38 euro.


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Acqua e luce per gli alunni della Nomads children’s school di Camp Garba – Isiolo – Kenya

È la scuola dei figli dei pastori nomadi (Samburu, Turkana, Borana e altri) che, fuggiti dalle aree  ancestrali per scontri tribali, siccità e fame, gravitano attorno alla missione.

La scuola ha bisogno di installare pannelli solari che producano l’energia elettrica necessaria per:

  • far funzionare la pompa del vecchio pozzo e avere così acqua a sufficienza per i bisogni di circa 700 allievi e per irrigare l’orto della missione che fornisce cibo alla scuola;
  • dare luce alle aule scolastiche soprattutto per gli studi serali;
  • garantire illuminazione notturna del perimetro della scuola per una maggior sicurezza anche contro intrusione di animali selvaggi (iene, elefanti e simili).

È un progetto da 12mila euro per il quale si sono impegnati gli Amici Missioni Consolata.

Vuoi dare una mano a realizzare questo bel sogno?

Manda il tuo aiuto per «Amc – pannelli solari Camp Garba» attraverso Missioni Consolata Onlus

È un progetto sostenuto dagli Amici Missioni Consolata.

 




Argentina, contro le diseguaglianze

 


Il Paese, al voto per l’elezione del presidente della Repubblica il 22 di questo mese, conta diverse realtà di missione fra le più vivaci dell’America Latina. I progetti, in corso o in via di formulazione, dei Missionari della Consolata hanno tutti un tratto in comune: la lotta alle diseguaglianze.

Il 22 ottobre gli argentini andranno a votare per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. È probabile che ci sarà un secondo turno, il 19 novembre, se nessuno dei candidati avrà ottenuto il 45% dei voti oppure almeno il 40% e dieci punti di scarto rispetto alla forza politica che arriverà seconda@.

A queste elezioni, l’Argentina è arrivata con un risultato a sorpresa dalle primarie del 13 agosto scorso che hanno visto affermarsi il candidato di Libertad Avanza, Javier Milei, con il 30% dei voti, pari a oltre 7 milioni di preferenze sui 34,4 milioni di aventi diritto. Milei è un politico ed economista che sostiene ricette economiche ispirate al liberismo radicale: ha dichiarato di voler eliminare la banca centrale argentina e abbandonare il peso per introdurre il dollaro americano. È contrario all’aborto, favorevole alla vendita di organi e alla diffusione delle armi, dice che sopprimerebbe l’istruzione obbligatoria e gran parte della sanità pubblica e definisce il riscaldamento globale «un’altra menzogna del socialismo».

Secondo il giornalista e scrittore Martín Caparrós@ c’è una lezione da trarre dalla vittoria di Milei, e cioè che milioni di argentini si sentono esclusi dal sistema democratico instaurato nel paese 40 anni fa e cercano disperatamente qualcuno che dia loro uno spazio. Gli elettori di Milei, continua Caparrós, «non cercano una critica razionale, un tentativo di cambiamento, un progetto; vogliono qualcuno che gridi che sta per saltare in aria tutto».

Lo scrittore azzarda una previsione: le elezioni porteranno a un ballottaggio tra una candidata di destra, Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza del governo di Mauricio Macri (in carica dal 2015 al 2019), e un candidato di estrema destra, Milei, appunto. «Uniti dal rifiuto verso la falsa sinistra che governa, dall’intenzione di usare il “pugno di ferro” con criminali e manifestanti e, soprattutto, dal loro antistatalismo. Qui sta il nocciolo della questione», secondo Caparrós.

Dopo il risultato delle primarie, il peso si era svalutato di 18,3 punti percentuali rispetto al dollaro americano, passando da 298,5 pesos per un dollaro del venerdì 11 agosto ai 365,5 del lunedì successivo. Secondo diversi economisti, la ricaduta sui prezzi di questa svalutazione è stata praticamente immediata e, riportava ad agosto il quotidiano Clarín, le banche e le società di consulenza hanno corretto al rialzo le stime dell’inflazione su base annua, collocandola in un intervallo compreso tra il 180 e il 190%@.

La presenza Imc

«In questo momento i missionari sono preoccupati per la crisi economica del Paese», scriveva lo scorso agosto padre Marcos Sang Hun Im, sacerdote di origine coreana e superiore dei Missionari della Consolata in Argentina. «Poiché le nostre presenze sono nelle periferie urbane, succede spesso di incontrare situazioni estreme, che offendono l’umanità. Attraverso la Caritas o altri gruppi parrocchiali aiutiamo chi ha bisogno, ma non riusciamo a raggiungere tutti».

La presenza della Consolata in Argentina, racconta padre Marcos, comincia nell’Ottocento con i migranti piemontesi che arrivavano qui portando con loro la propria cultura e la devozione alla loro Madonna, la Consolata. Secondo gli archivi dell’istituto, il fondatore Giuseppe Allamano inviava la rivista Missioni Consolata ai suoi compaesani in Argentina. Fu poi negli anni Quaranta del Novecento che la presenza dei missionari divenne stabile con lo scopo di accompagnare i piemontesi nella loro fede e raccogliere donazioni per le altre missioni.

«Essere presenti e accompagnare è ancora oggi il carattere principale della nostra missione qui, soprattutto nelle periferie urbane e nelle situazioni di emarginazione. In qualche parrocchia i missionari hanno cominciato a seguire persone affette da dipendenze, un problema che tutte le presenze rilevano.

Negli ultimi anni, inoltre, c’è stato un aumento dei suicidi, soprattutto tra i giovani, e le comunità parrocchiali stanno cominciando a organizzare attività di contrasto coordinandosi con professionisti della prevenzione».

Tre poli di presenza

Le presenze in Argentina, spiega il superiore, si dividono in tre nuclei collocati nella capitale Buenos Aires, nella regione di Cuyo e nel Nord.

A Buenos Aires ci sono due comunità: la casa regionale, che si trova in città, e la parrocchia di Santo Cura Brochero, nell’area metropolitana della capitale e già sul territorio della diocesi di Merlo-Moreno.

Mentre la prima comunità ha funzioni organizzative e di accoglienza, compresa l’assistenza ai missionari anziani, la seconda si trova in una periferia con una forte presenza di migranti boliviani e paraguaiani e ospita il Caf, cioè la comunità di formazione per nuovi missionari, affinché il percorso formativo «non si limiti agli studi teologici ma si estenda all’esperienza vissuta con la gente del quartiere» che affronta ogni giorno le difficoltà tipiche di una periferia come la violenza, le dipendenze, la povertà.

Al Nord si trovano due comunità, quella di Alto Comedero, «zona molto popolata e dalla cultura e religiosità andina», e quella di Yuto, zona rurale e con popolazione di creoli e indigeni. In quest’ultima zona, Missioni Consolata onlus, grazie all’aiuto di diversi donatori, nel quinquennio scorso ha sostenuto  una serie di interventi: la risposta all’emergenza abitativa di nove famiglie, per le quali è stato possibile costruire altrettante case in legno, e il sostegno a giovani madri del popolo Guaraní a El Bananal@. Infine, il nucleo nella regione del Cuyo, nella parte centro occidentale del Paese, conta due comunità, una a Mendoza – nella zona di Las Heras, nota per l’insicurezza e la violenza – e una a La Bebida@, ultima cittadina suburbana di San Juan, circa 170 chilometri più a nord di Mendoza.

Terra e acqua pulita per gli Huarpe

Proprio a Mendoza, che con oltre un milione di abitanti è la provincia più popolosa della regione del Cuyo, lavora oggi padre Giuseppe Auletta, originario della provincia di Matera, uno dei missionari più impegnati ed esperti nella difesa dei diritti dei popoli indigeni@. Padre José ha passato 17 anni di lavoro con il popolo Tobas, nella regione nordorientale del Chaco, 13 anni a Oran a fianco dei popoli Tupí Guaraní, Kolla, Wichi, Tapiete, Chorote e altri, a nord ovest. Oggi sta ora lavorando con undici comunità del popolo Huarpe nel territorio del cosiddetto Secano lavallino, un’area di 780 chilometri quadrati nella zona delle lagune di Huanacache.

Padre José con leader indigeno con il cappello con la banda rosso: un rappresentante indigeno di Mendoza per una manifestazione contro una decisione del governo provinciale che non riconosce la preesistenza del popolo Mapuche in Argentina.

La prima delle lotte portate avanti dagli Huarpe riguarda il diritto alla terra: dall’agosto del 2001, la legge provinciale 6.920 riconosce la preesistenza@ etnica e culturale del popolo Huarpe, che viveva nel territorio di Huanacache già molti secoli prima dell’arrivo dei colonizzatori europei nelle Americhe, e sancisce il suo diritto a ottenere il titolo di proprietà comunitaria su quella terra. Ma la legge non è mai stata davvero applicata.

Vi è poi una lotta che riguarda l’ambiente e in particolare la disponibilità di acqua pulita: «Un tempo», racconta padre Auletta, «quello di Huanacache era un sistema idrologico composto da 25 lagune ed estensioni lacustri comunicanti, con molte isole, circondate da terra fertile su un’area di circa 2.500 chilometri quadrati. Dalla fine del XIX secolo, l’uso esagerato delle acque dei fiumi Mendoza e San Juan, la costruzione di dighe e le politiche discriminatorie hanno gradualmente prosciugato le lagune, che riappaiono solo in epoche di grandi disgeli che aumentano la portata dei fiumi».

L’irrigazione destinata alle grandi coltivazioni (vigneti, orticoltura e frutteti) e lo sfruttamento minerario, sottolinea il rappresentante di una delle comunità, Ramón Tello, contaminano le falde acquifere.

Esiste un acquedotto che serve 5.500 persone, ma la sua acqua non è adatta per il consumo umano. Le percentuali di arsenico, boro, manganese e altri metalli pesanti rilevate nell’acqua, infatti, espongono chi la consuma a gravi rischi per la salute. Ecco perché, spiega padre Giuseppe, si sta lavorando alla formulazione di un progetto per l’installazione di un depuratore a osmosi inversa@ che permetta a queste comunità di disporre di acqua pulita.

Anche la narrazione dei luoghi, e gli sforzi per correggerla, fanno parte del lavoro di difesa dei diritti dei popoli indigeni: «Per molti, a cominciare dai decisori che determinano le politiche pubbliche, questa terra è solo “deserto”: luogo senza vita, dove non c’è nessuno, privo di risorse e di utilità, dotato di valore solo per chi si occupa di speculazioni finanziarie legate alla compravendita di terreni. Ma per il popolo Huarpe questa è la terra ancestrale, il luogo dove si svolge la vita quotidiana, la sorgente della sua cosmogonia, e si chiama il “campo”», scrive padre Auletta.

La Bebida, periferia da nutrire e curare

San Juan è la seconda città della regione del Cuyo per numero di abitanti: circa 818mila secondo il censimento 2022. Qui, Javier Milei ha ottenuto il 34,17% dei voti alle primarie, quattro punti in più del suo dato nazionale.

I Missionari della Consolata sono presenti a La Bebida, un quartiere nella zona occidentale della città, nella parrocchia di Nuestra Señora del Rosario di Andacollo.

«È una parrocchia di periferia», spiega padre Daniel Bertea, missionario della Consolata originario della provincia di Córdoba, nella parte centro settentrionale dell’Argentina. «Una parte della popolazione vive lì da tanti anni, ma molte persone sono arrivate da altre zone periferiche di San Juan. All’inizio, chi arrivava si costruiva case di mattoni in argilla, poi il governo ha iniziato a costruire case popolari, in parte per eliminare gli insediamenti spontanei, in parte per risolvere le emergenze abitative, anche in risposta agli effetti dei terremoti, dal momento che questa è zona sismica».

La popolazione totale è di circa 30mila abitanti, per la maggior parte bambini e adolescenti, giovani coppie. Le attività economiche prevalenti sono stagionali, legate alla raccolta dell’uva, delle olive, dei pomodori. Molte persone lavorano nelle fornaci di mattoni, nell’edilizia, alcuni trovano impieghi nel settore minerario e altri hanno piccole attività in proprio, come forni o piccoli ristoranti.

«Con una popolazione proveniente da luoghi diversi e arrivate nella zona nel corso di molti anni è più difficile creare un senso di appartenenza, dove tutti si sentano parte di una stessa comunità che si interessa di loro».

A La Bebida il problema dei suicidi è particolarmente grave: nel 2022, 15 giovani si sono tolti la vita. Sono numeri elevati, se si considera che il più recente dato nazionale ufficiale disponibile@ era di 8,7 suicidi per 100mila abitanti nel 2021 e che il dato complessivo per San Juan arrivava a 10 ogni 100mila.

«Quello della salute mentale è certamente uno degli ambiti su cui vorremmo concentrarci nei prossimi mesi, collaborando con esperti del settore – psicologi, psichiatri, istituzioni sanitarie – che possano aiutarci a formulare interventi adeguati».

Altre iniziative che padre Daniel ha in mente per rispondere ai bisogni dei giovani di La Bebida riguardano il sostegno economico e l’orientamento per una decina di studenti, universitari o frequentanti scuole professionali, e l’aiuto a circa trenta giovani donne o adolescenti, incinte o già madri, spesso sole, che hanno difficoltà sia economiche che psicologiche nell’affrontare la gravidanza o la maternità.

Quanto ai bambini, l’idea sarebbe quella di portare avanti il lavoro dei cosiddetti merenderos, cioè gli spazi che forniscono assistenza alimentare gratuita a persone vulnerabili. «Spesso questi bambini hanno una dieta inadeguata, che non genera malnutrizione vera e propria ma comunque pregiudica il loro sviluppo. Per questo vorremmo continuare a sostenere i merenderos che già aiutiamo presso altre strutture e, in prospettiva, valutare l’avvio di uno nostro».

Chiara Giovetti

Immagini da La Bebida

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Mozambico e Angola: due paesi, uno stile


Raccogliamo in questo articolo le chiacchierate con padre Sisto Elias, superiore della regione Mozambico, e padre Fredy Gomez, responsabile del gruppo di missionari in Angola, che restituiscono un’immagine di un modo di fare missione basato soprattutto sulla collaborazione con le comunità locali.

Lo scorso 15 giugno è stata chiusa la sedicesima e ultima base della Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), il gruppo militare, oggi partito politico conservatore, che fra il 1977 e il 1992, nella guerra civile mozambicana, ha combattuto il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), il partito al governo di ispirazione marxista. La base si trovava a Vinduzi, nei pressi del parco nazionale di Gorongosa (provincia di Sofala), storica roccaforte della Renamo, e la cerimonia ha visto Ossufo Momade, segretario della Renamo, consegnare l’ultima arma da fuoco, un mitragliatore AK-47, nelle mani del presidente mozambicano e leader del Frelimo, Filipe Nyusi@.

Con questo atto si è concluso il processo di disarmo, smobilitazione e reintegrazione (Ddr nell’acronimo portoghese, da Desarmamento, desmobilização e reintegração), che a cominciare dal giugno 2019 ha interessato un totale di 5.221 guerriglieri (257 donne e 4.964 uomini). Durante la cerimonia, il presidente Nyusi ha assicurato che si procederà ora al pagamento delle pensioni per gli ex combattenti, molti dei quali si trovano in condizioni economiche precarie dopo la smobilitazione, almeno secondo quanto dichiarato nel 2021 a Radio France International dal presidente della Renamo, André Magibire@.

Se questo conflitto è concluso – il prossimo 4 ottobre ricorreranno i 31 anni dalla firma, a Roma, del trattato di pace fra Frelimo e Renamo – lontano dalla fine sembra quello nel nord del paese, nella provincia di Cabo Delgado, dove dal 2017 è in corso un’insurrezione armata jihadista, alla quale però molti combattenti locali hanno aderito soprattutto perché si sentono esclusi dai benefici economici derivanti dalle scoperte di minerali e idrocarburi nella zona. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, a maggio scorso risultavano nel nord del Mozambico oltre 834mila sfollati interni, mentre altre 420mila persone avevano fatto ritorno nelle zone da cui erano fuggite, di cui quasi 392mila in località all’interno della provincia di Cabo Delgado, 27mila in quella di Nampula e un migliaio nel Niassa@.

Vi sono infine gli effetti del ciclone Freddy@, che tra febbraio e marzo ha colpito principalmente il Malawi e le regioni del nord del Mozambico, peggiorando le condizioni igienico sanitarie e aggravando l’epidemia di colera che era già in corso e che, secondo i dati dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), fra l’inizio dell’anno e il 15 maggio scorso aveva fatto registrare poco meno di 90mila casi e 1.900 morti solo fra Malawi e Mozambico@.

La nuova gestione della salina

Fra le aree danneggiate dal ciclone c’è anche Nova Mambone, dove si trova la salina di Batanhe, fondata alla fine degli anni Sessanta del Novecento da padre Amadio Marchiol e da allora gestita dai missionari della Consolata@.

«La ricostruzione è ancora in corso», racconta padre Sisto Elias, missionario della Consolata mozambicano e superiore regionale al secondo mandato, «ma sarà completata in tempo per la stagione di produzione, che va da agosto a novembre». Negli ultimi due anni, la salina ha vissuto nella propria gestione un cambiamento profondo, incentrato sul metodo di lavoro che i Missionari della Consolata in Mozambico si sono dati sotto la guida di questa direzione regionale: «Abbiamo deciso di decentralizzare e investire sulle risorse locali», spiega Sisto. «Da Maputo facciamo la supervisione, garantiamo costanti visite sul campo e rimaniamo noi i responsabili in ultima istanza. Ma a portare avanti le attività sono le persone della comunità locale, sul posto».

Ora alla salina sono legate due imprese, una per la produzione e trasformazione del sale e una per la vendita all’ingrosso, così da garantire una migliore divisione del lavoro oltre che rigore nella gestione economica e nelle procedure igienico sanitarie. Rigore, precisa padre Sisto, che è lo stato mozambicano stesso a chiedere e a verificare con controlli e ispezioni.

«Produciamo e commercializziamo all’ingrosso tre tipi di sale: il Sal do Índico, che è il nostro marchio per il sale alimentare comune, il Flor do Índico, che è il fior di sale, cioè il prodotto più pregiato, e il Sal de pesca, un sale di qualità inferiore che si usa nella zootecnia oppure nella conservazione del pesce». La salina ha venti lavoratori fissi, che arrivano fino a 80-90 durante la stagione della produzione. Ma la salina rimane, come è sempre stata, un’impresa il cui fine è prevalentemente sociale: «Innanzitutto, l’attenzione è per i lavoratori, per sostenerli nei momenti di difficoltà, per garantire a loro e alle loro famiglie l’accesso all’istruzione, alla sanità. Ma non solo: i fondi per costruire la scuola primaria di Lichinga, nel Niassa, e la secondaria di Nampula sono venuti in buona parte dalla salina». E le scuole stesse sono gestite in modo decentralizzato, appoggiandosi a personale di fiducia in loco: il ruolo dei missionari è quello di effettuare frequenti visite per verificare la trasparenza nella gestione economica e l’alta qualità dell’insegnamento. «E per gli studenti le cui famiglie si trovano in condizioni di povertà estrema dimostrate, la scuola ha un sistema di borse di studio finanziate con le rette delle famiglie in grado di pagare».

Lotta malnutrizione a Capalanca in Angola

Il centro nutrizionale di Cuamba

Una simile gestione decentrata si applica anche al lavoro del centro nutrizionale che si trova nella cittadina di Cuamba, nel Niassa. Fino a qualche anno fa, il responsabile dei progetti attivi al centro nutrizionale era uno dei missionari della Consolata presente nella missione e parrocchia di Cuamba. Con la cessione della parrocchia ai sacerdoti diocesani, da circa due anni i missionari non sono più lì. «Questo ci ha costretto evidentemente a ridimensionare le attività del centro», spiega ancora Sisto, «rinunciando ad esempio ad avere una persona incaricata che prestasse servizio costante». Ma la malnutrizione è ancora presente e il centro è importante nel contrastarla. «Abbiamo deciso di mandare avanti le iniziative in sostegno ai bambini malnutriti semplicemente acquistando e stoccando in un magazzino latte in polvere e altri cibi che si conservano nel tempo e organizzando le distribuzioni alle famiglie bisognose attraverso i cristiani locali».

La presenza del centro e le sue attività di lotta alla malnutrizione si sono rivelate molto importanti per affrontare due emergenze che si sono sovrapposte nell’ultimo anno: l’arrivo da Cabo Delgado di diverse famiglie di sfollati, e le inondazioni legate al ciclone Freddy. Così, in una relazione dell’aprile scorso, padre Sisto riportava che, per far fronte ai maggiori bisogni causati da questi eventi, il centro ha collaborato con gli agenti di salute e l’Ingd (Istituto nazionale per la gestione e la riduzione dei rischi da catastrofe) per fornire assistenza alle persone ospitate in due centri di accoglienza della zona: riso, zucchero, olio, sapone, latte e farina sono stati acquistati e distribuiti a 187 famiglie con una media di 5 figli ciascuna, per un totale di 935 bambini e adolescenti, ai quali è stato assicurato l’apporto nutrizionale indispensabile.

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi

Maúa, l’eredità di padre Frizzi

Il lavoro di padre Giuseppe Frizzi che, a partire dal 1987, ha studiato e sistematizzato il patrimonio etnolinguistico del popolo Macua Xirima@, continua a essere valorizzato e promosso dai suoi confratelli in Mozambico anche attraverso l’avvio di collaborazioni con entità come la Fondazione Fernando Leite Couto, dedicata al padre del noto scrittore e giornalista mozambicano Mia Couto. «Per prima cosa, la Fondazione ci aiuterà a far sì che tutto il materiale di padre Frizzi – libri e altri scritti – contenuti nel centro studi di Maúa ricevano i necessari riconoscimenti di legge riguardo alla proprietà intellettuale. Poi si cercherà di rendere più fruibili le parti del lavoro del Centro studi che hanno riguardato la filosofia e l’antropologia, separandole da quelle incentrate sulla teologia, in modo da creare testi, saggi, raccolte che possano essere usati per l’approfondimento in ambito accademico o della ricerca in generale».

Altra novità che riguarda il Centro studi Macua Xirima è il trasferimento della sua parte museale a Massangulo, dove c’è un’altra presenza dei missionari della Consolata. Massangulo è più vicina alla strada, meno isolata di Maúa, conclude padre Sisto, e lì un museo sarà più facilmente raggiungibile dai visitatori.

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi

Angola, potenziale inespresso

L’Angola è un paese dal potenziale enorme dal punto di vista economico: sedicesimo produttore al mondo di petrolio@, settimo di banane, ottavo di cassava@, l’Angola si trova però al 148° posto per indice di sviluppo umano e ha un prodotto interno lordo pro capite di 6.491 dollari americani (quello dell’Italia è di 46.385)@.

«Una parte del problema», spiega padre Fredy Alberto Gómez Pérez, missionario della Consolata colombiano e responsabile della comunità di sette missionari attivi in Angola, «è anche il fatto che molti angolani ritengono l’agricoltura un’attività non dignitosa, preferendole altri lavori come l’insegnante, il funzionario pubblico, l’impiegato». Questo approccio delle persone non è ovviamente la sola causa del mancato sviluppo socioeconomico del paese che, come il Mozambico, ha vissuto fra il 1975 e il 2002 quasi tre decenni di guerra civile, i cui segni sul tessuto produttivo oltre che sulla società e sull’ambiente richiedono molto tempo per essere cancellati.

Cappella di Luacano all’inizio dell’avventura missionaria in Angola

Giovane missione

Come in tutte le presenze della Consolata di più recente fondazione, il lavoro dei missionari procede in modo molto graduale e si colloca in zone ai margini, di confine, si tratti delle periferie urbane, delle aree a cavallo fra città e campagna o dell’entroterra più remoto. «I Missionari della Consolata sono arrivati in Angola nell’agosto 2014 e oggi lavorano in tre ambiti con caratteristiche molto diverse tra loro», racconta padre Fredy. «La prima parrocchia che l’allora vescovo della diocesi di Viana, monsignor Joaquim Ferreira Lopes, ci ha affidato è stata quella di Santo Agostinho, a Bairro Capalanca, alla periferia della capitale Luanda. Un anno e mezzo dopo abbiamo rilevato la parrocchia di Nossa Senhora da Consolata nella zona di Funda, che si trova poco fuori Luanda ed è una realtà per metà urbana e per metà rurale. La terza presenza è presso la parrocchia di Santa Maria Mãe de Deus, nel comune di Luacano», che si trova oltre 1.300 chilometri a est, a circa due ore dal confine con la Repubblica democratica del Congo: «Luacano è veramente una realtà ad gentes», sottolinea Fredy, «in mezzo alle savane intorno al lago Dilolo» (su Luacano vedi MC di maggio 2023@).

In questo momento il lavoro dei missionari, oltre che all’evangelizzazione, si rivolge agli ambiti della salute e dell’istruzione: piccoli progetti di assistenza ai bambini malnutriti, creazione di equipe di pastorale sanitaria, formazione per i giovani che non frequentano la scuola. A Luacano, inoltre, i missionari hanno cercato di migliorare i servizi di base anche fornendo acqua alla comunità locale attraverso pozzi e formando gli adulti con programmi di alfabetizzazione.

Per gli anni a venire, i missionari contano di riuscire a dare alle attività un carattere più strutturato. Un annoso problema che accompagna da sempre il loro lavoro è quello di doversi dotare di spazi dove sia possibile organizzare e dare continuità alle iniziative che portano avanti.

«Il progetto del Centro sociale Santo Agostinho» nel Bairro Capalanca di Luanda, spiega padre Fredy, «è nato come risposta più elaborata e sistematica alle sfide di cui parlavo sopra, perché per realizzare tutti gli altri progetti, sia di carattere sociale che di evangelizzazione, abbiamo bisogno di uno spazio adeguato». Servono uno studio medico per assistere i malati e monitorare lo sviluppo dei bambini, una cucina per preparare il cibo e un refettorio per servire il pasti offerti agli anziani seguiti dalla Caritas parrocchiale, stanze per la formazione e la catechesi.

«Dopo una lunga attesa si è deciso di iniziare i lavori con un fondo ricavato accantonando le offerte dei fedeli, ma da soli non riusciremo a terminare i lavori nei tempi desiderati per rispondere alle urgenze che abbiamo». Per questo padre Fredy si è rivolto a Missioni Consolata Onlus per ottenere aiuto nella ricerca di fondi, proponendo un progetto dal costo complessivo di circa 95mila euro.

Chiara Giovetti

Arte Macua a Maua in Mozambico su stimolo di padre Frizzi




MCO. Il bilancio sociale, per conoscersi meglio


Lo scorso mese Missioni Consolata Onlus ha pubblicato il bilancio sociale 2022. Anche quest’anno, redigerlo è stata un’occasione per conoscere e far conoscere meglio il nostro lavoro, per migliorare la comunicazione interna e per soffermarsi su alcuni progetti significativi.

Il 2022 è stato un anno positivo per Missioni Consolata Onlus, che ha registrato un aumento di donazioni ricevute intorno al 6%. Lo si può leggere nel bilancio sociale 2022, pubblicato sul sito di Mco a fine giugno.

Scuola e sanità prima di tutto

La distribuzione delle donazioni per ambito di intervento ricalca abbastanza quella dei due anni precedenti, con le iniziative per sanità e istruzione a rappresentare da sole quasi il 40% del totale. Caratterizzata dal lavoro
dei quattro grandi ospedali (Ikonda e Makiungu in Tanzania, Wamba in Kenya e Neisu in Rd Congo) e dei due centri di salute (Dianra e Marandallah in Costa d’Avorio) in Africa, la sanità ha ricevuto 854mila euro (22,7% del totale), mentre l’istruzione – dall’asilo all’università – ha ottenuto quasi 657mila euro (17,5%).

Intorno al 3% si collocano poi le attività con i popoli indigeni, gli interventi che mirano a creare sviluppo economico e le iniziative che garantiscono alle comunità locali l’accesso a fonti d’acqua pulita e affidabile.

Questi tre ambiti hanno raccolto rispettivamente 124mila, 118mila e 117mila euro, mentre la formazione professionale, cioè quelle attività formative che forniscono competenze a persone che si trovano ormai al di fuori di un percorso scolastico – corsi di sartoria, informatica di base, gastronomia, e simili – hanno ottenuto 28mila euro, lo 0,8%.

Emergenze quotidiane

Una voce consistente è certamente quella che raggruppa ambiti non riconducibili a quelli già menzionati e che ha ottenuto un sostegno complessivo di 534mila euro, il 15% del totale.

All’interno di questa voce, il 2022 ha visto un robusto sostegno alle attività a carattere religioso, fra cui la costruzione o ristrutturazione di chiese, la copertura dei costi di formazione dei nuovi missionari nei seminari, la fondazione di una nuova missione, la formazione permanente dei missionari di ogni età. La maggiore novità del 2022 all’interno di questo gruppo di ambiti è invece la realizzazione di interventi di emergenza in sostegno ai rifugiati ucraini, prima solo in Polonia poi anche in Ucraina.

Le spese di amministrazione e funzionamento  della Onlus sono state pari al 12,5% del totale (469mila euro)

Il sostegno generico è stato di 314mila euro, l’8,4%. Si tratta, in quest’ultima voce, di un tipo di aiuto che è difficile ricondurre alla logica dei progetti o, comunque, degli interventi strutturati e organizzati, perché sostiene quella parte del lavoro dei missionari che consiste nell’assistenza immediata a persone che affrontano una difficoltà improvvisa e temporanea: un (o, più spesso, una) capofamiglia che perde il lavoro, un malato che non può pagare le cure mediche e tantomeno i farmaci necessari, un contadino o un pastore che ha perso tutto a causa della siccità o di razziatori. Piccole e grandi emergenze quotidiane che le persone affrontano anche bussando alla porta della missione per chiedere aiuto e, quasi sempre, cercando di ricambiare appena è loro possibile.

Congo, progetti salute

Ospedale di Neysu, Congo RD (AfMC)

La Repubblica democratica del Congo è, fra i Paesi di missione, il secondo per offerte ricevute: quasi 532mila euro, dopo i 955mila della Tanzania. È anche il paese in cui si sono svolti tre dei sei progetti in evidenza, interventi significativi che nel bilancio sociale illustrano ciascun ambito di intervento.

Il progetto dell’ambito salute è in realtà un insieme di interventi che si sono svolti all’ospedale di Neisu, nella provincia dell’Alto Uélé, Congo orientale. Hanno interessato la cardiologia, la maternità e l’ortopedia, oltre al trasporto di operatori e pazienti.

«La cardiologia è completa», confermava a maggio da Neisu il responsabile dell’ospedale, Ivo Lazzaroni, laico missionario della Consolata. «Facciamo una trentina di elettrocardiogrammi al mese mentre gli esami eco-doppler per ora sono meno e quasi solo per pazienti che vengono da Isiro», il capoluogo, 70 chilometri più a ovest: «Il costo dell’esame, 25mila franchi congolesi (circa 12 euro), dissuade tante persone dei villaggi qui in foresta».

Ma la sensibilizzazione dei pazienti sul ruolo della prevenzione nelle malattie del sistema cardiovascolare, che la dottoressa e le due infermiere formate a Kinshasa affiancano al lavoro di diagnosi e cura, sta iniziando a dare frutti: «Qui si usa tanto olio di palma e sale, per cui le ipertensioni sono frequenti. Le persone, però, stanno iniziando a capire: lo vediamo anche dal fatto che sempre più spesso decidono di comprare i farmaci per le malattie cardiovascolari che vengono loro prescritti, anche se hanno un costo elevato per il livello di reddito locale».

La maternità ha poi ricevuto una seconda incubatrice, «perché la precedente non funzionava più e non è stato possibile ripararla. È una grazia di Dio: ci sono dei bambini nati prematuri o sottopeso che ne hanno davvero bisogno». Ivo sta attivandosi per procurarne un’altra, perché quella attuale deve a volte ospitare più di un bambino.

Infine, la formazione in chirurgia ortopedica e traumatologia, che un medico e un infermiere dell’ospedale stanno seguendo a Kinshasa, permetterà di trattare con più efficacia i pazienti con fratture. «Molti di loro», dice Ivo, «se le procurano cadendo dalle palme, dove salgono a raccogliere i frutti per produrre l’olio. Se si rompe un ramo, o si incontra un serpente, si possono fare cadute disastrose. Se riescono a sopravvivere, i pazienti si trovano con fratture scomposte che non solo devono essere operate, ma richiedono mesi di fisioterapia». Il costo totale di questi interventi, che include anche l’acquisto di sei piccole moto per il personale sanitario dei centri periferici e per il trasporto dei pazienti, è stato di circa 44mila euro.

Baayanga, bambini pigmei a scuola (AfMC/Flavio Pante)

Scuola a Bayenga, mattonelle a Kinshasa

Sempre in Congo, padre Flavio Pante sta avviando la costruzione di una scuola a Bayenga, 140 chilometri circa a sud est di Isiro. Qui i Missionari della Consolata lavorano dagli anni Novanta con i Pigmei bambuti, per favorirne il dialogo, storicamente difficile, con la popolazione di etnia bantu e accompagnarne il percorso di ricerca di un modo di vita che rispetti la loro cultura e il loro legame con la foresta ma, allo stesso tempo, non li escluda dalla partecipazione alla vita della società congolese, fatta più di sedentarietà e di agricoltura che di nomadismo e caccia.

«Non sono uno da grandi progetti», scherzava in una lettera padre Flavio lo scorso maggio, «vado avanti con quello che ho, secondo la realtà del posto e i suoi tempi». Con l’aiuto di familiari, donatori privati, enti ecclesiali e organizzazioni amiche, padre Pante ha raccolto 9mila euro con cui costruirà nove classi che possono contenere fino a 80 allievi l’una, «limite posto dal regolamento scolastico del Congo. Ora più della metà del totale degli allievi è ospitato in un’altra scuola con orari a turni, ma stanno stretti e vivono diversi disagi». Le aule saranno in legno con tetti di lamiera e pareti in fango, rivestite di cemento per riparare le classi da vento e pioggia. «Sempre se il cemento sarà accessibile», precisa padre Flavio: perché «la situazione del Kivu», dove sono in corso violenti scontri fra l’esercito congolese e i ribelli del gruppo M23@, «porta per noi grosse difficoltà negli approvvigionamenti e un grande aumento nei prezzi».

A Kinshasa, nel quartiere di Mont Ngafula, padre César Balayulu ha infine realizzato con 2mila euro un microprogetto di recupero delle bottiglie di plastica, che vengono sciolte per produrre mattonelle da pavimentazione. «L’idea mi è venuta guardando un’iniziativa simile portata avanti dai gesuiti non lontano dalla nostra missione», spiegava a maggio padre César. «Vista la quantità enorme di bottiglie disperse nell’ambiente a Kinshasa, ho deciso di coinvolgere trenta persone fra giovani e donne della zona e cominciare». Questo potrebbe essere un progetto pilota, da ampliare almeno con l’acquisto di un apposito forno elettrico chiuso, per ridurre al minimo le esalazioni derivanti dallo scioglimento della plastica, spiega César. «I risultati sono incoraggianti: i torrenti d’acqua che si formavano nella zona intorno alla parrocchia con le violente piogge tropicali, prima scavavano il terreno. Da quando abbiamo messo il pavé fatto con la plastica delle bottiglie, l’erosione si è molto ridotta». Non solo, aggiungeva padre David Bambilikpinga Moke, superiore regionale del Congo: «Non trovando più le bottiglie a ostruire canali e fossi, durante le piogge, l’acqua defluisce più facilmente verso il fiume».

Distribuzione di cibo donato dai Missionari della Consolata in Polonia ai Frati Francescani Albertini di Zaporizia (AfMC/Luca Bovio)

La Polonia e l’emergenza Ucraina

Sin dai primi giorni di marzo 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina e la fuga di milioni di persone nei paesi limitrofi, i Missionari della Consolata in Polonia hanno cominciato a organizzare l’accoglienza per i profughi, in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita in Łomianki vicino a Varsavia e la Caritas. Nei mesi successivi sono poi cominciate anche le missioni per portare aiuti in territorio ucraino. Padre Luca Bovio, missionario della Consolata in Polonia, ha partecipato a queste missioni insieme a don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la Conferenza episcopale polacca: grazie anche ai 51mila euro raccolti da Mco, padre Luca, don Leszek e le tante persone che hanno collaborato con loro, sono riusciti a portare cibo, prodotti per l’igiene, generatori nelle città di Kijew, Charnichow, Karkiw, Dniepr, Zaporiza, Kherson, Mikolaj, Odessa, Leopoli@.

A maggio scorso padre Luca Bovio, confermava il persistere della situazione di emergenza, specialmente nelle zone prossime al fronte. «Non ci sono più spostamenti di persone verso la Polonia, ma continuano quelli interni all’Ucraina, anche perché il governo invita le persone che vivono vicine alle zone di scontri a spostarsi». Non tutti, però, raccolgono l’invito, perché non se la sentono di lasciare i luoghi dove sono nati e cresciuti, ma anche perché la primavera è tempo della semina, e mancarla significa trovarsi senza provviste il prossimo inverno. «Così, in occasione di un viaggio nei pressi del fronte mi è capitato di assistere a scene quasi surreali, con i missili russi che cadevano a 500 metri da me mentre, a due chilometri nella direzione opposta, un contadino arava la terra sul suo trattore». Non ci sono lati positivi nella guerra, conclude padre Luca, ma la solidarietà che è emersa in questi mesi con la mobilitazione di così tante persone fra Polonia, Italia, Usa, Canada, aiuta tanto e dà speranza.

Bambini a colazione nel Baixo Cotingo ( AfMC/foto Francesco Bruno)

Acqua e popoli indigeni

Fra i progetti per garantire alle comunità l’accesso all’acqua c’è lo scavo di un pozzo artesiano che si sta svolgendo a Baixo Cotingo, nella Terra indigena Raposa Serra do Sol (stato di Roraima, Brasile), dove la siccità degli ultimi anni priva la comunità di Camará dell’acqua durante l’estate, mentre d’inverno il sistema di canali che porta l’acqua a valle dalle montagne vicine è spesso bloccato da foglie e detriti.

«Il pozzo artesiano è già stato perforato a una profondità di 64 metri», scriveva a maggio padre Jean-Claude Bafutanga, missionario della Consolata, «e ha fornito acqua sufficiente per l’intera comunità indigena di Camará, che ora può bere e utilizzare acqua pulita e potabile, non contaminata dal mercurio usato nell’estrazione mineraria illegale ancora in corso nella zona»@.

Il lavoro con i popoli indigeni del Venezuela, infine, continua ad accompagnare i Warao nell’affrontare le tante difficoltà legate alla più generale situazione del Paese@ e alla particolare condizione di emarginazione delle comunità indigene (cfr. articolo pag 10).

«Lo Stato venezuelano ha praticamente abbandonato le scuole delle comunità che vivono nella zona del reticolo di canali e corsi d’acqua minori (caños) del fiume Orinoco», scriveva lo scorso aprile padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata nella missione di Nabasanuka e responsabile del progetto. Andare a scuola in queste zone è già peraltro molto complicato: «A causa delle grandi distanze, che devono essere coperte in curiara (canoa), insegnanti e bambini sono spesso assenti dalle lezioni».

A questo si aggiungono le difficoltà economiche di molte famiglie, costrette a rivolgersi alla missione per avere vestiti usati; e la mancanza di igiene combinata con l’assenza di strutture sanitarie adeguate e farmaci in grado di contrastare la diffusione di malattie come amebiasi e altri parassiti intestinali, infezioni della pelle, delle vie respiratorie, delle vie urinarie, micosi.

Il progetto Dignità per il popolo warao, si concentra su tre linee strategiche: alfabetizzazione, attività generatrici di reddito e salute. Finanziato da donatori privati con 5mila euro nel 2022, cerca di sopperire alle mancanze del sistema educativo con la distribuzione di materiale scolastico e la trasmissione del sapere tradizionale dagli anziani ai bambini. Fornisce inoltre formazione a 80 donne in tecniche sartoriali e sensibilizzazione su temi igienico sanitari per promuovere la prevenzione e la conoscenza delle piante officinali.

Chiara Giovetti

 




Scuola, ancora un sogno per troppi bambini


L’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 4 non sarà raggiunto entro il 2030. Questa è la conclusione a cui si giunge consultando i più recenti dati Unesco. La pandemia ha rallentato l’impegno per assicurare la scuola a tutti, ma di fatto il calo era già in atto.

Secondo le più recenti stime delle Nazioni Unite@, sono 244 milioni i bambini e ragazzi di età compresa fra i 6 e i 18 anni che non vanno a scuola. Il numero più alto di questi, circa 98 milioni, è in Africa subsahariana, mentre altri 85 milioni vivono in Asia centrale e meridionale. I quattro Paesi con i dati più negativi sono Pakistan e Nigeria, ciascuno con circa 20 milioni di bambini e adolescenti non scolarizzati, seguiti dall’Etiopia, con 10,5 milioni, e dalla Repubblica democratica del Congo, con 6 milioni.

Rispetto ai cicli di studi, la mancata scolarizzazione interessa 67 milioni di bambini della primaria (di età fra i 6 e gli 11 anni), 56 milioni della secondaria di primo grado (12-14 anni) e 121 milioni della secondaria di secondo grado (15-17 anni).

La prima scuola operata dai missionari della Consolata a Tuthu, Kenya, nel 1902 (AfMC/Filippo Perlo).

La situazione è senza dubbio migliorata rispetto all’inizio del millennio, quando i bambini che non andavano a scuola erano oltre 400 milioni, ma gli studi più recenti dell’Unesco@ rilevano che, di questo passo, nel 2030 ci saranno ancora 84 milioni di bambini e ragazzi non scolarizzati, il 5% del totale. Lo studio, che si basa sui dati forniti dagli Stati e sugli indici di riferimento che essi si sono dati in modo volontario per misurare il loro avvicinamento agli obiettivi, riporta anche che meno di due bambini su tre finiranno la primaria e raggiungeranno il livello minimo di competenze nella lettura: in altre parole, 300 milioni di bambini non sapranno leggere come dovrebbero alla fine del ciclo primario di studi. Secondo questi dati, è chiaro che l’umanità mancherà il quarto obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che mirava a «garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti».

Covid, collasso nascosto ma enorme

La pandemia da Covid-19 ha avuto un ruolo sia nel rallentare i progressi sia nell’impedire la raccolta dei dati per monitorarli. Secondo un rapporto della Banca mondiale di febbraio scorso@, nei paesi a basso e medio reddito, 1,3 miliardi di bambini hanno perso almeno sei mesi di scuola, 960 milioni hanno saltato almeno un anno intero e 711 milioni un anno e mezzo o più.

Le scuole sono state chiuse più a lungo in America Latina, nei Caraibi e in Asia meridionale, ma ci sono state notevoli variazioni nella durata della chiusura da un Paese all’altro all’interno della stessa subregione. Ad esempio, tra aprile 2020 e marzo 2022 le scuole sono state chiuse per 61 giorni in Tanzania, ma per 448 giorni in Uganda; per 107 giorni in Marocco, ma 326 giorni in Arabia Saudita; e 47 giorni in Vietnam, ma 510 giorni nelle Filippine.

Una volta entrata in vigore la chiusura delle scuole, quasi tutti i sistemi educativi sono passati alla didattica a distanza; ma, a livello globale, più di due terzi dei bambini di età compresa tra 3 e 17 anni (1,3 miliardi di persone) non hanno internet a casa.

Effetti da valutare

Arvaiheer, Mongolia (AfMC)

L’impatto sull’istruzione del Covid-19 e delle restrizioni collegate richiederà ancora anni per essere completamente valutato; tuttavia, avverte la Banca mondiale nel rapporto, alcuni danni sono già evidenti. Oltre a riportare 70 milioni di persone sotto la soglia della povertà, la pandemia ha determinato un collasso tanto nascosto quanto enorme nel capitale umano delle persone più giovani, colpendole in un momento cruciale del loro sviluppo. Milioni di bambini non hanno ricevuto adeguata assistenza sanitaria, ad esempio mancando gli appuntamenti per le vaccinazioni più importanti.

Hanno poi dovuto affrontare maggiore stress negli ambienti e contesti che sarebbero deputati alla loro cura, subendo a volte anche abusi domestici e vedendo peggiorare la loro nutrizione. Tutto questo ha comportato una diminuzione nel rendimento scolastico e un rallentamento dello sviluppo sociale ed emotivo: un mese di chiusura si è tradotto in un mese di conoscenze perdute, in alcuni casi anche di più, come è successo nel Bangladesh, dove 14 mesi e mezzo di chiusure si sono tradotti in 26 mesi di apprendimento perso.

Per dare una misura concreta di questi dati, il rapporto cita l’esempio di una bambina di 10 anni che all’inizio della pandemia sapeva fare somme e sottrazioni e avrebbe poi dovuto imparare moltiplicazioni e divisioni. A causa dei mesi di scuola persi, non solo non ha imparato queste nuove abilità, ma ha anche dimenticato come si somma e sottrae.

È difficile prevedere come questa mancata formazione, se non recuperata, si ripercuoterà sulle vite dei bambini; tuttavia, basandosi sull’analisi degli effetti di precedenti eventi catastrofici, la Banca mondiale stima che i ritardi nell’apprendimento, una volta che questi bambini entreranno nel mercato del lavoro, potrebbero tradursi per loro in redditi fino a un quarto più bassi di quanto sarebbero stati in assenza della pandemia.

Scuola per bambini yanomami al Catrimani, Roraima (AfMC/foto C. Giovetti)

Non solo pandemia

Eppure, dicono ancora le stime dell’Unesco@, i progressi verso l’obiettivo 4 erano già rallentati prima della pandemia, e questo soprattutto riguardo agli adolescenti. Utilizzando un modello che combina i dati amministrativi forniti dagli Stati con indagini a campione presso i nuclei familiari, l’agenzia Onu conclude che la riduzione dell’abbandono scolastico fra i ragazzi della scuola secondaria inferiore (più o meno le medie italiane) è stata del 9% nel primo decennio di questo secolo e solo del 2% dal 2010 al 2020.

L’Africa subsahariana non è solo la regione con il più alto numero di bambini non scolarizzati, ma anche l’unica regione in cui questo dato è in crescita. Dal 2009 la quota di bambini che non fre­quenta la scuola è aumentata di 20 milioni, raggiungendo i 98 mi­lioni nel 2021, e sfiora i 100 mi­lioni nelle proiezioni per il 2023.

La disparità di genere è quasi scomparsa a livello globale e, anzi, rispetto al dato della mancata scolarizzazione ora le proporzioni sono invertite: 125 milioni di bambini non vanno a scuola, a fronte di 118 milioni di bambine.

Ma gli ostacoli verso il raggiungimento dell’obiettivo di sviluppo sostenibile sull’istruzione continuano a essere molti, ad esempio i disastri legati al clima, che nel 2021 hanno causato 23,7 milioni di sfollati. Gli studi sull’accesso all’istruzione per gli sfollati a causa del clima, lamenta l’Unesco, sono ancora molto pochi e rendono queste persone una categoria invisibile@, nonostante affrontino difficoltà molto simili a quelle dei rifugiati.

Lo scorso aprile, per i paesi a basso e medio reddito, il deficit di finanziamento per raggiungere l’obiettivo 4 era di poco meno di 100 miliardi di dollari. Anche ipotizzando che i Paesi donatori onorassero la promessa di destinare all’aiuto allo sviluppo lo 0,7% del Pil e dessero priorità agli interventi nell’ambito dell’istruzione, due terzi di questo deficit resterebbero comunque scoperti. Per questo, ha precisato la vicedirettrice dell’Unesco, Stefania Giannini, è necessario lavorare con le realtà fiscali dei vari Paesi@.

Chiara Giovetti


Come cooperavamo

Mgololo, giugno 1973

Mgololo si trova nella Tanzania centromeridionale, quasi al confine fra le regioni di Iringa e Morogoro, e nel giugno del 1973 era una delle ventotto missioni della diocesi di Iringa. Ci lavorava padre Francesco Cravero, nato nel 1923 a Cavallermaggiore, Cuneo, e fondatore nel 1968 della missione di Mgololo. La scuola, come dice l’«Appello dal fronte»@ qui sopra, era una sua idea fissa. «Le lavagnette e i gessetti sono giunti sin qui prima del mio arrivo», scriveva nell’articolo che accompagnava l’appello, ed erano anche «nate alcune scuolette: un capannone, o il più delle volte un albero frondoso sotto il quale si teneva la lezione. Il maestro era un giovanotto munito di licenza elementare». Con il tempo, le scuole cappelle e altre strutture di fortuna si erano moltiplicate e, constatava il missionario, occorreva «fare un passo avanti».

Al momento dell’appello, padre Cravero aveva già messo in piedi due aule scolastiche grazie alla collaborazione di un gruppo di Torino e l’attività didattica si svolgeva da quattro anni. Ma lo spazio era insufficiente: occorrevano al più presto altre aule, per evitare che i ragazzi della quarta elementare fossero costretti ad abbandonare gli studi. Per l’ampliamento, scriveva il missionario, «è sufficiente presentare un piccolo progetto, assicurare la decisa volontà di cooperazione da parte della popolazione e il governo darà il suo benestare, inviando sul posto un maestro diplomato».

La popolazione avrebbe collaborato procurando le travi per il tetto e la legna per la cottura dei mattoni, mentre ai suoi benefattori il missionario chiedeva tre milioni di lire per costruire tre aule e una casa per gli insegnanti.

«Nel Tanzania di oggi», scriveva, «l’indirizzo programmatico dell’Ujamaa, che vuole fondare la vita del villaggio […] sulla corresponsabilità fattiva di tutti i membri, non può non concordare con il missionario che, mediante la scuola, si fa promotore del progresso comunitario. La scuola non sarà del missionario, come avveniva nel passato, ma del villaggio, ed i primi responsabili saranno i genitori degli allievi e tutta la comunità».

La scuola di Makungu a Mgololo, riporta padre Erasto Mgalama dalla Tanzania, fu poi ceduta dai missionari della Consolata al governo tanzaniano ed esiste ancora. È ora in costruzione un altro edificio, che sorge dove prima c’era quello eretto da padre Cravero, che era in cattive condizioni e purtroppo non è stato possibile ristrutturare per conservare la memoria storica: si è preferito demolirlo e costruirne uno nuovo. La scuola ha 569 studenti, che agli esami risultano sempre fra i migliori della zona.

Chi.Gio.

Mgololo 2023


20 giugno: Giornata mondiale dei rifugiati

Dei 20,7 milioni di rifugiati seguiti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), 7,9 milioni sono bambini in età scolare. Di questi, quasi la metà non va a scuola.

Due terzi dei rifugiati vengono da cinque Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. Oltre otto rifugiati su dieci sono ospitati da Paesi a basso e medio reddito, e in tre casi su quattro si tratta di Paesi confinanti con quello dai quali i rifugiati sono fuggiti.

Al 25 aprile 2023 il numero stimato di singoli rifugiati che sono fuggiti dall’Ucraina dal 24 febbraio 2022 ed erano presenti nei Paesi europei, era pari a poco meno di 8,2 milioni.

Considerando anche i 53,2 milioni di sfollati interni nel mondo, i 4,6 milioni di richiedenti asilo (cioè coloro che stanno aspettando una risposta alla loro richiesta di essere riconosciuti come rifugiati) e i 4,4 milioni di sfollati venezuelani, il totale delle persone che hanno dovuto lasciare le loro case superava alla fine del 2021 gli 89 milioni. Le cause dell’allontanamento sono persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico@. Questo 20 giugno sarà la 22a giornata mondiale dei rifugiati, che fu celebrata per la prima volta nel 2001, anno del 50o anniversario della Convenzione sullo statuto dei rifugiati, o Convenzione di Ginevra del 1951@.

Chi.Gio.

Il mondo visto dala scuola di Iguachanya, Tanzania (AfMC)




Freddy, un cyclone lungo un mese


Il ciclone Freddy ha colpito Malawi, Mozambico e Madagascar tra febbraio e marzo, e ha causato centinaia di vittime, travolto case e inondato campi. Ma ha anche distrutto centri sanitari e sistemi idrici in paesi che già erano in grande difficoltà a causa di un’epidemia di colera.

È durato più di un mese il ciclone Freddy, dal 4 febbraio al 14 marzo 2023, affermandosi come uno dei più lunghi di sempre, e ha colpito l’Africa sudorientale provocando 499 vittime in Malawi, 165 in Mozambico e 17 in Madagascar.
Si è formato sull’Oceano indiano, al largo della costa nordoccidentale dell’Australia, e ha percorso ottomila chilometri toccando terra una prima volta in Madagascar il 21 febbraio, e poi di nuovo il 24 febbraio e l’11 marzo in Mozambico@.
Secondo il Sistema globale di allerta e coordinamento in caso di catastrofi, struttura nata da una collaborazione fra Nazioni Unite, Unione europea ed Eurosat, i venti sono arrivati a 250 chilometri all’ora nel tratto a est delle Mauritius@, e intorno ai 170 chilometri orari all’approdo in Madagascar e nel secondo approdo in Mozambico. La popolazione in qualche modo esposta agli effetti del ciclone è stata di 2,9 milioni di persone.

Nei giorni successivi al dissiparsi del fenomeno, gli sfollati in Malawi avevano superato il mezzo milione, mentre in Mozambico erano oltre 163mila le persone ospitate in vari centri di accoglienza nelle province di Zambezia, Sofala, Tete, Inhambane e Niassa@.

«Per quanto riguarda la nostra zona», scriveva lo scorso marzo monsignor Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata e vescovo di Tete, «nei distretti di Doa e Mutarara, nelle pianure e sulle sponde dei grandi fiumi, molte persone hanno perso la casa, hanno perso tutto. Centinaia di edifici sono crollati a causa della forza del vento e della pioggia. La situazione peggiore è l’alluvione provocata dall’esondazione dei fiumi Chire e Zambesi: l’intera regione è allagata, compresi i campi coltivati. Le strade sono interrotte, così come la ferrovia Beira-Tete».

Epidemia di colera

Il ciclone si è abbattuto su Malawi e Mozambico quando entrambi i paesi stavano affrontando un’epidemia di colera, cominciata a marzo 2022, e ha complicato le operazioni di contrasto alla diffusione dell’infezione, anche perché molte strutture sanitarie hanno subito danni.

Il dipartimento per la gestione delle catastrofi del Malawi segnalava@ infatti 81 strutture danneggiate, di cui 74 funzionanti ma non accessibili e 7 in cui il servizio era sospeso. In Mozambico, secondo l’Istituto nazionale di gestione e riduzione del rischio di catastrofi, i centri sanitari danneggiati erano 53, di cui 50 nella sola Zambezia@.

L’epidemia di colera in corso è definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) come la peggiore nella storia del Malawi. Lo scorso marzo Ifrc Go, la piattaforma della Croce rossa e Mezzaluna rossa internazionale per l’informazione sulle emergenze, riferiva che erano 54.677 le persone colpite dalla malattia nei precedenti 12 mesi trascorsi dal primo caso registrato (3 marzo 2022) e le vittime erano state 1.682@.

Quanto al Mozambico, il portale di informazione umanitaria Reliefweb riportava che la cifra cumulativa delle persone colpite dal colera dall’inizio dell’epidemia era di 11.158 in otto province, con un aumento di 479 casi in un solo giorno; le vittime erano state fino a quel momento 51. Dei 38 distretti colpiti dal colera, 37 segnalavano un focolaio ancora attivo e gli operatori umanitari impegnati sul campo si dicevano preoccupati anche di un possibile aumento delle malattie trasmesse attraverso l’acqua, come la diarrea e la malaria.

Ciclone e colera

L’Oms ha diffuso un avvertimento che descrive l’attuale epidemia di colera come una pandemia che mette a rischio un miliardo di persone in 43 paesi. Nel complesso, i casi in Africa sono stati circa 80mila in 15 paesi nel 2022 e, a gennaio di quest’anno, erano già 26mila in dieci paesi. Le vittime sono state 1.863 l’anno scorso e 660 quest’anno.

La diffusione del colera sembra a sua volta avere un legame con un precedente fenomeno meteorologico estremo, la tempesta tropicale Ana, che ha colpito il Malawi nel gennaio dell’anno scorso. Janet Kayita, rappresentante dell’Oms a Lilongwe, ha detto alla rivista The Lancet Microbe che «le piogge torrenziali e le inondazioni» causate da quel ciclone, così come «i danni estesi ai sistemi idrici e sanitari e il sovraffollamento, hanno creato le condizioni perfette per un’epidemia di colera»@.

Il colera, infatti, è una malattia provocata da un batterio, il vibrio cholerae (vibrione del colera), che si trasmette attraverso l’ingestione di acqua o cibo contaminati dal materiale fecale di individui infetti.

Scarse condizioni igieniche, assenza di impianti fognari adeguati e mancanza di acqua potabile, dunque, sono elementi che aumentano il rischio di contagio.

Inoltre, nel trattamento della malattia, che ha come principale sintomo la diarrea e provoca una rapida disidratazione, è fondamentale avere accesso ad acqua pulita per permettere la reintegrazione dei liquidi e dei sali persi. Per questo, la distruzione dei sistemi idrici, conseguente a un evento estremo come un ciclone, non solo aumenta le probabilità di contagio ma rende più difficile curare le persone che si sono infettate@.

Quattro cicloni in cinque anni

Freddy è il più recente dei fenomeni estremi che hanno colpito queste zone. Soltanto negli ultimi cinque anni ce ne sono stati una decina, di cui almeno cinque hanno provocato vittime e sfollati e creato danni a edifici e infrastrutture per decine di milioni di dollari.

Nel 2019 i due cicloni Idai e Kenneth hanno causato almeno mille morti e costretto 2,2 milioni di persone a sfollare, risultando così uno dei peggiori disastri naturali in Africa meridionale dall’inizio del secolo.

Nel 2021 ci sono state due tempeste tropicali, Chalane e Eloise, mentre nel 2022 la regione è stata colpita dalla tempesta tropicale Ana approdata in Mozambico il 24 gennaio 2022, e dal ciclone Gombe, a marzo dello stesso anno.

Dopo Idai e Kenneth, anche Missioni Consolata onlus ha sostenuto la ricostruzione di alcune delle case andate distrutte a Tete@.

«Anche stavolta c’è bisogno di tutto, cibo compreso», ha detto a marzo monsignor Antunes a proposito degli effetti del ciclone di quest’anno, «ma soprattutto è urgente pensare al dopo e mettere le persone in condizione di avere una seconda stagione di semina: dobbiamo fornire loro sementi il prima possibile, così che possano iniziare a coltivare appena le inondazioni saranno finite».

Un freno allo sviluppo

Il Mozambico, riportano ormai in modo abbastanza unanime diversi studi, è uno dei paesi più esposti agli effetti del cambiamento climatico@. La frequenza degli eventi estremi è aumentata negli ultimi anni e, stimava la Banca mondiale già nel 2019@, il paese potrebbe perdere 440 milioni di dollari all’anno soltanto per le inondazioni.

L’impatto del ciclone Freddy non è ancora stato calcolato in modo definitivo, ma Idai e Kenneth combinati avevano causato danni e perdite per 3 miliardi di dollari e avevano imposto costi di ricostruzione per 4,3 miliardi di dollari, in uno stato il cui prodotto interno lordo nel 2021 era pari a 15,8 miliardi di dollari.

Il Mozambico sta anche affrontando un conflitto nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, dove dal 2017 una milizia islamista affiliata allo Stato islamico (Isis) sta affrontando l’esercito mozambicano e i suoi alleati nella regione, fra cui Rwanda e Sudafrica. Il conflitto ha finora provocato oltre 4.500 morti e un milione di sfollati e rifugiati.

Chiara Giovetti


Foto da vari autori e testimoni  inviate dal vescovo di Tete, monsignor Diamantino Antunes.



3 maggio, Giornata mondiale della libertà di stampa

Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario dell’istituzione della giornata mondiale della libertà di stampa, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1993 in risposta alla «Dichiarazione di Windhoek». La dichiarazione deve il suo nome alla capitale della Namibia, dove fu adottata il 3 maggio 1991 da un gruppo di giornalisti africani che partecipavano a un seminario dell’Unesco dal titolo: «Promuovere una stampa africana indipendente e pluralista», e due anni dopo il giorno della dichiarazione venne scelto per celebrare la giornata mondiale.

Il tema di quest’anno è: «Shaping a future of rights: freedom of expression as a driver for all other human rights» (Plasmare un futuro di diritti: la libertà di espressione come motore per tutti gli altri diritti umani). Gli eventi principali si svolgono alla sede dell’Onu di New York. Fra questi c’è la consegna del premio internazionale per la libertà di stampa Unesco-Guillermo Cano, dal nome del giornalista colombiano Guillermo Cano Isaza, direttore del giornale El Espectador, assassinato nel 1986 di fronte alla sede del giornale da sicari al servizio del cartello di Medellín guidato dal narcotrafficante Pablo Escobar e dai suoi associati.

Alla data di chiusura di questo articolo non è noto il vincitore del premio, dal valore di 25mila dollari; nel 2022 è stato assegnato all’Associazione dei giornalisti bielorussi come dimostrazione di sostegno ai «giornalisti di tutto il mondo che criticano, si oppongono e smascherano politici e regimi autoritari trasmettendo informazioni veritiere e promuovendo la libertà di espressione», come ha ricordato Alfred Lela, presidente della giuria internazionale del premio. Nel 2021, invece, il premio era andato a Maria Angelita Ressa, giornalista filippina naturalizzata statunitense che nello stesso anno aveva anche vinto, insieme al collega russo Dmitrij Muratov, il premio Nobel per la pace@.

Nel 2021, si legge nel rapporto dell’Unesco Journalism is a public good (Il giornalismo è un bene pubblico), i giornalisti uccisi sono stati 55, in calo rispetto al 2020 (62) e dimezzati rispetto al dato più alto nel periodo considerato (2010- 2021), cioè quello del 2012, quando ne furono assassinati 124. Aumentano invece i giornalisti in carcere, 293, il dato peggiore nei dodici anni presi in esame.

Nel quinquennio dal 2016 al 2020, il paese in cui sono stati uccisi più giornalisti è il Messico (61), seguito da Afghanistan (51), Siria (34), Yemen (24), Iraq e Pakistan (entrambi a 23).

I paesi arabi sono quelli con il tasso di impunità più elevato per gli omicidi dei giornalisti: il 98 per cento dei casi, infatti, rimane irrisolto@.

Secondo l’organizzazione non governativa International Press Institute (Ipi), che monitora la libertà di stampa nel mondo e tiene traccia degli abusi subiti dal personale dei media dopo l’invasione russa dell’Ucraina, in Russia sono 169 i giornalisti fermati, arrestati, indagati o sotto processo dall’inizio della guerra@.

Chi.Gio.