Sognando e annunciando

Inserto a cura di Sergio Frassetto |


Originale, poetica e… breve! Così si presenta l’Esortazione apostolica post sinodale «Querida Amazonia», che ci fa intravedere i quattro «sogni» di papa Francesco sull’amata Amazzonia. Leggendo e gustandone gli appassionati paragrafi, colpiscono alcune affermazioni che, pur rivolte ai popoli della grande foresta, insaporiscono – rinvigorendola – la vocazione missionaria di tutta la Chiesa.

Così, ad esempio: «Di fronte a tanti bisogni e tante angosce che gridano dal cuore dell’Amazzonia… come cristiani non rinunciamo alla proposta di fede, che abbiamo ricevuto dal Vangelo. Pur volendo impegnarci con tutti, fianco a fianco, non ci vergogniamo di Gesù Cristo. Per coloro che lo hanno incontrato, vivono nella sua amicizia e si identificano con il suo messaggio, è inevitabile parlare di Lui e portare agli altri la sua proposta di vita nuova» (n. 62).

Se diamo la nostra vita per gli altri, per la giustizia e la dignità che meritano, non possiamo nascondere ad essi che lo facciamo perché riconosciamo Cristo in loro e perché scopriamo l’immensa dignità concessa loro da Dio che li ama infinitamente. «Senza questo annuncio appassionato, ogni struttura ecclesiale diventerà un’altra Ong, e quindi non risponderemo alla richiesta di Gesù Cristo: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura”» (n. 64).

Il papa, poi, invita a non «bollare con troppa fretta come paganesimo o superstizione, alcune espressioni religiose che nascono spontaneamente dalla vita della gente».

Il beato Giuseppe Allamano lo aveva anticipato di «qualche anno», quando ai suoi primi missionari in Kenya, un po’ troppo zelanti a condannare danze e riti indigeni, scriveva: «Letto il diario, vedo che il missionario si scagliò contro i goma (balli)… Per carità, si vada adagio, come qui tra noi per il ballo, sebbene sia più cattivo. Dobbiamo dissimulare il male, perché è impossibile ora vincere la cosa e sarebbe di pregiudizio alla conversione il combatterlo di fronte».

Sarà proprio grazie all’inculturazione del Vangelo, fatta con rispetto e senza fretta, che «potranno nascere testimonianze di santità con volto amazzonico, che non siano copie di modelli da altri luoghi; santità fatta di incontro e dedizione, di contemplazione e di servizio, di solitudine accogliente e di vita comune, di gioiosa sobrietà e di lotta per la giustizia… Immaginiamo una santità dai lineamenti amazzonici, chiamata a interpellare la Chiesa universale» (n. 77).

Avanti, allora, su questa strada come cristiani, tanto più come missionari: sarebbe triste che i poveri e i dimenticati non ricevessero da noi «il grande annuncio salvifico, quel grido missionario che punta al cuore e dà senso a tutto il resto».

padre Giacomo Mazzotti


G. Allamano e G. Alberione

L’amicizia tra sacerdoti santi

Tra Giuseppe Allamano e Giacomo Alberione (1884-1971), il fondatore delle Famiglie Paoline, nonostante una differenza di 33 anni di età, sorse una buona intesa sacerdotale. Espressamente ne parla anche padre Candido Bona, missionario della Consolata e storico riconosciuto: «I suoi contatti con l’Allamano, di persona e per lettera, non si limitarono a casi sporadici, per quanto di particolare importanza, ma rivestirono il carattere di vera direzione, dalla quale attingeva lumi soprannaturali, conforto e direttive. La cosa desta ammirazione, se si tiene presente che l’Alberione risiedeva ad Alba e non a Torino».

Reciproca collaborazione. Probabilmente la collaborazione tra i due uomini di Dio si espresse soprattutto negli incoraggiamenti dell’Allamano all’Alberione per la fondazione della Pia Società di S. Paolo. Fu una collaborazione speciale, che dimostrò la stima e la fiducia reciproche. Non c’è dubbio che l’Allamano si fosse reso subito conto che il progetto dell’Alberione era una vera ispirazione che proveniva da Dio. Fu lo stesso Alberione, parlando in terza persona, a confidare come l’Allamano lo avesse incoraggiato fin dall’inizio. In una bella testimonianza inviata da Alba il 29 gennaio 1933, in vista della prima biografia che si stava scrivendo sull’Allamano, scrisse: «So di un sacerdote [non c’è dubbio che si tratti dell’Alberione stesso] che ricorse al can. Allamano prima di ritirarsi dalla santa opera di zelo a cui stava intento [in quel periodo era direttore spirituale del seminario], per consacrarsi ad altre opere cui un interno movimento di grazia sembrava invitarlo [cioè la comunicazione sociale attraverso la stampa]. L’Allamano sentì e pregò: poi rispose con poche, ma decisive parole. Il caso era difficilissimo, ma le prove di una ventina d’anni gli diedero del tutto ragione. Eppure, bisogna dire che in quel momento erano molti i pareri contrari». Questa testimonianza è confermata dallo stesso Alberione in un incontro con padre Giuseppe Caffaratto: «Lei è della Consolata, dell’Istituto del canonico Allamano. Io conservo sempre tanta riconoscenza al canonico Allamano perché agli inizi della mia congregazione, mentre quasi tutti i sacerdoti mi erano contrari e mi dicevano: “Pianta lì, con i tuoi giornali e la tua stampa!”, lui mi diceva: “Vai avanti, vai avanti!”. E mi fu di grande incoraggiamento».

Il pensiero dell’Allamano sull’Alberione.

Non si possiede documentazione scritta su questo punto, ma è facile intuire la stima dell’Allamano per l’Alberione dal fatto, come si è detto, che fu uno dei pochi a sostenerlo per la fondazione dei Paolini. Dai frequenti incontri a Torino, quando l’Alberione veniva appositamente da Alba per consultarlo, certamente l’Allamano si rese conto del valore di quel giovane sacerdote. Ecco perché lo sostenne sempre e lo incoraggiò, dandogli opportuni consigli. È lo stesso Alberione a rivelare quanto l’Allamano gli suggeriva.

Il pensiero dell’Alberione sull’Allamano.

Sulla stima che l’Alberione aveva per l’Allamano non ci sono dubbi. In un’omelia ai chierici ad Alba nell’autunno del 1924 disse: «Volete incontrare dei santi viventi? Andate a Torino e visitate il canonico Allamano e don Rinaldi; andate in Liguria e troverete padre Seteria; spingetevi in Sicilia e ancora potete incontrare il canonico Di Francia». Sapeva individuare i santi senza sbagliarsi.

Così inizia la testimonianza, citata sopra, del 29 gennaio 1933: «Stimavo e stimo come santo il can. Allamano; seguii il suo consiglio in momenti importanti e me ne trovo contento; anzi ai chierici io riporto spesso il suo esempio, nelle esortazioni e meditazioni».

L’Alberione si dilunga a riportare diverse espressioni dell’Allamano, da lui ascoltate, che lo hanno impressionato per la loro semplicità e concretezza.

Eccone alcune: «Diceva ad un giovane sacerdote: “Lavorare al confessionale, nella predicazione, nella scuola; ma prima riservare il tempo necessario per l’anima propria. Vi sono persone che si rendono inutili, per sé e per gli altri, col troppo fare per gli altri, trascurando se stessi; spesso mi vidi costretto a chiudere la stanza e non rispondere, e declinare inviti ad opere buone… per riservare il tempo per la preghiera, lo studio…”. Al superiore di un Istituto religioso diceva: “Se volete gli istituti religiosi fiorenti, fate una porticina per entrarvi, un portone per uscire; cioè assicuratevi bene della vocazione vera prima di accettare; quando poi non danno prove chiare, licenziate con coraggio”.

Era ammirabile il suo intuito e la sicurezza del suo giudizio; quando andavo da lui non mi lasciava finire di parlare, gli bastavano poche parole, rispondeva con semplicità, brevità e sicurezza tali che infondeva coraggio ad operare e pace di spirito. Avevo sempre l’impressione che in lui fosse qualche cosa di più che l’ordinario lume; tanto più che sempre vidi nella pratica essere stato buono il suo consiglio. Ciò parecchie volte si è ripetuto.

Lo osservavo con diligenza tutte le volte che ebbi occasione di avvicinarlo: ritenendo prezioso ogni momento che potessi vederlo: la sua presenza mi sembrava un libro parlante, una regola; mi pareva spargesse un po’ di quella grazia che certamente portava nel cuore, perché mi pareva che ogni suo atto, ogni sua parola, persino gli atteggiamenti e i movimenti più trascurabili fossero ispirati a quello spirito soprannaturale, tanto Egli viveva di fede e sempre padrone di tutto se stesso: parole, disposizioni, sensi, azioni.

Il can. Allamano parlava con semplicità; non si turbava se altri diceva diversamente e anche se il suo consiglio veniva messo da parte, lasciando la cura di tutto alla Provvidenza. Come parlava per motivo di carità, così per motivo di carità taceva: conservando l’indifferenza dei santi anche riguardo le cose più delicate, o che toccavano più direttamente la sua persona».

In data 4 marzo 1943, dieci anni dopo avere mandato la sua prima testimonianza, l’Alberione scrisse al postulatore della causa di beatificazione dell’Allamano che lo aveva nuovamente interpellato: «Ho ancora esaminato diligentemente l’attestazione scritta da me e data a suo tempo. Non ho da togliere o da aggiungere altro».

padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano: fedeltà e novità

Il 5 luglio 2019, la signora Emanuela Costamagna ha conseguito, a pieni voti, la Laurea magistrale presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Torino, difendendo la tesi dal titolo: «Beato Giuseppe Allamano. Fedeltà e novità nel suo pensiero teologico e nella sua attività missionaria».

La prima parte di questo articolo è stata pubblicata su «Missioni Consolata» di gennaio. In questo numero ne pubblichiamo la seconda e ultima parte.

Il quarto capitolo è la «perla» della tesi sull’Allamano, scritta con passione dalla signora Emanuela Costamagna, e va considerato come una spinta in avanti.

L’autrice esamina dal punto di vista teologico alcuni degli aspetti più importanti individuati nei primi tre capitoli e fa emergere che l’Allamano può essere considerato «figlio del suo tempo» perché viveva appieno la visione teologica del suo periodo storico.

Tuttavia, pensando che il suo scopo era formare giovani uomini e donne che presto sarebbero stati inviati lontano con lo stesso spirito missionario, ha insistito su alcuni aspetti particolari portando delle sue originalità che potrebbero racchiudersi nelle sue stesse parole: «amare e farsi santi è la stessa cosa».

Alla fine della tesi c’è un’interessante conclusione. Ecco qualche tratto ripreso alla lettera: «Al termine del percorso che mi ha portato alla stesura di questa tesi, posso dire che, sebbene già conoscessi la figura del beato Allamano e alcuni missionari e suore della Consolata, ho avuto la possibilità di approfondirne il carisma e il pensiero.

Nel corso della tesi ho avuto modo di analizzare come maturò il suo carisma ricevuto dallo Spirito e quali novità introdusse con le sue riflessioni. Anzitutto si può constatare che l’Allamano fondava il suo pensiero su solide basi: da una parte il messaggio del Vangelo con il suo annuncio della salvezza portata da Cristo e del ruolo di corredentrice di Maria e dall’altra una importante attenzione al prossimo, mettendo insieme il comando di Cristo “andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28, 19) con quello di “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,38).

L’Allamano trasferì la sua grande attenzione per il prossimo nello spirito dei missionari. La sensibilità che richiedeva verso gli indigeni era molto particolare, portava avanti delle istanze che al suo tempo non erano sempre comprese da tutti. Sicuramente la fede che richiedeva doveva essere vissuta pienamente nella vita pratica attraverso le opere, perché era conscio che in missione una scuola, un ospedale, un orfanotrofio avrebbero fatto del bene agli indigeni e preparato la strada alla conversione. Ecco perché insisteva sulla necessità di elevare l’ambiente.

Anche la valorizzazione dei sacerdoti e dei catechisti locali, da lui fortemente sostenuta, ebbe come base la necessità di far crescere una Chiesa con pastori e collaboratori originari del luogo, il che è uno dei fini della missione e, oggi, di estrema attualità.

Come si è visto, l’Allamano pur non essendo un innovatore, sicuramente fece delle riflessioni e diede delle direttive ragguardevoli e talvolta coraggiose per il suo tempo e che, ancora oggi, costituiscono lo spirito dei membri dei due istituti. Iniziando da quel piccolo gruppo di due sacerdoti e due fratelli coadiutori partiti per il Kenya nel 1902, ora i missionari e le missionarie della Consolata operano in Europa, Africa, Asia ed America.

Ciò che ho potuto constatare, avendo anche visitato parecchie loro missioni in Africa e in America Latina ed avendo vissuto un anno e mezzo in una missione in Etiopia, è che lo spirito e gli insegnamenti che l’Allamano impartiva sono ancora attuali e seguiti».

L’autrice della tesi, oltre che per la serietà dello studio, va lodata per la stima e la fiducia nell’Allamano. Questa è la confidenza fatta al missionario cui si riferiva, all’inizio del lavoro: «La mia tesi sarà buona perché fatta con rispetto verso l’Allamano che a me ha dato tanto! Potevo avvicinarmi ad altri istituti, per andare in missione. Ma il mio cuore ha scelto la casa madre di corso Ferrucci e l’Allamano. Per cui glielo devo al caro Beato, e mi impegno a fare meglio che posso la tesi su di lui». Un particolare molto significativo: durante la discussione della tesi la signora Emanuela, ogni volta che nominava l’Allamano, lo chiamava sempre «Fondatore», manifestando, forse senza accorgersene, il suo sincero legame con lui.

Il piccolo gruppo che ha accompagnato la signora Emanuela durante la discussione era formato dal marito Fabio e due figlie (Elia,
il bimbo di un anno e mezzo è rimasto con i nonni), dai genitori, alcuni amici e missionari. Al termine della difesa, rientrati nella sala, si attendeva l’esito con curiosità, non disgiunta da comprensibile apprensione. Il presidente ha pronunciato queste parole:
«Il giudizio unanime della commissione
è che la tesi ha le seguenti qualità: accuratezza, profondità, ampiezza. Votazione: 30 lode!». L’applauso felice e fragoroso è scoppiato istantaneo. (Fine)




Santi nella “Casa comune”


Nel Sinodo per l’Amazzonia, celebrato lo scorso ottobre e i cui echi arrivano ancora fino a noi in questo inizio d’anno, la riflessione per la preghiera di lunedì 14 ottobre, è stata proposta dall’arcivescovo di Florencia (Colombia), mons. Omar de Jesús Mejía, sul tema: «La nostra missione: essere santi».

All’inizio del suo discorso, il vescovo ha ricordato che, il 3 ottobre, visitando la tomba del beato Giuseppe Allamano, a Torino, era rimasto colpito dalla scritta: «Prima santi e poi missionari». Rientrato a Roma, era poi stato invitato a commentare la Parola di Dio: «Sii santo per me, perché Io sono santo, sono il Signore, che ti ha separato dagli altri per essere mio» (Lv 20, 26).

In quel contesto di preghiera sinodale, Mejía ha spiegato: «Siamo qui, perché vogliamo discernere l’attività missionaria della Chiesa, in Amazzonia. Chiediamo la forza dall’alto per capire che, senza la grazia di Dio, ciò che facciamo sarà inutile o innocuo, mentre la grazia è sempre edificante e salutare. Dio ci ha scelti per essere qui, in questo “momento vitale”, per essere luce e speranza oggi, in Amazzonia e, da lì, nel mondo. Come chiesa missionaria, siamo in Amazzonia non a scopo di lucro, né per devastarla e goderne le ricchezze, ma per condurre lo stile di vita di Gesù, per “guarire i cuori affranti”. È normale essere criticati, perché molte persone non capiscono la nostra missione. Come persone consacrate dobbiamo essere la terra di Dio e questo ci insegna a rifiutare la vita senza Dio. Come missionari, dobbiamo compiere la nostra opera con un senso di eternità. Non lavoriamo, non ci stanchiamo, non diamo la nostra intelligenza e volontà a Dio per essere applauditi, ma per la cura della “casa comune”, l’Amazzonia, e come “servitori inutili”. Alla Beata Vergine Maria, Madre della Speranza – ha concluso l’arcivescovo – affidiamo questa nuova settimana di discernimento nel Sinodo e ricordando: “Prima santi e poi missionari”» (Beato Giuseppe Allamano).

Che bello è stato sentir risuonare, nella variegata e poliglotta assemblea sinodale, il nome e le parole più caratteristiche del nostro beato fondatore, ricordate da un vescovo dell’Amazzonia, amico dei missionari della Consolata. Parole di augurio e di speranza, per questo anno di grazia che abbiamo appena iniziato…

Padre Giacomo Mazzotti


G. Allamano e L. Murialdo:

l’amicizia tra sacerdoti santi

L’Allamano ebbe la fortuna di vivere in un periodo in cui, nella diocesi di Torino e in altre del Piemonte, fiorirono diversi sacerdoti dei quali oggi la Chiesa  riconosce ufficialmente la santità con l’onore degli altari o la cui causa di beatificazione è già avanzata.

L’Allamano ebbe contatti, a volte vera amicizia, con molti di loro ed è interessante constatare che tutti, senza eccezione, dimostrarono una profonda stima per l’Allamano, riconoscendo in lui un vero uomo di Dio.

Stessa profonda stima era ricambiata dall’Allamano per ognuno di essi. Qualcuno disse che i santi riescono a individuarsi anche da lontano, ed è vero.

In questa rubrica, durante il 2020, riporto i giudizi o i gesti di apprezzamento reciproci tra l’Allamano e alcuni santi sacerdoti.

Leonardo Murialdo

Inizio questa carrellata con San Leonardo Murialdo (1828-1900), fondatore dei Giuseppini. Tra lui e l’Allamano c’era una buona conoscenza come pure una sincera stima, nonostante la differenza di 23 anni di età. Qualche biografo del Murialdo pone l’Allamano addirittura nell’elenco dei suoi «amici».

Il pensiero dell’Allamano sul Murialdo

Durante il Congresso Mariano (8-12 settembre 1898), celebrato a Torino, erano presenti e attivi sia il Murialdo che l’Allamano. Fa piacere sapere che, per alcuni giorni, questi due uomini di Dio, abbiano lavorato assieme per promuovere il culto di Maria SS. Forse di lì iniziò una più profonda conoscenza e un certo rapporto di stima tra i due.

Non c’è dubbio che l’Allamano ritenesse il Murialdo un santo. Ciò risulta soprattutto dal fatto che fu lui a incoraggiare i Giuseppini a iniziare la causa canonica per la beatificazione del loro fondatore, come attesta il suo secondo successore don Eugenio Reffo: «Il canonico Giuseppe Allamano confortando alcuni dei nostri confratelli nella dolorosissima perdita, espresse un suo intimo pensiero, che al teologo Murialdo si sarebbe col tempo fatto il processo ed esortò a raccogliere con diligenza tutte le memorie che si possono avere di lui, compendiando in una sola frase il suo elogio, con dire di lui quello che si disse di don Giuseppe Cafasso: era uomo straordinario nell’ordinario».

Nella prima sessione del Capitolo generale del 1906, lo stesso don Reffo, dopo avere affermato che la tomba del Murialdo era visitata dai Giuseppini, aggiunse: «Ci andarono una volta i missionari della Consolata, e ricordo con filiale orgoglio che quel venerando uomo che è il canonico Giuseppe Allamano disse a quel prode drappello di apostoli: “Un giorno questa salma uscirà da questa tomba per essere venerata!”».

Nelle sue memorie autobiografiche, don Reffo illustrò meglio l’esortazione dell’Allamano per iniziare la causa del Murialdo: «Me ne spiegò il modo, le pratiche da farsi, la facilità dell’impresa, e tanto seppe dire e farmi premure, che io compresi essere ormai volontà di Dio che ci mettessimo all’opera, e subito, tornato a casa, ne parlai col mio superiore don Giulio Costantino, che aderì pienamente, e acconsentì che si muovessero le prime pedine».

Il pensiero del Murialdo sull’Allamano

Non c’è dubbio che anche il Murialdo abbia molto apprezzato l’Allamano. Lo dimostrano alcune sue parole pronunciate in situazioni particolari. Anzitutto riguardo il giornale diocesano, che sorse a Torino nel 1876, intitolato «Unioni Operaie Cattoliche» per iniziativa di un gruppo di laici, sostenuti dal teologo Leonardo Murialdo, che di questioni operaie era molto esperto. Il giornale doveva essere il collegamento delle varie Unioni operaie cattoliche, ed essere non solo per gli operai, ma anche redatto da un operaio. Questo redattore fu il sig. Domenico Giraud (1846-1901), cattolico fervente, che era segretario della conceria del sig. Pietro De Luca. Con il tempo, però, il Giraud non fu più in grado di impegnarsi nel giornale, soprattutto per il lavoro pressante come segretario della conceria. Quando il Giraud sembrava deciso a chiudere, il Murialdo, secondo il suo biografo Armando Castellani, prima lo incoraggiò e, in seguito, come sotto una particolare ispirazione, si aggrappò ad un’ancora di salvataggio dicendo: «Perché non sentire il consiglio del canonico Allamano?». Lo stesso Castellani ne spiega così la ragione: «Era l’Allamano, rettore del santuario della Consolata, un fervido sostenitore della buona stampa, delle Associazioni operaie cattoliche. Egli godeva della più alta stima tra i cattolici torinesi», concludendo: «L’intervento dell’Allamano e l’interesse continuo e vigilante del Murialdo salvarono “in extremis” il giornale».

Questo provvidenziale intervento dell’Allamano fu così spiegato dal can. Giuseppe Cappella suo stretto collaboratore al santuario della Consolata: «Al fondatore del giornale sig. Giraud, che nel mese di novembre (1889) gli annunciava di dover egli sospendere la pubblicazione del giornale, perché soverchiamente occupato nella direzione della Conceria De Luca, l’Allamano disse di ripassare la sera del sabato seguente. Ritornò infatti il Sig. Giraud. L’Allamano intanto aveva dato convegno anche al sig. Giacomo De Luca, e quando li ebbe tutti e due insieme, disse al proprietario: “Qui il sig. Giraud si lamenta di dover cessare la pubblicazione del giornale, perché troppo occupato nella conceria; faccia così: metta un segretario per la conceria che lo aiuti nelle sue mansioni, e il sig. Giraud pubblicherà il giornale, invece che ogni quindici giorni, ogni settimana”. E così fu fatto». Il Murialdo non si sbagliò suggerendo di ricorrere all’Allamano.

padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano:

fedeltà e novità

Il 5 luglio 2019, la signora Emanuela Costamagna ha conseguito, a pieni voti, la Laurea magistrale presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Torino, difendendo la tesi dal titolo: «Beato Giuseppe Allamano. Fedeltà e novità nel suo pensiero teologico e nella sua attività missionaria».

Di tesi sull’Allamano l’istituto ne possiede molte fatte da missionari o missionarie della Consolata. Questa è la prima e, per ora, l’unica presentata da una persona laica. Per di più, da una mamma che, all’inizio del lavoro della tesi, era in attesa del terzo figlio. Tenuto conto di tutto ciò, la tesi assume un significato particolare.

Per comprendere il motivo che ha spinto la signora Emanuela ad affrontare un tema di questo genere, basta ascoltare come lei stessa si è presentata alla commissione dei professori il giorno della difesa: «Questo elaborato è nato da un mio forte desiderio, coltivato negli anni, per la missione “universale”. Già nell’elaborato per la tesi triennale avevo sviluppato questo tema, concentrandomi su un piccolo aspetto del pensiero del beato Giuseppe Allamano.

Questo vivo interesse per la missione è nato in giovane età e mi ha portato a vivere esperienze nelle missioni dei missionari della Consolata. La più lunga è durata un anno e mezzo ed è stata vissuta con mio marito presso la missione di Gambo, in Etiopia, dove abbiamo avuto la gioia di vivere al fianco dei missionari e delle suore e condividere lo spirito del fondatore, sentendoci come in famiglia.

Lo scopo della mia tesi magistrale è stato provare ad analizzare come si è formato il carisma dell’Allamano e il suo pensiero teologico missionario, da quali fonti può aver attinto, a chi si è ispirato, in che modo le sue idee siano state influenzate dal contesto storico sociale da lui vissuto e in particolare come le sue idee siano state trasmesse ai suoi missionari. Questo tipo di studio non è stato ancora effettuato nell’istituto per cui rappresenta un po’ una novità.

«Non ho analizzato lo sviluppo storico del suo pensiero, ma identificato e affrontato alcune tematiche per lui importanti. Per poter fare questa attività, ho preferito utilizzare e valorizzare principalmente le fonti primarie: le conferenze ai missionari e alle suore missionarie, che sono durate dall’inizio della fondazione dei due istituti fino alla sua morte; quelle ai sacerdoti convittori, le lettere che inviava e riceveva dalle missioni e i diari che i missionari erano tenuti a scrivere e consegnare all’Allamano. Sicuramente la possibilità di utilizzare le fonti primarie mi ha permesso di andare al cuore del suo pensiero, di poter lavorare direttamente sulle sue parole, cosa che non sarebbe stato possibile utilizzando fonti secondarie, anche se non sono mancate».

La tesi, dopo l’introduzione, è divisa in quattro capitoli. Nel primo è analizzato il rapporto dell’Allamano con il magistero della Chiesa, sia con i sommi pontefici che con i suoi vescovi. Rapporto di comunione, fedeltà e obbedienza. Questa parte è stata fondamentale per conoscere la personalità dell’Allamano.

Il secondo capitolo sposta lo sguardo verso l’apertura dell’Allamano all’universalità della salvezza. Come la vita di un sacerdote diocesano, vissuto sempre all’ombra del santuario della Consolata, sia stato capace di guardare al di là dei confini della propria diocesi. Si è potuto analizzare quali fossero i punti fermi dell’Allamano sulla missione: l’annuncio del Vangelo, la formazione di chiese locali, e la promozione umana, in vista della salvezza delle anime.

Nel terzo capitolo viene precisata l’identità dei missionari secondo l’Allamano, esaminando e dando una risposta a domande come queste: qual era il suo pensiero sulla vocazione sacerdotale e vocazione missionaria? Perché considerava la vocazione missionaria come “la migliore?”. C’erano differenze tra la vocazione missionaria dei sacerdoti, delle suore, dei fratelli coadiutori? Quale identità missionaria voleva trasmettere? E come la trasmetteva? Perché dava un senso mariano all’evangelizzazione? Qual era la sua idea di santità per un missionario?

Nei primi tre capitoli, fondamentali per inquadrare storicamente e analizzare bene il suo pensiero, è anche effettuata una prima analisi teologica, ma è poi nel quarto capitolo che, sulla base dei primi tre, sono considerati alcuni degli aspetti più importanti e si sono esaminati dal punto di vista teologico. Ne emerge che l’Allamano può essere considerato «figlio del suo tempo» perché egli viveva appieno la visione teologica del suo periodo storico. Ha portato sicuramente delle sue originalità, ha insistito su alcuni particolari aspetti, pensando che il suo scopo fosse formare giovani uomini e donne che presto sarebbero stati inviati lontano con lo stesso spirito missionario. Il suo pensiero si potrebbe racchiudere nelle sue stesse parole: «Amare e farsi santi è la stessa cosa».

Fine della prima parte


Clicca sull’icona qui sotto per andare al sito dedicato al beato Giuseppe Allamano





Il sapore dell’amore di Dio


L’inserto di questo numero è completamente dedicato alla cara memoria di padre Gottardo Pasqualetti, scomparso il 20 ottobre scorso, postulatore delle cause di beatificazione di Giuseppe Allamano e Irene Stefani. È un piccolo segno di gratitudine a un missionario che, con Sapienza e passione, ha arricchito la nostra conoscenza e il nostro amore per il nostro beato fondatore. Come abbiamo fatto già altre volte in passato, anche in questo numero ospitiamo alcune
sue parole.

Il sapore dell’amore di Dio

Per Giuseppe Allamano, la dolcezza e la mansuetudine sono virtù indispensabili per tutti coloro che devono trattare con il prossimo; e vi ritorna spesso nelle sue lettere ed esortazioni ai missionari e missionarie. Così, tra i ricordi ai partenti, raccomandava sempre la «mansuetudine», unica virtù di cui Gesù dice specificamente di imitarlo, invitando a farne un proposito da rinnovare ogni mattina. Per lui, la dolcezza e la mansuetudine sono indispensabili per tutti coloro che operano con la gente, soprattutto con i poveri, i piccoli, i «diversi». Questo ha poi una ricaduta nell’attività apostolica, perché quella del missionario è una spiritualità di presenza, con rapporti personali e attenzione all’altro, in totale disponibilità e spirito di condivisione.

Alle missionarie diceva che dovevano avere «un cuore largo verso i fratelli», «cuore magnanimo per ogni miseria umana», «cuore pieno di amore per Dio». Ad alcune, in partenza per l’Africa, raccomandava: «Lasciate il sapore dell’amore di Dio dovunque andrete, ma ancor più del prossimo».

È anche una delle caratteristiche della beata suor Irene, e mirabile è la sua dedizione caritatevole verso tutti, soprattutto i più bisognosi, dedicandosi agli altri con affetto materno, con bei modi, rispetto, delicatezza, dolcezza e affabilità, senza fare distinzioni.

I missionari e missionarie cresciuti a fianco dell’Allamano, hanno conservato scolpito nel cuore il suo ricordo, perché avevano viva coscienza di aver trovato in lui «un vero padre, tutto amore per i figli», «un amato, amatissimo padre», così da avere per lui stima, confidenza piena, totale apertura di cuore, fiducia incondizionata, ritenendo la sua parola espressione della volontà di Dio.

Ma per riassumere «in pillole» tutto ciò, occorre ricordare almeno tre must (come si chiamerebbero oggi), da lui indicati: «Sincerità e confidenza; dolcezza e bontà; contatti personali». Mentre per l’impegno personale di ognuno, vi è un’altra sintesi, stilata da suor Irene: «Spirito di carità operosa, di pietà e di dolcezza. Ecco tutto!».

Un tutto che è il «nostro distintivo», «lo stampo».

padre Gottardo Pasqualetti


«Speciale, frizzante, libero»

Aveva 84 anni, padre Gottardo Pasqualetti, quando ci ha lasciati, il 20 ottobre scorso. Diventato missionario della Consolata con la prima professione religiosa nel 1957, fu ordinato sacerdote il 22 dicembre 1962.

Realizzò la sua vocazione missionaria sempre in Italia e quasi sempre a Roma, dove fu membro della Congregazione vaticana per il Culto Divino, insegnante di liturgia, per 40 anni, alla pontificia Università urbaniana, segretario generale dell’Istituto, formatore e superiore delle nostre comunità in Italia.

Ma fu soprattutto postulatore per le cause di beatificazione di Giuseppe Allamano e Irene Stefani.

La sua vita e il suo intenso lavoro lasciano una traccia profonda nella comprensione del carisma missionario dei nostri due Istituti, con un dilatarsi di «conoscenza e riconoscenza» verso colui che ci è padre e maestro di vita.

Frammenti di una vita

Prof. Erich Schmid,
decano della Facoltà di Teologia

Roma, 1° maggio 1992Reverendissimo Superiore Generale, sto cercando un nuovo docente per la liturgia latina. Avendo scoperto che p. Gottardo Pasqualetti, membro del Suo benemerito istituto missionario, ha le qualifiche necessarie per poter insegnare in una facoltà teologica S. Liturgia, vorrei oggi rivolgermi fiduciosamente a Lei e chiederLe di aiutarci, permettendo al suddetto padre di far parte del corpo docente della nostra facoltà. Siccome padre Pasqualetti ha studiato alla Puu e sta già insegnando nel Corso di aggiornamento alla medesima università, e conosce quindi già bene il nostro ambiente «urbaniano» che accoglie studenti da tutte le parti del mondo, ed essendo membro di un Istituto missionario, il Rettore magnifico, p. Daniele Acharuparambil, e il sottoscritto lo riterrebbero proprio adatto per tale incarico…


padre Gottardo Pasqualetti

Carissimi missionari della Regione Italia, giunto al termine del mio mandato, pensavo di chiudere in silenzio, cosa che più si avvicina all’atteggiamento di Maria. Ma da Lei apprendo pure che occorre avere cuore riconoscente. Ed è uno dei sentimenti che mi accompagnano in questi giorni. Con semplicità, ma sincerità, desidero esprimere il mio ringraziamento. Anzitutto, per l’accoglienza.

Sono venuto nella Regione nove anni fa, in modo assolutamente inaspettato e per me sorprendente, senza conoscere direttamente la situazione, e forse con qualche preconcetto e, pure per questo, con tremore. Ho incontrato subito una fiducia che mi ha rincuorato e continuo a conservarne un grato ricordo, anche se soltanto ora lo esprimo.

Il contatto più diretto con la realtà viva dell’Istituto ha fatto crescere in me la convinzione sul valore e l’attualità dei principi ispiratori e degli insegnamenti del nostro Padre Allamano. Capisco quanto sia pertinente la sua intuizione carismatica di un Istituto che abbia per principio la «unità di intenti» e quanto sia vero che si lavora invano se si va per conto proprio, costruendo sé stessi, più che un progetto di Istituto e di Missione. È il mio augurio e la mia preghiera.


Alessandro e Orazio
(parrocchia di Onigo -Tv) per i 40 anni di vita sacerdotale

Nell’itinerario della vita di padre Gottardo, emerge con forza e da sempre la sua grinta gioviale, vivace, profonda e intensa… Il suo pensiero teologico e pastorale ha la profondità e la ricchezza dei grandi Padri. Professore di materie liturgiche nelle facoltà pontificie di Roma, non ha fatto di questa sapienza l’unico centro di una vita, ma ha saputo andare oltre, immergendosi nelle più svariate competenze di pastore, superiore, formatore, postulatore con la propria famiglia religiosa e non solo; senza mai staccarsi dall’impegno e nella donazione verso i fratelli con una solida e costante preghiera. Con tutto questo sa costruire il braccio orizzontale della sua croce nel servizio missionario, quel saper fare organizzativo che serve a fare il bene… bene! Come il suo maestro il beato Giuseppe Allamano ha tramandato.

La capacità di p. Gottardo è quella di saper dosare e usare con particolare armonia ed equilibrio voluminosi libri, calici preziosi, preghiere profonde, uniti ad una capacità insolita di ascoltare e farsi ascoltare, con la saggezza di un «vero maestro di vita». Questo modo di essere lo rende un personaggio speciale, frizzante, libero, con la battuta sempre pronta e soprattutto sempre disponibile in ogni emergenza, sapendo donare fiducia e facendo aumentare la speranza nell’ambiente in cui si trova, in un vero abbandono alla grazia e alla volontà di Dio, senza riserve.

Auguri P. Gottardo, ti siamo tutti vicini con il cuore e la preghiera.


padre Piero Demaria
(ai funerali del 23 ottobre 2020)

Nel ricordo, nel pensiero, nell’affetto, chi è già partito per l’aldilà continua a vivere. Mi dicevano che p. Gottardo, quando celebrava qui, nel suo paese, la sua voce tuonava in chiesa ed era bello ascoltarlo, perché sapeva andare all’essenziale. Il nostro fondatore era solito dire, parlando ai giovani in formazione, battendo quattro dita sulla fronte: «datemi questo!». I più lo interpretavano come: «Datemi la vostra volontà e accettate l’obbedienza», ma qualcuno, più acuto, interpretava quel gesto come: «Datemi la vostra intelligenza, cioè mettete la vostra testa a servizio della missione, non usatela per diventare ricchi e potenti, ma mettetela a servizio dei popoli del mondo»… E questo, p. Gottardo lo ha fatto. È stato un grande missionario perché ha saputo amare le persone e il suo lavoro. Normalmente, siamo abituati ad associare alla parola «missione» la partenza per terre lontane, la condivisione della vita con i popoli; p. Gottardo è vissuto quasi sempre in Italia; eppure la sua attività, la sua passione, il suo insegnamento hanno lasciato un segno. Giovane studente all’università Urbaniana, era stato chiamato per lavorare alla riforma liturgica, dopo il Concilio, e aveva sostenuto la necessità di tradurre i testi liturgici, in modo che la gente potesse ascoltare il Vangelo nella propria lingua. Ma tutto ciò non era scontato, anzi, molti si erano anche opposti, eppure, p. Gottardo e gli altri che lavoravano con lui sono andati avanti, senza paura. Per 40 anni ha insegnato all’università Urbaniana a studenti provenienti dai cinque Continenti. Con il suo impegno, senza lasciare l’Italia, ha fatto del bene a tutti…

«Influencer» di santità

E così, anche padre Gottardo Pasqualetti ci ha lasciati improvvisamente in questo infelice tempo del coronavirus che ci aveva portato via, pochi mesi fa, un altro «esperto» dell’Allamano, padre Francesco Pavese (che abbiamo salutato proprio da queste pagine). Se ne è andato in punta di piedi, lasciando col cuore gonfio di tristezza la famiglia dei missionari e missionarie della Consolata, che ne rimpiangono l’intensa vita, tutta dedicata alla Liturgia e all’insegnamento, ma soprattutto alla postulazione della causa del nostro padre fondatore e della nostra sorella Irene Stefani.

E, avendo celebrato, proprio il 7 ottobre scorso, il trentesimo anniversario della beatificazione dell’Allamano, sfogliando l’album di quella festa di famiglia del 1990, non possiamo, ora, non soffermarci, con nostalgia, su una immagine nella quale padre Gottardo, proprio in veste di postulatore, salutava e ringraziava, a nome nostro, il santo papa Giovanni Paolo II.

Postulatore, o meglio, «Influencer»

Brillante nella sua intelligenza, padre Pasqualetti (Dino, per gli amici) era riuscito a svolgere numerosi e importanti incarichi di responsabilità, che sembravano ritagliati su misura proprio per lui; incarichi che lui caratterizzò con la sua straordinaria capacità di lavoro e da doti non comuni: professore di vasta e profonda cultura liturgica; oratore capace di incantare con la sua travolgente parola; «segretario» o presidente di assemblee, che riusciva a disincagliare dalle secche della discussione con la sua capacità di sintesi, «colorata» da un’ironia furba e mirata; missionario (ahimè, solo in patria) dallo sguardo lungimirante e realista al tempo stesso…

Doti e doni profusi soprattutto nel suo incarico di «Postulatore generale», anche se pochi, forse, sanno chi sia e cosa faccia un postulatore. Per usare, allora, un termine più alla moda (in inglese, come sempre!), potremmo definire padre Pasqualetti come «Influencer» (!), cioè «un professionista dotato di carisma, autorevolezza, competenza, capace di “influenzare” e convincere il suo pubblico» (così si legge nel dizionario delle «nuove professioni»). Per capirci: il giovane Carlo Acutis, beatificato pochi mesi fa, ad Assisi, è stato definito, in alcuni titoli di giornale, «L’influencer di Dio».

E chi, meglio di padre Pasqualetti, con tutto il suo bagaglio di straordinarie doti potrebbe essere ricordato come «influencer di santità»? Colui che ha saputo «scaldare il cuore» di tanti, in un settore di cui era diventato specialista: quello della santità, o meglio, di «santi e beati» concreti, come l’Allamano, Irene Stefani, o gli altri quattro «servi di Dio», candidati alla gloria degli altari e di cui seguiva la causa.

Trasformato… dai santi

Fu, dunque, postulatore in due differenti periodi (1989-2002 e 2014-2016), quando riuscì a offrire ai missionari e missionarie della Consolata l’immensa gioia della beatificazione del loro fondatore, che egli non solo ammirava con amore appassionato, ma di cui aveva talmente assorbito le sfumature di santità, da saperle trasfondere agli altri, raccontando e scrivendo di lui in mille modi e nelle occasioni più diverse. Un discepolo, trasformato e arricchito dalla frequentazione quotidiana di colui che aveva scelto come maestro e padre.

La stessa cosa avvenne con l’avvicinamento, la scoperta e lo studio di suor Irene Stefani (beatificata in Kenya, il 23 maggio 2015), come ci ha raccontato madre Simona, superiora generale delle missionarie della Consolata, alla notizia della scomparsa di padre Pasqualetti: «Aveva svolto questo compito di postulatore non solo con competenza, precisione, attenzione, costanza e dedizione, ma con vero amore, passione e tanta, tanta fraternità. Ha aiutato i due istituti a riscoprire e valorizzare la figura di Irene e l’espressione del nostro carisma in lei, con tratti così propri e originali. Ha non solo studiato Irene, ma ha camminato con lei, l’ha incontrata e da lei si è lasciato trasformare. Era evidente la relazione di autentica prossimità tra padre Pasqualetti e suor Irene: quando lui la nominava, si illuminava, si appassionava e non avrebbe mai finito di parlarne. La fede, la tenacia, la convinzione di padre Pasqualetti hanno contribuito grandemente e in modo decisivo al riconoscimento sia delle virtù eroiche della beata Irene, sia dell’autenticità del miracolo di Nipepe, che ha aperto la porta alla sua beatificazione. Lo abbiamo visto, padre Pasqualetti, durante la beatificazione, a Nyeri: felice, radioso, commosso, grato… contagiava gioia a chi lo incontrava!

Quando già la malattia faceva sentire i suoi effetti, ricordo un incontro con lui in Casa generalizia Imc a Roma: al nominargli suor Irene, padre Gottardo si animava tutto, cominciava a parlarne, a ricordarne le parole, i gesti, l’evento della beatificazione… e lo faceva con viva partecipazione e gioia: Irene era nel suo cuore e lui, certamente, nel cuore di Irene!».

Il traguardo

È bello, allora, continuare a ricordare padre Pasqualetti che, affascinato dalla santità di Giuseppe Allamano e di suor Irene, ne fu così trasformato, da diventarne un vero influencer, presentandoli come un grande dono che Dio ha fatto alla sua Chiesa, alla missione e ai popoli del mondo.

E ora che i suoi occhi hanno cominciato a scoprire, senza più bisogno di meticolose ricerche o processi canonici, il volto sorridente dell’Allamano, non mancherà, senz’altro, di chiedergli una piccola spinta, «un aiutino», perché dalla «penultima tappa» del suo lungo e sofferto cammino verso la santità, possiamo presto arrivare all’ultima, al traguardo, perché lui, il nostro amato Fondatore, possa entrare nella gloria (ufficialmente riconosciuta) dei santi del cielo.

padre Giacomo Mazzotti

 




La Chiesa sul divano

Testi di Giacomo Mazzotti e Francesco Pavese, a cura di Sergio Frassetto |


È stata una fortuna (oltre che una grande gioia) per i missionari e missionarie di fondazione italiana, poter iniziare il mese di ottobre incoraggiati da papa Francesco che ha voluto incontrarli e parlare loro a cuore aperto, alla vigilia del «mese missionario straordinario». Con la schiettezza e la sobrietà di stile che lo caratterizzano, ha lasciato loro alcune «perle» che vogliamo condividere con chi ha in cuore passione e «fuoco» missionario (come diceva l’Allamano).

Ci ha colpito non poco la sua descrizione del missionario come di uno che «vive il coraggio del Vangelo senza troppi calcoli, andando anche oltre il buon senso comune, perché spinto dalla fiducia riposta esclusivamente in Gesù». Ma anche il papa è stato colpito nel sentire i missionari, nel loro saluto, ribadire senza tentennamenti: «Siamo missionari ad gentes… ad extra… ad vitam!». «Questo – ha commentato il pontefice – non lo dite come uno slogan, […] ma nella consapevolezza della crisi attuale, accolta come opportunità di discernimento, di conversione, di rinnovamento».

«La gioia del Vangelo» è una delle espressioni più care al papa, che è riuscito a infilarla in una sua «pillola» di metodologia missionaria: «Con la vostra partenza, voi continuate a dire: con Cristo non esistono noia, stanchezza e tristezza, perché Lui è la novità continua del nostro vivere. Al missionario serve la gioia del Vangelo: senza questa non si fa missione, si annuncia un vangelo che non attrae… Anche la Chiesa italiana ha bisogno di voi, della vostra testimonianza, del vostro entusiasmo e del vostro coraggio nel percorrere strade nuove per annunciare il Vangelo – ci sentiamo un po’ imbarazzati nel riportare queste parole, ma… le ha dette proprio il papa – perché la Chiesa esiste in cammino; sul divano non c’è, la Chiesa».

Last, but not least, nel suo discorso, papa Francesco ha dato spazio anche alla gratitudine verso chi ha dato vita agli istituti missionari italiani: «Prima di tutto sento il bisogno di esprimere riconoscenza ai vostri fondatori. In un’epoca storica travagliata, la fondazione delle vostre famiglie religiose, con la loro generosa apertura al mondo, è stata un segno di coraggio e di fiducia nel Signore. Quando tutto sembrava portare a conservare l’esistente, i vostri fondatori, al contrario, sono stati protagonisti di un nuovo slancio verso l’altro e il lontano; dalla conservazione, allo slancio».

E mentre queste parole risuonavano nella splendida sala Clementina, in Vaticano, beh, un fremito di commozione ha attraversato il cuore dei missionari e missionarie della Consolata presenti, facendo affiorare sulle loro labbra il nome del loro beato padre fondatore…

P. Giacomo Mazzotti


Al tramonto

Durante l’ultima malattia l’Allamano era assistito dalle suore missionarie infermiere. Il suo più grande desiderio era di celebrare ogni giorno la santa messa. Un giorno, alla suora di turno disse con tono implorante: «Prega perché possa celebrare la santa messa fino all’ultimo». E al dott. Battistini che gli aveva proibito di alzarsi: «Professore si ricordi che lei ha già sulla coscienza tre messe da me non celebrate». Ed alla suora che gli faceva notare che però aveva fatto la comunione: «Sì, è vero; ma tu non sai che cos’è celebrare una messa!».

Sul fatto di non potere celebrare la messa ritornò più volte: «Sono sacrifici questi tanto grandi, che non ho mai compiuti in vita mia». «Se comprendeste che cosa significa una santa messa in più!». «Ah! La comunione è una gran cosa, ma quale sacrificio per me, non poter celebrare la messa!».

La volontà di Dio prima di tutto

Un giorno la suora che lo assisteva si era assentata per il pranzo. Appena tornata ebbe l’impressione che l’Allamano si fosse aggravato ed esclamò allarmata: «Padre, lei mi muore». Con tranquillità egli rispose: «E tu prega perché si compia la volontà di Dio».

Negli ultimi tempi, avendogli il professore proibito il vino, intervenne tranquillamente con il dott. Battistini che cercava di rimediare: «Lasciamo, signor dottore, che la scienza applichi i suoi ritrovati; io avrò occasione di fare una piccola mortificazione, applicandoci alla sorella acqua, come la chiamava San Francesco d’Assisi, e a un poco di latte annacquato, e così ne sarà glorificato il Signore che ce ne ripagherà largamente nell’ultima cena».

Pochi giorni prima di morire, fece notare ai sacerdoti della Consolata: «Nell’altra malattia [quella del 1900] vi siete preoccupati di farmi ricevere i santi sacramenti, mentre io mi sentivo perfettamente tranquillo; in questa invece, sono io che mi preoccupo di ricevere i conforti religiosi, perché mi sento che mi avvio al termine». Fu subito accontentato con una solenne celebrazione.

L’Allamano fu ardente apostolo fino alla fine. Poche ore prima di entrare in agonia, a suor Paola Rossi che lo assisteva negli ultimi giorni e che era stata da lui incaricata a preparare al battesimo una giovane di 18 anni, con un fil di voce disse: «Mi raccomando quella ragazza!».

Diario degli ultimi giorni

Questa suora infermiera ebbe un’idea intelligente e molto utile: redasse un diario essenziale, datato 20 febbraio 1926, che inizia il 31 gennaio e termina il 16 febbraio. In questo diario descrisse in breve lo stato di salute dell’Allamano: i miglioramenti, i peggioramenti, le visite dei dottori e di tante altre persone. Riferì anche alcune parole che l’Allamano pronunciò nelle diverse situazioni. Ne riporto alcune qui di seguito, con le rispettive date, ma senza fare commenti.

  • Notte tra 8-9 febbraio, alla suora che gli porgeva da bere: «Non ho mai fatto sacrifici così grossi: non celebrare la messa e fare la comunione non digiuno… ma, tra poco diremo la messa eterna».
  • 11 febbraio, alla suora che gli domandava che cosa facesse: «Prego per te e per tutti voi, non posso far altro; e questa è la mia occupazione continua».
  • Notte tra l’11-12 febbraio, alla suora che voleva chiamare l’infermiera per porgergli qualche calmante: «No, aspetta fino alla sveglia delle 5, chissà quanti soffrono questi dolori… non solo io!».
  • Alla suora che gli fece notare come il triduo di preghiere nel Santuario otteneva un effetto positivo sulla sua salute, ripeté per tre volte: «Non questo dovete chiedere, non questo voglio, ma solo il compimento della volontà di Dio».
  • Alla superiora che gli disse che, incominciando il mese di San Giuseppe, avrebbero pregato per la sua guarigione, allargando le braccia: «La volontà di Dio, la volontà di Dio».
  • Esclamava: «Paradiso, Paradiso, Paradiso: ricordati, tre volte Paradiso». Quando gli si raccontava qualcosa di poco piacevole egli ripeteva: «Oh, in Paradiso non ci saranno più queste miserie».
  • 15 febbraio: il mattino fu visitato dal canonico Francesco Paleari della Piccola Casa del Cottolengo, che gli assicurava che faceva pregare le sue suore. Rispose: «Sì, per le cose di lassù». Insistendo il Paleari nel dire che ci sono delle catene che tirano in su, ma ce ne sono tante che tirano in giù, con la speranza di vincere: «No, no, che si faccia la volontà di Dio, non come quella gente lì (alludendo alle suore missionarie) che prega solo per le cose materiali (con ciò voleva dire che pregavamo solo per la sua guarigione)».
  • Più tardi visitato da un signore suo conoscente, il quale gli disse che pregava perché il Signore ce lo conservasse ancora molti anni: «Oh… che si faccia la volontà di Dio»; alla sorella che pure insisteva sulla stessa cosa: «Ma per l’amor del Padre, dovete desiderare che vada in Paradiso. Farò più di là che di qua».
  • Al nipote che, dopo avergli fatto indossare la nuova biancheria, gli disse che sembrava uno sposo: «Oh, sì, fra poco vado alle nozze…».

I più vicini al suo capezzale poterono cogliere ancora dalle sue labbra qualche monosillabo; poi si udì con chiarezza un «Amen» e dal movimento delle labbra si poté cogliere: «Ave Maria». Fu l’ultima parola dell’Allamano su questa terra.

P. Francesco Pavese


L’Allamano: «Mission influencer»

Si è svolto a Roma, dal 25 marzo al 7 aprile scorso, un corso per i nostri formatori Imc, organizzato dalla Direzione Generale. Sono arrivati, quindi, 25 missionari (maestri di noviziato, direttori di seminari teologi, formatori dei Caf, testimoni di situazioni missionarie particolari) provenienti da Brasile, Colombia, Venezuela, Argentina, Kenya, Tanzania, Angola, Portogallo, Italia, Corea. Le due settimane sono state un tempo prezioso di comunione, per conoscersi, condividere le varie esperienze e sentirsi «famiglia della Consolata» nel non facile compito della formazione di coloro che, in un domani non lontano, saranno i futuri missionari della Consolata, figli di Giuseppe Allamano, che potrebbe essere definito, oggi, in un linguaggio comprensibile ai giovani: «Mission influencer».

La presenza del fondatore, visibile già nel logo del corso, è stato come il filo conduttore che ha guidato e unificato temi e contenuti che, essendo la nostra Famiglia missionaria ormai multietnica e internazionale, non potevano che essere variegati e molteplici.

È stato padre Piero Trabucco, ex superiore generale ed esperto in spiritualità a presentare ai formatori la figura del beato Allamano come formatore. Da questa angolatura, padre Piero, supportato da documenti storici, è riuscito a tratteggiare i le caratteristiche di uno stile fatto di atteggiamenti e strumenti formativi, capaci di trasmettere ai missionari la sua vicinanza paterna e «il suo spirito» (come lui lo chiamava). Tutta la sua persona è stata strumento per formare all’amor di Dio e alla passione per «le anime», per fare, cioè, innamorare i missionari di Gesù e della gente: santi, per la missione.

Gli spunti della ricca e corposa relazione di padre Piero sono diventati così il punto di partenza per riflettere su chi è il fondatore per i nostri formatori e come la sua figura, il suo esempio, la sua presenza entrano nei cammini formativi della varie comunità dei giovani aspiranti alla vita missionaria. Ecco alcuni… tweets:

– L’Allamano è importante perché, se non ci fosse lui, non ci saremmo nemmeno noi; rimaniamo senza identità, perché è lui che ha ricevuto l’ispirazione di fondare l’Istituto; è quindi fonte della nostra spiritualità e del nostro carisma.

– La sua umanità (paternità) si vedeva nei rapporti personali, nell’ascolto, nell’accoglienza (aveva tempo per tutti e per ciascuno); la sua pedagogia era fatta di bontà, vedeva sempre il positivo negli altri, anche se non taceva sugli aspetti negativi e da correggere (senza troppi rimproveri).

– Alcuni suoi aspetti ci colpiscono ancora: l’attenzione che aveva per le famiglie degli alunni; l’accogliere le sfide del suo tempo e con coraggio trovare la strada per andare avanti; il suo amore appassionato per l’eucarestia e la Consolata, l’impegno e la generosità nel «fare bene il bene»…

– Lui entra concretamente nel nostro lavoro di formatori quando cerchiamo di vivere la sua spiritualità, trasmettiamo i suoi insegnamenti ai giovani, dedichiamo tempo per leggere di lui e conoscerlo sempre di più, conduciamo uno stile di missione, secondo i suoi insegnamenti…

Al termine di questi giorni, intensi e preziosi, nella messa conclusiva del 7 aprile, è stato consegnato a tutti un messaggio, nel quale tra l’altro si leggeva:

«L’ascolto della parola di Dio ci ha aiutato a rileggere e rimotivare il nostro ministero di formatori, riconoscendo come essenziale e fondamentale l’esperienza di Dio, che siamo chiamati a suscitare anche nella vita dei giovani che accompagniamo.

L’aver riscoperto il nostro fondatore Giuseppe Allamano come modello di formatore, paterno e attento con tutti, ci ha stimolato a guardare alla formazione anzitutto come capacità di accogliere, di stare vicini, di far sentire ai giovani che ci sono cari e di incoraggiarli a vivere con autenticità e generosità l’identità di missionari della Consolata.

L’esortazione di papa Francesco ai giovani, pubblicata proprio in questi giorni, offre un messaggio di speranza e un’indicazione anche a noi formatori di giovani missionari: “Lo sguardo attento di chi è stato chiamato ad essere padre, pastore e guida dei giovani consiste nell’individuare la piccola fiamma che continua ad ardere, la canna che sembra spezzarsi ma non si è ancora rotta. È la capacità di individuare percorsi dove altri vedono solo muri, è il saper riconoscere possibilità dove altri vedono solo pericoli. Così è lo sguardo di Dio Padre, capace di valorizzare e alimentare i germi di bene seminati nel cuore dei giovani” (Christus vivit, 67).

Ringraziamo tutti coloro che ci hanno accompagnato con la loro preghiera e chiediamo al Signore, per intercessione di Maria Consolata e del beato Giuseppe Allamano, di benedire i nostri cammini di formazione per la missione, facendo germogliare i semi di bene seminati in questo corso».

Insomma: riscoprire la «pedagogia allamaniana» per formare dei veri missionari della Consolata, orgogliosi della loro vocazione e felici di poter servire il Signore con gioia e santità di vita, in questo nostro mondo così complicato, differenziato e, spesso, pieno di tanta sofferenza… e  secondo le parole del logo del corso (scritte… in latino, per ovvi motivi di internazionalità): «Andando, annunciate il Vangelo a tutti i popoli», ma in perfetto… Allamano’s style!

p. Giacomo Mazzotti




La Polveriera


«I poveri hanno bisogno delle nostre mani per essere risollevati, dei nostri cuori per sentire di nuovo il calore dell’affetto, della nostra presenza per superare la solitudine. Hanno bisogno di amore, semplicemente» (messaggio di papa Francesco per la III giornata mondiale dei poveri).

Quanto dà fastidio questo papa che, un giorno sì e l’altro pure, continua a parlare dei poveri, non accontentandosi mai, neppure di quello che la chiesa, le parrocchie, i missionari fanno per loro. Ne ha parlato anche nel bel mezzo di questa caldissima estate, nel suo messaggio per la celebrazione (il prossimo 17 novembre), della giornata che lui stesso ha inventato per tenere accesa nel popolo cristiano l’attenzione verso tutti i poveri del mondo. Diventano, così, graffi impietosi le parole di papa Francesco che, avendo messo i poveri – davvero – al centro, non può tollerare che siano trattati con retorica e sopportati con fastidio, giudicati parassiti, scartati e sfruttati. Perché i poveri non sono numeri, ma persone a cui andare incontro. E, citando don Mazzolari, aggiunge: «il povero è una protesta continua contro le nostre ingiustizie; il povero è una polveriera, se le dai fuoco, il mondo salta!».

Occuparsi dei poveri, attendere con passione alla loro promozione non è allora un optional esterno all’annuncio del vangelo; al contrario, «è un servizio che è autentica evangelizzazione». E anche ai tanti volontari, che il papa ringrazia per la loro dedizione, chiede di non accontentarsi di venire incontro alle prime necessità materiali dei bisognosi, ma di «scoprire la bontà che si nasconde nel loro cuore, facendosi attenti alla loro cultura e ai loro modi di esprimersi, per poter iniziare un vero dialogo fraterno».

Le parole, appassionate e dure, del messaggio arrivano dritte al cuore di noi missionari che, seguendo l’invito di Giuseppe Allamano, nostro fondatore, siamo mandati tra le genti a portare la consolazione del Signore, che si attua «accompagnando i poveri non per qualche momento carico di entusiasmo, ma con un impegno che continua nel tempo». È questa la nostra vocazione ad vitam, che ci spinge ogni giorno a camminare con loro; ed è proprio in questo camminare insieme che la «Chiesa scopre di essere un popolo, sparso tra tante nazioni, con la vocazione di non far sentire nessuno straniero o escluso, perché tutti coinvolge in un comune cammino di salvezza». A noi missionari, allora, le parole di papa Francesco non danno fastidio; semmai ricordano, una volta di più, la bellezza e le esigenze senza sconti della nostra vocazione, che viviamo nella scia del nostro fondatore.

padre Giacomo Mazzotti

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Mi pare che la Madonna abbia sorriso


Testo di Giacomo Mazzotti


Il mese di maggio appena trascorso e, soprattutto, giugno, con la festa della Consolata, ci fanno sentire più forti la presenza e l’affetto di Maria, definita da papa Francesco, nella sua ultima Lettera ai giovani Christus vivit, «il grande modello per una Chiesa giovane, che vuole seguire Cristo con freschezza e docilità», che ci stimola a vivere il vangelo e a diffonderlo intorno a noi «con coraggio, entusiasmo» e… grinta missionaria. Il papa tuttavia riconosce che non è necessario fare un lungo percorso perché i giovani diventino missionari: «Anche i più deboli, limitati e feriti possono esserlo a modo loro… Un giovane che va in pellegrinaggio per chiedere aiuto alla Madonna e invita un amico ad accompagnarlo sta compiendo una preziosa azione missionaria». In questo piccolissimo spunto di «metodologia missionaria», Maria si intrufola ricordando ai giovani (e non solo a loro) che la vita non è «nel frattempo», ma che tutti noi siamo «l’adesso di Dio», chiamati a vivere il presente, l’oggi, con dedizione e generosità.

È sempre lei la «donna forte del sì che sostiene e accompagna, protegge e abbraccia» i discepoli del Figlio, in attesa dello Spirito Santo, perché con la sua presenza nasca «una Chiesa giovane», con i suoi apostoli in uscita, per far sorgere un mondo nuovo.

Dobbiamo, allora, anche noi, non solo amare e invocare Maria, ma anche «custodirla nel cuore», perché ci è stata affidata dallo stesso Gesù come un tesoro prezioso, una Madre che ci ricolma di attenzioni, nonostante la nostra piccolezza, la nostra fede fragile e, forse, la passione missionaria senza slancio.

Preparandoci alla festa della Consolata, vogliamo ringraziarla con le parole «autobiografiche», tenere e commosse di questa preghiera del nostro Fondatore:

«Ringrazio più voi, o Maria, che il Signore, di essere già da 35 anni vostro custode. Che cosa ho fatto in questi 35 anni? Se fosse stato un altro al mio posto, che cosa avrebbe fatto? Ma non voglio investigare; se fossi stato tanto cattivo, non mi avreste tenuto tanti anni: è questo certamente un segno di predilezione. Se ho fatto male, pensateci, aggiustate voi, e che sia finita; accettate tutto come se l’avessi fatto perfettamente. Prendete le cose come sono; mi avete tenuto, dunque dovete essere contenta. – E mi pare che la Madonna abbia sorriso».

Giacomo Mazzotti


Padre di missionari

Giuseppe Allamano nella vita di ogni giorno

L’Allamano attorniato dalla comunità dei missionari di fronte al pilone delal Consolata fatto da lui costruire all’inizio della salita che porta al santuario di St Ignazio, nel 1908, per commemorare il primo centenario di fondazione della casa di spiritualità.

L’Allamano aveva una visione positiva circa il futuro del suo Istituto, fondato nel 1901, e seppe infonderla nei suoi missionari. Incoraggiò fratel Benedetto Falda già nei primi anni, mentre era a Marsiglia in partenza per il Kenya, perché un missionario che avrebbe dovuto partire con lui era stato dimesso: «L’albero dell’Istituto è piantato saldamente. Cadranno ancora delle foglie, forse dei rami si piegheranno, ma l’albero crescerà gigantesco; ne ho le prove in mano». La sua convinzione era fondata su criteri apostolici: «Il nostro Istituto durerà sempre finché ci saranno anime da salvare. Vedete la perpetuità dell’Istituto!». Non era la sua abilità di organizzatore che lo convinceva, ma la sua fede nel progetto di Dio di salvare tutta l’umanità.

Anche sul piano economico la sua fiducia era illimitata. Confidò ad un missionario: «Non datevi mai pensiero dei mezzi materiali, del denaro. Purché voi vi manteniate fedeli ai vostri impegni e conserviate il vero buono spirito, nulla vi mancherà mai. Io non ho mai cercato il denaro; e il denaro mi corse sempre appresso, senza domandarlo».

Agli ordini della Consolata

Come fondatore di un istituto missionario, l’Allamano tenne sempre un atteggiamento di grande modestia. Si riteneva un semplice operaio agli ordini della Consolata. Mirava alla qualità dei missionari e non al loro numero; all’efficacia spirituale del loro ministero e non alla potenza esteriore delle opere. Sentiva forte la sua responsabilità di educatore dei giovani che la Provvidenza gli affidava perché li educasse ad essere veri missionari. Anzitutto sapeva accogliere con simpatia quanti si presentavano per essere ammessi nell’Istituto. Ad un gruppo di nuovi allievi suggerì: «Ora scriverete alla vostra mamma di stare tranquilla, perché voi qui avete trovata una nuova Mamma, la Consolata». Non temeva di proporre ai suoi giovani grandi ideali fino alla santità. Oltre agli incontri individuali, ogni domenica era puntuale a tenere una conferenza formativa a tutti. Però non intendeva essere solo maestro, ma voleva soprattutto essere padre. Assicurava: «A voi parlo semplicemente, ma prima mi preparo, consulto e poi vi dico quanto il cuore mi detta». Soprattutto chiedeva fiducia e sincerità: «Di voi voglio sapere tutto, eccetto i vostri peccati; per il resto non dovete nascondermi nulla». «Io amo la spontaneità del cuore. E voi ragazzi dovete venire a me con il cuore aperto».

L’aria sana che si respirava

Non mi soffermo ad indicare i valori formativi sui quali l’Allamano insisteva, quali la fede nell’Eucaristia, la preghiera assidua, l’amore alla Madonna, l’ubbidienza, lo spirito di sacrificio, ecc., ma mi limito a riportare tre piccoli episodi, scelti tra molti. Presi separatamente sembrano insignificanti, ma letti insieme rivelano l’aria bella e pulita che si respirava in quel tempo. Tra l’Allamano e i giovani si era creato un rapporto molto spontaneo, proprio di famiglia, che favoriva la formazione, e che l’Istituto ha cercato di conservare anche in seguito.

Un primo fatterello avvenne durante le vacanze estive a S. Ignazio. Dopo pranzo i ragazzi dovevano ritirarsi nelle loro camere e non andare a giocare per non disturbare chi si riposava. L’assistente era inflessibile. Una volta, quando l’Allamano era presente, alcuni sgusciarono dalle camerette e bussarono alla sua porta, mentre riposava. Ecco il dialogo: «Cosa volete?» – «Signor Rettore, non possiamo dormire e vorremmo andare a giocare alle bocce» – «Andate pure» – «Ma, sig. Rettore, l’assistente non ce lo permette, teme che disturbiamo la comunità». Avendo capito perché avevano bussato alla sua porta, si dimostrò comprensivo e rispose: «Vengo anch’io…». E poi si fermò con loro, contava i punti, lodava chi giocava meglio. Quei ragazzi avevano soggezione dell’assistente, ma non di lui.

Un secondo episodio riguarda una pratica piuttosto singolare. Il direttore di Casa Madre suggerì ai giovani di inginocchiarsi davanti all’Allamano per baciargli la mano, in segno di rispetto. Egli se ne accorse subito e, durante una conferenza, ne parlò chiaramente: «Ho un’altra cosa da dirvi. Ho visto che da un po’ di tempo mi fate la genuflessione. Ma non voglio che mi facciate la genuflessione. Perché io temo che aumentando i segni esterni di rispetto, diminuiscano quelli di confidenza. Io preferisco che manteniate la vostra confidenza a tutti questi segni esterni. No, no, non fatelo. Non la farete neppure quando sarò morto la genuflessione».

Un terzo episodio coinvolse i ragazzi del ginnasio che l’Allamano incontrò mentre stavano facendo merenda sotto il portico. Avendo promesso per scherzo che sarebbe venuto a vivere con loro, essi gli chiesero di fermarsi subito. Iniziò un simpatico dialogo: «Ma non mi avete ancora preparato la camera». All’assicurazione dei ragazzi che la camera c’era già: «Ma alla Consolata c’è la Madonna che mi aspetta». I ragazzi non cedettero e assicurarono che la Consolata c’era anche qui: «Ma non è quella là». Essi promisero di andare a prenderla e portarla in Casa Madre. L’Allamano, un po’ commosso, concluse la conversazione così: «Oh, miei cari, per venire qui, bisogna che rinunzi là… E come volete dopo 40 anni che vi sono? Verrò a trovarvi più spesso che posso». Salutandoli: «Ci rivedremo ancora». Fu di parola.

Concluso con le parole che l’Allamano rivolse ai giovani al termine di una festicciola di famiglia in occasione del suo onomastico. Di fronte alle numerose lodi che gli furono rivolte, fece questo semplice commento: «Quello che avete detto di me, ve lo ha detto il vostro buon cuore, e ve ne ringrazio. E quello che non merito questa volta, cercherò di meritarlo un’altra».

Padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano: uno di famiglia

Il 16 febbraio scorso i missionari della Consolata hanno celebrato la festa del beato Allamano. Durante il triduo di preparazione alcuni laici hanno offerto la loro testimonianza su come hanno conosciuto la figura dell’Allamano e come essa ha inciso sulla loro vita. Di seguito riportiamo la prima parte della toccante testimonianza del dott. Ottavio Losana, già professore universitario, membro attivo del gruppo «Amici Missioni Consolata» e, per tanti anni, medico di famiglia della comunità di Casa Madre. È cresciuto con una vera devozione per l’Allamano grazie ai genitori e soprattutto ai nonni materni che l’avevano conosciuto e frequentato di persona.

«Alla mia nascita, l’Allamano era morto da otto anni e questo vuol dire che era contemporaneo dei miei genitori e ancora di più dei miei nonni. In quegli anni la famiglia di mio padre abitava in via San Dalmazzo e quella di mia mamma in via Delle Orfane: tutti nel centro di Torino, a due passi dal Santuario della Consolata che frequentavano. In particolare, la nonna paterna, Eleonora, conosceva l’Allamano molto bene, lo aveva invitato più di una volta a casa, lo frequentava abitualmente nel Santuario, lo chiamava semplicemente “El canonic” (Il canonico) perché allora in famiglia si parlava in piemontese e diceva che non l’avevano fatto vescovo perché era “cit e brut” (piccolo e brutto). Forse non era vero, forse per fare i vescovi importava anche l’aspetto fisico, comunque lei gli era affezionatissima.

Teneva nel suo messale un’immaginetta, una specie di “ricordino di morte”, che rappresentava il busto dell’Allamano che poi col papà era passato alla nostra famiglia e lo facevano vedere a noi bambini e noi lo chiamavamo “barba santo” (zio santo). In pratica ci dicevano che era un santo molto prima del processo di canonizzazione. Nell’opinione dei suoi fedeli era un santo. E questo è significativo.

Quando poi la famiglia si è trasferita in Piazza Bernini, via Giacomo Medici, mia mamma ha cominciato a frequentare la chiesa dei missionari di C.so Ferrucci, vicina a casa nostra. E la frequentava anche una signora, profuga da Pola con la sua famiglia, che aveva due bambini piccoli: Marcella e Mario. Marcella aveva due anni, ma sarebbe diventata mia moglie.

Poi c’è stata la parentesi della guerra: dal ‘42 al ‘45 a Torino bambini non ce n’erano più perché tutte le famiglie erano sfollate. Di notte, venivano gli aerei a bombardare e poi, nel ‘43-’44, lo facevano anche di giorno. Casa Madre, centrata da una bomba, fu ridotta a un cumulo di macerie. Ma negli anni successivi l’hanno ricostruita e la nostra frequentazione dei missionari è ripresa.

Io ero diventato medico e venivo tutti i lunedì mattino in infermeria per vedere se qualche padre avesse problemi di salute. Fra i tanti, mi permetto di ricordare p. Saverio Dalla Vecchia: è lui che aveva “inventato” – diciamo così – l’infermeria e p. Armanni Daniele che è stato suo successore.

Nel 1962 mi sono sposato proprio in questa chiesa per cui questo luogo ci è molto caro e abbiamo continuato a frequentarlo sempre. Nel 1990 c’è stata la beatificazione dell’Allamano e allora ho deciso che dovevo saperne di più e che non mi bastava ricordare il “barba santo”, l’immaginetta della nonna.

La prima documentazione che ho avuto è un bel libro fotografico – Giuseppe Allamano. Uomo per la missione, Imc – e qui ho cominciato a saperne qualcosa di più. Poi ho letto altre cose, non tutti i volumi di p. Tubaldo… in ogni modo ho appreso molte cose che mi hanno fatto conoscere e apprezzare la figura e l’opera di Giuseppe Allamano.

Ho ascoltato anche tante testimonianze dalla viva voce di p. Pasqualetti, p. Pavese e altri, ma quello che mi ha fatto conoscere a apprezzare di più l’Allamano sono stati i suoi missionari».

…continua

L’ho affidato al beato Allamano

Parlando al telefono con una mia amica, disperata e piangente, mi ha detto che suo fratello Marzio era in fin di vita (il male era iniziato 4 giorni prima): i medici gli avevano somministrato un farmaco e, se nella notte non avesse funzionato, sarebbe morto. La mia amica mi ha chiesto di pregare per lui. Io l’ho affidato al beato Giuseppe Allamano e ho iniziato la novena: la faccio a casa e tengo una candela grande, accesa tutta la notte, fino al mattino…

Circa un’ora fa, la mia amica mi ha comunicato che il fratello era fuori pericolo.

Nei giorni successivi, mi ha riferito che stava meglio, ha cominciato a mangiare, lo hanno anche liberato dai tubi che aveva e stava migliorando piano piano. Io continuo con la novena al beato Allamano e, se non basta, la ripeto di nuovo. Non mi arrendo a pregare, perché possa migliorare (dopo che era stato dato due volte per morto) e possa guarire del tutto.

Silvana M. – Roma
(messaggi SMS)




Una boccata d’aria fresca

a cura di Sergio Frassetto |


Una boccata d’aria fresca che allarga cuore e polmoni in questa primavera abitata dalla «notizia» della risurrezione del Signore; notizia quasi incredibile che ridona speranza ai nostri giorni, spesso intaccati dalla «paralisi della normalità» (papa Francesco).

Una «boccata d’aria fresca», così è stato definito il «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», firmato il 4 febbraio scorso da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, il grande iman di Al-Azhar. E non si fa fatica a definirlo un documento storico, perché è la prima volta che viene enunciata e sottoscritta da personaggi così importanti (leader delle due più consistenti religioni mondiali), una verità quasi ovvia: «Siamo cittadini dell’umanità, credenti appartenenti a diverse tradizioni religiose o anche persone di buona volontà», che s’impegnano a «costruire insieme la solidarietà umana per guarire le ferite dell’umanità». O, più semplicemente, riconoscendo che siamo tutti fratelli e sorelle, a intraprendere un cammino nuovo nel quale, superati antichi pregiudizi e moderne paure, riscoprire i valori della giustizia, del bene e della pace come «ancore di salvezza per tutti».

Parole forse scontate, ma che non lo sono affatto se guardiamo al contesto in cui sono state solennemente proclamate, firmate e proposte come road map per i credenti del mondo intero. Aria di primavera, aria di missione per chi, come noi, è fermamente convinto che l’annuncio e la testimonianza del Vangelo, a tutti e senza muri, sono la strada più sicura per costruire, a piccoli passi, in questo nostro mondo ferito, la fraternità e la solidarietà tra i popoli.

E come non rallegrarci, ricordando che il nostro beato fondatore volle che i suoi missionari scegliessero la mansuetudine come strumento di trasformazione, «la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo». L’aria dura, il senso di superiorità, la verità in tasca, le parole violente e offensive… non appartengono ai missionari dell’Allamano. Perché, come dice ancora il documento di Abu Dhabi, solo «il dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della tolleranza, dell’accettazione dell’altro e della convivenza contribuiranno a ridurre molti problemi che assediano ancora gran parte del genere umano».

Ci voleva proprio questa boccata d’aria fresca!

padre Giacomo Mazzotti


L’Allamano rettore

L’Allamano accettò la nomina di rettore del santuario della Consolata, nel 1880, quando aveva appena 29 anni, solo per obbedienza al suo arcivescovo. L’incarico includeva pure quello di rettore del convitto ecclesiastico per la formazione morale e pastorale dei giovani sacerdoti. Ecco alcune testimonianze che si riferiscono a questo doppio servizio che durò tutta la sua vita.

Rettore del santuario

Con l’aiuto del can. Giacomo Camisassa, suo principale collaboratore, l’Allamano ben presto pose mano al restauro del santuario della Consolata che era piuttosto malridotto. Era sicuro che la ripresa della vita cristiana in quel centro mariano doveva iniziare dal decoro del tempio stesso. I restauri, affidati ai migliori architetti del tempo, furono molto costosi. Confessò ad un missionario: «Per la Consolata ho sperperato tutto». Qualcuno gli fece notare il grande costo dei lavori. Senza scomporsi rispose: «Se non basta uno, ne spenderemo due milioni di lire, ed anche di più, purché la Madonna abbia in Torino un Santuario degno di Lei». Era convinto che la Provvidenza non lo avrebbe abbandonato in questa impresa: «State tranquilli, che la Madonna provvederà».

Sicuramente la cura principale dell’Allamano era per l’aspetto spirituale. Iniziò subito, scegliendo collaboratori giovani e in sintonia con il suo spirito. Con lui il santuario divenne il centro spirituale della diocesi e non solo. Il decoro delle celebrazioni, anche nei dettagli, era il criterio che lo guidava. Per esempio, esigeva che le ostie fossero sempre fresche: «Voglio che Nostro Signore si rispetti anche in questo!». Un giorno, gli sfuggì questo lamento riguardo le celebrazioni liturgiche: «Come sta male vedere quel correre da una parte o dall’altra a prendere questa o quella cosa, o ricercare il turibolo e la stola, o un cingolo, o un manipolo, che mancano all’ultimo momento! Tutto si prepari per tempo, e chi è incaricato di questo lasci il resto».

Il modo decoroso di comportarsi in chiesa doveva iniziare dalla sacrestia. Anche su questo punto l’Allamano espresse chiaro il proprio pensiero riferendosi in particolare ai sacerdoti: «Il parlare forte in sacrestia dimostra poco rispetto per la chiesa annessa, e il pubblico ne è poco bene impressionato, e quasi scambia la sacrestia con la piazza; se invece, chi sta in sacrestia si comporta con decoro e con rispetto, invita, col suo contegno, al raccoglimento e prepara alla confidenza molte persone, che a volte vengono nella sacrestia per un consiglio, o per narrare casi dolorosi di famiglia; così più facilmente se ne vanno edificati e confortati».

Per la pulizia e l’ordine nel santuario seguiva un principio semplice e concreto che lui stesso manifestò: «Le cose grandi saltano agli occhi; le piccole no. Invece la cura minuta, quotidiana, insistente è quella che dimostra ordine, amore all’altare e rispetto per il decoro della Casa di Dio». Sono indicative queste parole udite da una suora: «Alla Consolata credo che trovi più carta io per terra che non tutti i domestici insieme».

Al sacerdote Elia Lardi diede questo suggerimento: «Vogliamo che il popolo pratichi la religione? Teniamo il tempio pulito e decorosamente ornato; procuriamo, sì, la brevità delle funzioni, ma fatte con spirito di fede, convinti di quanto facciamo».

Rettore del convitto ecclesiastico

L’Allamano fu un apprezzato educatore di sacerdoti. Non solo convinse l’arcivescovo Lorenzo Gastaldi a fare ritornare i giovani sacerdoti convittori nei locali dell’ex monastero cistercense adiacente il santuario della Consolata, ma ne assunse la cura per più di 40 anni. Nei primi tre anni dovette addirittura assumersi l’insegnamento della morale, condizione assoluta posta dall’arcivescovo: «O tu prendi l’insegnamento, o non si fa nulla». L’Allamano ubbidì, ma non adottò i trattati che aveva composto l’arcivescovo, perché li riteneva troppo rigidi. Anzi, al riguardo avrebbe detto al segretario: «La più bella cosa che potreste fare… è di bruciare quei trattati».

Quando accoglieva i nuovi convittori diceva loro parole che, forse, attingeva dallo zio Giuseppe Cafasso: «Siete sacerdoti, ricordatevi sempre di essere sacerdoti. Facciamo in convitto una famiglia cristiana sacerdotale». Aggiungeva anche un suo consiglio, che dice molto del suo senso pratico: «Mi raccomando di avere tanta carità coi domestici. A proposito di questo: essi vi porteranno in camera i bauli e materassi; date loro qualche mancia; è un lavoro di più che fanno; siate generosi; ricordatevi che nella vita avrete bisogno di piccoli servizi; la vostra generosità, ben inteso proporzionata, vi renderà facile anche l’adempimento dei doveri del vostro ministero. Ricordatevi, che da noi sacerdoti quelli che rendono qualche servizio aspettano…».

Aveva un’attenzione particolare per i convittori provenienti da famiglie povere. Confortò il giovane Sansalvadore che non poteva pagare la retta: «Coraggio, studia volentieri; il convitto non solo rinunzia nei tuoi riguardi a quel poco che dovresti versare oltre la Santa Messa, ma io ti darò mensilmente lire dieci (un aiuto per quel tempo!, ndr) da mandare alla mamma».

Finita la guerra, quando tutti i convittori furono tornati, l’Allamano riprese le consuete conferenze del giovedì. Da come ne parlò con un missionario che era andato a trovarlo nel suo ufficio, si nota lo spirito con cui svolgeva il suo servizio di rettore: «Voglio che si persuadano – e lo dico loro – che non sono in convitto solo per studiare un po’ di morale, ma che sono per formarsi alla pietà e allo spirito ecclesiastico». Facendogli vedere il quaderno delle conferenze ai convittori, cucito alla buona: «Può stare così, serve solo a me. Tutto ciò che dico, lo dico alla buona, ma mi preparo sempre, perché voglio che siano cose sode».

Quando comunicò al convittore A. Vaudagnotti che era stato nominato assistente e professore in seminario, lo incoraggiò confidandogli la propria esperienza: «Il seminario è la più bella parrocchia della diocesi. Lo diceva a me mons. Gastaldi nel nominarmi direttore del seminario, mentre io vagheggiavo la vita più varia del vicecurato. E lo ripeto a lei».

Termino con questo aneddoto. Un convittore, risentito per un diniego ricevuto, disse: «Lei crede di essere un santo, ma non lo è mica». L’Allamano non si scompose, ma rispose calmo: «Preghi per me, perché lo diventi, e quando sia santo ne guadagnerà anche lei». Fu il sacerdote interessato a raccontare questo episodio, dimostrandosi felice di avere avuto come rettore davvero un santo.

padre Francesco Pavese

20 giugno 2018, veduta del santuario della Consolata © Gigi Anataloni /AfMC


Clicca qui per il sito dedicato all’Allamano.

 




2019 all’insegna della missione

Buon anno! I nostri auguri ai missionari e missionarie della Consolata, ai
laici che ci seguono e ci vogliono bene, ai tanti amici che, conoscendo il
nostro beato fondatore, seguono il suo esempio e continuano ad invocarlo con
fiducia.

Abbiamo da poco iniziato il cammino di questo 2019 e ci
siamo augurati vicendevolmente che sia «buono» (anzi, migliore dell’anno appena
passato). Certamente ci riserva una bella sorpresa: un intero «mese missionario
straordinario», il prossimo ottobre, dentro il quale si incastonerà il «Sinodo
per l’Amazzonia».

Inutile dire che il Sinodo 2019 ci tocca da vicino, perché
parecchi nostri missionari lavorano in quell’immenso territorio che si allarga
in vari paesi latinoamericani e dove «una profonda crisi è stata scatenata da
un prolungato intervento umano, caratterizzato da una “cultura dello scarto” e
da una “mentalità estrattiva”».

Papa Francesco, prima dell’indizione del Sinodo
amazzonico, così scriveva al cardinale prefetto della Congregazione per
l’evangelizzazione dei popoli: «Indìco un mese missionario straordinario
nell’ottobre 2019, al fine di risvegliare maggiormente la consapevolezza della missio
ad gentes
e di riprendere con nuovo slancio la trasformazione missionaria
della vita e della pastorale. Ci si potrà ben disporre ad esso, anche
attraverso il mese missionario di ottobre del prossimo anno, affinché tutti i
fedeli abbiano veramente a cuore l’annuncio del Vangelo e la conversione delle
loro comunità in realtà missionarie ed evangelizzatrici; affinché si accresca
l’amore per la missione, che “è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è
una passione per il suo popolo”».

A questi due eventi, vorremmo aggiungere la memoria di un
centenario che ci è caro e che celebra la nostra presenza missionaria in
Tanzania, dove i primi quattro «arditi della Consolata» sbarcarono nell’aprile
del 1919; avevano il permesso e la benedizione dello stesso fondatore, che
aveva acconsentito a quella terza apertura missionaria del suo giovane
Istituto, nonostante «la scarsità di personale» e in obbedienza al papa…
soggiungendo: «Io sorrido quando sento dire che c’è tanto lavoro. Più lavoro c’è
e più se ne fa; ma bisogna lavorare con energia, che è la caratteristica del
missionario».

Sia ancora lui, allora, a ispirarci e accompagnarci nel
nuovo anno perché, nella preghiera, nella riflessione e in gesti concreti di
apertura e solidarietà, ci prepariamo al prossimo «straordinario ottobre» che
colora di intensa gioia missionaria i giorni della nostra attesa.

P. Giacomo
Mazzotti

L’Allamano nella vita di ogni giorno

Questa rubrica che propone diversi aspetti della ricca personalità del
beato Giuseppe Allamano, durante l’anno 2019 conterrà due pagine con la pretesa
di una certa novità: un Allamano «a tu per tu».

Non si può dire che l’Allamano non sia conosciuto,
soprattutto nei territori dove vivono e operano i suoi missionari e
missionarie, sia in Italia che in tante altre nazioni. Sono state pubblicate
tutte le sue conferenze come pure tutta la sua corrispondenza scritta e
ricevuta. Le pubblicazioni che trattano di lui sono numerosissime e in diverse
lingue.

Non è facile offrire ancora qualcosa di nuovo
sull’Allamano. A ben pensarci, però, c’è ancora una strada da percorrere. Si
tratta di aprire gli archivi e ascoltare certe sue parole che abitualmente
rimangono nascoste. L’Istituto possiede un archivio molto ricco, nel quale, tra
il resto, è conservata una grande quantità di testimonianze sull’Allamano.

Subito dopo la sua morte, molti sacerdoti, religiosi,
suore e laici, che lo avevano conosciuto da vicino, hanno sentito il desiderio
di riferire i propri ricordi personali. Non volevano che la memoria di un tale
personaggio finisse per scomparire. Quando poi è stata iniziata la causa per la
beatificazione, molte di queste testimonianze sono state garantite dal
giuramento.

È interessante riprendere in mano questi documenti, per
lo più manoscritti, e rileggerli con attenzione. Spesso i testimoni non si
accontentano di parlare di lui, ma riportano addirittura sue parole che
ritengono di ricordare, scrivendo: «l’Allamano diceva…» e, tra virgolette,
riportano le sue espressioni in forma diretta.

Riguardo queste testimonianze, si deve tenere presente
che il testimone ridice le parole dell’Allamano come le ricorda, affidandosi
cioè alla propria memoria. Non è quindi sempre possibile pretendere l’esattezza
assoluta della terminologia, ma solo quella del concetto.

La novità di queste pagine consiste nel fatto che
contengono le parole e le reazioni dell’Allamano «nella vita di ogni giorno».
Non l’Allamano delle conferenze o delle lettere, ma nei suoi interventi in
situazioni concrete della vita, diverse l’una dall’altra e quindi spontanee. In
definitiva un Allamano immediato  proprio
come era nella vita ordinaria.

Proporrò queste parole, riferite dai testimoni e poco
conosciute, attraverso dei fatterelli e facendo notare come l’Allamano li seppe
vivere e interpretare. Le sue parole collegate a questi episodi sono quelle che
i testimoni riferirono avendole udite direttamente da lui.

Al Paese

Il primo tema che propongo riguarda Castelnuovo, suo paese natale, oggi
detto il paese dei santi (Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Giuseppe Allamano).
Sono quattro fatterelli che dimostrano la sua semplicità umana e la sua
ricchezza interiore.

Il primo fatto
tocca la sua vocazione al sacerdozio a proposito della quale l’Allamano seppe
dare la giusta importanza ad un dettaglio della sua infanzia. Un giorno, il
parroco e il sindaco del paese capitarono a casa sua a visitare la mamma.
Avendolo visto lì in cucina, piuttosto timido, domandarono alla mamma: «Che
cosa facciamo di questo ragazzo?». La risposta di quella saggia donna dimostra
che conosceva di quale stoffa era fatto il figlio: «Gli lascio fare quello che
vorrà», rispose. Il parroco, che stimava il ragazzo, non si accontentò: «Non lo
sprechi; lo faccia studiare».

Un fatto così
semplice poteva passare inosservato, ma non per l’Allamano, che fin da ragazzo
sapeva rendersi conto della presenza di Dio nella propria vita.

Ecco il suo
commento, confidato anni dopo ad un suo missionario: «Se non fossero passati da
casa mia il sindaco e il parroco, forse non avrei seguito la vocazione». Sembra
che abbia voluto dire: «È stata la Provvidenza a mandarli a casa mia proprio
quel giorno, quando io ero in cucina con la mamma, che così fu convinta e mi
mandò a studiare a Valdocco da Don Bosco».

Un secondo
fatterello riguarda il suo rapporto proprio con la mamma, quella «santa donna»,
come lui la chiamava, alla quale era molto legato, particolarmente durante gli
anni di una lunga malattia che la portò alla cecità e alla totale sordità. La
mamma era la sorella di Giuseppe Cafasso, morto in concetto di santità. Per
ottenere la guarigione, sicuramente il figlio, affezionato, l’avrà raccomandata
all’intercessione dello zio. Riferendosi poi al fatto che non era stata
guarita, pur essendo sorella, si accontentò di questo bonario commento
confidato ad una suora missionaria: «I Santi non fanno le grazie ai parenti». Né
perse la sua fiducia nel Cafasso, del quale curò la causa presso la Santa Sede
fino alla beatificazione.

Il terzo fatto riguarda la sua
presenza a Castelnuovo. Dopo l’ordinazione, si recò al paese sempre più
raramente. Quando il cognato Giovanni Marchisio si ammalò, andò a trovarlo, ma
senza dilungarsi troppo. Lo raccontò così: «Sono stato a trovare mio cognato;
mi fermai poche ore; alle due ero ancora a Torino, alle sette avevo già finito
il viaggio. Da ben quindici anni non ero più stato a Castelnuovo».

Un ultimo
episodio piuttosto curioso. Al sacerdote don Pagliotti, suo penitente, saputo
che dedicava la nuova chiesa parrocchiale in Torino a S. Agnese, espresse la
sua soddisfazione aggiungendo questa confidenza: «I miei genitori avevano già
deciso, prima della mia nascita, di pormi il nome di Agnese… se fosse nata una
bambina. E poiché nacqui proprio il giorno di S. Agnese [21 gennaio 1851], mia
madre mi instillava gran devozione a questa cara martire, e alla sua protezione
ho pure riposto l’esito del gran passo dell’istituzione delle Missioni della
Consolata».

P. Francesco Pavese




Comunità simpatiche … secondo l’Allamano


Il mese di novembre si apre con la solennità di «Tutti i Santi» e, quest’anno, si apre subito dopo il Sinodo dei giovani che ha avuto tra le sue parole chiave «santità», non certo politically correct (parlando di giovani). Tra i vari documenti del Sinodo, appare anche questa annotazione: «Convinti che la santità “è il volto più bello della chiesa”, prima di proporla ai giovani, siamo chiamati tutti a viverla da testimoni, divenendo così una comunità “simpatica”. Solo a partire da questa coerenza, diventa importante accompagnare i giovani sulla via della santità. Se sant’Ambrogio affermava che “ogni età è matura per la santità”, senza dubbio lo è anche la giovinezza».

Tutti noi adulti, dunque, siamo invitati a diventare «simpatici», ossia attraenti e capaci di accompagnare i nostri giovani sulle strade della santità. In questo, per noi missionari della Consolata, è stato maestro e testimone esemplare il beato Allamano che, con autorevolezza e sapienza, ha saputo esercitare con i giovani aspiranti missionari una vera «pedagogia della santità»; come appare, ad esempio, nelle poche lettere da lui scritte a fratel Benedetto Falda, missionario poco più che ventenne e appena arrivato in Africa.

Ricordandolo con nostalgia e trepidando un poco per lui, l’Allamano gli scrive: «Ciò che ti raccomando particolarmente è di non mai scoraggiarti dei tuoi difetti, sia di umiltà, di ubbidienza, di carità o d’altro. Non sei ancora santo e di questa roba ne avrai sempre, finché vivrai, frutto in gran parte del tuo carattere vivace. Basta che abbia davanti a Dio il desiderio di emendarti… e poi, allegro come prima!». E ancora: «Comprenderai come il mio cuore paterno abbia esultato nel sapere della tua professione perpetua. Il caro p. Morino me ne scrisse una minuta relazione, riferendomi i punti principali del bel discorso del p. Cagliero. Metti in pratica tale predica e sarai il modello di quanti fratelli verranno dopo di te… Felice te! Sarai capo di una grande schiera di santi fratelli in cielo e dovrai lassù anche ringraziare me, che non ti risparmiai le correzioni».

Questi cenni brevissimi, ma luminosi, ci aiutano a scoprire, una volta di più, la volontà del Signore «che ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» (Gaudete et exsultate, 1). Non solo, ma che questa «meta alta» a cui tutti siamo chiamati deve essere proposta ai giovani con l’accompagnamento, l’affetto e la guida sapiente… proprio come il beato Giuseppe Allamano ci ha mostrato e insegnato.

Giacomo Mazzotti

 

Suore per la Missione

I primi missionari della Consolata intravidero subito che il loro apostolato sarebbe rimasto penalizzato senza l’apporto delle suore. Il contatto con l’ambiente femminile e con i bambini, tutto l’apparato infermieristico e, parzialmente, anche quello scolastico, la cura degli ambienti delle missioni, erano situazioni nelle quali le suore si sarebbero mosse molto meglio.

Padre Filippo Perlo, procuratore del primo gruppo, appena quattro mesi dopo l’arrivo in Kenya, inviò un messaggio allo zio, il canonico Giacomo Camisassa, da trasmettere all’Allamano: «Per ora dica al Sig. Rettore che se vuole mandare 100-200 missionari, non vi è che l’imbarazzo della scelta del posto. Ad ogni passo si presentano splendide popolazioni. Se vi sono pochi preti mandi suore. Convertiremo il Kenya con le suore».

Sia l’Allamano che il Camisassa, conoscendo l’esperienza di altri istituti missionari, erano più che convinti della necessità di personale femminile in missione. Così, ben presto, l’Allamano si accordò con il canonico Giuseppe Ferrero, padre della Piccola Casa della Divina Provvidenza, il Cottolengo, ed ottenne che alcune suore Vincenzine partissero per collaborare con i suoi missionari in Kenya.

1903 le prime suore Vincenzine in Kenya

Le missionarie Vincenzine del Cottolengo

Le suore del Cottolengo rimasero in Kenya dal 1903 al 1925, e subito pagarono un alto prezzo in vite umane. La loro santa avventura missionaria si aprì con la morte di sr. Editta e di sr. Giordana già nel 1903, e si concluse con la morte di sr. Maria Carola nel 1925, mentre stava rientrando a Torino in nave. Per lei il mare divenne il suo sepolcro.

In occasione della beatificazione del Cottolengo, nel 1917, prima che tutte le missionarie Vincenzine lasciassero il Kenya, l’Allamano espresse pubblicamente la riconoscenza sua e dei missionari scrivendo: «Mirabile fu la fortezza con cui queste cooperatrici dei miei missionari li coadiuvarono nelle difficoltà degli inizi straordinariamente ardui e duri. Alcune di esse ne meritarono già il premio, volate in Cielo; ma altre ne presero il posto; e anche oggidì, in numero di 36, compatte e sempre molto agguerrite contro il clima, istruite da lunga pratica, compiono un’opera apostolica di cui la loro modestia vieta di dire il valore e il merito, precedendo, come anziane, le già numerose missionarie della Consolata, divenute loro compagne di apostolato».

Le missionarie della Consolata

Quando i responsabili del Cottolengo non furono più in grado di rispondere alle esigenze delle missioni che chiedevano suore sempre più numerose, l’Allamano si vide costretto a prendere in esame l’eventualità di iniziare un istituto femminile per conto suo. A spingerlo in questa direzione erano pure le insistenze dei missionari.

Per iniziare l’istituto delle missionarie, l’Allamano seguì il suo metodo di discernimento che usava per ogni attività importante e consisteva in questo trinomio: pregare, consigliarsi e ubbidire.

Certo pregò molto. Non disse mai quanto, ma in occasione della memoria liturgica del beato Cottolengo si lasciò sfuggire questa confidenza con le suore: «Oggi è la festa del beato Cottolengo. Prima d’incominciare il vostro istituto io sono andato a pregare sulla sua tomba. Naturalmente ho dovuto pregare e poi consigliarmi e ciò ho fatto non solo coi galantuomini di questo mondo, ma anche coi Santi. Gli ho detto: “Ho da fare questo istituto o no? Veramente avrei più caro di non farlo; la mia pigrizia vorrebbe quello. Anche voi avreste fatto tanto volentieri il canonico, eppure avete realizzato questo complesso di carità. Dunque, devo farlo o non farlo?“». Poi quasi scherzando: «Quel che mi abbia detto non lo dico a voi. Però, se non si faceva l‘istituto per i missionari, non si faceva per voi sicuro». E le suore capirono.

La prima foto della Suore della Consolata in Kenya

Si consigliò, come disse, anche con i «galantuomini di questo mondo». Sicuramente con il suo arcivescovo, il card. Richelmy, e con il prefetto di Propaganda Fide, il card. Girolamo Gotti. Tutti lo spingevano per quella direzione, incoraggiandolo ad iniziare presto. Chi, però, diede la spinta decisiva fu il papa san Pio X. L’Allamano stesso raccontò come si svolsero le cose durante un’udienza privata con il papa. Mentre ricordava alle suore la fondazione dei missionari, fece questa precisazione: «Poi, ma molto più tardi, siete venute voi, ma voi siete del papa Pio X. Una volta che gli parlavo di questa nuova fondazione, mi disse: “Bisogna farla”. E avendo io aggiunto che credevo di non avere la vocazione per questo, egli mi rispose: “Se non l’hai te la do io”. Ed ecco le suore».

Su questo particolare l’Allamano ritornò altre volte, perché per lui non era solo un dettaglio insignificante, ma la più esplicita espressione della volontà di Dio. Alle missionarie disse ancora: «L’idea della fondazione venne dal papa Pio X, che è il rappresentante di Gesù Cristo in terra, quindi non c’è stato neppure un momento che questa istituzione non sia stata di Nostro Signore». E in altra occasione: «È il papa Pio X che vi ha volute; è lui che mi ha dato la vocazione di fare delle missionarie». L’obbedienza al papa fu il fondamento della sua serenità di fondatore e di educatore delle missionarie.

C’è una testimonianza che aggiunge un aspetto originale e forse determinante. Secondo quanto scrisse padre Giuseppe Gallea, sembra che sia stato addirittura Pio X a suggerire la vera motivazione della fondazione: «Le opere in missione – avrebbe detto il pontefice all’Allamano -, procederanno meglio se le suore saranno formate con lo stesso spirito che avete dato ai missionari».

Missionarie della Consolata in Etiopia si adattano ai mezzi di trasporto locale.

Molte suore, poche missionarie

Raccomandando alle loro preghiere il card. G. Gotti morente, l’Allamano così si espresse con le missionarie: «Era un uomo di fede; fu anche lui che mi incoraggiò a fondare le suore; egli stesso mi disse: è volontà di Dio che ci siano le suore. “Ma, risposi io, suore ce ne sono già tante”. E lui: “Molte suore, poche missionarie”».

Ben presto si passò alla realizzazione pratica, dando vita alla prima comunità delle missionarie della Consolata, ufficialmente il 29 gennaio 1910. L’annuncio al pubblico fu senza rumore. Sul periodico «La Consolata» del mese di febbraio 1910, figurano poche righe, che non accennano ad una “fondazione” ma la lasciano supporre: «La Direzione del periodico riceve spesso domande di informazioni da persone che vorrebbero prendere parte come suore nelle missioni della Consolata. Avvertiamo che per questo si rivolgano alla “Direzione Istituto Missionarie”, corso Duca di Genova, 49 – Torino». Tutto qui, secondo lo stile dell’Allamano: operare con ardore, ma senza apparire!

Francesco Pavese

 


Il valore dell’interculturalità

Crescere vivendo nell’interculturalità

L’interculturalità non è semplicemente un modello nuovo e più efficiente, magari per impostare la nostra attuale internazionalità o almeno mantenerla il più possibile libera da conflitti. Interculturalità, nella spiritualità del nostro Istituto, significa molto di più, cioè è invito a una visione più profonda dell’attuale mondo plurale e in continua evoluzione, e delle persone che lo abitano, indipendentemente da lingua, cultura e religione.

Una visione che è in sintonia con la «contemplazione cristiana a occhi aperti» e che  va considerata anche nelle relazioni interpersonali all’interno delle nostre comunità formative.

Voi, cari giovani, siete privilegiati su questo punto, perché le vostre comunità sono di fatto internazionali e, conseguentemente, interculturali. Voi potete formarvi e crescere nell’esperienza vissuta dell’interculturalità.

La vostra generazione, fatta adulta, non potrà non essere interculturale. Nei nostri noviziati e case di formazione i segni dell’interculturalità sono già numerosi ed evidenti. Vi invito a continuare a percorrere il cammino intrapreso dando il meglio di voi. In un mondo caratterizzato dal pluralismo culturale, è compito profetico della Chiesa e nostro, come Istituto, offrire al mondo nuovi modelli esemplari della vita comunitaria.

Ci potrebbe essere il rischio che, impegnandosi ad aderire alle varie culture, gradatamente si sottovaluti o si trascurino l’origine e la tradizione. Ricordiamoci che tutto possiede il suo valore. L’albero si mantiene vivo e produce frutto, se conserva le sue radici vive e sane. I futuri missionari della Consolata saranno necessariamente una famiglia interculturale, ma con tutti i valori e con lo spirito immutato proprio dell’Allamano. Questo ideale è stimolante e merita perseguirlo.

Il beato Allamano

Cari giovani, vi propongo un esercizio interessante, che consiste nel confrontare  voi stessi con il fondatore vivo e perenne. Perché sia efficace, questo confronto deve essere realizzato spesso, non una volta sola, e in modo concreto, vitale e adatto al particolare momento che uno sta vivendo.

«Confrontarsi» con il fondatore significa compiere un gesto formativo di prim’ordine, purché sappiate porvi di fronte a lui, così come siete, lasciandovi conoscere e interrogandolo, magari discutendo, per poi rispondergli. Le risposte, però, non ve le dovete dare per conto vostro, con l’ausilio della vostra fantasia. Esse devono essere oggettive, cioè contenere la verità dello spirito del fondatore. Dire: «Oggi, il fondatore mi direbbe o farebbe così…», può essere comodo. Perché sia anche vero, si richiedono genuine disposizioni interiori, che impediscano di «barare».

Oltre alla conoscenza, è indispensabile la «Sapienza», e questa virtù ce la dona lo Spirito. Per cui, prima di confrontarvi con il fondatore, oltre alla coscienza di conoscere lui, la sua storicità, il suo pensiero, dovete «pregare», per avere luce e forza: luce per non sbagliarvi, forza per non voltarvi da un’altra parte e fingere di non aver capito. Il fondatore, anche oggi, non chiede l’impossibile, ma la coerenza, nel clima di fervore che ha sempre proposto ai suoi missionari.

Quando l’Allamano era con noi su questa terra, assicurava personalmente questo confronto con la comunità e con i singoli, mediante la sua opera formativa. Conosceva ognuno personalmente. Ora, continua a garantire questo confronto con l’ispirazione.

Come allora, anche oggi, a quanti sono suoi discepoli, è richiesto di essere attivi, accogliendo il suo insegnamento, seguendo le sue proposte, confrontando con lui la propria vita e la propria attività. Chi non realizza questo contatto esistenziale di conoscenza, sequela e confronto perché è negligente o perché non gli interessa, si pone al di fuori del suo influsso. Lo possiamo paragonare a quanti, durante la sua vita terrena, erano svogliati, distratti o freddi e non lo seguivano. Senza dubbio, nessuno di loro è diventato missionario della Consolata o, se lo è diventato, lo era solo giuridicamente, ma non nell’identità vocazionale.

Perché il contatto con colui che sentite «padre» della vostra vocazione si realizzi pienamente per tutti voi, vi assicuro la mia preghiera presso la Consolata e il fondatore, ai quali chiedo una speciale benedizione sui nostri noviziati e case di formazione, che sono il futuro della nostra famiglia missionaria.

Signore, ti ringraziamo per il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Padre e maestro, ci ha insegnato ad essere missionari in spirito di famiglia e santità di vita. Aiutaci a vivere con fedeltà e ardore la nostra consacrazione missionaria nella condivisione dello stesso carisma, nell’amore fraterno e nello zelo apostolico. Insegnaci ad annunciare a tutti che Tu sei Padre e chiami ogni persona, popolo e cultura a fare parte del tuo progetto universale di salvezza. Amen.

Aquiléo Fiorentini

Padre Aquiléo Fiorentini, brasiliano di nascita, è stato il primo superiore generale non italiano dell’Istituto missioni Consolata. Era pertanto logico che sentisse particolarmente importante il tema dell’interculturalità, verso cui l’Istituto sta camminando a passi veloci. Cogliamo da una sua lettera, del 20 maggio 2010, rivolta ai missionari giovani, una riflessione sul tema dell’interculturalità e della fedeltà al fondatore.

 

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Allamano, Giocando a bocce… coi giovani

il beato Allamano oggi secondo padre Giacomo Mazzotti |


È inutile nasconderla, questa voglia di vacanza, che seduce proprio tutti. Da tempo, le varie agenzie tentano di infilare un po’ dovunque le proposte più furbe, per accalappiare clienti. Non fanno eccezione i missionari, che propongono vacanze alternative, esperienze controcorrente, condivisione con popoli e culture lontane. Tutto questo, mentre aspettiamo il prossimo Sinodo di ottobre, scandito da tre flash, luminosi e provocanti: giovani – fede – vocazione (altro che vacanze!). Come sempre, papa Francesco non ha perso l’occasione per proporre un Sinodo diverso, con i giovani davvero protagonisti.

Citando la Scrittura, ha ricordato che spesso sono proprio i giovani a riaprire la porta della speranza nei momenti di crisi, mentre una Chiesa che non osa strade nuove è condannata a invecchiare.

Questo intreccio di idee mi ha fatto riaffiorare – spontaneamente – il volto paterno e amico dell’Allamano che, a cinquant’anni suonati, si ritrovò non solo a fondare un Istituto missionario, ma anche a diventare padre e guida di un bel grappolo di ragazzi e giovani che avevano nel cuore il sogno di mollare i loro amici per condividere, con gente ritenuta (allora) esotica e lontana… l’Evangelii gaudium, la gioia, cioè, di incontrare Gesù, portatore di una «buona notizia» per tutti. Per raccontare, allora, cosa sia stato il Fondatore per quei primi giovani sognatori e cosa furono loro per lui, ricordiamo un piccolo, simpatico episodio, quasi una parabola, che vale un libro di parole…

Durante le vacanze a S. Ignazio (luogo di villeggiatura), dopo pranzo i ragazzi dovevano ritirarsi nelle loro camere e non andare a giocare per non disturbare chi si riposava. L’assistente era inflessibile. Una volta, quando l’Allamano era presente, alcuni sgusciarono dalle camerette e bussarono alla sua porta, mentre riposava. «Cosa volete?» – «Signor Rettore, non possiamo dormire e vorremmo andare a giocare alle bocce» – «Andate pure» – «Ma, Sig. Rettore, l’assistente non ce lo permette, teme che disturbiamo la comunità». Avendo capito perché si erano rivolti a lui, si dimostrò comprensivo e rispose: «Vengo anch’io…». E poi si fermò con loro, contava i punti, lodando chi giocava meglio…

C’è proprio tutto: i giovani, la missione, la formazione, il cuore di un padre e… persino l’aria di vacanza, che tira in questi giorni d’estate.

padre Giacomo Mazzotti


I giovani aspettavano lui

Alla comunità dei missionari alla Consolatina, prima Casa Madre dell’Istituto, l’Allamano diede un’organizzazione semplice, come era il suo stile, e sufficiente: due suore di S. Gaetano per i vari servizi e un sacerdote, don Luigi Borio, per la celebrazione della messa e per l’assistenza ai giovani. L’anima della comunità, però, era lui, pur vivendo al santuario della Consolata. All’inizio specialmente, veniva ad incontrare i suoi giovani come gruppo e individualmente, non tutti i giorni, ma quasi. Li voleva conoscere bene e preparare alla missione secondo il suo spirito in modo da «saper essere con loro», in futuro, anche da lontano.

C’è da aggiungere un particolare di grande importanza. L’Allamano non agì da solo. Per il Santuario e per il Convitto ecclesiastico, si era scelto come collaboratore un sacerdote di sua fiducia, il can. Giacomo Camisassa. Per i due Istituti missionari il Camisassa è da considerare a buon diritto il «Confondatore» perché fu il braccio destro dell’Allamano, soprattutto sul piano organizzativo, dei lavori e delle spedizioni di persone e di merci.

Il programma formativo

Appena un mese dopo l’apertura della casa, l’Allamano inviò al piccolo gruppo di aspiranti alla missione una magnifica lettera, indicando le vie maestre della formazione missionaria. Ecco la parte centrale: «Non potendo per ora soddisfare al mio desiderio di trovarmi frequentemente in mezzo a voi per aiutarvi a mettere le fondamenta al nostro piccolo Istituto, stimo bene con questa lettera di aprirvi il mio cuore.

Anzitutto godo di dichiararvi che i vostri principi mi sono di vera consolazione. Il vostro buon animo, la carità vicendevole e lo spirito di sacrificio di cui siete animati promettono bene della vostra opera. Deo gratias! Gesù Sacramentato deve essere contento delle frequenti vostre visite. Il S. Tabernacolo è il centro della casa ed ogni punto deve tendere come raggio colà. Quante grazie deriveranno su di voi e sull’Istituto! Egli stesso, Gesù nostro padrone, si formerà i suoi apostoli!

Tenete caro il libretto del Regolamento, meditatene ogni giorno qualche punto, procurando di osservare, per quanto è possibile al presente, quanto vi è prescritto. Amate quindi il ritiro nelle vostre camerette, dove attendete allo studio della S. Scrittura, delle lingue e delle materie insegnate. Riservandomi di dirvi a poco a poco, a voce o per scritto, tante altre cose che vi aiutino a perfezionarvi ed a prepararvi alla grande opera dell’apostolato, vi benedico».

I giovani aspettavano lui

Gli scritti del Fondatore erano attesi e graditi, ma i giovani aspettavano soprattutto lui. Volevano vederlo, incontrarlo di persona, parlargli.

Uno di essi, poi missionario in Tanzania, p. Gaudenzio Panelatti, scrisse: «La sua presenza era sempre una grande e attesa gioia. Egli c’intratteneva familiarmente e c’infervorava, quasi sen-za che ce ne accorgessimo, nella nostra vocazione. A volte ci leggeva lettere o brani di lettere scritte dall’Africa da coloro che noi avevamo conosciuto, e di qui prendeva lo spunto per le sue considerazioni così pratiche e incisive che non si son più potute dimenticare.

Ciascuno era libero di parlargli in privato; e prima di partire ci lasciava ogni volta la sua paterna benedizione, ovunque ci trovava raccolti.

A me dava l’impressione ch’Egli avesse giammai niente da fare. Da noi occupava molto bene il suo tempo, poi per andare alla Consolata; mai che mostrasse avere impegni o urgenze, e più tardi soltanto venimmo a sapere che dirigeva mezza Diocesi ed era occupatissimo. L’ordine gli diede modo di attendere a tutto.

Dava importanza alla preghiera, quale mezzo principale di formazione sacerdotale, religiosa e missionaria. Una volta gli sfuggì questa confidenza: “Dicono che vi faccio pregare troppo, ma in Cielo che faremo d’altro? Gli Apostoli non si riservarono, come compito proprio, la Parola di Dio e l’orazione?”».

Uno dei primi fratelli coadiutori laici, fr. Benedetto Falda, volle lasciare il suo ricordo in modo brioso: «Alla domenica poi era tutto per i suoi figli. Giungeva per i Santi Vespri e dopo la S. Benedizione si recava nel salone, o, tempo permettendolo, in giardino e là ci voleva tutti attorno a sé. La sua conferenza non aveva nulla di cattedratico o di rigido, ma era il Padre che, seduto in mezzo ai suoi figli, che voleva ben vicini, specialmente i Coadiutori, ci parlava alla buona. Erano consigli detti quasi all’orecchio, ma che restavano impressi nell’animo e ci imbeveva del suo spirito!

Alla fine della conferenza, faceva portare una bottiglia di vino scelto e distribuiva a ciascuno dei biscotti (che veramente i benefattori gli regalavano per il suo stomaco delicato) poi si alzava e dopo una visita al SS. Sacramento lo si accompagnava tutti assieme fino al cancello della palazzina. Un giorno che toccò a me l’onore di accompagnarlo al tram, ad una svolta mi congedò dicendomi: “Proseguo a piedi, così risparmio due soldi che sono della Provvidenza!”».

Giovani alla tomba del beato Giuseppe Allamano.

Difese lo spirito delle origini

L’Allamano aveva una convinzione di fondo che lo guidò nel realizzare il suo compito di fondatore. Era convinto che lo Spirito Santo non solo lo avesse indotto a dare vita a quest’opera, ma gli avesse pure ispirato i valori da infondere e trasmettere ai futuri missionari e missionarie e che nessuno aveva il diritto di modificare.

Questa grazia delle origini si chiama «Carisma di fondazione», divenuta poi il «Carisma dell’Istituto». Ecco perché più di una volta, l’Allamano intervenne, anche con energia, a difendere questo spirito delle origini. Ad un anno appena dalla fondazione, nel marzo del 1902, sentì il bisogno di parlare chiaro ai suoi giovani, senza paura di offenderli, anzi sicuro di aiutarli: «Sono io, e chi vi pongo io a guidarvi che dovete solamente ascoltare. La forma che dovete prendere nell’istituto è quella che il Signore m’ispirò e m’ispira, ed io atterrito dalla mia responsabilità voglio assolutamente che l’istituto si perfezioni e viva vita perfetta. Sono d’avviso che il bene bisogna farlo bene; altrimenti fra le altre mie occupazioni, non mi sarei sobbarcato ancora questa gravissima della fondazione di sì importante istituto».

Queste parole sembrano piuttosto severe, ma a giustificarle c’è una postilla annotata di suo pugno in calce al manoscritto della conferenza: «Così parlai perché taluni, anche buoni, venivano a disturbare i giovani con idee…».

padre Francesco Pavese

 

Alla tomba del beato Allamano (16 febbraio 2018).


Novena e festa del beato Allamano

La comunità di Casa Madre si è preparata alla festa dell’Allamano assieme alle missionarie della Consolata, mediante la novena celebrata nella chiesa che accoglie il sepolcro del Fondatore delle nostre famiglie missionarie.

Padre Giuseppe Ronco, con le sue riflessioni, ci ha coinvolti con la spiritualità del Beato partendo da una pagina degli «Atti capitolari», frutto del Capitolo generale svoltosi l’anno scorso, dove si parla della necessità di rivitalizzare e di ristrutturare l’Istituto tenendo presente il suo fine che è la missione.

«Il cuore di ogni rinnovamento umano e spirituale del missionario – scrive il Capitolo – sta nel recuperare la centralità di Cristo» nella vita.

La tematica è presente nel Fondatore il quale l’ha espressa con i termini del suo tempo presentando Cristo come modello per eccellenza di tutte le virtù.

Si appoggiava, in questo, sull’autorità di san Giuseppe Cafasso, suo zio: «Come diceva il nostro venerabile: “Bisogna che facciamo tutte le cose come nostro Signore quando era su questa terra”».

L’Allamano dava molta importanza all’imitazione di «Gesù mite», un concetto che si riassume nell’esortazione: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione».

Il missionario deve saper trasformare la realtà non dominando, non spadroneggiando sul gregge, ma col cuore umile e mite, facendosi quasi pecora al seguito del suo pastore.

Citando san Basilio, il Fondatore definisce la mitezza come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo, non solo nel campo dell’evangelizzazione, ma anche nel tessuto sociale e umano. «Mi sta a cuore la mansuetudine. Quando si tratta di salvare un’anima, si pensi che una parola secca basta a impedire una conversione forse per sempre».

Giuseppe Allamano ci insegna, attraverso la sua vita, che noi potremo imboccare la strada della trasformazione con la virtù della mitezza. Trasformare, non rompendo, ma con umiltà e mitezza di cuore.

Ne corso della novena, parlando di «ristrutturazione», p. Ronco ha messo in evidenza come il Fondatore non era interessato alla «quantità» ossia ad aprire più missioni possibile, ma alla qualità. Si interessava cioè alle persone che aveva a disposizione, e voleva che fossero missionari santi e qualificati per compiere una missione di qualità ottimale: «Noi non abbiamo la mania di avere molta terra e non le mani per lavorarla; meglio poche missioni ma curate bene».

La missione era l’orizzonte di ogni suo desiderio, era la lente fissa davanti ai suoi occhi attraverso la quale guardava tutto. «Noi siamo per i pagani», diceva, che tradotto vuol dire: «Noi siamo ad gentes».

L’Allamano vedeva la missione come un’attività da svolgere in una comunione di vita che aveva come modello Gesù, primo apostolo del Padre. Da qui egli deduceva che la vocazione missionaria è la più bella in assoluto e invitava a ringraziare sempre il Signore per questo dono.

Inoltre voleva una missione «inglobante» e il fatto che lui abbia speso tutta la sua vita a Torino, testimoniando il Vangelo nel suo ambiente, fa capire che la missione non è solo quella geografica. In questo senso è missione il dialogo interreligioso, l’ecumenismo, la collaborazione tra le fedi, ecc.

L’Allamano voleva anche una missione «integrale»; il termine indica la metodologia della missione. Essa cioè deve rivolgersi alla persona umana nella sua parte spirituale e poi nella sua parte materiale. Fu lui a volere l’integrazione della promozione umana con l’evangelizzazione. Per lui l’uomo e il cristiano andavano formati insieme.

Un quarto aspetto della missione nel pensiero dell’Allamano era «lavorare insieme con spirito sinodale». Il concetto significa «camminare insieme», missionari, missionarie, catechisti, e tutto il popolo. E questo comporta un metodo di lavoro che è quello dell’armonia, della condivisione, del mettere insieme.

Infine l’Allamano era convinto che la missione dipendesse dalla qualità del missionario, espressa dalla frase «Prima santi e poi missionari». «La vostra santità deve essere maggiore di quella dei semplici cristiani, superiore a quella dei religiosi, distinta da quella dei sacerdoti secolari; la santità dei missionari deve essere speciale, anche eroica e all’occasione straordinaria da operare miracoli».

Il 16 febbraio, giorno della nascita al cielo del beato Allamano, missionari e missionarie, assieme a tanti laici amici, si sono stretti nella chiesa-santuario dove riposano i suoi resti mortali per partecipare all’eucaristia solenne presieduta da mons. Giacomo Martinacci, rettore del santuario della Consolata e perciò successore dell’Allamano nella guida del santuario.

Parlando dell’Allamano alla luce del Vangelo: «Lo Spirito del signore è su di me e mi ha mandato…», «Davvero lo Spirito di Dio è stato su questo sacerdote – ha detto -. Egli non l’ha tenuto per sé, ma ha portato frutto che ha espresso, prima di tutto come formatore di sacerdoti e poi come fondatore di famiglie missionarie per portare il Vangelo di Gesù alle genti.

Sergio Frassetto

 

Novizie della missionarie della Consolata alla tomba del beato Giuseppe Allamano.