I Perdenti 42. I «Niños mártires de Tlaxcala»: Cristóbal, Antonio e Juan

Testo di don Mario Bandera |


Tre adolescenti indigeni del popolo Azteco sono considerati i primi martiri cristiani del Messico e dell’intero continente americano. Essi sono: Cristóbal (nato nel 1514 o nel 1515 e ucciso nel 1527), Antonio e Juan (nati nel 1516 o nel 1517 e martirizzati nel 1529).

Cristóbal e Antonio erano di ascendenze nobili, appartenevano alle famiglie di due «cacicchi» (capi indigeni tradizionali), mentre Juan era di una famiglia di servitori nella casa del padre di Antonio. I tre ragazzi si erano avvicinati alla fede cristiana frequentando la scuola dei missionari e staccandosi gradualmente dalle tradizioni dei loro avi. Essi accolsero con gioia la nuova fede e aiutarono anche i missionari a distruggere le statue degli idoli locali, ai quali venivano offerti cruenti sacrifici umani. Per questo furono puniti e perseguitati a morte dai componenti della loro comunità, aizzati dai sacerdoti della religione tradizionale che non accettavano la presenza di una fede diversa da quella praticata dalle popolazioni precolombiane. Cristóbal morì nel 1527, mentre Antonio e Juan vennero uccisi due anni dopo.

Tutti e tre sono considerati i protomartiri del continente americano. Papa Giovanni Paolo II li ha beatificati il 6 maggio 1990; mentre papa Francesco li ha canonizzati il 15 ottobre 2017. A questi intrepidi adolescenti abbiamo rivolto alcune domande, a nome loro risponde Cristóbal.

Che cosa vi ha attratto così visceralmente alla fede in Cristo Gesù, tanto da abbandonare quasi subito la fede dei vostri avi?

La cosa che più ci colpì della nuova fede religiosa arrivata nei nostri villaggi, proclamata dai missionari francescani, fu il constatare che il cardine del loro annuncio, Gesù Cristo il figlio di Dio, aveva offerto la sua vita per la salvezza di tutti gli uomini di qualunque popolo, tramite la sua morte in croce. Invece le nostre divinità erano assetate di sangue, tanto da spingere i nostri sacerdoti a offrire loro in sacrificio un certo numero di giovani e fanciulle come gesto di sottomissione da compiersi in alcuni periodi dell’anno.

Tlaxcala city. Palacio de Gobierno, murale dedicato ai protomartiri

Se ben capisco, voi siete rimasti impressionati dal fatto che nella verità della fede cristiana è il Figlio di Dio che versa il suo sangue per salvare l’umanità, mentre per le divinità degli Aztechi sono le persone del popolo che devono offrire il loro per rendere un culto veritiero.

I nostri sacerdoti passavano di villaggio in villaggio cercando giovinetti di bella presenza e fanciulle di ottimo aspetto da offrire in sacrificio. Voi capite che nella nostra cultura millenaria, non obbedire a questi comandi che ci venivano rivolti dalla classe sacerdotale, significava attirare la maledizione degli dei su tutta la comunità. Pertanto, anche se questo stato di cose era per la nostra gente un enorme sacrificio, offrire un componente della propria famiglia per le divinità era considerato un grande onore.

Voi però, dopo l’incontro con Cristo, non la pensavate più così.

Essendo io figlio ed erede del principale “cacico” della nostra zona, insieme ai miei fratelli e amici cominciai a frequentare la scuola dei missionari francescani. Mi si aprirono orizzonti nuovi e fui anche istruito nella fede cattolica.

Fu allora che prendesti la decisione di chiedere il battesimo e di ricevere nel contempo il nuovo nome di Cristóbal (portatore di Cristo)?

Proprio così, gradualmente il mio modo di pensare e di agire come quello dei miei amici – a mano a mano che ci addentravamo nella conoscenza della nuova fede – cominciava a trasformarsi. Volevamo far capire alla nostra gente che era necessario distruggere i templi pagani e le statuette dei vari idoli e abbracciare la nuova fede portata nelle nostre terre dai missionari francescani e domenicani.

La vostra testimonianza si colloca tra il 1527 e il 1529, quindi pochi decenni dopo la cosiddetta scoperta (in realtà «conquista») del Nuovo Mondo e il conseguente inizio dell’evangelizzazione di quel continente.

L’inizio dell’evangelizzazione nella nostra realtà bisogna inquadrarlo nel contesto storico e nello stile adottato da quei primi missionari, i quali avanzando di pari passo con i conquistatori spagnoli, raccoglievano conversioni per la capacità che avevano nel presentare un Dio la cui caratteristica principale era l’amore per tutti gli uomini e verso il quale non bisognava offrire nessun tipo di sacrificio umano cruento. È vero che in alcuni casi ci furono delle forzature, ma in generale l’adesione alla nuova fede fu rapida e spontanea.

Bisogna dare atto che i missionari provenienti in gran parte dalla Spagna seppero agire con duttilità e intelligenza di fronte alla nuova realtà con la quale erano venuti in contatto.

I Francescani e i Domenicani incominciarono da subito ad impegnarsi con passione e costanza per la promozione umana dei più poveri della nostra gente, degli “Indios” (come preferivano chiamarli loro, convinti com’erano di essere sbarcati in India).

Soprattutto colpì la nostra immaginazione, il fatto che in nome di Cristo difendevano la vita degli appartenenti al nostro popolo (specialmente dei più poveri) dalla casta dei sacerdoti aztechi che erano incessantemente alla ricerca di ragazzi e fanciulle da sacrificare ai loro dei.

Allo stesso tempo non avevano paura di utilizzare mezzi drastici, come la distruzione dei templi, delle statue e raffigurazioni degli idoli pagani, per sradicare una religione ritenuta ottusa e sanguinaria?

Vero, questo loro modo di fare influì anche su di noi, io stesso volendo convertire mio padre, distrussi tutte le statuette degli idoli che tenevamo in casa.

Questo atteggiamento segnò così la tua fine, ovvero il tuo martirio.

Per quel fatto mio padre mi bastonò senza pietà tanto da rompermi braccia e gambe, e poi mi gettò nel fuoco e mi bruciò vivo, quasi come un sacrificio riparatore ai suoi idoli.

Alcuni giorni dopo la stessa fine toccò a mia mamma che aveva tentato di difendermi da tanta violenza.

Per concludere il nostro colloquio dicci due parole sui tuoi amici Antonio e Juan.

Essi nacquero tra il 1516 e il 1517 a Tizatlán (oggi Tlaxcala), Antonio era nipote ed erede del cacicco locale, mentre Juan, suo coetaneo e compagno di giochi, era il figlio di una famiglia di servi della casa. Ambedue frequentavano la scuola dei Francescani. Quando nel 1529 i missionari Domenicani decisero di fondare una missione ad Oaxaca, chiesero al direttore della scuola, di indicare loro alcuni ragazzi che potessero accompagnarli come interpreti presso gli Indios. Riuniti i ragazzi della scuola, venne fatta loro la richiesta avvisando che si trattava di un compito pericoloso. Subito si fecero avanti i tredicenni Antonio e Juan. Quando il gruppo arrivò a Tepeaca presso Puebla, i ragazzi aiutarono i missionari a raccogliere le statuette degli idoli pagani per distruggerli. Antonio era entrato in una casa e Juan era rimasto di guardia alla porta. Alcuni abitanti del villaggio, armati di bastoni, si avvicinarono e picchiarono Juan talmente forte da ucciderlo sul colpo. Antonio, accorso in suo aiuto, si rivolse agli aggressori: «Perché battete il mio compagno che non ha nessuna colpa? Sono io che raccolgo gli idoli, perché sono diabolici e non divini». Gli indigeni, nonostante avessero visto il lui il figlio di un nobile, percossero anche lui con i bastoni, finché morì. I corpi di Antonio e Juan furono poi gettati in una scarpata.

Il domenicano padre Bernardino li recuperò e li trasferì a Tepeaca, dove vennero sepolti in una cappella.

Niños Mártires de Tlaxcala

I primi martiri del Messico

Il sangue dei tre ragazzi messicani fu il primo seme della grandissima fioritura del cattolicesimo nel loro paese. Gli storici della Chiesa messicana li considerano protomartiri non solo del Messico, ma dell’intero continente americano; costituiscono quindi le primizie dell’evangelizzazione del Nuovo Mondo.

L’opera dei missionari si allargò: aprirono scuole, stamparono i primi testi catechistici in lingua locale, condivisero la vita e la povertà degli Indios, lavorando per la loro promozione umana.

Li difesero anche dai soprusi degli «encomenderos», ossia dai coloni spagnoli, perlopiù militari, autorizzati a riscuotere dagli indigeni tributi o in natura, o sotto forma di lavoro obbligatorio.

Il 7 dicembre 1982, la Congregazione delle Cause dei Santi diede il nulla osta per l’inizio del processo per la beatificazione di Cristóbal, Antonio e Juan. Il 21 giugno 1988 si riunirono i consultori storici della Congregazione delle cause dei Santi, mentre la «Positio super martyrio» fu consegnata nel 1989. La riunione dei consultori teologi, svolta il 24 novembre 1989, ebbe esito positivo, confermato dai cardinali e vescovi membri della Congregazione, il 6 febbraio 1990.

Il 3 marzo 1990 san Giovanni Paolo II autorizzò la promulgazione del decreto con cui i tre ragazzi venivano ufficialmente dichiarati martiri. Lo stesso Pontefice li beatificò il 6 maggio 1990 nella Basilica di Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico, fissando la loro memoria liturgica al 23 settembre. Insieme a loro fu elevato agli onori degli altari Juan Diego, il messaggero della Madonna di Guadalupe, loro contemporaneo.

Il 23 marzo 2017, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, papa Francesco accolse i voti della Congregazione favorevoli alla canonizzazione dei tre martiri, senza bisogno di un ulteriore miracolo per loro intercessione. La loro canonizzazione fu celebrata e presieduta da lui domenica 15 ottobre 2017.

Don Mario Bandera

Clicca qui per vedere il video preparato in occasione della beatificazione




I Perdenti 41. I Santi Martiri Canadesi


Con il titolo «Santi Martiri Canadesi» veneriamo un gruppo di otto missionari francesi (sei sacerdoti e due religiosi professi) della Compagnia di Gesù, uccisi nelle aree a cavallo dell’attuale confine tra Canada e Usa dagli indigeni Irochesi mentre svolgevano il loro ministero presso gli Uroni tra il 1642 e il 1649.

Questi i nomi dei martiri:

  • fratel René Goupil (1608-1642);
  • padre Isaac Jogues (1607-1646);
  • fratel Jean de La Lande (1615-1646);
  • padre Antoine Daniel (1601-1648);
  • padre Jean de Brébeuf (1593-1649);
  • padre Gabriel Lalemant (1610-1649);
  • padre Charles Garnier (1605-1649);
  • padre Noel Chabanel (1613-1649).

Furono proclamati beati da papa Pio XI il 21 giugno 1925 e dichiarati santi dallo stesso pontefice il 29 giugno 1930. La loro memoria liturgica è il 19 ottobre.

Fu la devozione popolare a riunire in un unico gruppo gli otto missionari gesuiti martirizzati in quella che allora era chiamata la Nuova Francia (un territorio allora ancora largamente inesplorato) e a coniare per loro il nome di «martiri canadesi». La chiesa rispettò tale indicazione beatificandoli e canonizzandoli tutti insieme.

Tuttavia, questa denominazione non sarebbe la più esatta dal momento che i confini fra Stati Uniti e Canada non corrispondono più a quelli del XVII secolo. René Goupil, Isaac Jogues e Jean de La Lande, infatti, subirono il martirio nell’attuale territorio statunitense mentre gli altri cinque in quello canadese. Di conseguenza, negli Stati Uniti la denominazione più diffusa è quella di «martiri nordamericani» e talvolta addirittura «martiri americani». Del resto, gli stessi testi liturgici della loro commemorazione parlano di «borealibus Americae regionibus» (regioni boreali dell’America).

Per conoscere meglio la loro storia abbiamo parlato con padre Jean de Brébeuf, nato in Normandia, Francia, nel 1593 e ucciso presso il Lago Huron in Canada nel 1649.

Come mai tu e i tuoi giovani compagni gesuiti sceglieste di svolgere la vostra azione evangelizzatrice proprio in Canada?

Da seminaristi eravamo affascinati dai primi missionari che dopo aver vissuto per anni negli immensi territori del Nord America, ritornando in Europa, ci entusiasmavano con i loro racconti. Posti di fronte alla responsabilità del primo annuncio del Vangelo in terre sconosciute, pregando molto e facendoci coraggio l’un l’altro, chiedemmo ai nostri superiori di poter essere inviati nel continente americano. In quel territorio, che ai miei tempi era chiamato «Nuova Francia», come ardenti neofiti missionari volevamo portare la Buona Notizia del Vangelo ai popoli nativi.

Eravate coscienti dei pericoli ai quali andavate incontro, stabilendovi fra tribù indigene spesso in lotta fra di loro? È vero che alcuni di voi avevano lucidamente previsto, e in coscienza accettato, la probabile prospettiva del martirio?

È vero. Io stesso avevo fatto voto di non tirarmi indietro davanti al martirio. Fin dall’inizio eravamo preparati e attenti per annunziare il Vangelo nel pieno rispetto della cultura delle tribù locali: Algonchini, Uroni, Irochesi e altre.

Una volta stabiliti in Nordamerica, incominciammo a vivere con loro, imparando le loro lingue, i loro usi e costumi, dando testimonianza del vivere cristiano nella quotidianità di ogni giorno. Non esitammo un solo momento a mettere a rischio la nostra stessa vita per portare avanti questo compito che ci era stato assegnato. Era mio desiderio «farmi tutto a tutti per guadagnarli a Gesù Cristo», come dice san Paolo, conquistando il loro cuore.

Ero più che mai convinto che Gesù Cristo fosse la nostra vera grandezza. Perciò nel seguire quei popoli, dovevamo cercare solo Lui e la Sua Croce. Perché se avessimo cercato qualcos’altro, avremmo trovato solo afflizioni fisiche e spirituali. Ma se hai trovato Gesù Cristo e la Sua Croce, allora hai trovato le rose nelle spine, la dolcezza nell’amarezza, il tutto nel nulla.

Ma la tua prima esperienza in quelle terre fu breve.

Arrivai in quello che oggi è il Canada, nel 1625. Avevo 32 anni. Dopo un breve periodo di «apprendistato» con gli Algonchini, mi mandarono tra gli Uroni, che da tempo avevano buone relazioni con i francesi con i quali avevano intensi scambi commerciali.

Rimasi con loro fino al 1629 imparando la loro lingua e costumi. Fu un periodo di grande impegno. Imparai bene la loro lingua tanto da scrivere un dizionario per aiutare gli altri missionari. Scrissi anche un catechismo. Quei due testi sono diventati una delle poche testimonianze rimaste della lingua e cultura degli Uroni dopo il loro annientamento avvenuto qualche decennio più tardi.

Fui poi richiamato a Québec per un nuovo incarico.

Proprio quando la città di Québec e la colonia francese furono occupate dagli inglesi e i missionari cattolici a malincuore dovettero lasciare il Canada e ritornare in patria.

Infatti. Anch’io fui rispedito in Francia quando, nel 1629, gli inglesi conquistarono la città con un colpo di mano. Però, dopo un accordo di pace con l’Inghilterra (nel 1632), la Francia riebbe quella parte del Canada e anche i Gesuiti ritornarono nelle loro missioni. Rientrai nel 1633 e fui mandato fra gli Uroni per condividere la loro esistenza molto semplice e continuare così l’opera di evangelizzazione appena abbozzata.

Se non vado errato tra il 1634 e il 1639 ci furono violente epidemie di vaiolo, dissenteria e influenza che colpirono voi e decimarono la popolazione locale.

Noi missionari fummo i primi a essere colpiti da quelle malattie portate dall’Europa. Anche se privi di forze, debilitati e convalescenti, ci demmo da fare in ogni modo per aiutare tutti, nonostante l’avversità degli stregoni, che ci ritenevano responsabili dell’epidemia e aizzavano la gente contro di noi.

Va detto che avevano tutte le ragioni per accusarci, ma in quel tempo nessuno sapeva che eravamo noi stessi i portatori di quelle malattie che erano completamente sconosciute agli indigeni, malattie che si diffusero rapidamente tra gli Uroni causando moltissimi morti e decimando la popolazione.

E tu come vivesti quegli eventi?

Quello fu uno dei momenti più difficili della mia vita missionaria. Da parte mia sopportavo con infinita pazienza, e sempre con il sorriso sulle labbra, gli insulti, le offese, le botte e le ferite che gli Uroni mi infliggevano, aizzati dai loro stregoni. Lungo le giornate cercavo di essere sempre il primo per svolgere i compiti più gravosi, mi alzavo la mattina presto per accendere il fuoco che sarebbe poi stato utilizzato dalle diverse famiglie nelle loro tende, così come alla fine della giornata mi coricavo per ultimo dopo essermi assicurato che nel villaggio tutto fosse in ordine. Ma fu molto duro, e più volte corremmo il rischio che la missione fosse distrutta.

Nonostante l’ostilità degli stregoni e le calunnie nei vostri confronti, voi continuaste la vostra presenza nella confederazione delle tribù degli Uroni.

Dopo le epidemie noi continuammo e intensificammo la nostra presenza tra gli Uroni e fondammo nuove missioni, intraprendendo viaggi avventurosi e rischiosi sia per l’ostilità degli «uomini medicina» (che noi spesso liquidiamo come stregoni) che per le razzie degli Irochesi. Durante uno di questi viaggi ebbi una brutta caduta sul ghiaccio e così fui costretto a restare nella missione centrale a Québec dove mi diedero il compito di coordinare i rifornimenti. Impegno non facile perché spesso i nostri convogli venivano attaccati e depredati da razziatori Irochesi, sempre più aggressivi, che rubavano i rifornimenti e le pellicce raccolte dagli Uroni. Sono nel 1644 potei tornare nelle terre degli Uroni a tempo pieno.

Ma quando le razzie degli Irochesi si trasformarono in una vera guerra contro gli Uroni, per voi cambiò tutto.

Negli anni 1647-48 tra le due popolazioni indigene scoppiò una vera e propria guerra «di sterminio», che terminò con l’annientamento quasi totale degli Uroni e di conseguenza con l’apparente annullamento della nostra opera missionaria.

Le guerre tribali non erano una novità tra i popoli di quelle regioni, ma quest’ultima fu particolarmente feroce per varie ragioni. Le tribù Irochesi (Mohawk, Cayuga, Oneida, Onondaga e Seneca) avevano stretti rapporti commerciali con gli Olandesi a cui vendevano soprattutto pellicce. Ma l’uccisione sconsiderata dei castori aveva portato alla loro quasi totale estinzione nei loro territori. Gli Irochesi, quindi, avevano bisogno di conquistare nuove aree per continuare i loro commerci. In più gli Olandesi, al contrario dei Francesi, non si facevano scrupolo a vendere armi da fuoco agli Irochesi, per cui questi, meglio armati e istigati dagli Olandesi e Inglesi (alleati e protestanti, che volevano mandare via i Francesi, competitori nella colonizzazione e per di più cattolici), ebbero facilmente la meglio sugli Uroni, con poche armi da fuoco e già decimati dalle epidemie che avevano dimezzato la popolazione.

Fu proprio nel contesto di questa sanguinosa guerra fra i due gruppi di tribù che si collocò la nostra storia con il conseguente sacrificio di noi Gesuiti francesi che, fatti prigionieri, fummo sottoposti ad prolungate e feroci sevizie, secondo l’uso degli Irochesi di torturare i loro nemici per ore e ore, a volte addirittura per giorni interi sino alla morte.

Il vostro eroismo nel sopportare le torture e nell’andare incontro alla morte pregando per i vostri torturatori, impressionò gli Irochesi, tanto che vi strapparono il cuore per mangiarlo e diventare partecipi del vostro coraggio.

Per voi questo è certo un risvolto macabro e disgustoso, ma se lo guardiamo dal punto di vista della storia della Missione possiamo dire che un po’ del cuore dei martiri restò davvero nell’anima degli Irochesi. Infatti, l’esperienza cristiana non si estinse completamente, anzi, nei decenni successivi, riprese vigore e fiorì di nuove opere, che dal sangue dei martiri traevano insostituibile linfa.

Il 16 marzo 1649 la nascente missione di sant’Ignazio fu assalita da oltre mille Irochesi che uccisero moltissimi Uroni, altri furono torturati senza pietà e un gran numero di donne e bambini furono rapiti per essere assimilati e schiavizzati nella tribù dei vincitori. Catturarono i padri De Brébeuf e Gabriel Lalemant. Strapparono loro le unghie e li legarono a un palo, con delle scuri incandescenti legate al collo che bruciarono loro il dorso e il petto, mentre una cintura di corteccia con pece e resina incendiate cingeva i loro fianchi. Li «battezzarono» con acqua bollente e trafissero con aste arroventate, strappando loro brandelli di carne e divorandola davanti ai loro occhi. I torturatori, infuriati perché padre Jean invece di gridare dal dolore continuava a pregare Dio, gli strapparono le labbra e la lingua, gli ruppero le mascelle, ficcandogli in gola tizzoni ardenti; poi finalmente sazi di tanta crudeltà, gli aprirono il petto e gli strapparono il cuore, lo mangiarono e ne bevvero il sangue, convinti – secondo le loro credenze – di assimilarne così il coraggio.

Con il passare degli anni l’evangelizzazione seminata da padre Jean de Brébeuf e dai suoi compagni, cominciò a dare i primi frutti, al punto che nel 1649, anno in cui egli fu ucciso, gli Uroni battezzati erano quasi settemila.

Come dicevano i cristiani dei primi secoli: «Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani», così il sacrificio dei martiri canadesi non fu inutile, perché nei decenni successivi, la comunità cattolica riprese vigore e si affermò saldamente in quei vasti territori, donando alla Chiesa altri santi come Kateri (Caterina) Tekakwitha (+1680).

Don Mario Bandera

 




I Perdenti 40.

Luz Long e Jesse Owens campioni nello sport e nella vita

Quel
che accadde in un caldo e afoso pomeriggio del 4 agosto 1936 all’Olympiastadion
di Berlino fu una cosa inimmaginabile per quei tempi in Germania, uno schiaffo
dato in pieno volto al regime nazista all’apice del suo potere: la conquista di
una medaglia d’oro da parte di un uomo di colore alle Olimpiadi che si tenevano
nella capitale dell’ideologia della supremazia della razza ariana su tutte le
altre, non solo in ambito sportivo, ma bensì in ogni aspetto del vivere sociale
e civile.

L’aspetto
più luminoso legato a quella data è la sincera amicizia fra l’atleta tedesco Luz
Long e il suo più forte avversario, lo statunitense afroamericano Jesse Owens,
nata sui campi di gara e consolidatasi nel tempo, a dimostrare che la rivalità
sportiva non si traduce sempre in feroce antagonismo, e che il valore di
un’amicizia si misura dalla sua capacità di sopravvivere al passare degli anni.
Tutto ciò trova valida conferma in una lettera di Long – ultima di una fitta
corrispondenza – spedita dal fronte della Seconda Guerra Mondiale al rivale
sportivo nonché amico fraterno: «Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio
figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci
separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa
terra. Tuo fratello, Luz». Così scriveva Long, divenuto ufficiale della
Luftwaffe tedesca, a Owens che aveva appreso da poco la notizia della nascita
del suo primogenito.

Proprio
con il campione sportivo tedesco Luz Long vogliamo scambiare quattro
chiacchiere sulla loro straordinaria amicizia.

Jesse Owens in piena corsa alle Olimpiadi del 1936 a Berlino (Collection MNS)
Caro Luz, nonostante i tuoi meriti sportivi, anche tu sei stato reclutato
per l’esercito tedesco e mandato in prima linea a combattere…

Devo dire
che il mio status di atleta internazionale mi aveva risparmiato di prendere
parte al conflitto iniziato nel 1939, ma il capovolgimento delle sorti della
guerra richiamava al servizio del Reich tutti gli uomini validi, quindi anche
gli atleti sportivi di ogni disciplina.

Cosa accadde all’Olympiastadion di Berlino in quel lontano 4 agosto 1936?

Cominciamo
col dire che uno spettatore che prendeva posto nelle strutture sportive,
pianificate e costruite in quegli anni in Germania dall’architetto del regime
Albert Speer, rimaneva stupefatto per la loro imponenza ed eleganza. Era un
modo per infondere negli spettatori una forma di ammirazione e rispetto per il
potere nazista.

L’Olympiastadion era veramente così imponente?

Con
chiari richiami ai modelli architettonici dell’Antica Grecia, l’Olympiastadion,
poteva contenere oltre centodiecimila spettatori. Maestoso e immenso,
costituiva un’autentica «macchina di propaganda» messa in azione dal regime
nazista per ottenere un sempre più vasto consenso dal popolo tedesco attraverso
gli avvenimenti sportivi.

Possiamo dire quindi che una manifestazione sportiva come le Olimpiadi era
usata dal potere nazista come uno strumento di battaglia ideologica?

Hitler
intendeva servirsi delle Olimpiadi per dimostrare al mondo intero la supremazia
della razza ariana, di conseguenza l’atleta tedesco doveva corrispondere
all’immagine stereotipata: alto, biondo, prestante, carnagione chiara e occhi
azzurri.

Quindi tu rientravi pienamente nei canoni estetici voluti dal Fuhrer.

Sì.
Appartenevo fin dalla nascita alla patria tedesca, a quel tempo avevo ventitré
anni ed ero studente di legge all’Università di Lipsia. Dal punto di vista
sportivo, in precedenti gare avevo già superato per due volte consecutive nel
salto in lungo il record olimpico di 7,73 metri stabilito nel 1928 ad Amsterdam
dallo statunitense Edward Hamm.

Eri diventato anche il beniamino della nazione tedesca dopo esserti
classificato terzo ai campionati europei di atletica leggera, nel 1934.

Mi
rendevo conto che ero una pedina importante, nella scacchiera preparata da
Hitler per affermare il dominio sportivo germanico sul resto del mondo. Agli
occhi del Fuhrer le mie possibili affermazioni in campo atletico apparivano
quasi scontate e il dittatore si preparava a gustarle di fronte agli ospiti
provenienti da tutto il mondo.

Quante nazioni erano presenti a quelle Olimpiadi?

Parteciparono
ben quarantanove paesi, un numero record rispetto alle edizioni precedenti, che
tuttavia non teneva conto della forte discriminazione insita nell’evento
berlinese. Gli atleti ebrei tedeschi furono espulsi da tutte le discipline
sportive, mentre un destino già più felice toccò agli afroamericani, ai quali
fu concesso di gareggiare, anche se in numero ridotto. La squadra olimpica
americana presentava diciotto atleti di colore su 312 partecipanti, una
percentuale bassissima. Tra l’altro, quei diciotto subivano una pesante
discriminazione perfino in patria. Erano pochi, ma abituati alle privazioni,
forse per questo motivo ancor più desiderosi di riscattarsi. Tra loro spiccava
James Cleveland Owens, da tutti conosciuto come Jesse Owens.

Hitler come vedeva questi atleti di colore?

La
presenza degli afroamericani alle Olimpiadi di Berlino venne giustificata da
Hitler con sordido disprezzo: diceva che essendo loro dei «primitivi» potevano
vantare una costituzione robusta, perciò più adatta alla corsa. A rincarare
l’acredine fu il quotidiano della propaganda nazionalsocialista, diretto da
Joseph Goebbels, che definiva i neri come cittadini di seconda categoria degli
Stati Uniti.

In effetti, a ben guardare, anche nel loro paese non erano trattati molto
bene.

Basti
pensare che in quegli anni gli afroamericani erano costretti a sedere nella
parte posteriore dei bus pubblici e dovevano utilizzare gli ascensori di
servizio negli alberghi: la loro condanna era di essere confinati ai margini
della società. Il diritto di vivere non era loro precluso, eppure,
silenziosamente, veniva negata loro quella possibilità che si trova alla base
della libertà stessa: vivere come loro desideravano.

Nonostante ciò, il desiderio di affermarsi, di emergere nella società
civile come nello sport da parte degli afroamericani era molto sentito.

Proprio
così, e Jesse Owens, figlio di un povero agricoltore dell’Alabama, che a otto
anni lavorava già come inserviente per conquistare un posto un po’ più
dignitoso in quel mondo che lo voleva escludere, era deciso a tutto pur di
farcela.

Quale fu l’occasione che gli permise di «sfondare»?

Furono le
sue doti e le sue capacità atletiche a consentirgli di ottenere una borsa di
studio per la Ohio State University, dove incontrò Larry Snyder, uno dei
migliori coach in circolazione.

Con lui, Jesse cominciò ad affermarsi e a stabilire nuovi record.

Qualche tempo prima in Michigan, partecipando ad un
evento sportivo, vinse ben quattro gare in diverse discipline in un’ora e un
quarto. L’eccezionalità delle sue imprese sportive impressionò la Federazione
americana di Atletica Leggera che lo incluse nel gruppo di atleti da portare
alle Olimpiadi di Berlino.

Dove il nome di Jesse Owens divenne leggenda.

Il tre
agosto del 1936 conquistò la sua prima medaglia d’oro, quella della corsa dei
cento metri. Bisogna dire che i giudici tedeschi durante le gare lo presero
particolarmente di mira, infatti non esitarono a sollevare la bandierina rossa
per delle inezie durante le qualificazioni per il salto in lungo. Dopo due
salti nulli incombeva su di lui lo spettro dell’eliminazione. Jesse era dotato
di grande velocità, ma il suo stile rivelava imperfezioni, soprattutto se
confrontato con l’impeccabile hang style (sospensione nel salto) di altri
atleti.

Per Owens sembrava ormai preannunciarsi una sconfitta inevitabile.

Senza
contare che su di lui pesava duramente la fatica degli sforzi precedenti.
Rimaneva l’ultima possibilità nel salto in lungo, ma la giuria internazionale,
influenzata pesantemente dalle autorità naziste, era pronta a dichiararlo fuori
gioco senza troppi complimenti.

Jesse perciò si trovava di fronte all’ultimo salto valido per accedere alla
finale, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle. Eri proprio tu Luz,
l’atleta tedesco da cui tutti si attendevano una vittoria.

Mi
avvicinai a lui e gli sussurrai all’orecchio: «Uno come te dovrebbe essere in
grado di qualificarsi ad occhi chiusi», poi gli consigliai il punto di stacco
ideale per effettuare un salto valido indicandolo con un fazzoletto bianco
posato accanto alla pedana. Jesse non solo si qualificò per la finale, ma mi
superò ampiamente saltando ben 8,06 metri contro i miei 7 metri e 87
centimetri.

Jesse Owens saluta mentre riceve la medaglia d’oro per il salto in lungo.

Owens quel giorno vinse il suo secondo titolo olimpico, ricordiamo che tra tutti gli atleti di colore della squadra americana il migliore fu proprio lui, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto in lungo e il 5 agosto nei 200 metri e infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri; questa era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti. Il trionfo di Jesse Owens fu un vero scacco per Hitler che riponeva ogni speranza nei campioni di casa per una robusta affermazione tedesca nelle discipline sportive di atletica leggera. Si vociferò anche a lungo sulla reazione di Hitler alla mancata vittoria tedesca, gli attribuirono i comportamenti più disparati: come il fatto di essersi rifiutato di stringere la mano a Owens. Jesse, da perfetto galantuomo, smentì le versioni non veritiere, affermando di essere stato salutato, sebbene a distanza, dal Fuhrer. La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori umili per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina.

Ignorato e snobbato (non si sa per quale ragione) dal presidente Franklin Delano Roosevelt, e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i suoi trionfi sportivi arrivò quarant’anni dopo, nel 1976 dal presidente Gerald Ford, che gli assegnò la Medaglia per la libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Jesse Owens si spense a 77 anni nella sua casa a Tucson, in Arizona, il 31 marzo 1980.

Don Mario Bandera




I Perdenti 39.

Le beate Carmelitane di Compiègne


Testo di Don Mario Bandera


Con la rivoluzione francese del 1789, e con i principi a essa connessi di «Libertà, uguaglianza, fraternità», si affermarono quei valori che, secondo i «lumi» della ragione, avrebbero dovuto cambiare la realtà delle cose non solo in Francia, ma nel mondo intero.

L’incidenza di questi valori, nella considerazione generale del popolo francese era fuori discussione ed era recepita con molta simpatia. Peccato che questi valori fossero affermati senza Dio e contro Dio, come se l’uomo fosse dio di se stesso. La «Dichiarazione dei diritti dell’uomo», promulgata a Parigi il 26 agosto 1789, si sarebbe rapidamente imposta nel mondo, ed ebbe come tragica conseguenza – fin dal suo inizio – la soppressione di tutti gli Ordini monastici e contemplativi (13 febbraio 1790) e la proibizione su tutto il territorio nazionale di ogni forma di vita consacrata. Infatti, secondo i rivoluzionari, non poteva essere un libero cittadino chi si consacrava a Dio con dei voti religiosi, perché sicuramente vi era stato costretto. Compito della nazione era quindi quello di liberarlo, e se, per caso, non voleva essere liberato, doveva essere eliminato. La nuova società doveva essere formata da uomini e donne liberi e uguali non soggetti a vincoli di nessun genere, a quelli religiosi in modo particolare. Come risposta, le priore di tre monasteri carmelitani francesi, a nome di tutti gli altri, inviarono all’Assemblea Nazionale il loro proclama: «Alla base dei nostri voti religiosi c’è la libertà più grande; nelle nostre case regna la più perfetta uguaglianza; noi confessiamo davanti a Dio che siamo davvero felici». Le autorità reagirono mandando nei loro conventi uno stuolo di ufficiali come liberatori.

Gli ufficiali della rivoluzione giunsero nel 1790 anche al Carmelo dell’Annunciazione di Compiègne, un paese a circa novanta km da Parigi, dove vivevano sedici monache guidate dalla priora Madre Teresa di Sant’Agostino, nata Madeleine-Claudine Ledoine. Messe con la forza nella condizione di non poter comunicare tra loro, furono convocate una a una per dichiarare liberamente di voler uscire dal monastero.

Un segretario verbalizzò le loro risposte, per cui la loro singolare avventura venne documentata con scrupolo dagli stessi persecutori. Ed è proprio in questo frangente che inizia il nostro colloquio con la superiora del Carmelo di Compiègne.

Madre Teresa, dopo il decreto di soppressione degli ordini contemplativi del 13 febbraio 1790 gli emissari della Rivoluzione arrivarono anche al Carmelo di Compiègne, dove la vostra comunità contava 16 monache…

Già, ci isolarono rinchiudendoci nelle nostre celle davanti alle quali posero delle guardie e ci misero nella condizione di non poter comunicare tra noi, poi fummo convocate una a una davanti a un ufficiale per farci dichiarare che volevamo lasciare il monastero di nostra spontanea volontà. Nessuna di noi, ovviamente, accettò una proposta simile.

È vero che le risposte che voi davate agli emissari della Rivoluzione lasciavano stupiti e allibiti i vostri interlocutori?

Io stessa dichiarai di «voler morire e morire in quella santa casa». La più anziana delle mie consorelle disse: «Sono suora da 56 anni e vorrei averne ancora altrettanti per consacrarli tutti al Signore». Un’altra con più determinazione spiegò loro: «Mi sono fatta religiosa con mio pieno gradimento e conserverò il mio abito anche a costo del sangue». Così, con parole simili, ripeterono tutte, fino alla più giovane, suora professa da pochi mesi: «Nulla mi indurrà ad abbandonare il mio sposo Gesù».

Allora vi lasciarono nel vostro monastero, ma la situazione era tesa e piena di incognite. Eravate preparate al peggio?

Certo. A Pasqua del 1792 ci siamo radunate e insieme abbiamo deciso di offrirci in «olocausto» al Signore per chiedere la pace per la Chiesa e per lo stato. L’offerta era rinovata ogni giorno durante la celebrazione della santa Messa.

Nel settembre 1792, dopo tre giorni di massacri che fecero 1.600 vittime, tra cui 250 preti massacrati solo a Parigi, il 12 arrivò per voi l’ordine di lasciare il monastero, che venne subito requisito.

Andammo a vivere in piccoli gruppi, in quattro case nello stesso quartiere. Rriuscivamo a comunicare tra noi per mezzo del cortile interno e osservavamo il più possibile la nostra «Santa Regola» di preghiera e di lavoro, in intimità con il Signore Gesù, pronte a ogni evenienza. La gente del quartiere sapeva della nostra presenza e spesso si univa a noi pregando per ciò che si stava vivendo nella Chiesa e in Francia.

Madre Teresa, la Rivoluzione francese, che era incominciata contando su un grande appoggio popolare – anche cattolico – per le istanze che portava avanti, in poco tempo dilapidò tutta la sua carica innovativa per mostrare un volto brutale e violento come pochi nella storia delle nazioni. Com’è potuto avvenire questo cambiamento?

Mano a mano che fra i dirigenti della rivoluzione guadagnavano posizioni di comando esponenti dell’ala più radicale e oltranzista, si affermava sempre più il concetto che se si vuole abbattere l’Ancièn Regime è necessario annichilire l’avversario, visto come un nemico da sconfiggere e abbattere ad ogni costo.

Tra il luglio 1793 e l’estate 1794, i sanculotti giacobini (i rivoluzionari più estremisti) scatenarono il periodo così detto del «grande Terrore», che nelle loro intenzioni doveva portare alla scristianizzazione totale della Francia. La ghigliottina funzionava a pieno regime, le vittime più numerose furono, sacerdoti, religiosi, suore e semplici credenti, accusati di «fanatismo».

Proprio di fanatismo fummo accusate noi Carmelitane di Compiègne, le nostre abitazioni furono perquisite, tutte noi arrestate, i nostri arredi sacri profanati e infranti. Guardando in faccia la realtà di quei mesi, ci stavamo preparando da tempo con la preghiera incessante al nostro martirio, proprio secondo quanto aveva profetizzato la nostra Fondatrice, Santa Teresa d’Avila, la quale aveva detto: «In avvenire quest’Ordine fiorirà e avrà molti martiri».

E così avvenne anche per voi…

Il 13 luglio 1794, io e le mie consorelle fummo tradotte a Parigi e gettate nella Conciergerie, il carcere della morte. In quei giorni, il tribunale rivoluzionario comminava decine di condanne alla ghigliottina. Il 16 luglio 1794, festa della Madonna del Carmelo, componemmo un nuovo canto, come eravamo abituate a fare nel nostro monastero per la nostra Patrona. In quell’ambiente riscrivemmo la Marsigliese, mantenendo identico il testo musicale ma cambiando le parole dell’inno della rivoluzione in un inno di totale dedizione a Cristo:

«È arrivato il giorno della gloria
Or che la spada sanguinante è già levata
prepariamoci alla vittoria.

Sotto il vessillo del Cristo agonizzante
avanzi ognuno come vincitore.

Corriamo, voliamo alla gloria,
che noi tutte siamo del Signore!».

Il 17 luglio fummo processate e condannate per «fanatismo», l’attaccamento cioè a quelle che il nostro accusatore definiva «credenze puerili» e «sciocche pratiche di religione».

Andammo al patibolo il pomeriggio dello stesso giorno con il nostro canto sulle labbra, tenendoci per mano, con la convinzione che il nostro sacrificio fosse la migliore testimonianza che potevamo offrire a Cristo Signore per la nostra patria.

 

Dopo essere state ghigliottinate, i corpi delle sedici martiri furono gettati in una fossa comune, insieme ad altri corpi di condannati, in un posto che divenne poi l’attuale cimitero di Picpus, dove ancora oggi una lapide ricorda il loro martirio. Di esse rimasero alcuni indumenti che le Carmelitane scalze stavano lavando alla Conciergerie quando furono portate in giudizio e che, due o tre giorni dopo, vennero dati alle benedettine inglesi di Cambrai, pure incarcerate, ma poi rimesse in libertà. Tali indumenti preziosi sono oggi all’abbazia delle benedettine di Staribrook, in Inghilterra.

Reliquie preziose sono inoltre gli scritti delle martiri: lettere, poesie, biglietti, giunte sino a noi perché furono conservati da persone pie molto toccate dal loro sacrificio. Le martiri furono beatificate da San Pio X il 13 maggio 1906, mentre già il 10 dicembre precedente era stato pubblicato il decreto per procedere alla dichiarazione del martirio delle sedici carmelitane scalze.

La loro festa è celebrata il 17 luglio dall’Ordine dei Carmelitani Scalzi e dall’arcidiocesi di Parigi.

La vicenda delle carmelitane francesi ha avuto una risonanza mondiale inaspettata grazie a opere letterarie di valore indiscutibile. Nel 1931 Geltrude von Le Fort ricavò dal racconto storico della vita e del martirio delle suore di Compiègne, il romanzo «Die letzte am Schafott» dal quale il padre R. Bruckberger ebbe l’ispirazione di realizzare un film, dei cui dialoghi affidò la redazione nel 1937 a Georges Bernanos. Questi, dieci anni dopo, scrisse un lavoro che la morte gli impedì di condurre a termine. Pubblicato nel 1949 come opera letteraria a sé stante, «Les dialogues des Carmélites» ebbe un successo enorme in tutta Europa, e subito fu ridotto per il teatro e, portato sulle scene, ebbe grande fortuna. Nel gennaio del 1957 «Les dialogues des Carmélites», musicato da Francis Poulenc, presentato alla Scala di Milano, estese la fama dell’opera di Bernanos. Finalmente, nel 1959, con regia di Philippe Agostini, il padre Bruckberger riuscì ad attuare il suo sogno portando sullo schermo «Les dialogues des Carmélites». Grazie a queste opere la vicenda storica delle sedici martiri discepole di Santa Teresa d’Avila, uscì dall’anonimato per essere fatta conoscere a tutto il mondo.

Don Mario Bandera




I Perdenti 38. «T2OS»: Chiquitunga, Maria Felicia Guggiari Echeverría


Grande gioia in tutto il Paraguay sabato 23 giugno 2018 per la proclamazione di Chiquitunga come la prima beata nata in terra Guaranì. La solenne celebrazione, presieduta dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, come delegato di papa Francesco, si è svolta nella capitale Asunción, nello stadio Pablo Rojas del Barrio Obrero.

Chiquitunga – © Carmel Holy Land / Stella Maris monastery

La nuova beata è María Felicia de Jesús Sacramentado, al secolo María Felicia Guggiari Echeverría, suora dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, nata a Villarica (Paraguay) il 12 gennaio 1925 e morta ad Asunción il 28 aprile 1959. Nella sua terra tutti la conoscono con il simpatico soprannome in lingua guaranì di Chiquitunga, che il suo papà le diede fin da piccola a motivo del suo fisico minuto.

Chiquitunga è diventata, così, la prima donna paraguayana a essere annoverata tra la schiera dei beati della Chiesa. Commentando tale evento, mons. Edmundo Valenzuela, arcivescovo della capitale, ha affermato che María Felicia Guggiari Echeverría è ascesa «alla gloria degli altari» in quanto tutta la sua vita fu interamente dedicata al Signore e ai poveri della sua terra. Mons. Valenzuela ha poi proseguito dicendo che: «Chiquitunga ha avuto una vita ricca di apostolato e contemplazione, sapendo mettere insieme questi suoi doni dentro una militanza molto intensa nell’Azione Cattolica (ricordiamo che prima di entrare nel Carmelo ella fece parte per diversi anni dell’A.C. paraguayana) dove si distinse come brillante catechista di bambini, ragazzi e giovani, oltre ad essere costantemente vicina ai poveri, agli emarginati e ai bisognosi».

Il 14 agosto 1955, all’età di 30 anni, abbracciò la vita contemplativa entrando nel ramo femminile dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, dove assunse il nome di María Felicia de Jesús Sacramentado. A causa di una malattia fulminante, si spense il 28 marzo 1959.

María Felicia, parlaci un po’ di te, della tua storia, della tua famiglia, in poche parole presentati a noi che conosciamo ben poco della tua vita e del tuo meraviglioso paese.

In famiglia eravamo sette fratelli ed io ero la primogenita, mio papà si chiamava Ramón Guggiari mentre la mamma Arminda Echeverría. Fui battezzata a tre anni, a cinque anni fui accettata nel Collegio Maria Ausiliatrice e a dodici anni feci la Prima Comunione.

Un evento che ebbe una particolare rilevanza nella tua vita, o sbaglio?

Da quel momento mi accordai con Gesù per migliorarmi giorno dopo giorno, per essere sempre più buona, più attenta ai bisogni e alle esigenze di chi mi stava attorno.

Già ma le turbolenze politico-militari del tuo paese, cominciarono a condizionare molto presto la tua esistenza.

Mio padre era noto in città come fervente oppositore a una visione politica e ideologica molto affine al fascismo che andava insinuandosi in quel periodo nella società paraguayana. Le sue ferme prese di posizione per una democratizzazione del nostro paese gli costarono l’esilio. Di conseguenza anche la nostra famiglia subì tutta una serie di angherie che turbarono non poco il clima di casa nostra.

Ovviamente tu non potevi sottrarti a quello che accadeva, sia nel tuo paese come nella tua famiglia.

Infatti, solo con molte difficoltà potei terminare la scuola primaria. Nel 1940 iniziai gli studi secondari fino ad ottenere il diploma di maestra elementare.

In quegli anni oltre alla scuola ci furono altre circostanze che ti portarono ad assumere ruoli molto importanti che incisero non poco nella tua vita. Se non sbaglio sei stata una delle prime ragazze del tuo paese ad aderire all’Azione Cattolica.

Un anno fondamentale nella mia vita giovanile fu il 1941, quando entrai a far parte dell’Azione Cattolica che proprio in quell’anno veniva istituita in Paraguay. E con l’entusiasmo dei neofiti, insieme ad alcuni amici, iniziammo ad organizzare riunioni e momenti di preghiera cui partecipavo con assiduità. Appresi così a conoscere e ad amare Gesù, che dal quel momento in poi fu per me l’ideale di vita del quale mi innamorai appassionatamente. A 17 anni decisi di consacrarmi all’apostolato dell’AC offrendo a Cristo tutta la mia esistenza.

Anche la tua pratica quotidiana di fede si perfezionò tantissimo.

In questa fase della mia gioventù mi dedicai interamente al Signore, che ricevevo quotidianamente, anche se ciò comportava alzarmi di buon’ora e recarmi alla messa a digiuno (da mezzanotte), per poter ricevere la santa comunione.

Non ti limitavi però a partecipare solo alle celebrazioni liturgiche.

È vero, il resto della giornata lo trascorrevo visitando gli ammalati e gli anziani. Mentre all’interno della vita associativa dell’Azione Cattolica, mi venne affidato un compito speciale e delicatissimo, ovvero seguire le «Piccolissime», cioè le bambine più piccole della mia parrocchia, un compito al quale ero preparata da tempo per l’impegno che avevo assunto in famiglia nel servizio verso i miei fratellini.

Sei davvero di una umiltà disarmante, infatti noi sappiamo che facevi molto altro.

Oltre che seguire le attività delle «Piccolissime» di AC, cercavo di avere una certa attenzione agli umili, ai malati, agli abbandonati, ai carcerati di qualunque tendenza politica o religiosa fossero. Quando li visitavo mi proponevo di dare loro sempre un pizzico di gioia e di allegria.

Una volta ritornato tuo papà dall’esilio, la tua famiglia si trasferì da Villarica ad Asunción per avere più tranquillità grazie all’anonimato della capitale e ritrovare così un po’ di pace.

Ad Asunción decisi di iscrivermi alla Scuola Normale per diventare maestra di scuola e una volta diplomata trovarmi un lavoro. In quel tempo cercavo di modellare la mia vita interiore su un permanente cammino di fede, fatto di speranza e amore, tutto ciò per essere più fedele a Gesù e vivere con maggiore coerenza il suo messaggio di tenerezza infinita, quindi invitando tutti al perdono reciproco e alla riconciliazione specialmente con gli avversari politici dopo anni di incomprensione.

In quel periodo conoscesti un giovane di cui t’innamorasti perdutamente.

Proprio così. Durante un’assemblea di AC, conobbi Ángel Sauá Llanes, un giovane studente di medicina, membro del comitato direttivo dell’opera, con il quale simpatizzai subito e dopo poco tempo iniziammo a uscire insieme per svolgere il nostro apostolato fra la gente.

La frequentazione di un giovane fu ben accettato dai tuoi, inoltre facilitava il tuo uscire di casa per i numerosi impegni – legati all’Azione Cattolica – che avevi avviato in diversi quartieri della città.

Sì e oltre tutto lavorare gomito a gomito con Ángel, mi diede l’opportunità di entrare in quei quartieri periferici nei quali per una ragazza sola sarebbe stato pericoloso avventurarsi. Con il tempo la simpatia tra noi si approfondì, fino a trasformarsi in un vero sentimento di amore reciproco. A quel punto cominciai a interrogarmi: «Cosa vorrà dirmi il Signore con questo amore che non ho cercato e che Egli ha suscitato nel mio cuore?».

Dopo intensi momenti di preghiera e lunghe riflessioni fu chiaro che il disegno che Dio aveva preparato per voi era piuttosto originale.

Difatti una sera egli mi confidò che avvertiva nel profondo della sua coscienza in maniera molto chiara la chiamata a diventare sacerdote. Allora compresi che con il mio sentimento genuino di amore, Dio mi chiedeva di amarlo come «sacerdote» e «santo».

Per cui il primo ottobre 1951, di comune accordo realizzammo quello che si chiama «sposalizio mistico», insieme ci consacrammo a Maria Immacolata perché presentasse questa nostra «piccola offerta» a suo figlio Gesù: Ángel sarebbe diventato sacerdote ed io mi sarei consacrata a Dio nel mondo o dove il Signore mi avrebbe indicato.

E cosa avvenne dopo?

Il primo aprile 1952 prendemmo l’impegno di separarci «a causa di Dio e per Dio» e il dieci dello stesso mese lui partì per l’Europa dove avrebbe terminato i suoi studi di medicina e iniziato quelli di teologia per il sacerdozio. Nei mesi seguenti gli scrissi una gran quantità di lettere incoraggiandolo ad andare avanti sulla strada intrapresa per seguire la sua vocazione.

Immagino che anche per te nella nuova situazione venutasi a creare cambiarono molte cose.

Partecipando agli Esercizi spirituali dell’AC nel gennaio del 1954, anch’io giunsi a prendere una decisione fondamentale per la mia vita, decisi di consacrarmi completamente a Dio nel Carmelo, realizzando quello che era un po’ il ritornello della mia vita fin dall’adolescenza, quando espressi il mio ideale di vita cristiana in una formula: «T20S», ad imitazione delle formule chimiche che vedevo nei miei libri e che stava a significare «Tutto Ti Offro Signore». E con un’autentica grande gioia nel cuore, donai a Gesù tutta me stessa: la mia giovinezza, il mio amore, l’impegno del mio apostolato.

E così il 2 febbraio del 1954, festa della Presentazione di Gesù al tempio, varcasti la porta della clausura e, con il sorriso sulle labbra, attorniata da tutta la tua famiglia che tanto amavi, entrasti nel Carmelo di Asunción.

Alcuni giorni dopo il Signore iniziò il suo lavoro di purificazione della mia persona facendomi attraversare quella che i mistici chiamano «la notte dello spirito». L’incertezza sulla scelta fatta si impossessò di me. Pensavo che forse era stato un errore lasciare il mondo, dove svolgevo tanto bene i miei molteplici impegni; che chiudermi in clausura era come mettere la lampada sotto il moggio.

Del resto, è abbastanza scontato che in questa fase della tua nuova vita potessi avere qualche momento di timore e apprensione.

Devo dire che l’apice dell’oscurità lo raggiunsi durante gli Esercizi Spirituali prima della vestizione solenne, ma a poco a poco queste paure si dileguarono. Nella nuova vita al Carmelo cominciavo a sperimentare la vicinanza dell’Amato a cui chiedevo insistentemente una cosa sola: «Amore per amare». Finalmente il 14 agosto del 1955 ricevetti l’abito claustrale del Carmelo.

Ti sentivi pienamente realizzata come donna, come religiosa e come monaca.

La mia vita nel Carmelo non poteva essere più semplice e gratificante, infatti non facevo altro che amare, amare e amare di più Gesù e i suoi fratelli, ovvero gli esseri umani di tutto il mondo, a qualunque continente o popolo appartenessero, soprattutto i più poveri ed emarginati. Un sentimento speciale lo coltivavo per le mie consorelle di comunità, per i sacerdoti, che avevo sempre presenti nelle mie preghiere, a cominciare dal mio «amico» che si preparava al sacerdozio, per i poveri e gli umili.

Il 15 agosto 1959 avrebbe dovuto essere il giorno del suo impegno definitivo di amore con il Signore, con la professione perpetua solenne. Ma María Felicia «sentiva» che Lui voleva incontrarla prima, e lei come sempre era pronta. Nel gennaio del 1959, le fu diagnosticata una epatite infettiva. Fu portata alla Croce Rossa per essere debitamente curata. In effetti, durante la Quaresima, poté essere dimessa. Ritornò al suo amato piccolo monastero. Si dedicò alla vita monastica con tutta la sua generosità unita al desiderio sempre più vivo d’immolazione. Giunse la Settimana Santa e si unì spiritualmente alla Passione di Gesù, mettendo a disposizione tutta la sua creatività piena di fantasia ed amore.

Il Venerdì Santo, il cappellano, dandole la comunione, notò un livido nella lingua. Il sabato cominciarono a manifestarsi macchie di sangue che la domenica ed il lunedì di Pasqua si moltiplicarono. Il martedì una grave emorragia allarmò la Madre priora che fece venire immediatamente Freddy Guggiari, il fratello medico. La diagnosi fu immediata: «Porpora trombotica».

Il giovane dottore uscì singhiozzando dalla stanza dell’inferma: «Essere medico e non poter salvare mia sorella!». Ricoverata di nuovo nell’Ospedale della Croce Rossa, cominciò il suo Calvario, la sua unione definitiva con la Croce, con una pazienza e un’allegria incredibili. Chi la vedeva anche solo per pochi istanti diceva: «È un’altra Teresina di Lisieux». Lei però desiderava tornare presto al Carmelo e il Signore la accompagnò al Carmelo del Cielo.

Ogni giorno era circondata dai suoi familiari a cui María Felicia ripeteva: «Sono felice di morire nel Carmelo!», anche in quei momenti non si spense mai il sorriso sulle sue labbra. Alle quattro del mattino del 28 aprile, la si udì bisbigliare: «Gesù, che dolce incontro! Vergine Maria!». Furono le sue ultime parole prima di entrare nel Regno dei Cieli.

Don Mario Bandera




Perdenti 37. Teresio Olivelli, ribelle per Amore

Don Mario Bandera “intervista” Teresio Olivelli |


Teresio Olivelli nasce a Bellagio (Co) il 7 gennaio 1916. Dopo le scuole elementari e medie, frequenta il ginnasio a Mortara (Pv) e il liceo a Vigevano.

Nel tempo degli studi ginnasiali e liceali si mostra studente modello, ardente di carità verso i compagni, specie i più bisognosi. Partecipa intensamente anche alle attività dell’Azione Cattolica e della San Vincenzo, poiché avverte l’impellente richiamo di portare i valori evangelici nei diversi ambienti sociali che frequenta. Una volta conseguita la maturità si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia e viene accolto nel prestigioso ed esclusivo Collegio Ghislieri.
Nel periodo universitario, pur accettando il fascismo dominante, lavora soprattutto a costruire e rafforzare la sua vita spirituale. Convinto che «il cristianesimo vuole ascetica, che è esigenza d’ordine e di organizzazione delle proprie azioni», si impegna intensamente su due dimensioni: il crescere nella fede in Dio e il rafforzare la sua volontà di bene e di impegno concreto. Con il supporto di una fede intensamente vissuta, egli opera là dove il bisogno dei più poveri lo chiama per lenire sofferenze materiali e spirituali. È questo il periodo in cui diventa più concreta la sua vocazione alla carità, che egli testimonia con crescente ardore.
Dopo la laurea viene chiamato a Roma a lavorare come segretario dell’Istituto nazionale di cultura fascista, dove può intrattenere rapporti con personaggi autorevoli del panorama culturale e politico italiano, e compiere dei viaggi in Germania che lo aiutano ad aprire gli occhi sul nazismo. A Roma, dal maggio 1940 a febbraio 1941, vive intensamente la sua vita di fede, con messa e meditazione quotidiana, ed espletando il suo lavoro con fedeltà alla sua coscienza cristiana.
Allo scoppio la II Guerra mondiale, non accetta il vantaggio dell’esonero dal servizio militare che la sua posizione comporta ma vuole condividere la condizione dei suoi coetanei arruolati in massa e mandati poi a migliaia a morire nella Campagna di Russia.

Teresio, nel 1941 ti arruolano nominandoti sottotenente della Divisione tridentina degli alpini. Potresti avere l’esonero grazie alla tua posizione, ma chiedi di partire volontario per il fronte russo.

Voglio stare accanto ai giovani militari e condividere la loro stessa sorte. Non ho eroici furori. Solo desidero fondermi nella massa, in solidarietà col popolo che, senza averlo deciso, combatte e soffre. Sono pervaso da un’idea fissa: essere presente fra quanti sono gettati nella folle avventura della sofferenza, del dolore e della morte. Ed è proprio in quel periodo che si frantuma dentro di me l’idea che mi ero fatta del fascismo. In cuor mio divento sempre più critico nei confronti del sistema, vedendo e costatando con i miei occhi le violenze e le aberrazioni attuate dalla brutale logica della guerra.

Dopo la sconfitta sul fronte russo partecipi alla disastrosa ritirata con la sua scia di morte. Sei attento ai tuoi soldati e molti dei tuoi alpini ti devono la vita.

Durante la campagna cerco di sostenere i miei compagni, non solo condividendo il mio cibo con loro, ma anche aiutandoli spiritualmente. Tutte le sere ci raduniamo a dire il rosario. Poi, durante la ritirata, in condizioni di freddo polare, sto attento ai più deboli. Una sera, vedo che mancano due dei miei uomini che erano feriti. Torno indietro a cercarli pur sapendo di correre il rischio del congelamento restando fuori a quasi -30°, ma in coscienza non me la sento di lasciare indietro nessuno.

Rientrato a Pavia nella primavera del 1943, trovi una piacevole sorpresa.

Sì. Con mia grande sorpresa scopro di aver vinto il concorso al quale mi ero presentato prima di partire per il fronte russo: diventare rettore del Collegio Ghisleri, dove avevo studiato. Ho solo 27 anni, e in quel momento sono formalmente il più giovane rettore di un collegio universitario in Italia.

Un bel sogno che dura poco. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 la tua vita cambia di nuovo radicalmente.

L’8 settembre mi trova ancora nella caserma di Vipiteno, con i miei Alpini. Non accetto di schierarmi con la Repubblica di Salò. I soldati tedeschi mi arrestano e mi mandano in un campo di prigionia vicino a Innsbruck, in Austria, e poi in un altro. Da lì riesco a fuggire il 10 ottobre e a raggiungere fortunosamente Udine e da lì Brescia, dove collaboro alla nascita delle «Fiamme Verdi», le formazioni partigiane di orientamento cattolico. La mia è una scelta fatta seguendo la mia coscienza, secondo i principi della fede e della carità cristiana.

La tua scelta di unirti alla Resistenza è dovuta a motivi politici?

Ovviamente la mia presa di posizione avrà conseguenze politiche, perché devo decidere se stare con il Re d’Italia o con la Repubblica di Salò. Ma la ragione di fondo è la mia coscienza illuminata dal Vangelo. Non posso accettare la logica della violenza nazifascista e sogno un mondo nuovo più cristiano, basato sulla logica dell’amore. Divento un ribelle per amore.
Partecipo attivamente alla Resistenza, ma il mio contributo fondamentale è la fondazione, nel febbraio 1944, del giornale clandestino «Il Ribelle», un foglio di collegamento e di sensibilizzazione per diffondere gli ideali della Resistenza di ispirazione cattolica.

In quei fogli esprimi il tuo concetto di Resistenza intesa come una «rivolta dello spirito» alla tirannide, alla violenza, all’odio.

Per me resistere è una rivolta morale, diretta a suscitare nelle coscienze il senso della dignità umana e il gusto della libertà personale e a promuovere un ordine di valori sui quali primeggia la carità cristiana, volta a costruire la civiltà dell’amore contrapposta a quella dell’odio propugnata dai nazifascisti.

Sulle pagine del «Ribelle» pubblichi quello che può essere considerato il tuo «manifesto», la «preghiera del ribelle». In quel testo definisci te stesso e i tuoi compagni «ribelli per amore».

Pubblichiamo «Il Ribelle» a Milano e riusciamo a diffonderne ben 26 numeri, ognuno in almeno 15mila copie. La diffusione è possibile soprattutto grazie all’impegno di tante donne che lo distribuiscono a loro rischio e pericolo. Il giornale, con questa preghiera e tutte le nostre prese di posizione ricche di umanità e fedeli al Vangelo, è visto come una pubblicazione sovversiva. Per questo sia i nazisti che i fascisti danno la caccia a me, ai miei collaboratori e al tipografo, fino al mio arresto che avviene a Milano il 27 aprile 1944.

Teresio Olivelli viene dapprima torturato a San Vittore e poi deportato al campo di Fossoli, dove riesce a salvarsi dalla fucilazione nascondendosi. Riesce anche a fuggire, come aveva già fatto dall’Austria, ma lo catturano dopo pochi giorni e lo mandano prima a Bolzano-Gries e poi a Flossenbœrg in Baviera, e da ultimo al campo di Hersbrœck, dove non solo è marchiato col triangolo rosso dei politici ma anche col disco rosso dei sorvegliati speciali perché tentano la fuga.
Teresio comprende che è giunto il momento del dono totale e irrevocabile della propria vita per la salvezza degli altri. In questi luoghi aberranti il senso del dovere della carità cristiana portato fino all’eroismo, diventa per lui norma di vita. Infatti, interviene sempre in difesa dei compagni percossi, rinuncia spesso alla sua razione di cibo in favore dei più deboli e malati.
Resiste con fede, fortezza e carità alla repressione nazista, difendendo la dignità e la libertà di tanti fratelli sventurati come lui. Questo atteggiamento suscita nei suoi confronti l’odio dei capi baracca, i cosiddetti kapò, che di conseguenza gli infliggono dure e continue percosse. Tutto ciò non ferma il suo slancio di carità, a motivo del quale è consapevole di poter morire. Ormai deperito, si protende in un estremo gesto d’amore verso un giovane prigioniero ucraino brutalmente pestato, facendo da scudo con il proprio corpo. Viene colpito con un violento calcio al ventre, in conseguenza del quale muore il 17 gennaio 1945, a soli 29 anni.
La definizione più efficace di Teresio Olivelli l’ha data don Primo Mazzolari, qualificandolo come «lo spirito più cristiano del nostro secondo Risorgimento».
Il 4 febbraio 2018, nella Cattedrale di Vigevano, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, alla presenza di una nutrita partecipazione del Corpo degli alpini, lo ha proclamato Beato, definendolo un autentico «combattente» della carità.

Don Mario Bandera


PREGHIERA DEL RIBELLE

Signore
che fra gli uomini drizzasti la Tua croce,
segno di contraddizione,
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro
le perfidie e gli interessi dominanti,
la sordità inerte della massa, a noi oppressi
da un giogo oneroso e crudele che in noi
e prima di noi ha calpestato Te fonte di libere vite,
dà la forza della ribellione.

DIO
che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi,
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà,
moltiplica le nostre forze, vestici della Tua
armatura, noi ti preghiamo, Signore.

TU
che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocefisso,
nell’ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria;
sii nell’indulgenza viatico, nel pericolo sostegno,
conforto nell’amarezza.
Quanto più si addensa e incupisce l’avversario,
facci limpidi e diritti.
Nella tortura, serra le nostre labbra.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fa che il nostro sangue si unisca
al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti,
a crescere al mondo giustizia e carità.

TU
che dicesti: «Io sono la Resurrezione e la Vita»,
rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa.
Liberaci dalla tentazione degli affetti:
veglia Tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città,
dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo:
sia in noi la pace che Tu solo sai dare.

DIO
della pace e degli eserciti,
Signore che porti la spada e la gioia,
ascolta la preghiera di noi,
ribelli per amore.

Teresio Olivelli




I Perdenti 36: Annalena Tonelli

Testo «intervista» di Mario Bandera a Annalena Tonelli |


Annalena Tonelli nasce a Forlì il 2 aprile 1943, terza di cinque figli. Sin dall’infanzia si sente chiamata a donarsi per gli altri, come racconta nel dicembre 2001, durante un convegno al quale è stata invitata, svolto presso l’Aula Nervi in Vaticano: «Scelsi che ero una bambina di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo, null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri attraverso Lui».

Dopo aver frequentato il liceo classico e un anno di stage a Boston in America, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna. Si forma nell’Azione Cattolica forlivese, nella sua parrocchia e nella Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), della cui sezione femminile locale diviene presidente. Nel tempo libero dagli studi, organizza convegni e incontri. Grande trascinatrice, porta le amiche al brefotrofio, trasformandole in mamme di tanti bambini. Nel 1963 contribuisce in modo determinante a far nascere a Forlì il «Comitato contro la fame nel mondo». Dopo la laurea, conseguita nel 1969, desidera partire per l’India, che ha imparato a conoscere attraverso la lettura dei libri di Gandhi.
I familiari non vogliono che parta né per l’India né per altri paesi, ma lei coglie la prima occasione possibile e, dietro consiglio di un’amica, parte per Nairobi, capitale del Kenya. Proprio in terra d’Africa comincia così la sua straordinaria avventura come missionaria laica, da cui scaturisce il nostro colloquio.

Primo piano di Annalena Tonelli scattato a Boston (1961) – © Erebfan

Annalena come è stato il tuo primo impatto con la realtà africana?

Padre Giovanni De Marchi, missionario della Consolata nella diocesi di Nyeri, mi accoglie a Nairobi e con lui vado come insegnante di inglese nella Chinga Boys, una scuola secondaria fondata nel 1964 vicino a Othaya nella missione di Karema. Lì comincio a farmi le ossa, a conoscere l’ambiente e ad allargare il mio interesse verso il Nord desertico del Kenya. Più passano i mesi, più mi convinco che il mio futuro è in Africa. A un amico sacerdote scrivo: «Sono certa che alla fine scoprirò che anche la vita qui è grazia, perché tutto è grazia, se io dovunque mi trovo, vivo semplicemente, nello sforzo umile ma potente e continuamente rinnovato di imitare il Cristo».

Come si caratterizza la tua permanenza in Africa?

Nel 1970 mi faccio trasferire nella scuola governativa di Wajir, nel Nord Est del Kenya, dove padre Salvatore Baldazzi, sempre missionario della Consolata e romagnolo come me, ha appena aperto una Girls’ Town. Lì mi raggiunge la mia amica Maria Teresa Battistini e poi altre compagne. Insieme diamo vita a una piccola comunità di laiche missionarie. Ci dedichiamo in particolare ai nomadi – prevalentemente somali – del deserto, dei quali ammiro la fede semplice e l’abbandono totale in Dio.

La vostra presenza in quell’ambiente non è certamente priva di rischi.

Siamo ostacolate in diversi modi. Ci prendono a sassate e una notte i ladri non solo ci derubano ma anche ci malmenano pesantemente. Non molliamo però. Con gli aiuti che riceviamo da Forlì, fondiamo un centro di riabilitazione per disabili – non esisteva niente del genere in quel vasto territorio – e inizio anche a occuparmi dei malati di tubercolosi, tanto che riesco a mettere a punto un nuovo metodo efficace di cura (la TB manyatta) che si adatta perfettamente alla vita dei nomadi.

La situazione nel Nord del Kenya è tesa a causa della guerriglia degli Shifta e voi vi trovate coinvolte in un fatto molto grave.

Nel febbraio 1984 miliziani filogovernativi bruciano alcuni quartieri di Wajir accusando i residenti di essere sostenitori dei guerriglieri Shifta. Radunano poi migliaia di uomini nell’aeroporto di Wagalla, picchiano e torturano e il giorno 10 li cospargono di benzina e danno loro fuoco. È un massacro, anche se la maggioranza si salva togliendosi i vestiti. Alla notizia, dipingo una croce rossa sulla nostra Toyota e vado a curare i feriti, recuperare i morti e dare loro sepoltura. Per questo sono minacciata e anche picchiata. Mi salvo perché un vecchio capo musulmano locale mi difende.

Con l’aiuto di amici, mandi alle ambasciate a Nairobi le fotografie di mucchi di cadaveri e feriti per fermare l’eccidio che rischiava di estendersi.

Per tutti questi motivi veniamo espulse dal paese come «persone non gradite» e la nostra comunità di laiche missionarie deve sciogliersi.

Di fronte alla nuova situazione venutasi a creare, come reagisci?

Decido di trasferirmi in Somalia, prima a Merca e poi, nel 1996, a Borama. Lì fondo un ospedale con 250 letti, per i tubercolotici e gli ammalati di Aids, e una scuola per bambini sordi e disabili. Sono più che mai convinta che con l’istruzione si possa far evolvere la situazione economica e sociale di quella che ormai considero la mia gente.

Un bel progetto non c’è che dire.

Mi oppongo anche alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, in questo molto appoggiata dalle donne somale. Aggiornandomi continuamente, riesco a ottenere dei diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra. Pur non essendo laureata in medicina, investo tutti i miei sforzi in favore dei malati e perfeziono anche la profilassi per la tubercolosi già sperimentata con la TB manyatta a Wajir. Il metodo verrà utilizzato in seguito su larga scala dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Da dove ricavi la forza per andare avanti?

Se devo proprio essere sincera la radice che sostiene tutta la mia attività sta nella preghiera contemplativa, nella meditazione del Vangelo e nell’adorazione eucaristica, quando questa è possibile. Nei miei ritorni in Italia frequento l’eremo di Cerbaiolo, tra Toscana e Romagna, o quello di Spello, o ancora a Campello sul Clitunno. In tutta la mia vita ho sentito costantemente la tensione verso una vita più contemplativa, ma il pensiero dei miei amati somali mi spinge sempre a tornare da loro.

Con questa forza interiore impari a far fronte alle difficoltà dell’ambiente e ai rischi e pericoli quotidiani.

Anche se sono continuamente minacciata, perché bianca, donna, cristiana e non sposata, non ho mai avuto paura, e anche questa è una cosa che ho imparato giorno dopo giorno vivendo con fede la mia situazione.

Alcune volte sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata anche imprigionata, ma non ho mai avuto paura. Quando poi quel vecchio e rispettabile capo di Wajir decretò che sarei andata ugualmente in Paradiso, anche se ero un’infedele, tutti hanno accettato che io fossi l’unica cristiana residente in quel luogo.

Nella condizione singolarissima come quella da te vissuta in terra d’Africa, avrai messo a fuoco una visione più approfondita del messaggio di Gesù di Nazareth.

L’esperienza maturata vivendo in mezzo ai poveri mi ha dato la convinzione incrollabile che ciò che conta nella vita è amare, solo amare! Quando si ama, la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Io perdo la testa per i brandelli di una umanità ferita; più gli esseri umani sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io sento di amarli. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia.

Praticamente sei sempre vissuta con i somali, in un mondo rigidamente musulmano.

Foto di Annalena Tonelli durante l’incontro tenutosi a Forlì dopo aver ricevuto a Ginevra il Nansen Refugee Award. PASQUALE BOVE/ANSA/DEF 2003

Dove ho lavorato in Africa non c’era nessun cristiano con cui poter condividere un cammino di fede. All’inizio tutto mi era contro. Ero giovane, dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca, dunque disprezzata da quella gente che si considerano superiori a tutti. Ero cristiana, dunque oltraggiata, rifiutata, temuta. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo in cui il celibato non esiste e non è un valore, anzi è un disvalore. Solo chi mi conosce bene dice e ripete senza stancarsi che io sono somala come loro. Io mi sento madre autentica di tutti quelli che ho salvato.

Questa è certamente un’esigenza fondamentale della tua natura.

Certo io in loro vedo Lui, Gesù il Cristo, l’agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo. Ma il dono più straordinario, il dono per cui ringrazierò Dio e loro per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Loro musulmani mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato che devo fare tutto, tutto incominciare, tutto operare, tutto sperare, sempre nel nome di Dio.

Sei mai stata aiutata da altri volontari nel tuo lavoro?

Dall’Italia e da altri paesi europei arrivavano in periodi diversi dei volontari per aiutarmi: c’era chi rimaneva qualche mese, chi trascorreva un determinato periodo, come le ferie estive, ma nessuno ha mai deciso di fermarsi per qualche anno. Economicamente le opere che avevamo avviate erano sostenute da un Comitato di aiuto sorto nella mia città a Forlì, e da altre organizzazioni internazionali. Del resto, io non appartenevo a nessuna congregazione od organismo religioso o laico, mi bastava la scelta fatta nella gioia della mia gioventù, di dedicarmi a Dio e al prossimo senza etichette o simboli esteriori.

Si può dire che tu donna di poche parole, eri impegnata più ad agire che a parlare, tanto meno di te stessa.

In compenso se in Italia, al di fuori della mia città, potevo essere poco conosciuta, le somale emigrate nel nostro paese, i nomadi del Kenya, i tubercolotici della manyatta, i malati di Aids di Borama e i rifugiati del Nord Somalia, cioè gli ultimi e più sconsolati della Terra, mi facevano buona pubblicità parlando delle nostre attività non appena se ne presentava l’occasione.

Inoltre, tu credevi fermamente nel dialogo: tra le persone, le culture, tra fedi diverse.

Si, ma senza indietreggiare di un millimetro, senza dimenticare l’assoluta originalità del Vangelo. Ogni giorno noi ci adoperavamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare. Sapessi come è difficile il perdono! I miei musulmani facevano tanta fatica ad apprezzarlo, ma lo chiedevano per la loro vita, riconoscevano in questo l’originalità della nostra presenza in mezzo a loro.

Il 25 giugno del 2003 Annalena Tonelli riceve dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, il prestigioso premio «Nansen Refugee Award», per la sua opera a favore dei rifugiati e dei perseguitati. La sua tenace dimostrazione di amore gratuito – capace di perdonare anche chi tenta di ammazzarla – fa breccia in tante delle innumerevoli persone che Annalena accosta durante la sua avventura africana. Solo alla luce di questo si capisce come mai donne musulmane accettino che una straniera (per di più cristiana) insegni loro – ben prima che la lotta alle mutilazioni genitali diventi una bandiera delle femministe occidentali – come liberarsi da una pratica tanto antica quanto devastante per le donne. Il paradosso è che a capire in profondità il segreto di quella donna umile e tenace è proprio il vecchio capo musulmano di Wajir: «Noi musulmani abbiamo la fede – confidò una volta alla missionaria italiana -, voi l’amore».

Il 5 ottobre 2003, mentre compie l’ultimo giro tra gli ammalati del suo ospedale a Borama, Annalena viene uccisa con un colpo alla nuca, sparato da un fanatico. Ha 60 anni, dei quali 34 trascorsi in Africa tra i poveri più poveri. Per suo espresso desiderio, è sepolta a Wajir, in Kenya, dove c’è il suo primo ospedale.

Don Mario Bandera

Documentario dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati su Annalena in inglese.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=TgTVdj1WXKQ?feature=oembed&w=500&h=281]

Versione italiana dello stesso documentario.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=SpTCSEzDuk4?feature=oembed&w=500&h=281]

«L’UNHCR Somalia ha girato un documentario di 26 minuti, prodotto e diretto da Matt Erickson della Poet Nation Media, per celebrare il suo incredibile lavoro. É stato girato a Nairobi, Borama e Wajir. Il filmato è stato doppiato in italiano dalle ragazze e dai ragazzi della A.C.R. di Vecchiazzano Forlì».




I Perdenti 35. Ernesto Che Guevara

più mito che mai

Testo su il Che Guevara di Mario Bandera |


Ernesto Che Guevara de la Serna nasce a Rosario, città situata sul fiume Paraná in Argentina, il 14 giugno 1928, da una famiglia della media borghesia latinoamericana. Il soprannome «Che» gli viene dato negli anni trascorsi a Cuba per la sua abitudine, tipica di tutti gli abitanti nati su quel fiume e in modo particolare di quelli della baia del Rio de la Plata dove c’è Buenos Aires in Argentina e Montevideo in Uruguay, di parlare intercalando l’espressione «che» (pron. cé), paragonabile al nostro diffuso «cioè» o al tipico «né» piemontese.

Il padre, Ernesto Rafael Guevara Lynch, è un ingegnere civile, mentre la madre, Celia de la Serna, è una donna intelligente e colta, grande lettrice, appassionata soprattutto alla letteratura francese. Poiché il piccolo è sofferente d’asma, i genitori, su consiglio dei medici, si trasferiscono nei pressi di Cordoba, dove c’è un clima più mite, più adatto alla sua salute. Dopo gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di Medicina di Buenos Aires, dove nel frattempo la sua famiglia si è trasferita. Durante il periodo universitario, con l’amico Alberto Granado compie un lungo viaggio con la moto (da lui orgogliosamente chiamata «la Poderosa») in diversi paesi dell’America Latina. Nel 1953 si laurea e due anni dopo sposa la peruviana Hilda Gadea.

Nel 1955 mentre si trova in Messico incontra una persona decisiva per il suo futuro: Fidel Castro. Dopo una notte passata a discutere animatamente della situazione sociopolitica del subcontinente latinoamericano, Castro gli propone di unirsi a lui per liberare Cuba dal dittatore Fulgencio Batista. Guevara accetta e nel novembre del 1956 organizza con Fidel e altri compagni uno sbarco a Cuba, dove negli scontri con l’esercito di Batista si rivela un coraggioso combattente e un abile stratega.

Nell’impenetrabile Sierra Maestra, grazie alla sua sapiente tattica di guerriglia, Guevara si guadagna sul campo i galloni di «Comandante». Nel 1959 una volta liberata l’isola caraibica dal regime di Batista, entra a far parte del nuovo Governo rivoluzionario, presieduto da Fidel Castro, assumendo l’incarico della ricostruzione economica di Cuba in qualità di direttore del Banco Nacional e di ministro dell’Industria.

Con molta titubanza di fronte a un personaggio così illustre e controverso, iniziamo il nostro colloquio.

Preferisci che ti chiami Ernesto, tuo nome di battesimo, oppure devo usare Che, l’appellativo con cui sei diventato famoso?

Ormai mi conoscono tutti come il Che. Pertanto, anche per me è più congeniale rispondere a questo soprannome, piuttosto che ad altri, nome personale compreso.

Allora Che, parlaci un poco della tua infanzia e della tua famiglia.

Mio papà, uomo retto e tutto di un pezzo, era completamente preso dal suo lavoro che lo teneva parecchio tempo occupato fuori casa, lontano dalla famiglia. Il suo atteggiamento mi spianò la strada affinché fin da piccolo mi affezionassi sempre più a mia mamma, la quale, ne convengo, ebbe un ruolo fondamentale nella mia formazione.

Parlaci un po’ dell’influenza che ebbe tua mamma nella tua vita.

Nel periodo che va dal 1936 al 1939, anni in cui si consumava la guerra civile di Spagna, con gli inevitabili strascichi di dolore e sofferenza sulla popolazione, mia mamma, un’attivista politica e femminista militante, atea e anticlericale, con molta pazienza mi aiutò a capire quale era la posta in gioco e quali erano le forze autoritarie che usavano le armi per negare al popolo spagnolo democrazia e libertà.

È vero che eri un lettore accanito, praticamente «onnivoro»?

Sì, è vero, leggevo di tutto. In modo particolare i saggi relativi alle problematiche dell’America Latina, di quella «Patria grande» sognata da tutti i padri della patria del sub continente latinoamericano, come Simon Bolivar, José de San Martin, Bernardo O’Higgins, Gervasio Artigas e da tutti i libertadores dei nostri popoli.

Tu sei famoso anche per un mitico viaggio che hai fatto in moto, risalendo dall’Argentina attraverso tutti i paesi dell’America Latina fino ad arrivare in Messico.

In realtà ho fatto diversi viaggi attraverso il continente. Il primo, nel 1950, insieme al mio amico Alberto Granados, visitammo il Cile, il Perù, l’Ecuador, la Colombia e il Venezuela. Ero ancora studente. Nel viaggio fummo colpiti dalla situazione di povertà degli indigeni e dei minatori in molti paesi. Venimmo anche a contatto con la realtà della lebbra e questo stimolò la nostra volontà di terminare gli studi e diventare medici. Così tornai a casa e mi laureai nel 1953 specializzandomi in allergologia.

E cominciasti a lavorare come medico.

No. Mi rimisi in viaggio e nella mia irrequieta ricerca, mentre maturavo un’avversione sempre più grande verso l’ingerenza nordamericana nell’America Latina, visitai Bolivia e Perù, e poi su, verso i paesi dell’America Centale, fino in Guatemala dove venni a contatto con diversi esuli cubani e con colei che anni dopo divenne mia moglie, Hilda Gadea. Fu anche grazie a lei che fui stimolato a leggere e studiare molto per approfondire le mie idee filo marxiste. Abbandonato il Guatemala dopo il colpo di stato militare del giugno 1954, mi recai in Messico, dove sopravvissi facendo il cronista per i Giochi panamericani del 1955. A Città del Messico tornai a frequentare i molti esuli cubani che là avevano trovato rifugio.

Se non vado errato fu proprio in quella città che conoscesti Fidel Castro.

Fu una notte memorabile quella che passai con lui. Ovviamente ne avevo sentito molto parlare. Però non avevo una grande opinione di lui. Ma quella notte mi conquistò. E decisi di entrare a far parte del suo movimento, anche solo come medico.

Quale movimento?

L’M-26-7. Ma lascia che ti spieghi. Castro era un giovane avvocato cubano, diventato uno dei leader dell’opposizione nel suo paese. Dopo che, nel marzo del 1952, Fulgenzio Batista aveva assunto il potere con un colpo di stato, Fidel aveva cercato dapprima le vie legali per farlo condannare e ritornare alla democrazia, poi, fallite quelle, aveva fondato con diversi dissidenti un movimento per farlo cadere usando tutti i mezzi, anche la violenza.

Avevano ottenuto risultati?

Nessuno. Con gli amici del movimento aveva quindi organizzato un’azione dimostrativa cercando di coinvolgere gli universitari nell’assalto di una delle caserme simbolo del potere di Batista, la Caserma Moncada. L’attacco avvenne il 26 luglio 1953. Quello fu l’evento che segnò l’inizio della rivoluzione cubana, tanto che la data dell’episodio fu poi adottata da Castro come nome del movimento che prese il potere nel 1959, M-26-7 o Movimento 26 de Julio. Ma sul piano militare fu un fallimento totale per l’improvvisazione, la faciloneria e la mancanza di armi adeguate. Il risultato fu la morte di oltre sessanta compagni, l’imprigionamento di molti altri e l’arresto dello stesso Fidel Castro.

Ma Fidel non restò in prigione a lungo.

Fidel fu condannato a morte, nonostante la sua brillante arringa nella quale disse la famosa frase: «La storia mi assolverà». Nel frattempo il dittatore Batista, su richiesta della Chiesa, aveva abolito la pena di morte, e la condanna fu commutata in 15 anni di reclusione nel penitenziario dell’Isola dei Pini.

Nel 1955, su pressione di madri di prigionieri politici e di politici, editori e intellettuali, il Congresso cubano approvò un provvedimento di amnistia. I ribelli e il loro leader furono rilasciati.

Visto però che rischiava di essere di nuovo arrestato, andò in esilio volontario in Messico, dove l’ho incontrato e mi sono appassionato alla sua causa.

Qual era il vostro piano per liberare Cuba?

Con Fidel prendemmo la decisione di sbarcare sulle spiagge di Cuba usando una vecchia nave, la Granma (la nonna). Era il 2 dicembre 1956 e noi, 82 guerriglieri ben addestrati, ci inoltrammo nel territorio montagnoso della Sierra Maestra, difficile da attraversare ma molto adatto per la lotta di guerriglia che volevamo fare contro il dittatore Batista.

La liberazione di Cuba vi tenne impegnati su diversi fronti.

Il movimento rivoluzionario messo in piedi da Fidel Castro si diffuse sempre più all’interno dell’isola coinvolgendo in maniera massiccia la popolazione rurale anche grazie all’impiego di una campagna radiofonica da me diretta. Guadagnammo sempre più consenso, sia nel contesto latinoamericano che sul piano internazionale.

Nel 1958, Batista scatenò la sua offesiva, ma il terreno montagnoso non favoriva l’esercito regolare, minato da disorganizzazione e basso morale.

Dopo molte battaglie, nell’agosto la colonna da me comandata sbaragliò gli attaccanti. Da lì in avanti, fu tutta una serie di successi, fino a quando il 2 gennaio 1959 entrai all’Avana, seguito da Castro l’8.

Liberata Cuba, nel governo che si costituì sotto la presidenza di Fidel Castro, ti furono poi assegnate responsabilità molto importanti.

Il primo incarico fu «sporco»: responsabile della prigione dove erano tenuti i fedelissimi di Batista, quelli che si erano macchiati delle colpe più gravi. Poi, dopo essere stato direttore dell’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria e della Banca Nazionale di Cuba, fui nominato ministro dell’Industria.

Nella mia posizione girai mezzo mondo e cercai di aiutare movimenti rivoluzionari in diversi paesi. Poi, nel marzo 1965, di ritorno da un congresso ad Algeri, mi ritirai completamente, rinunciando a tutti i miei incarichi. Mandai una lettera a Castro per spiegare la mia decisione.


Il motivo di questo suo allontanarsi da Cuba rimane misterioso. Si parla di pressioni dei sovietici per liberarsi di uno che ha troppe simpatie per i Cinesi, del fatto che Castro sia geloso della sua rampante popolarità, di irrequietezza insita nel Che e tanto altro. Nel 1965 lo troviamo nell’ex Congo Belga con una spedizione cubana fallimentare a sostegno dei ribelli Simba. Dopo quella, vaga in diversi paesi e scrive libri. Nel 1967, coerente con i suoi ideali, il Che riparte per un’altra rivoluzione, quella boliviana, dove, in quell’impossibile terreno, viene tratto in agguato e ucciso dalle forze governative. Si è speculato sulla data esatta della sua morte, ma sembra certo che il Che fu assassinato l’otto ottobre di quell’anno.

Diventato in seguito un vero e proprio mito laico, un martire dei «giusti ideali», Guevara ha indubbiamente rappresentato per i giovani di tutto il mondo, un simbolo dell’impegno politico rivoluzionario, purtroppo oggi sovente svilito a semplice gadget o icona da stampare sulle magliette.

Cosa resta del mito del «Che» cinquant’anni dopo la sua morte? Perché questa icona del secolo Novecento resiste ancora?

Forse perché il «Che» rappresentò ideali di coerenza, di purezza e di coraggio disinteressato, un eroe senza macchia per l’Olimpo dei «Miti», quelli che seppero offrire la loro vita per un ideale di giustizia e di uguaglianza. E poi perché gli eroi nel nostro immaginario restano sempre giovani e belli, perché gli anni passano ma i sogni di coloro che lottano per un mondo più fraterno sono senza tempo e non tramontano mai.

Don Mario Bandera




I Perdenti, 34. Dorando Pietri: il perdente più celebre del ‘900

Testo di Mario Bandera |


Nella galleria dei personaggi che – a torto o a ragione – sono passati alla storia come dei «perdenti eccellenti» e che MC da qualche tempo sta cercando di presentare sotto una luce positiva, trova il suo posto anche Dorando Pietri, l’atleta di Reggio Emilia che alle Olimpiadi di Londra del 1908 percorse, allo stremo delle forze, l’ultimo tratto della maratona nello stadio di Wembley sostenuto da uno dei giudici di gara. L’impresa sportiva di quel giorno, che l’aveva visto come un brillante protagonista per tutto il percorso, si concluse amaramente con la squalifica del corridore emiliano per l’aiuto ricevuto nell’ultimo tratto del percorso. Nella memoria collettiva di tutti gli sportivi – non solo italiani – Dorando Pietri, è l’atleta che seppe incarnare in maniera esemplare gli ideali del marchese Pierre De Coubertin, ideatore delle moderne Olimpiadi.

Dorando Pietri – CC

Nato il 16 ottobre 1885 in una famiglia contadina della provincia di Reggio Emilia, a Correggio nella frazione di Mandrio, Dorando Pietri (morto a Sanremo il 7 febbraio 1942) per i nostri standard era «un piccoletto», essendo alto solo un metro e sessanta centimetri, come la maggior parte degli italiani di quel tempo. Fin da bambino si divertiva un mondo a correre nei campi della sua terra, come tutti i ragazzi nati nei grandi spazi della campagna. Iniziò a lavorare molto presto, probabilmente prima dei dieci anni, nella bottega di un pasticciere a Carpi, cittadina dove il padre aveva portato la famiglia e aperto un’attività commerciale, per emanciparsi – o almeno provarci – dal lavoro della terra.

Nel 1903 entrò a far parte della società sportiva di ginnastica «La Patria», i cui dirigenti, intuendone le qualità del vero campione, lo iscrissero a diverse gare podistiche regionali e nazionali.

Dorando, a distanza di oltre un secolo resti un esempio di atleta serio e meticoloso, da dove nasce questo tuo amore per la corsa?

Fin da ragazzo mi è sempre piaciuto correre, qualcuno disse che avevo un talento naturale per questa disciplina sportiva, forse per il mio fisico, forse per la storia della mia famiglia, in ogni caso tutto convergeva nel fare emergere le caratteristiche dell’atleta corridore insite nel mio animo.

È vera la storia che si racconta, che la tua voglia di correre era tanta che a una gara podistica organizzata a Carpi nel 1904, a cui partecipava Pericle Pagliani, il più celebre corridore dell’epoca, quando questi passò vicino alla tua bottega tu ti mettesti a seguirlo in abiti da lavoro fino al traguardo?

Proprio così! A quel tempo avevo 19 anni e avevo tanta voglia di correre che quando Pagliani passò vicino alla bottega dove lavoravo, mi misi a correre dietro a lui senza nemmeno togliermi il grembiule da pasticciere e riuscendo, nonostante ciò, a stargli incollato fino alla fine della gara.

I dirigenti della società sportiva «La Patria» constatando le tue qualità atletiche, ti spinsero a iscriverti a diverse gare podistiche regionali e nazionali contribuendo così a farti conoscere da un numero sempre più ampio di sportivi…

Dicevano che «avevo talento». A furia di ripeterlo a ogni manifestazione sportiva facendomi un sacco di pubblicità, in pochi anni divenne chiaro a tutti che in Italia se c’era qualcuno da battere nella corsa sulle distanze dai 5 ai 40 chilometri, quello ero io.

A quel punto si aprì anche il palcoscenico internazionale.

Infatti non ci fu molto da aspettare. Nel 1905 vinsi la 30 km di Parigi con un distacco di sei minuti sul secondo classificato; nel 1906 vinsi la maratona che mi qualificò ai giochi olimpici intermedi di Atene; nel 1907 stabilii il primato nazionale italiano dei cinquemila metri e vinsi il titolo nazionale anche sulla distanza dei venti chilometri.

La tua carriera come atleta podista continuò con una serie impressionante di vittorie che lasciò sbalordita l’Italia intera.

Quello fu un momento molto fruttuoso nella mia vita sportiva, oltre alle vittorie già ricordate, nel 1908, mi qualificai per le Olimpiadi di Londra in una gara che si tenne proprio a Carpi. Davanti alla mia gente corsi la maratona in 2 ore e 38 minuti. In Italia un tempo simile su quella distanza non l’aveva mai fatto nessuno.

Adesso parliamo delle Olimpiadi di Londra, di quella fatidica giornata del 24 luglio 1908.

Quel giorno a Londra faceva molto caldo, anche per un italiano. La corsa partì alle due e mezza del pomeriggio. Io avevo la pettorina numero 19, maglietta bianca e calzoncini rossi, all’inizio restai con il gruppo dei corridori in quanto non volevo forzare inutilmente. Seguivo una mia strategia di corsa che mi ero preparato meticolosamente nei giorni precedenti.

Sì, ma appena passasti il segnale di metà gara le cose cambiarono.

Superati i 20 chilometri, applicai un ritmo sempre più spinto alla mia andatura che mi portò a superare tutti quelli che mi stavano davanti e giunsi a riprendere l’atleta che era in testa, il sudafricano Charles Hefferon, quando mancavano meno di tre chilometri all’arrivo.

Ma pagasti a caro prezzo questo tuo sforzo.

A quel punto mi sentivo stanchissimo, ero quasi disidratato. Entrai allo stadio che quasi non riuscivo a correre dritto, barcollavo, sbagliai persino strada. Il pubblico nello stadio mi incitava a continuare, ma i giudici di gara mi fecero notare l’errore e mi fecero tornare indietro.

Non reggevi più lo sforzo e sei persino caduto sulla pista.

È vero, però con l’aiuto dei giudici di gara mi rialzai sempre. Caddi quattro volte in duecento metri prima di arrivare al traguardo, e ogni volta i giudici mi diedero una mano per rimettermi in piedi. Tagliai il traguardo in 2 ore e 54 secondi. Svenni per la quinta volta e mi portarono via in barella. Nello stesso momento entrò nello stadio l’atleta americano Johnny Hayes, che si piazzò secondo.

Eri riuscito a tagliare il traguardo per primo, quindi la maratona l’avevi vinta tu.

Si, ma la delegazione degli Stati Uniti, non appena venne a sapere quello che era successo all’interno dello stadio, con i giudici che mi avevano aiutato a terminare la gara, fece appello alla giuria per chiedere la mia eliminazione, in quanto colpevole di essere stato aiutato dai giudici di gara.

E come andò a finire?

Il reclamo venne accolto: fui squalificato e cancellato dall’ordine di arrivo della gara. La medaglia d’oro fu assegnata allo statunitense Johnny Hayes.

E nei tuoi confronti come si comportarono gli inglesi?

Il mio dramma umano commosse tutti gli spettatori dello stadio: per compensarmi della mancata medaglia olimpica, la regina Alessandra mi diede in premio una coppa d’argento dorato.

È vero che a proporre il riconoscimento reale fu lo scrittore Arthur Conan Doyle, il «papà» di Sherlock Holmes?

Doyle era presente a bordo campo per redigere la cronaca della gara per il Daily Mail. Il resoconto del giornalista-scrittore terminava con queste parole: «La grande impresa dell’italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici».

Pietri premiato dalal regina alla fine della maratona – CC

Il racconto della sfortunata impresa di Pietri fa immediatamente il giro del mondo. Dorando Pietri diviene una celebrità, in Italia e all’estero, per non avere vinto. La mancata vittoria olimpica è la chiave del successo dell’atleta emiliano: Pietri riceve presto un buon ingaggio per una serie di gare ed esibizioni negli Stati Uniti.

Il 25 novembre 1908, al Madison Square Garden di New York, va in scena la rivincita tra Pietri e Hayes. Gli spettatori sono ventimila, mentre altre diecimila persone rimangono fuori a causa dell’esaurimento dei posti. I due atleti si sfidano in pista sulla distanza della maratona, e dopo aver corso spalla a spalla per quasi tutta la gara, alla fine Pietri riesce a vincere staccando Hayes negli ultimi 500 metri, per l’immensa gioia degli immigrati italiani presenti. Anche la seconda sfida, disputata il 15 marzo 1909, viene vinta da Pietri. Durante la trasferta in America partecipa a 22 gare, vincendone 17. Rientrato in Italia nel maggio 1909 prosegue l’attività agonistica per altri due anni.

La sua ultima maratona è quella di Buenos Aires, corsa il 24 maggio 1910, nella quale Pietri chiude con il suo primato personale di 2 ore, 38 minuti, 48 secondi e 2 decimi. La gara d’addio in Italia si svolge il 3 settembre 1911 a Parma: una 15 chilometri, vinta agevolmente. Corre la sua ultima gara all’estero il 15 ottobre dello stesso anno (il giorno prima del suo 26° compleanno), a Göteborg in Svezia, concludendola con l’ennesima vittoria. Nel 1911 si ritira dall’attività agonistica e si trasferisce a Sanremo dove apre un’autorimessa e dove muore il 7 febbraio 1942, stroncato da un improvviso infarto.

Don Mario Bandera




I Perdenti 33.

Lebensborn: la fabbrica dei superuomini

Testo di Mario Bandera |


Il progetto Lebensborn (sorgente di vita) fu l’aberrante strumento della politica razziale nazista che aveva lo scopo di favorire la nascita di bambini ariani ed elevare il grado di «purezza» del popolo tedesco: esso fornì alle mamme e ai bambini «razzialmente di valore» l’assistenza necessaria per ottenere individui scientificamente selezionati dal punto di vista razziale.

L’organizzazione Lebensborn è dunque l’altra faccia della medaglia del razzismo nazista: se con il «progetto eutanasia» e con la «soluzione finale» si volevano eliminare le persone «indegne di vivere», nei Lebensborn doveva crescere la perfetta razza ariana: questa era l’idea fissa di Heinrich Himmler, il braccio destro di Hitler. Nei centri Lebensborn – diverse decine in tutto il territorio del Reich – venivano fatti nascere e crescere i figli illegittimi di soldati tedeschi. Ma in quei luoghi venivano anche portati i ragazzi, ritenuti razzialmente «adeguati», strappati alle famiglie delle zone occupate dalle truppe di Hitler per essere germanizzati e poi dati in adozione a famiglie di provata fede nazista. Il 1° gennaio del 1938 il progetto Lebensborn passa sotto la tutela dello Stato Maggiore delle SS, quindi sotto la diretta autorità di Himmler: la sede centrale fu ubicata a Monaco di Baviera, nella cui sede sarà anche conservato l’archivio anagrafico del Lebensborn, così da avere dati sempre precisi, in quanto i bambini allontanati dalle madri diventavano di «proprietà» dell’istituzione.

Di questo progetto criminale parliamo con Ingrid (personaggio di fantasia), donna del popolo norvegese passata attraverso questo calvario.

(CC BY-SA 3.0 Bundesarchiv) 1 gennaio 1943

Com’è potuta accadere una cosa simile?

Dal punto di vista dei nazisti che avevano invaso la Norvegia, il mio paese, noi ragazze eravamo prede ambite per le SS: il nostro «tasso di nordicità e purezza razziale» era ritenuto perfino superiore rispetto a quello di molte zone della Germania. Pensarono perciò che ci fossero condizioni molto favorevoli per far nascere piccoli ariani germanici del Nord.

Come si comportarono con voi le truppe di occupazione tedesche?

Essi cercarono subito di instaurare rapporti cordiali con la popolazione norvegese, specialmente con le ragazze. Già nell’aprile 1940, fra i soldati occupanti fu lanciata un’enorme campagna a favore della procreazione della pura razza ariana. Si aprirono nove cliniche di maternità per bambini i cui padri erano tedeschi e in cinque anni ne nacquero almeno 8mila (di cui 6mila nei centri Lebensborn).

E quale era il destino riservato a quelle creature?

Dopo il parto erano per lo più abbandonati dalle madri (molte volte queste erano costrette a cederli) e dati in adozione a famiglie tedesche. Quelli che rimasero nei Lebensborn divennero invece, alla fine della Seconda guerra mondiale, con la sconfitta della Germania, capri espiatori a cui far pagare i crimini e le angherie dei tedeschi.

Che vuoi dire, spiegati meglio…

Il popolo norvegese vide nei bimbi Lebensborn soltanto caratteristiche ereditarie e li indicò come i figli delle SS, quindi potenzialmente pericolosi e disumani. Molte donne che vissero il mio stesso dramma raccontarono poi storie di trattamenti crudeli subiti senza capire le motivazioni di tanto odio.

Questo dramma non è molto conosciuto in Europa, come mai?

La Norvegia insabbiò il problema per tanti anni, costringendo i figli della guerra a sopportare una serie di ingiustizie e di maltrattamenti. Alcuni di essi furono rinchiusi in orfanotrofi e in istituti psichiatrici. Altri, pur essendo stati affidati alle madri o a parenti, furono ugualmente discriminati in vario modo a scuola o sul posto di lavoro e subirono violenze fisiche e psicologiche di ogni genere, tanto che di recente un gruppo di essi ha citato in giudizio il governo norvegese per la politica discriminatoria da esso attuata nel dopoguerra verso di loro.

Neanche al processo di Norimberga si sollevò la tragedia dei bambini Lebensborn.

È vero, a Norimberga non si tenne un processo distinto per il progetto Lebensborn. Invece il 10 ottobre 1947 si aprì un processo (che durò fino al marzo del 1948) contro il «RuSHA» (Rasse und Siedlungshauptamt –  Ufficio centrale della razza e del popolamento/colonizzazione), ma la stampa vi diede scarso rilievo e il Lebensborn non fu condannato in quanto istituzione. Solo i dirigenti finirono sul banco degli imputati, ma furono condannati a pene detentive abbastanza ridotte, esclusivamente perché appartenevano a un’organizzazione criminale, ovvero le SS, non per le attività che svolsero nel Lebensborn.

Ma dopo la guerra, il «clima» nei confronti di chi aveva in un certo modo collaborato con le truppe d’invasione nazista, mutò radicalmente.

Le guerre hanno effetti contraddittori sui rapporti tra le persone. Da una parte ci sono pregiudizi tradizionali che vengono ribaltati: le donne ad esempio, occupano posti di lavoro lasciati vacanti dagli uomini impegnati al fronte. Dall’altra si inaspriscono le differenze e ci si irrigidisce nei confronti della morale sessuale femminile: dalle donne ci si aspetta che si prendano cura del focolare domestico e che rimangano fedeli ai mariti e ai fidanzati assenti. Il corpo femminile diventa suo malgrado un altro «fronte di guerra», in quanto la sessualità femminile assume un significato prioritario: essa non è più solo una questione di decenza e virtù, ma anche di onore nazionale e di sopravvivenza.

Si può dire che in queste circostanze l’intera visione della sessualità femminile viene stravolta.

La possibilità di essere madre è considerata una risorsa nazionale e dunque le relazioni tra donne del luogo e soldati nemici costituiscono una minaccia per l’intera popolazione e la donna che intrattiene tali relazioni è ritenuta colpevole non solo verso il codice tradizionale di comportamento sessuale, ma anche nei confronti della nazione.

E questo l’avete vissuto in maniera acuta proprio in Norvegia, nella vostra terra, durante l’occupazione nazista.

Dalle relazioni fra donne norvegesi e militari tedeschi vennero al mondo i così detti «figli della guerra» i quali furono immediatamente stigmatizzati due volte: non solo in quanto «bastardi», ma anche e soprattutto perché «bastardi tedeschi». La dubbia reputazione delle madri si proiettò sui figli e in maniera aberrante sulle figlie, considerate fin dall’adolescenza «disponibili», tanto che a volte esse stesse finirono per essere vittime di abusi sessuali.

Purtroppo, le cose non andarono in maniera molto diversa nel resto dell’Europa.

Se le stime dei bambini nati nelle cliniche Lebensborn si aggirano intorno ai 10mila, molti di più furono i «figli della guerra», ossia i figli illegittimi di padri tedeschi e madri autoctone, tanto che – ad esempio – per la Francia si ipotizzano oltre centomila bambini figli di tedeschi, in Danimarca oltre 5.500, in Norvegia oltre 10mila, in Olanda almeno 8mila.

Finita la guerra, tramontata l’ideologia del Lebensborn, rimase solo l’onta subita dai più deboli, a cui seguirono la negazione e la rimozione del loro dramma in tutta Europa. I bambini nati da relazioni con soldati tedeschi furono dunque circondati da silenzio, imbarazzo, vergogna, senso di colpa e condanna sociale. Considerati «gli orfani del disonore», spesso subirono abusi, rifiuti, abbandono. Molti di loro ignorarono la propria origine e così furono per sempre privati della loro vera identità.

Tutti d’altronde avevano interesse a stendere un velo di omertà: le autorità dei vari paesi per escludere ogni forma di relazione con i nemici di un tempo, proteggere i bambini da vessazioni, nascondere una vergogna nazionale e così difendere la stabilità delle famiglie che cominciavano a riunirsi. Ma anche le madri stesse che avevano bisogno di tenere nascosta la vera «disonorevole» origine dei propri figli di fronte alla società. Solo nel 1985 il ministero della Giustizia tedesco ha affermato i diritti dei bambini che vogliono conoscere i genitori biologici e ha aperto l’accesso ai documenti rimasti negli archivi statali.

Ultimamente i bambini di Lebensborn (ormai persone di una certa età) hanno trovato la forza di parlare e di rivelare le loro origini e hanno fondato un’associazione con lo scopo di fare emergere la verità storica e tutelarli di fronte alla legge. Nell’ottobre 2001, oltre 150 «figli della guerra» hanno intentato una causa contro lo stato norvegese per discriminazione, tortura, trattamento inumano e degradante. Benché la loro istanza sia stata respinta, hanno comunque ottenuto che lo stato finanzi un progetto di ricerca per fare luce, dopo decenni di silenzio, sui traumi vissuti dai «bambini tedeschi». Hanno fatto anche ricorso contro il governo norvegese alla Corte europea per i diritti dell’uomo per violazione dei diritti dei bambini.

Don Mario Bandera