Rosario Livatino: sub tutela Dei


Da qualche mese sta girando in tutta Italia una bella mostra, presentata per la prima volta al Meeting di Rimini nell’estate del 2022, con il titolo «Sub tutela Dei. Il giudice Rosario Livatino»(1).

Chi è questo giovane giudice, morto il 21 settembre 1990 sotto i colpi della mafia siciliana? E perché è stato beatificato – primo giudice nella storia della Chiesa – il 9 maggio 2021?

Ecco qualche breve cenno sulla vita e sul pensiero di una figura che merita di essere conosciuta sempre di più, non solo come beato, ma anche come professionista.

Rosario Livatino nasce a Canicattì, in provincia di Agrigento, il 3 ottobre 1952. Figlio unico di due genitori benestanti, le sue radici affondano nella fede e nel diritto. Il nonno, già laureato in giurisprudenza, era stato sindaco del paese negli anni Venti e si era dimesso con l’avvento del fascismo; il padre Vincenzo, anch’egli giurista, lavora nell’esattoria comunale. La madre, Rosalia Corbo, donna profondamente cristiana, è parente del venerabile cappuccino Gioacchino La Lomia, missionario in Sud America e morto a Canicattì negli anni Trenta in odore di santità.

Terra di contraddizioni

Rosario vive in una terra di provincia, una sorta di isola nell’isola, ricca di contraddizioni. Tra i fermenti letterari di un Pirandello o uno Sciascia, si alternano le vicende della mafia agrigentina che ha le sue propaggini anche a Canicattì.

Per capire il contesto in cui cresce il futuro giudice, basti pensare che, al piano di sopra dello stabile di famiglia, vive il boss mafioso Giuseppe Di Caro, il quale deciderà di far murare l’ingresso comune per non incontrare Rosario che spregiativamente definirà «santocchio».

A scuola Rosario si distingue per bravura e sete di conoscenza. Guardato con stima e simpatia dai compagni del liceo classico da lui frequentato a Canicattì, non si sottrae alle richieste di aiuto per spiegare una lezione particolarmente complicata o ripassare prima delle verifiche.

Di natura riservata e umile, non ama apparire ma è particolarmente maturo e ha le idee chiare. La professoressa Ida Abate racconterà: «All’ultimo anno si chiedeva ai ragazzi di maturità: ma tu cosa pensi di fare, adesso? Giurisprudenza, rispose Rosario dolcissimo.
Mi ricordo che gli chiesi: forse perché papà e anche il nonno sono laureati in Giurisprudenza? No, perché voglio difendere la collettività»(2).

La laurea in Giurisprudenza a Palermo arriva infatti nel 1973 con lode; ne seguirà una seconda in Scienze Politiche.

Rosario Livatino alle elementari (il quarto da sinistra nella fila centrale)

«S.t.D»

L’acronimo S.t.D., che compare più volte nelle sue agende, fa l’esordio sul frontespizio della tesi di laurea in diritto penale. Non si tratta di una sigla misteriosa per indicare nomi in codice (come ipotizzano inizialmente gli inquirenti), bensì dell’invocazione «Sub tutela Dei»: un auspicio che riflette una fede radicata, ma anche il desiderio di essere illuminato e protetto in una professione di cui avverte con vertigine le gravi implicazioni.

Per un breve periodo infatti è vicedirettore all’Ufficio del registro di Agrigento, ma già nel 1978 vince il concorso di magistratura.

Queste le parole riportate, con inchiostro rosso, nella sua agenda il 18 luglio 1978: «Ho prestato giuramento; da oggi quindi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige».

Per comprendere l’approccio di Rosario Livatino al ruolo di magistrato, è molto significativo riprendere una delle due confe
renze pubbliche tenute da lui e ancora conservate, in particolare quella che si svolge il 30 aprile 1986 all’istituto Suore vocazioniste di Canicattì, dal titolo «Fede e diritto»: «Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare […]. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio […]. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società – che gli affida una somma così paurosamente grande di potere – disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione».

Livatino con la famiglia

Guerra alla mafia

Negli anni ’80 imperversa in Sicilia la seconda guerra di mafia, che vede nel 1984 l’affermarsi del clan dei corleonesi di Totò Riina. Poco dopo nasce nell’agrigentino una nuova «famiglia» mafiosa, di nome «stidda», che si contraddistingue per una organizzazione non verticistica ma paritaria, sulla base di federazioni tra gruppi più o meno consolidati nei vari comuni siciliani della zona.

Livatino si mostra fin da subito deciso nel perseguire vecchie e nuove formazioni mafiose, inclusi i rappresentanti di Canicattì (è sua la condanna di Alessandro Ferro, che abita a pochi passi da casa sua, a 12 anni di reclusione).

Le grandi difficoltà riscontrate nell’amministrazione della giustizia sono legate a un contesto normativo ben più complicato dell’attuale: negli anni ‘80 infatti non esistono né la procura nazionale e né le procure distrettuali antimafia, e le indagini risultano spezzettate tra procure con continue fughe di notizie; non esistono i collaboratori di giustizia (i cosiddetti «pentiti» – la prima norma significativa sul tema è del 1991), né associazioni antiracket, né tanto meno il 41bis, che oggi prevede il carcere duro e l’isolamento per i mafiosi. È frequente che proprio in carcere si alimentino le relazioni tra i malavitosi; risulta che persino l’omicidio di Livatino sia stato architettato tra mura penitenziarie.

In questo difficile contesto, Rosario non si tira indietro, anzi: magistrato molto preparato, sempre disponibile ad aiutare i colleghi nello svolgimento delle loro mansioni e nella conoscenza del contesto, è assai stimato nel suo ambito, tanto da ricoprire per ben due volte, nonostante la giovane età, il ruolo di segretario della sottosezione agrigentina dell’Anm (Associazione nazionale magistrati).

Interpreta le sue funzioni in modo integerrimo e nel riserbo più assoluto, senza concedere mai interviste – per questo non è molto apprezzato dai giornalisti locali. Rifugge, al contrario di alcuni colleghi, le correnti e gli avvenimenti mondani, ed evita di parlare di lavoro anche tra parenti e amici.

Magistrato «stile Livatino»

Nella seconda conferenza pubblica tenuta da Livatino, emerge con chiarezza il ritratto del magistrato «secondo Livatino». Questi deve tenere una condotta di vita consona sia in privato che in pubblico, pena la mancanza di autorevolezza agli occhi dalla comunità civile: «Nella sua vita di relazione e cioè nei rapporti con l’ambiente sociale nel quale egli vive […] è importante che egli offra di se stesso l’immagine di una persona seria, […] equilibrata, […] responsabile, […] comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire. Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare ch’egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed assumere come fossero sue e difendere davanti a chiunque. Un giudice siffatto è quello voluto dalla umanità di sempre»(3).

Memorabile è il rispetto che Livatino nutre verso gli avvocati e verso gli stessi imputati. La polizia penitenziaria resta stupita nel vederlo, un giorno di Ferragosto, recarsi personalmente in carcere per consegnare un mandato di scarcerazione: è infatti inconcepibile per lui dover rimandare anche soltanto di poche ore la libertà di un detenuto, una volta giunta la fine della detenzione prevista per legge.

Leggendo le sue sentenze si resta stupiti per la cura del dettaglio e per la conoscenza del contesto, nonché di settori – come quello economico o ambientale – non di sua stretta competenza. È tra i primi, per esempio, a dare il giusto peso al sequestro dei beni dei mafiosi, consapevole che la mafia debba essere colpita innanzitutto nel patrimonio.

Personalità trasparente

D’altra parte, il lavoro è il riflesso del suo modo di condurre la vita privata. Ce lo testimoniano amici e parenti, ma anche le sue agende annuali nelle quali è solito appuntare gli incontri e le incombenze quotidiane, alcune riflessioni sui fatti pubblici e privati cui assiste, e persino il bilancio di ogni mese (positivo, negativo, incerto): ne emerge una personalità trasparente, molto affezionata alla famiglia e autenticamente umana (come quando riporta il desiderio di approfondire qualche conoscenza femminile e le delusioni amorose).

Racconta di un compagno di classe che, avendolo incontrato in Tribunale, lo salutò con l’appellativo «signor giudice». Livatino, dopo averlo chiamato in privato, gli disse: «Ricordati che per gli amici io sono sempre Rosario»(4).

Negli anni 1984 e 1985 vive un periodo di grande aridità, che da tanti viene definito come una vera e propria «notte oscura dell’anima»: gli appunti nell’agenda si diradano fino a scomparire e Rosario, pur continuando la sua frequentazione della Chiesa, evita di comunicarsi. Scrive: «Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?»(5).

Probabilmente incidono alcune delusioni nell’ambito lavorativo, e la crescente consapevolezza dei rischi che il suo lavoro implica, tanto che – a chi gli chiede come mai non pensa a farsi una famiglia – risponde di non voler lasciare una vedova e degli orfani(6).

Pronto alla prova

Nel 1986 la crisi viene superata e il magistrato annota in agenda che ha ripreso a frequentare l’Eucarestia: forse ha deciso di accettare quello che la vita gli chiede, pur con tutti i rischi che corre? Non lo sappiamo, possiamo solo provare a immedesimarci con le difficoltà che sicuramente si trova a fronteggiare ogni giorno.

Certo è che due anni dopo Livatino decide di avanzare la richiesta della Cresima, sacramento che in Sicilia solitamente non si riceve in età infantile ma nel contesto di scelte mature e di circostanze particolari. Qualcuno ipotizza che possa avere inciso nel settembre 1988 la morte del giudice Saetta e di suo figlio Stefano. La richiesta della Cresima è della settimana successiva. Ad ogni modo nulla di certo si sa sui motivi più profondi che spingono Rosario a compiere questo passo, senza peraltro approfittare di iter particolari di preparazione, com’era nel suo stile. Una ipotesi la avanza il vaticanista Luigi Accattoli: «Lui sa già a quella data che sarà ucciso e si prepara chiedendo la Cresima come il sacramento dell’età adulta, il sacramento quindi per affrontare anche la prova massima del sangue»(7).

L’esecuzione

Ritrovamento e riconoscimento del corpo del giudice Livatino

La prova, quella che si poteva forse immaginare, arriva nemmeno due anni dopo. Rosario Livatino viene ucciso il 21 settembre 1990, quando con la sua Ford Fiesta si reca al lavoro sulla statale 640, nonostante fosse un giorno di ferie.

Gli esecutori, quattro giovani di Palma di Montechiaro, fanno parte della stidda locale: era stato loro detto che il giudice tutelava Cosa Nostra e si accaniva contro le nuove formazioni mafiose. Parole false ovviamente: la stidda era ben consapevole che Livatino rappresentava un ostacolo per tutte le mafie, anche perché noto come cristiano integerrimo e incorruttibile.

L’esecuzione è particolarmente drammatica: i quattro giovani lo avvicinano su auto e moto; il giudice riesce ad accostare e a tentare la fuga in una scarpata, ma viene raggiunto e freddato a distanza ravvicinata. Le sue ultime parole, rivolte al killer, sono: «Cosa vi ho fatto, picciotti?». Vengono in mente le parole bibliche che ricordano il venerdì santo: «Popolo mio, che cosa ti ho fatto?» (Michea 6, 3).

Un testimone, uno solo, vede tutto e decide di parlare subito dopo i fatti: si tratta di Piero Ivano Nava, commerciante lombardo che abitualmente viaggia in Sicilia, quel giorno particolarmente a rilento per un guasto della sua auto. Grazie a una memoria fotografica, riesce a ricostruire i fatti e a ricordare volti e fisionomie degli esecutori, ed è in forza della sua preziosa testimonianza che in breve tempo gli assassini vengono catturati.

Seguono numerosi processi con relative condanne(8), e desta stupore la conversione di almeno due tra mandanti ed esecutori, uno dei quali chiederà di testimoniare nel processo di beatificazione(9).

Verso la beatificazione

Negli anni successivi alla tragedia, infatti, la figura di Livatino diventa sempre più nota e amata nella sua terra e non solo. Nel 2011 l’arcivescovo di Agrigento dà inizio al processo di beatificazione. Anche se sono almeno due i miracoli attribuiti alla sua intercessione, si decide di seguire l’iter, già intrapreso per don Pino Puglisi, del martirio in odium fidei: tra le cause che portarono i mafiosi all’omicidio ha un peso importante una avversione alle pratiche cristiane del giudice, che vengono correlate all’esercizio della giustizia.

Dice di lui Papa Francesco nel 2019: «Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni»(10).

La cerimonia di beatificazione avviene il 9 maggio 2021, anniversario della visita di Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993(11). Vale la pena ricordare un passo dell’omelia del cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi: «Credibilità fu per lui la coerenza piena e invincibile tra fede cristiana e vita. Livatino rivendicò, infatti, l’unità fondamentale della persona; una unità che vale e si fa valere in ogni sfera della vita: personale e sociale. Questa unità Livatino la visse in quanto cristiano, al punto da convincere i suoi avversari che l’unica possibilità che avevano per uccidere il giudice era quella di uccidere il cristiano. Per questo la Chiesa oggi lo onora come martire».

La sua ricorrenza liturgica è stata fissata il 29 ottobre, giorno della Cresima del magistrato «Sub tutela Dei”. Un giorno assai significativo per chi, come lui, è stato chiamato a testimoniare con il sangue l’amore a Dio e alla giustizia.

Chiara Michelis


Note

1 La mostra è stata promossa da Libera Associazione forense, Centro studi Rosario Livatino, Centro culturale Il sentiero di Palermo, ed è noleggiabile dall’associazione Meeting di Rimini. Il catalogo della mostra, cui attinge questo articolo, è stato pubblicato da Itaca nel 2022.

2 Cfr. R. Mistretta, Rosario Livatino. L’uomo, il giudice, il credente, Paoline, Mi­lano 2022, pp. 34-35.

3 Da Il ruolo del giudice in una società che cambia, conferenza al Rotary club di Canicattì (7 aprile 1984).

4 Testimonianza di Giuseppe Palilla, presidente dall’Associazione Amici del giudice Rosario Angelo Livatino e testimone del processo di beatificazione, riportata in R. Mistretta, Rosario Livatino, cit., p. 185.

5 Cfr. R. Mistretta, Rosario Livatino, cit., p. 11.

6 Idem, p. 253

7 Cit. in G. Livatino, Giudice Rosario Livatino. Aperto il processo diocesano per la beatificazione, in L’Amico del Popolo, 16 maggio 2010 (in R. Mistretta, Rosario Livatino, cit., p. 251).

8 La vita di Nava venne stravolta: all’epoca non esisteva nessuna norma sui testimoni di giustizia (le prime sono del 2001), e gli stessi assassini diranno che era un fatto insolito, in quel contesto, trovare qualcuno che parlasse. Nava non si tirò mai indietro per alto senso civico e dovere morale e, come disse lui, quel giorno scomparve insieme al giudice. Infatti, perse il lavoro, venne trasferito con la famiglia in diverse città, fu costretto a cambiare identità e a non sentire né vedere più nessuno. Per approfondire si rimanda al libro-autobiografia Io sono nessuno. Da quando sono diventato il testimone di giustizia del caso Livatino (336 pagine, curato per Rizzoli da Lorenzo Bonini, Stefano Scaccabarozzi e Paolo Valsecchi, con la prefazione della ex presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi).

9 Nel catalogo della mostra sono ripor­tate due lettere di Domenico Pace (uno degli esecutori) e di Giovanni Calafato (uno dei mandanti).

10 Dal discorso di papa Francesco ai membri del «Centro studi Rosario Livatino» il 29 novembre 2019.

11 Quel giorno Giovanni Paolo II aveva scagliato il suo anatema contro la mafia proprio nella Valle dei Templi di Agrigento: «Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio». È risaputo che il papa poche ore prima aveva incontrato i genitori di Rosario Livatino e che quell’incontro lo aveva profondamente segnato.


Siti web su Rosario Livatino




Un missionario medico per amore


Dopo due anni di attesa e rinvii a causa della pandemia, il missionario comboniano è stato finalmente riconosciuto beato il 20 novembre scorso, durante una celebrazione eucaristica nella sua missione di Kalongo, nel nord dell’Uganda. Il suo nome compare ora nella schiera di Santi e di Beati che la Chiesa già venera.

Medico missionario comboniano, spese la sua vita a servizio degli ultimi facendosi interprete del Mandatum novum conferito da Nostro Signore agli Apostoli duemila anni fa. Fonte inesauribile di idee e di iniziative, padre Giuseppe Ambrosoli (1923-1987), oltre che interlocutore mai banale e generoso di spunti e suggestioni, non temeva di parlare della morte, ma lottava per tenerla lontana dai suoi pazienti, sfidando ogni sorta di malattia. Per lui la medicina era un modo concreto per rendere intelligibile la Buona Notizia e, da questo punto di vista, la testimonianza da lui manifestata in sala operatoria o in corsia era, a dir poco, strabordante.

Appassionato del Regno di Dio, era pienamente consapevole delle proprie responsabilità. Emblematico è quanto egli scrisse ai suoi cari: «Le persone devono sentire l’influsso di Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva ed irradiantesi per sua natura».

Il servizio agli ammalati per lui era una modalità di annuncio altrettanto nobile e necessaria quanto quella della predicazione. Come ha scritto pertinentemente di lui padre Arnaldo Baritussio, postulatore della sua causa: «Padre Ambrosoli ha certamente contribuito a inserire a pieno titolo il servizio medico nella prassi evangelizzatrice, che allora era soprattutto intesa come annuncio attraverso la Parola e i sacramenti in vista della fondazione di una Chiesa locale. Pur senza mettere in discussione questa opzione di fondo, ha contribuito con l’offerta della sua professionalità medica ad allargare il concetto e la realtà dell’annuncio. Il servizio agli ammalati è una modalità di annuncio altrettanto nobile e necessaria quanto quella della predicazione».

Medico e missionario

Nato il 25 luglio 1923 a Ronago, in provincia di Como, era uno dei figli del fondatore dell’omonima azienda del miele. Dal 1942 al 1950, il giovane Ambrosoli completò la sua formazione classica e professionale e pose le basi di una solida spiritualità che aveva già avuto modo di manifestarsi nell’apostolato tra i giovani dell’Azione Cattolica.

Con grande zelo, si iscrisse alla facoltà di medicina con il desiderio di partire per la missione: «Dio è amore, c’è un prossimo che soffre ed io sono il suo servitore»,  spiegò ai propri familiari.

Nel 1949 fece visita al superiore dei Comboniani di Rebbio (Como) con l’intento di mettere a servizio della missione ad gentes la sua qualifica di medico. Ricevuto l’assenso, chiese un periodo di riflessione prima di decidere definitivamente di entrare nella congregazione. Conseguita la specializzazione in medicina tropicale al «Tropical Hygiene» di Londra, con entusiasmo e senza rimpianti, si lasciò alle spalle l’agio della condizione familiare e una carriera medica che si prospettava brillante in patria.

Fece il suo ingresso nel noviziato comboniano di Gozzano, in provincia di Novara, il 18 ottobre 1951, e quattro anni dopo, il 17 dicembre 1955, venne ordinato sacerdote dall’allora arcivescovo di Milano e futuro papa Giovanni Battista Montini. Questo periodo segnò propriamente il completamento della formazione religiosa e teologica di padre Ambrosoli.

Uganda

Il 10 febbraio del 1956 partì per l’Uganda, con destinazione Gulu, capoluogo dei territori nord del Paese. Da qui si trasferì a Kalongo nell’East-Acholi, mentre seguiva e terminava gli studi dell’ultimo anno di teologia al seminario intervicariale di Lachor a Gulu. Il suo servizio missionario si svolse in quella porzione del popolo Acholi che occupava l’estremo Est dell’attuale arcidiocesi di Gulu.

La geografia di quelle terre, è bene rammentarlo, è anni luce distante dal nostro immaginario non foss’altro perché rappresenta un unicum all’interno della stessa Africa subsahariana. Stiamo parlando dell’Uganda settentrionale, un’immensa pianura ondulata, con un’estensione di circa 50mila chilometri quadrati, rotta di quando in quando da qualche boscaglia e da montagne rocciose che si ergono maestosamente e danno un’immagine plastica a un paesaggio in cui il cielo equatoriale sembra abbracciare tutto ciò su cui veglia.

L’altitudine media di questo territorio si aggira attorno ai mille metri sul livello del mare, ma questo non impedisce che sia una delle zone più calde dell’Uganda. A settentrione la pianura s’innalza leggermente verso le montagne di Ogoro e di Paloga, che servono come confine naturale con il Sudan meridionale; si tratta di alture che un tempo venivano utilizzate come rifugio dai ribelli. Il paesaggio è comunque seducente agli occhi di qualunque viaggiatore. Vi sono immense savane, nella stagione delle piogge, dall’erba altissima, con qualche boscaglia in cui è possibile trovare refrigerio quando il sole è allo zenit.

Kalongo

È proprio nel settore orientale di questo territorio, a valle di un’enorme e suggestiva spina vulcanica di granito con un dislivello di 500 metri, il monte Oret, che si erge la piccola e ospitale cittadina di Kalongo. è qui che padre Ambrosoli trascorse il resto della sua vita, esattamente 31 anni, dal 19 febbraio 1956 al 13 febbraio 1987.

Quando vi giunse, trovò un piccolo centro di maternità e un dispensario che trasformò in un vero e proprio ospedale. Nel 1959 fondò, sempre a Kalongo, con l’aiuto della consorella comboniana suor Eletta Mantiero, la Scuola per ostetriche e infermiere. Nel 1972 poi, si fece carico anche dei lebbrosari di Alito e Morulèm.

Gli unici intervalli in cui si assentò da Kalongo, furono i brevi periodi rappresentati dalle vacanze, spesso trasformate in autentici tour de force per accrescere le sue molteplici competenze nel campo chirurgico e procurare fondi per il complesso ospedaliero. La comboniana suor Caterina Marchetti descrive così una giornata di lavoro di padre Ambrosoli: «Incominciava con la sala operatoria verso le 7.30 del mattino e finiva alle 13.30 e a volte anche oltre. Rientrava per il pranzo; poi una breve pausa di riposo e quindi in dispensario a visitare gli ammalati fino alle 8 di sera. Subito dopo rivedeva gli operati della mattina e poi andava a cena. In seguito lo si vedeva recitare il rosario camminando nel cortile della missione, poi andava in chiesa dove rimaneva parecchio tempo. Prima di andare a letto rivedeva i conti o scriveva lettere. Le sue ore di sonno erano molto poche. Spesso di notte lo chiamavamo in maternità per emergenze di ostetricia. Uno si domanda come facesse, anche perché molto tempo lo dedicava alla preghiera».

Aneddoti

La fama di questo medico missionario si diffuse un po’ ovunque, non solo in territorio Acholi, ma anche tra altri gruppi etnici della regione come i Lango, i Kuman e i Teso. A questo proposito sono numerosi gli aneddoti che ne descrivono la popolarità.

Chi scrive, ad esempio, una volta ricevuta l’ordinazione diaconale, nel maggio del 1985, un giorno si recò per impartire i battesimi in un villaggio, nei pressi del lebbrosario di Alito, a un folto gruppo di catecumeni. Il primo di loro pretese di essere battezzato con il nome di «Doctor Ambrosoli». All’obiezione se non fosse più conveniente essere chiamato «Giuseppe», si oppose strenuamente perché era stato il «Doctor Ambrosoli» a salvargli la vita nel suo ospedale. Sta di fatto che da quelle parti sono molti coloro che portano quel nome.

Ciò che colpiva maggiormente i pazienti di Kalongo era la straordinaria capacità di padre Ambrosoli di infondere speranza. Non si trattava di semplice coerenza professionale, ma di una partecipazione totale, dal profondo del proprio essere, a quello che stava testimoniando, tanto da suscitare nella gente un religioso rispetto nei suoi confronti. D’altronde era un contemplativo con l’anima e con il cuore.

«Ajwaka Madid»

Inizialmente venne soprannominato «Ajwaka Madid», lo «stregone bianco». Poi, per la sua carica spirituale, venne chiamato «medico della carità».

Il servizio missionario di padre Ambrosoli venne scandito da diversi avvenimenti che segnarono positivamente e anche tragicamente la storia d’Uganda della seconda metà del Novecento. Visse infatti la parte finale della stagione coloniale britannica, a cui seguirono l’indipendenza, l’ascesa al potere di Milton Obote, l’avvento del dittatore Idi Amin Dada, il ritorno di Obote e l’ascesa dell’attuale presidente Yoweri Museveni.

Gli ultimi anni della sua vita furono segnati in particolare dalla guerriglia di cui ancor oggi il nord Uganda conserva profonde ferite.

Proprio in seguito ai ripetuti scontri tra forze governative e fazioni ribelli, il 13 febbraio 1987, fu costretto a evacuare l’ospedale di Kalongo. Si pose allora per lui la questione più spinosa: quella di trovare un posto conveniente alla sua creatura più amata: la scuola per ostetriche e infermiere. Sottopose così la sua salute, già gravemente compromessa, a sforzi enormi che, alla fine, lo condussero alla morte per insufficienza renale.

Il pomeriggio del 27 marzo 1987 si spense a Lira, 44 giorni dopo essere stato costretto ad abbandonare la sua Kalongo.

1958, Kalongo, padre Giuseppe Ambrosoli con le allive della scuola infermiere e suore Comboniane

Il miracolo

Com’è noto, per la beatificazione è necessario il miracolo, vale a dire il sigillo che la Chiesa affida a Dio per proporre il suo servo come intercessore ed esempio per la sua congregazione, per la Chiesa locale che l’ha visto nascere, e poi per quella comunità che l’ha accolto nell’adempimento della sua missione, l’ha visto morire e ne ha poi conservato il corpo e la memoria.

Di guarigioni e cure straordinarie padre Ambrosoli ne aveva ottenute in vita, ma quella che canonicamente è stata riconosciuta come un vero e proprio miracolo dalla Chiesa è quella avvenuta nel 2008 nell’ospedale di Matany, nella regione del Karamoja, nell’estremo nord est dell’Uganda, che ha coinvolto una giovane mamma di 20 anni, Lucia Lomokol di Iriir.

La donna, perso il figlio che portava in grembo, stava per morire di setticemia. Dal punto di vista clinico, non c’erano più speranze di salvarla. Ma il medico che la stava seguendo, Eric Dominic, di origini torinesi, le mise sul cuscino l’immagine di padre Ambrosoli e chiese ai familiari di invocare «il grande dottore». La mattina dopo Lucia apparve come rinata.

L’allora vescovo di Moroto, monsignor Henry Apaloryamam Ssentongo, sotto la cui giurisdizione si trovava la parrocchia di Matany, venuto a conoscenza del fatto, volle che si raccogliesse tutta la documentazione per sottoporla allo studio della Congregazione delle cause dei santi.

Così il 17 settembre 2010 iniziò il processo del presunto miracolo. Vennero convocati i testimoni presenti al fatto, oltre a due medici specialisti e due periti. Raccolta anche tutta la documentazione clinica, il processo si concluse positivamente quasi un anno dopo a Moroto, il 21 giugno 2011. Successivamente, questa guarigione venne decretata come «straordinaria e inspiegabile» dalla commissione medica istituita dalla Congregazione per le cause dei santi.

Una scelta d’amore

Un medico che lavorò fianco a fianco con padre Ambrosoli, ha scritto questa testimonianza: «Egli può essere considerato una figura radicalmente esemplare: non tanto per la sua bravura e polivalenza chirurgica, né per la sua capacità organizzativa e gestionale, e neppure per la scelta degli “ultimi”, come si usa dire oggi. Nonostante tutto ciò rimanga innegabilmente vero, è soprattutto per aver fatto una scelta di servizio e quindi di amore, supportata da una forte capacità organizzativa, che la sua figura diviene esemplare. La sua fu una scelta operata non per vanagloria o smania ascetica e autorealizzativa, quanto invece per rispondere, in umiltà e ubbidienza, quindi “negando se stesso”, a un invito di amore e di servizio basato sulla fede che è come attuazione del comandamento divino di “amare il prossimo”». Questo è l’elemento fondamentale che, secondo il postulatore della causa, padre Baritussio, conferisce all’opera di padre Ambrosoli un significato universale: «Accessorio e accidentale è il fatto che tutto questo egli lo abbia realizzato in un ospedale della savana africana. Essenziale invece, è che tale scelta di servizio “tecnico”, basata sulla fede come adesione operativa al Padre celeste, egli l’abbia realizzata integrandola direttamente in una prospettiva pastorale: carità al servizio del Vangelo ossia al servizio di un “annuncio di salvezza”. Questa è la ragione per cui padre Ambrosoli, nel suo operare, non è rimasto succube di una contraddizione tra sacerdozio e professione, ma ha saputo utilizzare l’una a vantaggio dell’altra realizzando tra le due una perfetta integrazione al servizio dell’uomo in un’ottica di fede».

L’ospedale vive

L’opera del beato Ambrosoli ha trovato un felice prosieguo nell’impegno profuso da un altro medico missionario, padre Egidio Tocalli (che riaprì l’ospedale nel 1990) e dalla Fondazione Ambrosoli, costituita nel 1998 dai suoi familiari e dai comboniani. Motivo per cui ancora oggi i pazienti di Kalongo non possono fare a meno di dire: «Apwoyo, Brogioli», grazie padre Ambrosoli. Una testimonianza, la sua, di fedeltà all’ideale comboniano di «salvare l’Africa con l’Africa».

Giulio Albanese

Tomba del beato nel cimitero di Kalongo




San Lazzaro Devasahayam


«La canonizzazione del beato Lazzaro, chiamato Devasahayam, è un’affermazione del suo essere stato discepolo di Gesù, avendo vissuto pienamente il Vangelo nella sua vita. Era un laico, e questo rivela che la santità è per ogni persona, non solo per i religiosi. Oggi parliamo sempre più spesso della vocazione dei laici nella Chiesa, e qui c’è un laico indiano, un padre di famiglia, che ha offerto una testimonianza vera e genuina dei valori del Vangelo. Amava i poveri e i Dalit ed era un potente testimone dello Spirito di Cristo» (card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai).

Nel regno di Travancore (Thiruvitankur nella linga locale), situato nell’India Sud occidentale, dal 1720 regnava Martanda Varmâ. Nel XVIII secolo questi territori erano ambiti dalla Compagnia olandese delle Indie. Ma il regno di Travancore si opponeva decisamente a questo dominio straniero e nella battaglia di Colachel (10 agosto 1741), sconfisse i mercenari della Compagnia, liberandosi dai legami coloniali e dalle tasse sul commercio delle spezie, in particolare sul pepe nero.

Diversi soldati della Compagnia furono fatti prigionieri, tra di essi il comandante degli olandesi, Eustache de Lannoy, un cattolico francese, che poi accettò di mettersi al servizio del re che gli diede il compito di modernizzare la flotta e l’esercito del suo regno. Da abile stratega militare, De Lannoy organizzò l’esercito di Travancore secondo lo standard europeo. Introdusse le armi da fuoco, promosse un sistema di tassazione accurato, e fece eseguire lavori d’irrigazione per rendere fertili e coltivabili le terre aride della parte interna del paese, salendo di grado fino a diventare ammiraglio capo. Ebbe infine un ruolo importante nella conversione di Nilakandan, un ufficiale dell’esercito reale.

Il regno di Travancore era uno stato principesco del subcontinente indiano. Comprendeva la maggior parte del Sud dell’attuale stato del Kerala e il presente distretto di Kânyâkumârî dello stato del Tamil Nadu. Aveva come capitale Thiruvananthapuram, l’odierna capitale del Kerala.

L’ampio territorio era incorniciato da alte montagne sui cui versanti prosperavano piantagioni di ogni tipo. Con le spiagge degradanti fino al mare, si godeva di un clima tropicale caldo e umido, ricco di precipitazioni e di piogge monsoniche, con temperature elevate durante tutto l’anno. Nel 1503 era stato la prima colonia portoghese in India, e fu per secoli uno snodo fondamentale per il commercio delle spezie verso il Medio Oriente e l’Europa. Era il regno del cocco, del peperoncino, del pepe nero, delle foglie di curry, del cardamomo, dei semi di senape e dei chiodi di garofano, spezie ancora oggi apprezzate dalla popolazione locale.

Statue of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil – CC BY-SA 3.0

La nascita di Nilam

Nel piccolo villaggio di Nattalam, in una famiglia indù, il 12 aprile 1712 nacque Nilam, detto anche Nilakandan. Ricevette subito il titolo di «pillai» perché apparteneva all’alta casta dominante, i Nair, i cui membri lavoravano come soldati al servizio del re.

La carriera militare

Nilam fu educato da tutori competenti e raggiunse un alto livello di preparazione. Si esercitò anche nelle arti marziali tradizionali, mentre studiava e imparava molte lingue.

Con la meditazione e lo yoga, le arti marziali avevano lo scopo di aiutarlo a dominare il corpo e la mente, infondendo nell’animo serenità e pace per servire la divinità con tutto il cuore. Non erano semplici esercizi fisici per difendersi da attacchi improvvisi, ma strumenti di primaria importanza per portare l’esercitante nella via della pace interiore, nell’autocontrollo e nella pratica della nonviolenza. La morbidezza e la cedevolezza nei movimenti erano qualità essenziali nella pratica delle arti marziali. Non bisognava infatti opporsi alla forza dell’avversario, ma utilizzare piuttosto la sua forza per batterlo.

In quanto indù tradizionalista, Nilakandan si dedicò sempre fedelmente alle devozioni degli dei e all’osservanza religiosa, divenendo un ufficiale presso il tempio di Nilakandaswamy, nel Padmanabha­puram.

Grazie alla sua grande intelligenza e ai suoi talenti, intraprese la carriera militare divenendo ministro del regno di Travancore, come funzionario del palazzo reale addetto al tesoro e alle finanze. Era molto amato dal re, perché era un uomo buono e fedele al suo dovere.

Convertito dalla storia di Giobbe

Con il passare del tempo, quando, dopo alcuni cattivi raccolti e una cattiva gestione, perse i suoi beni, Nilakandan corse il pericolo di perdere anche il posto di lavoro e la sua onorabilità. Fu Eustache de Lannoy a consolarlo narrandogli la storia biblica di Giobbe. Gli raccontò che, messo alla prova da Satana, Giobbe aveva sopportato con rassegnazione la perdita dei suoi beni, dei suoi sette figli e tre figlie morte nel crollo della casa, e anche le sofferenze dovute alla malattia che lo aveva colpito.

Fortemente impressionato da questo personaggio, Nilakandan si avvicinò al cristianesimo e, nonostante fosse ben consapevole dell’ostilità che il re aveva verso i convertiti, chiese di ricevere il battesimo dal gesuita padre Giovanni Battista Buttari. Così il 14 maggio 1745 divenne cristiano, scegliendo per sé il nome di Devasahayam, traduzione in lingua tamil del biblico Lazzaro, o Eleazar, che in ebraico significa «aiuto di Dio».

Si consacrò solennemente a Cristo

Nel giorno del suo battesimo Devasahayam si consacrò solennemente a Cristo: «Nessuno mi ha costretto a venire, sono venuto dalla mia propria volontà. Egli è il mio Dio. Ho deciso di seguirlo e lo farò per tutta la mia vita». La sua vita non fu più la stessa: Devasahayam si dedicò alla proclamazione del Vangelo per quattro anni.

I capi indù non videro di buon occhio la sua conversione al cristianesimo. I bramini cominciarono a muovere false accuse contro Devasahayam presso il re che lo fece arrestare nel febbraio del 1749, intimandogli di ritornare all’induismo.

La conversione di un ministro del re era, infatti, ritenuta un tradimento e un pericolo per la solidità dello stato. Il suo rifiuto di adorare le divinità indù e di prendere parte alle tradizionali feste religiose irritò molto il re e i suoi ufficiali che non tolleravano la sua predicazione sull’uguaglianza di tutti i popoli, il superamento delle caste e l’amicizia con gli intoccabili, cosa proibita per una persona di casta elevata.

Tutti gli sforzi del re risultarono vani e Devasa­hayam rimase fermo nella sua nuova fede e si rifiutò di abbandonare Gesù Cristo. In seguito a ripetuti e inutili tentativi di fargli abiurare la fede cristiana, il re ordinò che venisse torturato a lungo pubblicamente, come monito per coloro che pensavano di convertirsi al cattolicesimo.

Persecuzione e tortura

Gli ufficiali di palazzo e i soldati misero in mostra Devasahayam attraverso il regno in un modo ignominioso e straziante. Fu fatto fatto girare nei villaggi seduto su un bufalo e gli furono offerte ridicole corone di fiori, mentre veniva regolarmente picchiato in pubblico con bastoni e spine. Misero polvere di peperoncino sulle sue ferite per aumentare il dolore e le sofferenze. Lo costrinsero a stare in mezzo a insetti voraci. Lo fecero camminare per molti chilometri sotto il sole cocente, con le mani e i piedi incatenati. Arrivati presso una roccia a Puliyoorkurichy, era molto assetato, ma i soldati si rifiutarono di dargli da bere. Cadde allora in ginocchio e pregò: l’acqua sgorgò e placò la sua sete, e sulla roccia rimasero le impronte delle sue ginocchia.

Gli ufficiali per intensificare le sue sofferenze lo portarono in un posto chiamato Peruvilai dove lo consegnarono ai carnefici. Essi lo legarono strettamente a un albero, impedendogli così di sedersi o sdraiarsi. All’aperto, sotto il sole cocente, la pioggia o il vento, soffrì la fame per sette mesi. Accettò ogni cosa felicemente e offrì tutto per la gloria di Dio. In mezzo a tutte queste sofferenze, la sua fede in Gesù non fu mai scossa ed egli rimase fedele a Cristo, non smise mai di pregare e meditare.

A closer look of the rock where Devasahayam is believed to have prayed and left imprints of his knee and elbow – CC BY-SA 3.0 Jayarathina

Il martirio

A Peruvilai una grande folla cominciò a recarsi presso di lui ogni giorno, per ricevere le sue benedizioni e preghiere. I soldati lentamente cominciavano a essere gentili con lui fino al punto da suggerirgli di fuggire. Venuto a conoscenza della nuova situazione, il re e gli ufficiali di palazzo si sentirono sconfitti nel loro desiderio di far cambiare idea a Devasahayam e, per evitare che ancora più gente diventasse cristiana, ordinarono che fosse portato in una prigione segreta presso Aralvaimozhy, al confine Sud Est del regno.

Anche a Aralvaimozhy le torture continuarono e, giorno dopo giorno, la sua salute divenne precaria. Infine, arrivò il momento supremo del martirio, che egli desiderava da molto tempo.

Il 14 gennaio 1752 gli ufficiali ricevettero l’ordine speciale da parte del re di ucciderlo in segreto. Devasahayam fu svegliato prima della mezzanotte e i soldati lo portarono sulle loro spalle, non essendo in grado di camminare, fino in cima a una collinetta nella foresta di Aralvaimozhy.

Per l’ultima volta egli chiese ai soldati un po’ di tempo per pregare. Nel mezzo della notte si inginocchiò sulla roccia e si abbandonò completamente al Signore.

Quando finì di pregare, chiese ai soldati di fare il loro dovere, ed essilo fecero. Gli spararono tre volte e Devasahayam cadde sulla roccia gridando: «Gesù, salvami!». Quindi per assicurarsi che fosse morto, gli spararono altri due colpi. Lo gettarono nella foresta perché il suo cadavere venisse divorato dalle belve e così distruggere ogni prova della sua uccisione.

Dopo cinque giorni, i cattolici che vivevano nelle vicinanze vennero a sapere dell’esecuzione. Raccolsero i suoi resti e li seppellirono nella Chiesa di San Francesco Saverio a Kottar, l’attuale cattedrale della Diocesi di Kottar, nello stato di Tamil Nadu.

Una santità riconosciuta

Tomb of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil (CC BY-SA 3.0)

Ben presto Devasahayam venne venerato nella regione, e nel 1993 la diocesi di Kottar aprì canonicamente la causa di beatificazione.

La sua santità era ancorata a due capisaldi: anzitutto il grande desiderio di offrirsi a Dio, di appartenergli totalmente donandogli la vita, anche in modo cruento nel martirio. Poi, vivere in ascolto della parola di Dio, sottomettendosi totalmente al servizio della verità del Vangelo nella società. Visse così da vero testimone di Cristo la sua fede battesimale e il suo impegno cristiano. Dopo lunghe ricerche, Benedetto XVI autorizzò la promulgazione del Decreto super martyrio il 28 giugno 2012.

«La Chiesa indiana è grata per questa figura così eroica nel diffondere il Vangelo nella nostra terra anche nelle tribolazioni. È un dono all’India e alla Chiesa universale: sono sicuro che guiderà la vita di molti cristiani» (cardinal Baselios Cleemis, siro-malankarese).

Nella città di Nagercoil (diocesi di Kottar), il 2 dicembre 2012, si svolse la cerimonia di beatificazione, con grandissima partecipazione di popolo.

La canonizzazione è stata poi resa possibile dal riconoscimento di un miracolo avvenuto per sua intercessione, cioè la guarigione nel grembo di una donna indiana di un feto di 20 settimane che la medicina aveva ufficialmente dichiarato morto.

Gli esami ecografici a cui si era sottoposta laa donna avevano riscontrato mancanza di battito cardiaco e di movimento fetale. La donna, di religione cattolica, si fece portare dai genitori dell’acqua attinta dal pozzo di Nattalam, luogo di nascita del beato Lazzaro, di cui era molto devota: la bevve e continuò a pregare. Circa un’ora dopo aver bevuto, la donna sentì che il feto si muoveva. L’attività cardiaca fetale fu accertata da successive ecografie. Il bambino nacque senza parto cesareo, sano e in buone condizioni cliniche generali.

Papa Francesco nel concistoro del 3 maggio 2021 fissò la data di canonizzazione per il 15 maggio 2022.

Monsignor Peter Remigius, vescovo emerito di Kottar, dove si trovano i luoghi di nascita e di martirio di Devasahayam, assicura che «Da quando papa Francesco ha autorizzato il processo di canonizzazione, migliaia di persone stanno accorrendo nel luogo in cui è stato fucilato. In tutte le parrocchie della diocesi c’è grande giubilo, la notizia è diventata virale sui social. Inoltre, la donna del miracolo appartiene alla diocesi e abita molto vicino alla casa natia del beato».

Giuseppe Ronco

 




Beato Benedict Tshimangadzo Daswa


Il 13 settembre 2015, in un prato a Tshitanini, un paese non lontano dalla cittadina di Thohoyandou nel Nord del
Sudafrica, provincia del Limpopo, il cardinal Angelo Amato ha dichiarato beato Benedict Daswa, un maestro ucciso dalla gente del suo stesso villaggio per aver rifiutato di piegarsi alla stregoneria. Prima della beatificazione il suo corpo era stato riesumato e i suoi resti erano stati trasferiti nella chiesa che aveva contribuito a costruire, a Nweli, uno dei villaggi di Tshitanini.

Il beato Benedict Daswa

Tre fatti legano il beato Benedict Daswa al suo paese: è nato il 16 giugno 1946, in quello che sarebbe diventato nel 1976 il giorno dell’inizio della rivolta di Soweto che avrebbe segnato l’inizio della lotta contro l’apartheid, ed è stato ucciso il giorno della fine dell’apartheid (il 2 febbraio 1990). Infine riposa in una chiesa dedicata a Nostra Signora dell’Assunzione, patrona del Sudafrica.

Il beato Benedict nasce come Tshimangadzo Samuel Daswa il 16 giugno 1946, figlio primogenito di Tshililo Petrus e Thidziambi Ida Daswa. Ha tre fratelli più piccoli e una sorella. La famiglia, di religione tradizionale, appartiene alla tribù dei Lemba che vivono in quello che un tempo era il bantustan (territorio assegnato a una specifica etnia, ndr) del Venda, nel Nord del Sudafrica, vicino ai confini con Botswana, Zimbabwe e Mozambico. Dopo la morte del padre in un incidente, Daswa si assume la responsabilità dei suoi fratelli più piccoli e, appena comincia a lavorare, contribuisce a pagare per la loro educazione e li incoraggia sempre a studiare.

Durante le vacanze scolastiche va a stare con uno zio a Johannesburg dove trova un lavoro part time. Lavorando, diventa amico di un giovane bianco di fede cattolica. In più, molti dei suoi coetanei e compagni di scuola, dell’etnia Shangaan (un sottogruppo dei Tsonga, che vivono sia in Sudafrica – circa un milione e mezzo – che nel Mozambico e nello Zimbabwe – 4,5 milioni), sono cattolici. Daswa si converte così al cattolicesimo all’età di 17 anni. Prende il nome di Benedict da san Benedetto, il famoso santo del VI secolo, e in onore di Benedetto Risimati, il catechista che istruisce lui e altri sotto un albero (Risimati, vedovo, sarà ordinato sacerdote nel 1970 e morirà a 64 anni nel 1976). Dopo aver ricevuto la cresima da parte dell’abate vescovo benedettino Clemens van Hoek a Sibasa, antica capitale del bantustan, nel 1963, Daswa si dà da fare per insegnare la fede cattolica ai membri più giovani della sua comunità.

Un laico cattolico attivo

Dopo aver conseguito il titolo di studio di maestro, comincia a insegnare nella Tshilivho Primary School di Ha-Dumasi, diventandone preside nel 1979. È attivo nei sindacati degli insegnanti, nello sport e nella vita quotidiana del suo villaggio, Mbahe. Nella comunità, Daswa guida le funzioni domenicali quando il sacerdote non c’è e insegna catechismo ai giovani e agli anziani. Non ha ancora una casa tutta sua, ma d’accordo con la moglie, aiuta a costruire la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione a Nweli, affinché la comunità abbia un luogo decente per pregare. Questa chiesa ospiterà poi la sua tomba.

Amante della terra, coltiva con cura un grande orto, dal quale dona gratuitamente ortaggi ai poveri. Diventa membro, e poi anche segretario, del consiglio dell’headman (capo locale, equivalente più o meno al nostro sindaco, ndr) del villaggio. Nel consiglio si fa notare per la sua risoluta onestà, integrità e amore per la verità.

«Era aperto alla vita, al bene. Era uno che aiutava la gente. L’intero villaggio dipendeva dal suo piccolo orto per le verdure. Alcuni erano così poveri che lui lasciava loro le verdure anche senza pagare», ricorderà suo figlio maggiore, Lufuno, il primo di otto. Benedict sposa Shadi Eveline Monyai nel 1974, solennizzando la loro unione in chiesa nel 1980. Avranno otto figli, l’ultimo dei quali nascerà quattro mesi dopo la sua morte (Shadi, invece, morirà nel 2008).

La sua fede influisce profondamente sul suo modo di comportarsi, preoccupato com’è di vivere più il Vangelo che le tradizioni locali, e per questo è anche pesantemente criticato. Fa anche dei lavori che la tradizione ritiene riservati alle donne, come raccogliere legna e lavare i vestiti nel fiume, ma per lui condividere la cura dei bambini e le faccende domestiche con sua moglie fa parte dell’impegno matrimoniale.

Lufuno Daswa, che avrà 14 anni quando suo padre verrà ucciso, in seguito lo ricorderà come «un leader naturale» nella sua famiglia e nella Chiesa. «Tutta la famiglia era unita grazie a lui. Era un gran lavoratore. Era un visionario. Aveva piani per il futuro. Aveva fatto progetti per la nostra famiglia, per la nostra educazione. Era il 1980, ma già allora ci ha mandato nella migliore scuola della regione, la Catholic St. Brendan’s school. Noi potevamo andare da lui liberamente, come da un amico. Era tutto ciò che si poteva chiedere da un padre».

Benedict con la moglie Shadi Eveline

Tra fede e stregoneria

Sono proprio le sue scelte di fede a metterlo presto in conflitto con alcuni degli abitanti del villaggio e membri del consiglio del capo. Essi si risentono per la sua opposizione alla pratica della stregoneria, una pratica profondamente legata alla cultura tradizionale. Il conflitto ha origini nel calcio. Nel 1976, infatti, Benedict fonda una squadra chiamata Mbahe Eleven Computers. Dopo che la squadra subisce una serie di sconfitte, gli suggeriscono di chiamare un sangoma (guaritore stregone tradizionale, ndr) per fare dei riti propiziatori per far vincere la squadra. Benedict si oppone all’idea, ma nella votazione viene sconfitto, e lo stregone viene chiamato. Così lascia il club e forma una nuova squadra, gli Mbahe Freedom Rebels. Quella decisione scatena una lunga campagna di odio e gelosia nei suoi confronti da parte di alcuni. Viene perfino accusato di essere lui stesso uno stregone da gente invidiosa del suo successo, della sua bella famiglia, dell’orto che prospera e dell’amicizia che ha con il capo del villaggio.

Nel 1989 la crisi si acuisce. A novembre ci sono una serie di insoliti e fortissimi temporali con lampi, tuoni e soprattutto tanti fulmini che incendiano anche alcune capanne. Questo fenomeno si ripete di nuovo il 25 gennaio 1990. Per questo il 28 gennaio il capo villaggio convoca una riunione straordinaria del consiglio per vedere cosa fare. Benedict non riesce a essere presente all’incontro fin dall’inizio. Quando arriva il consiglio ha già deciso di cercare l’aiuto di un sangoma per scovare la «strega» che ha causato tutti quei fulmini. Ovviamente il sangoma non farà niente gratis, così per pagarlo decidono di richiedere cinque rand (più o meno l’equivalente di un euro, ndr) a ogni membro della comunità. Benedict cerca invano di far capire che i fenomeni meteorologici sono naturali e quindi non possono essere attribuiti alle streghe. Sottolinea anche che l’ascolto del reponso dello stregone causerà la morte di qualche persona innocente, ma inutilmente. Ci sono anche altri leader religiosi nel consiglio, ma la paura è più forte della loro fede.

Daswa allora si rifiuta di contribuire, sottolineando che l’uso di un guaritore tradizionale costituisce stregoneria e quindi è in conflitto con la sua fede. Così diversi membri del consiglio si sentono offesi per quella che percepiscono come una mancanza di rispetto per le loro convinzioni e cominciano a complottare per ucciderlo.

Il maestro Benedict in un momento gioviale con i suoi studenti

Una data importante

Il 2 febbraio 1990 – la festa della Presentazione del Signore al tempio – è una giornata intensa. Quel venerdì, è il giorno in cui il presidente Frederik Willem de Klerk annuncia la legalizzazione dei movimenti di liberazione (dell’African national congress – Anc, del Panafrican congress e del Partito comunista sudafricano) e la liberazione di Nelson Mandela. Daswa comincia il giorno lavorando nel suo orto dove raccoglie un bel po’ di cavoli, li mette in ceste che carica sul suo pickup, poi va fino a Makwarela dal medico per portare sua cognata con il bambino malato. Da lì si reca direttamente a Thohoyandou per consegnare al parroco, padre John Finn, tutto il carico di cavoli per i poveri. Mentre torna a casa incontra un giovane che cammina con un sacco di farina sulle spalle e gli dà un passaggio.

Riprende poi il viaggio per tornare a casa a Mbahe, quando alle 19.30, arrivando vicino alcampo da calcio degli Eleven Computers, nei pressi della scuola di cui lui è preside, vede la strada bloccata da tronchi e sassi. Benedict scende dal pickup per rimuovere i tronchi e subito un gruppo di uomini gli è addosso, lo pestano a sangue e lo colpiscono con pietre.

Il campo da calcio attraverso il quale ill beato Daswa ha cercato di fuggire ai suoi assalitori

Sanguinante, scappa attraverso il campo da calcio trovando riparo nella cucina di un rondavel (capanna rotonda tradizionale, ndr). Ma gli assalitori lo inseguono e minacciano di morte la proprietaria della capanna perché riveli il nascondiglio di Daswa. Due ragazzi lo tirano fuori a forza dal rondavel. Lui ne abbraccia uno, implorando per la sua vita. Un uomo però gli dà addosso brandendo una mazza di legno e gli sferra il colpo fatale. Benedict prega dicendo: «Dio, nelle tue mani, ricevi il mio spirito». Il colpo lo butta a terra con la testa rotta. Gli assalitori gli versano acqua bollente sulla testa, per assicurarsi che la loro vittima sia morta. E fuggono.

Il pick up del beato Daswa danneggiato dal lancio di sassi

Più forte del male

Il fratello di Benedict, Thanyani, è il primo membro della famiglia ad arrivare dove si trova il suo corpo. Quando la loro madre vede ciò che è stato fatto a suo figlio, sviene. Nei giorni che precedono il funerale di Benedict, padre Finn, le suore del Santo Rosario e la comunità cattolica vanno a casa Daswa ogni sera per pregare con la famiglia. «Ho un ricordo molto distinto: è stata la prima e unica volta che ho percepito la presenza del male», dirà padre Finn ricordando l’atmosfera di paura, tensione e ostilità nel villaggio.

Gli assassini non saranno mai condannati per mancanza di prove. Alcuni di loro continueranno ad andare ai Daswas (i centri dove si distribuisce cibo per i poveri, ndr) per ricevere frutta e verdura.

Lufuno Daswa, il figlio, ricorderà la sua ultima conversazione con il padre: «Stavo andando al secondo anno di scuola secondaria. Mi ha accompagnato alla
St. Brendan’s. Abbiamo chiacchierato a lungo. Mi stava insegnando alcune parole in sepedi, su come salutare mia madre. Abbiamo pregato e poi ci siamo abbracciati. Poi ha chiuso la portiera della macchina e io ho chiuso la mia, e lui se n’è andato. Penso che fosse il 22 gennaio, poco più di una settimana prima della sua scomparsa». Il funerale di Benedict è celebrato il 10 febbraio, il giorno prima del rilascio dal carcere di Nelson Mandela, nella chiesa di Nweli che Daswa ha contribuito a costruire. È presieduta da padre Finn con altri sacerdoti. Tutto il clero indossa paramenti rossi in riconoscimento della loro convinzione che Benedict sia morto martire per la sua fede.

Il maestro Benedict Daswa con i suoi studenti

Ricordo di un martire

All’inizio, la devozione a Daswa cresce localmente, fino a quando, alcuni anni dopo, il vescovo Hugh Slattery di Tzaneen ne viene a conoscenza. Il vescovo, che più avanti scriverà un libro sulla vita di Benedict Daswa, apre un’inchiesta sulla morte del martire nel 2005 e la completa nel 2009, quando viene inviata in Vaticano.

Nell’ottobre 2014, i consultori teologi della Congregazione per le cause dei santi raccomandano all’unanimità che Daswa sia dichiarato martire.

Benedict Daswa è beatificato il 13 settembre 2015 dal cardinale Angelo Amato, a nome di papa Francesco. Il successore di mons. Slattery, mons. João Rodrigues, presenta il decreto di beatificazione alla folla di oltre 35mila persone, tra cui il vicepresidente Cyril Ramaphosa.

I canti della celebrazione, a cui partecipano la madre, il fratello e la moglie con gli otto figli, sono sentiti a chilometri di distanza. C’è padre Augustine O’Brien che ha battezzato Daswa nel 1963, e padre John Finn, che ha celebrato il suo funerale.

Il cardinale Amato ricorda che Daswa è stato un uomo buono e gentile e, soprattutto «è stato un vero missionario di Cristo che è riuscito a convincere i suoi compagni ad abbracciare la fede cattolica».

Copertina della rivista Southern Cross

Il vicepresidente Ramaphosa sottolinea come la beatificazione sia un motivo di grande gioia per tutto il Sudafrica e che è la prima volta che la Chiesa cattolica riconosce come martire di Cristo un sudafricano.

Daswa è stato un uomo che ha avuto il coraggio di pagare di persona per quello che riteneva giusto, combattere la stegoneria per difendere la vita di anziane donne innocenti, pur sapendo di rischiare di perdere la sua stessa vita.

La festa di Daswa è il 1 ° febbraio.

 tradotto e adattato da «Southern Cross», giugno 2021

Funerale di Benedict nella chiesa di Nweli


Daswa e la politica

Nato il 16 giugno e martirizzato il 2 febbraio, due date molto importanti in Sudafrica. Daswa era politicamente schierato?

Non so se lo fosse o meno, ma certo era dalla parte della giustizia e dei poveri. Le persone di profonda fede, anche se dicono di non essere politicamente schierate, tendono a mettersi nei guai con il potere sia per il loro comportamento sia perché si fanno domande come: «Perché siamo poveri?». La loro preoccupazione di alleviare tutto ciò che mantiene le persone in schiavitù, li fa entrare in contatto con i poteri politici in modi che possono causare ad alcuni di loro persecuzione o addirittura la morte.

Penso poi che per noi cattolici il 2 febbraio abbia un significato più profondo di quello legato alla storia politica. È la festa della Presentazione del Signore. Molto interessante che quando Gesù fu presentato a Dio nel Tempio, la vita di Daswa fu presentata a Dio suo creatore. Che giorno per essere chiamati alla vita eterna.

suor Tshifhiwa Munzhedzi Op,
 postulatrice della causa di beatificazione


Cosa rende speciale il beato Daswa?

Se non fosse stato martirizzato, Daswa sarebbe stato uno dei tanti santi sconosciuti della Chiesa. Cosa lo rende così vicino alla gente? Cosa c’è in lui che affascina i comuni fedeli?
In primo luogo affascina come padre di famiglia.

Padre Finn presiede il funerale di Benedict nella chiesa di Nweli

La Chiesa ha molti santi, ma la maggior parte di loro sono religiosi. Il beato Daswa era sposato, un normale padre di famiglia, con figli e che lavorava come farebbe qualsiasi papà per sostenere la propria famiglia. D’altra parte, il suo processo di canonizzazione mostra proprio che i santi sono persone comuni che fanno cose ordinarie. È il modo in cui svolgono queste attività quotidiane che li rende diversi. Ognuna delle loro azioni è influenzata dalla loro fede in Dio e si connette costantemente con il loro Creatore. Questo è ciò che ha vissuto il beato
Daswa.

In secondo luogo, attira come educatore.

Daswa ha svolto il suo lavoro non solo concentrandosi sui risultati in classe. Vedeva i suoi allievi come esseri umani che hanno bisogno di essere guidati in tutti gli aspetti della vita. Lo ha fatto, e così ha insegnato loro responsabilità e abilità della vita. Era pronto a sostenere l’educazione dei suoi alunni anche quando era contro la volontà di genitori che non ne capivano proprio l’importanza. Nell’educare i bambini, ha aiutato a educare anche i genitori.

In terzo luogo, convince come convertito.

Come i primi cristiani, la sua conversione al cristianesimo è stata completa. Ha accettato Dio e ha vissuto la sua vita dedicandosi alla costruzione di quella relazione con Lui senza essere timido o vergognarsi di riconoscerlo in pubblico.

In quarto luogo, è una persona semplice.

Anche se il beato Daswa è andato a scuola e ha poi raggiunto una posizione sociale importante, è sempre rimasta in lui una grande semplicità. Penso che questa caratteristica lo renda attraente per le persone. È come se anche io potessi diventare quello che era lui. Penso che sia in quella semplicità che Cristo ha potuto trovare una casa dove dimorare.

E quinto, è esemplare la sua generosità.

Daswa era generoso, eppure non sembrava essere uno che potesse essere ingannato facilmente. Condivideva ciò che aveva con coloro che non avevano, ma si aspettava anche che la persona crescesse e si elevasse seguendo il suo esempio. Era ben consapevole che uno stomaco vuoto non può svolgere il suo lavoro come dovrebbe. Così, aveva schemi di alimentazione per i suoi alunni e dava frutta e verdura dal suo giardino ai vicini bisognosi.

suor Tshifhiwa Munzhedzi Op,
 postulatrice della causa di beatificazione

La tomba del Beato Daswa nelal chiesa di Nweli

 




Charles de Foucauld: il fratello universale


Tra i modelli presentati da papa Francesco nella recente enciclica Fratelli tutti c’è anche Charles de Foucauld. A conclusione del testo, infatti, lo presenta come «fratello universale»: «Voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al beato Charles de Foucauld. Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”. Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò a essere fratello di tutti».

Quando il Concistoro del 3 maggio 2021 approvò la canonizzazione di Charles de Foucauld, monsignor Paul Desfarges, arcivescovo di Algeri e presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa, disse con gioia: «È un grande giorno per la Chiesa in Algeria. Charles de Foucauld ha un posto di rilievo nella nostra Chiesa. È lui che voleva essere fratello universale, lui che è andato per primo incontro agli altri, lui che si è fatto prossimo. Ed è un po’ la vocazione della nostra Chiesa».

Militare controvoglia

Charles de Foucauld (Fratel Carlo di Gesù) nasce a Strasburgo, in Francia, il 15 settembre 1858. Rampollo di una famiglia nobile, militare e cattolica, viene battezzato due giorni dopo la nascita. A soli 6 anni perde entrambi i genitori. Insieme a sua sorella Marie è preso in cura dal nonno materno Charles-Gabriel de Morlet, del quale seguirà la carriera militare. Il 28 aprile 1872, riceve la prima comunione e la confermazione. Intelligentissimo, presto perde la fede e s’immerge in una vita mondana gaudente e di disordine che però lo lascia insoddisfatto.

Entra nella Scuola militare di Saint-Cyr e di Saumur, diventando sottotenente di cavalleria, ma si annoia infinitamente. Conosciuto come amante del piacere e della vita facile, viene cacciato dall’esercito per cattiva condotta. A venti anni muore il nonno e si ritrova solo, padrone di un immenso patrimonio.

Mio Dio, se esisti, fa’ che ti conosca

Nel 1882 si dimette dall’esercito e, dopo aver rinunciato al matrimonio con una ragazza protestante, intraprende una pericolosa esplorazione in Marocco (1883-1884) con l’aiuto del rabbino Mardocheo, e per questo otterrà una medaglia d’oro dalla Società di geografia di Parigi.

La scoperta della fede musulmana, la ricerca interiore della verità, la bontà e l’amicizia discreta della cugina Marie de Bondy, e l’aiuto dell’abbé Huvelin, gli faranno riscoprire la fede cristiana.

Cerca di conoscere Dio ripetendo una «strana invocazione: “Mio Dio, se esisti, fa’ che ti conosca”». All’amico Henry de Castries, nella lettera del 14 agosto 1901, racconta come debba proprio all’Islam il risveglio della fede «morta» durante dodici anni, e di come fosse attirato dalla «semplicità del dogma» del monoteismo musulmano e perciò anche dalla «semplicità» della sua gerarchia e della sua morale (Lettere a Henry de Castries [LHC], 94).

A fine ottobre 1886, mentre a Parigi redige «Ricognizione in Marocco», incontra l’abbé Henry Huvelin nella chiesa di Sant’Agostino, e la sua vita cambia radicalmente. «Non appena credetti che c’era un Dio, ho capito che non potevo far altro che vivere per Lui solo» (LHC, 96-97). Ha 28 anni.

A partire da quel momento il Vangelo diventerà il libro di riferimento per conoscere Gesù e per imitarlo, mentre l’abbé Huvelin resterà «il padre e la guida» fino alla sua morte.

Come un viaggiatore nella notte

(Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Conquistato dall’idea di abbandonarsi a Dio realizzando sempre la sua volontà, fratel Carlo proverà vari itinerari di santità, come un viaggiatore nel buio della notte, alla costante ricerca della sua vera vocazione.

In un pellegrinaggio in Terra Santa, consigliatogli dall’abbé Huvelin, Charles approfondisce la sua chiamata: seguire e imitare Gesù nella vita nascosta di Nazareth, perché «l’amore ha per primo effetto l’imitazione». Poi, attratto dalla vita monastica, il 15 gennaio 1890 entra nella Trappa di Nôtre-Dame des Neiges (nel Sud della Francia), prendendo il nome di fratel Maria Alberico. Il desiderio di vivere una povertà più radicale lo porta in Siria, nella Trappa di Nostra Signora del Sacro Cuore, dove però non trova quello che cerca. Vi dimora per sette anni, lasciandosi formare alla scuola monastica e cercando l’imitazione più perfetta di Gesù vivente a Nazareth.

Poi chiede di lasciare la trappa per andare a Nazareth, e si stabilisce come domestico presso le Clarisse, vivendo in una capanna, nella povertà e nel nascondimento. «Gesù ti ha stabilito per sempre nella vita di Nazareth: niente vestito particolare, come Gesù a Nazareth; non meno di otto ore di lavoro al giorno, come Gesù a Nazareth. La tua vita di Nazareth può essere condotta dappertutto: vivila nel luogo più utile al prossimo».

A Nazareth, su consiglio dell’abbé Huvelin, medita e studia il Vangelo, per conoscere Gesù, e diventare cristiforme: «Non posso concepire l’amore senza un bisogno, un bisogno imperioso di conformità, di somiglianza e soprattutto di partecipazione a ogni pena, ogni difficoltà, ogni asprezza della vita».

Compone con cura un opuscoletto intitolato Il modello unico, breve sintesi del Vangelo, che porterà anche nel Sahara. Sarà per lui come uno specchio nel quale riflettersi per ritrovare i tratti del proprio volto in quelli del volto di Gesù.

Oltre al Vangelo, fa anche dell’Eucarestia un pilastro della sua spiritualità. La celebrazione e l’adorazione eucaristica non sono per lui una semplice liturgia, ma una forma di vita.

Essere dove Dio ci vuole

Nel servizio, nel lavoro umilissimo, nella meditazione del Vangelo ai piedi del tabernacolo, fratel Charles cerca di vivere «l’esistenza umile e oscura del divino operaio di Nazareth», come piccolo fratello di Gesù nella santa casa di Nazareth tra Maria e Giuseppe.

Nazaret, Basilica dell’ annunciazione, chiesa inferiore, grotta sacra

A Nazareth scopre anche il mistero della Visitazione come un nuovo modo di fare missione e di trasmettere la fede. Si propone di partecipare all’opera della salvezza imitando «la Santa Vergine nel mistero della Visitazione, portando come lei, in silenzio, Gesù e la pratica delle virtù evangeliche tra i popoli infedeli».

Ed è ancora a Nazareth che comprende che fare la volontà di Dio vuol dire: «Essere dove Dio ci vuole, fare ciò che Dio vuole da noi, nello stato dove lui ci chiama; pensare, parlare, agire come Gesù avrebbe pensato, parlato, agito, se il Padre suo lo avesse messo in quel particolare stato».

Madre Elisabetta, badessa del convento delle Clarisse di Gerusalemme, lo convince a diventare prete per «fare» il maggior bene delle anime.

Dopo un’adeguata preparazione e gli studi di teologia a Roma, viene ordinato sacerdote a 43 anni (1901) nella cappella del seminario di Viviers, in Francia. Gli viene dato il permesso di abitare nel Sahara. «I miei ritiri di diaconato e di sacerdozio mi hanno mostrato che questa vita di Nazareth, che mi sembrava essere la mia vocazione, bisognava viverla non in Terra Santa, tanto amata, ma tra le anime le più ammalate, le pecore le più abbandonate». «Portare Gesù in silenzio presso i popoli infedeli e santificarli con la presenza del santo tabernacolo, come la Vergine Santissima santificò la casa di Giovanni portandovi Gesù».

Missionario monaco

Col passare del tempo, Charles prende sempre più coscienza che «la mia vita non è quella di un missionario, ma quella di un eremita» (LHC, 28/10/1905). «Io sono monaco, non missionario, fatto per il silenzio, non per la parola» (Lettera a mons. Guérin, 02/07/1907).

Vive solitario in Algeria, allora colonia francese, mettendosi al servizio del prefetto apostolico del Sahara, monsignor Charles Guérin, stabilendosi a Beni Abbès (1901-1904), oasi di settemila palme, dove costruisce il suo eremo, che chiama la Fraternità del Sacro Cuore. Lì cercherà di portare a Cristo tutti gli uomini che incontra «non con le parole, ma con la presenza del Ss. Sacramento, l’offerta del divin sacrificio, la preghiera, la penitenza, la pratica delle virtù evangeliche, la carità, una carità fraterna e universale, condividendo fino all’ultimo boccone di pane con ogni povero, ogni ospite, ogni sconosciuto che si presenti e ricevendo ogni uomo come un fratello benamato».

Per questa sua attività caritatevole sarà chiamato: le marabout (santone musulmano, ndr.), «nome che già tutti gli indigeni mi danno; io mi trovo benissimo con loro, essi del resto sono bravissima gente».

Il sogno di Beni Abbès è proprio quello di una fratellanza universale: «Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani e ebrei e idolatri a guardarmi come loro fratello – il fratello universale. Essi cominciano a chiamare la casa: la fraternità (khawa in arabo) e questo mi è caro» (lettera a Marie de Bondy, 07/02/1902).

Fratel Charles desidera fortemente condividere la missione con un compagno, anche per garantire la continuità dell’opera. A tale scopo prepara il regolamento dei Piccoli fratelli del Sacro Cuore di Gesù e, in seguito, il regolamento delle Piccole sorelle del Sacro Cuore di Gesù (che saranno poi fondati nel 1933, ndr). Compirà tre viaggi in Francia alla ricerca di qualche sacerdote disposto a vivere con lui l’esperienza eremitica nel deserto, senza sucesso.

A Beni Abbès è scosso dal fenomeno «vergognoso» della schiavitù, tollerata, se non favorita, anche dalle autorità militari francesi. Scrive lettere indignate ai superiori ecclesiastici, ad amici e parenti influenti, religiosi e laici, per ottenere che una simile ingiustizia venga estirpata definitivamente. Il 9 gennaio 1902 riscatta il primo schiavo, che chiama Giuseppe del Sacro Cuore, e ne riscatterà altri in seguito. In una lettera scritta a liberazione avvenuta afferma: «Oggi è uno dei giorni più belli della mia vita: per la prima volta ho potuto riscattare uno schiavo; non senza fatica, con l’aiuto di san Giuseppe al quale avevo affidato l’opera, questa sera sono riuscito a rendere la libertà a un povero ragazzo del Sudan strappato alla sua famiglia 4 o 5 anni fa» (lettera a dom Martin, 09/01/1902).

Gridare il vangelo con la vita

«Gridare il Vangelo con la vita», per Charles de Foucauld significa imitare Gesù, testimoniandolo nella quotidianità con la propria esistenza.

Dopo lunghe esitazioni, accetta l’invito del comandante François-Henry Laperrine ad accompagnarlo nell’Hoggar per pacificare i Tuareg, recentemente sottomessi alla Francia. Nel marzo 1904, seguendo le guarnigioni francesi di stanza in Algeria, si spinge nel deserto fino al villaggio di Tamanrasset, scegliendo un nome col quale Arabi e Tuareg lo possano designare: si chiamerà Abd-Isa, che significa servo di Gesù.

Ci va convinto che la sua missione non è quella di convertire, ma piuttosto quella di compiere un lavoro preparatorio alla evangelizzazione. «Senza predicare, bensì imparando la lingua della gente, conversando con loro, stabilendo rapporti di amicizia». Convinto del fatto che «la parola è molto, ma l’esempio, l’amore, la preghiera sono mille volte di più», nelle lettere a parenti e amici ribadisce che il suo intento è di fraternizzare, fare crollare muri di pregiudizi e avere relazioni affettuose con i tuareg.

Fonda un eremo nello sperduto villaggio, e poi un altro sull’Assekrem a 2.780 metri sul massiccio dell’Hoggar. Si fa piccolo e povero, annullandosi in una vita nascosta, pur di portare la testimonianza evangelica a quei popoli che il deserto ha a lungo nascosto. Sa che non li avrebbe conquistati con la predicazione, ma soltanto con la presenza dell’Eucarestia, con l’esempio, la penitenza, la fraterna carità universale.

L’eremo cappella di fratel Charles a Tamanrasset (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Tamanrasset

All’eremo Charles accoglie i poveri, assiste i malati con medicinali che si fa inviare da parenti e amici in Francia, ma soprattutto dedica molte ore al giorno allo studio della lingua tuareg (il tamahaq) con l’aiuto di un interprete locale.

Vive una vita di preghiera, meditando continuamente la Sacra Scrittura, e di adorazione, nell’incessante desiderio di essere, per ogni persona, il «fratello universale», immagine viva dell’Amore di Gesù. «Vorrei essere buono perché si possa dire: “Se tale è il servo, come sarà il Maestro?”». Vuole «gridare il Vangelo con la sua vita». Gli uomini del deserto lo accolgono per la mitezza del carattere e la mansuetudine del comportamento. Per lui «gli uomini non sono più soltanto i nostri fratelli, essi sono Gesù stesso». «Non soffro di solitudine, la trovo molto dolce, ho il sacramento dell’Eucaristia, il migliore degli amici, al quale parlare giorno e notte».

Pratica un’ascesi dura, prega e lavora come un monaco. La sua dieta consiste in una poltiglia di amido di grano pestato con un po’ di burro, della purea di datteri e del pane senza lievito, deteriorando pian piano la sua salute.

Momenti duri

L’anno 1907 è un anno terribile nella vita di Charles. Riceve un duro colpo apprendendo della morte di Gustave-Adolphe de Calassanti-Motylinski (orientalista francese), punto di riferimento per i suoi lavori linguistici. Inoltre, la carestia imperversa sull’Hoggar dove non piove più dall’inizio del 1906. Conosce una grande prostrazione non potendo celebrare l’Eucarestia, neanche il giorno di Natale, perché non ha nessun altro cristiano con lui.

Nel gennaio 1908 Charles è spossato fisicamente e col morale a terra ed entra in una vera notte spirituale.

Scrive nel taccuino: «Sono malato, costretto a interrompere ogni lavoro. Gesù, Maria, Giuseppe, a voi dono la mia anima, il mio spirito, la mia vita».

Musa ag Amastane, l’amenokal (capo) dei Tuareg, avverte Laperrine, mentre i poveri abitanti di Tamanrasset, nel vederlo distrutto dalla debolezza e dalla febbre, si danno da fare a cercare «tutte le capre che abbiano un po’ di latte in questa terribile siccità, in un raggio di quattro chilometri», e il malato, a poco a poco, si riprende. Gli salvano la vita.

Quando fratel Charles scopre quello che i poveri hanno fatto per lui, condividendo tutto ciò che avevano, per salvarlo, incomincia ad apprezzare la capacità di amore e di riconoscenza di cui la civiltà tuareg è capace.

È il momento della sua seconda conversione. Al medico protestante Dautheville che nel 1908 gli chiede cosa fa per convertire i Tuareg, risponde: «Io non cerco di convertirli, cerco di migliorarli; voi siete protestante, un altro può essere non credente, loro sono musulmani. Sono convinto che un giorno ci ritroveremo tutti in Paradiso, senza passare per la Chiesa cattolica romana, ma perché ciò avvenga dobbiamo meritarlo: cerco di aiutare me stesso e gli altri a meritare un giorno di ritrovarsi insieme in Paradiso».

Il 1910 è l’anno della morte delle persone care. In aprile muore di tifo e di sfinimento, a trentasette anni, monsignor Guérin, prefetto apostolico e amico, lasciando in Charles un grande vuoto.

L’abbé Huvelin muore il 10 luglio. Apprendendo la notizia, che gli giunge il 15 agosto, Charles scriverà: «Ci si sente soli al mondo… come l’oliva rimasta sola in cima al ramo, dimenticata dopo la raccolta».

Nel novembre successivo anche il generale Henry Laperrine è trasferito in Francia. Non tornerà prima della morte dell’amico.

«È la solitudine che cresce. Ci si sente sempre più soli al mondo. Gli uni sono partiti per la loro patria, gli altri vivono la loro vita sempre più lontano dalla nostra».

La montagna dell’Assekrem dove fratel Chuarles ha costruito il suo eremo a 2780m di altezza. (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Eremo dell’Assekrem

Nell’anno seguente Charles sale al nuovo eremo dell’Assekrem, nel cuore del massiccio dell’Hoggar, a 2.780 metri, insieme a Ba Hamu, segretario di Musa Ag Amastane, per seguire i Tuareg che vi hanno condotto le loro greggi a causa della siccità. Approfitta per lavorare più alacremente alla lingua, entrando in relazione più profonda con i nomadi allevatori.

Auspica anche il coinvolgimento dei laici nell’opera di evangelizzazione, perché per lui la missione non si limita alla testimonianza personale, ma ha anche lo scopo più ampio di «civilizzare materialmente, intellettualmente, moralmente i Tuareg» tramite l’istruzione scolastica, l’esempio del lavoro, l’insegnamento dei principi elementari della morale naturale, le tecniche dell’agricoltura e dell’allevamento, il commercio e l’industria. Ma il suo desiderio non si realizzerà.

«Ho due eremi, a mille e cinquecento chilometri l’uno dall’altro! Passo tre mesi in quello del Nord, sei mesi in quello del Sud, tre mesi per andare e venire, ogni anno. Quando mi trovo in un eremo, vivo in clausura, sforzandomi di farvi una vita di lavoro e di preghiera. Durante il viaggio, penso alla fuga in Egitto, e ai viaggi annuali della santa Famiglia a Gerusalemme».

Il testamento

Prima di lasciare l’Assekrem, il 13 dicembre 1911, Charles redige il testamento, indirizzato al cognato Raymond de Blic. In esso precisa: «Desidero essere seppellito nel luogo stesso dove morrò, e riposarvi fino alla resurrezione. Proibisco che si trasporti il mio corpo e che lo si tolga dal luogo dove il buon Dio mi avrà fatto terminare il mio pellegrinaggio». Chiede di avvertire, in caso di morte, monsignor Bonnet, vescovo di Viviers, e i due grandi amici: Gabriel Tourdes, «amico d’infanzia», e François-Henry Laperrine. Il 24 ottobre 1914 Charles aggiunge un foglietto al suo testamento, ripetendo: «Voglio essere seppellito nel luogo dove morrò; sepoltura molto semplice, senza cassa; tomba molto semplice, senza monumento, sormontata da una croce di legno». Le sue volontà non verranno rispettate.

Laperrine, nel 1915, lo descrive così: «Père de Foucauld ha adottato come abito uno simile a quello dei Trappisti, ma in cotone bianco e con un Sacro Cuore di stoffa rossa cucita sul petto. Alla vita ha una cintura di cuoio dalla quale pende un rosario. I piedi nudi calzano i sandali tuareg. La sua influenza nella zona è molto grande. L’amenokal dei Tuareg dell’Hoggar non prende nessuna decisione importante senza consultarlo. Gli adolescenti e i bambini tuareg, in particolare, hanno un’assoluta fiducia in lui» (Laperrine, Le Père de Foucauld, in Revue de Cavalerie, Paris 1919).

Il bordji di Tamanrasset, costruito da fratel Charles, dove è stato poi ucciso nel dicembre 1916 (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Come un’ostia

Nel giugno del 1916, per difendersi dai razziatori marocchini a Ovest e dai ribelli senussiti ad Est, Charles si trasferisce nel fortino, dove al tramonto del 1° dicembre una banda di predoni tuareg, alleati ad alcuni Senussiti libici, saccheggiano il suo eremo. Un ragazzotto di 15 anni, preso dal panico per l’arrivo di due cammellieri, gli spara a bruciapelo. Muore sul colpo a 58 anni, nella solitudine più totale.

È il 1° venerdì del mese, e l’intenzione di preghiera per quel dicembre è la conversione dei musulmani. Il giorno seguente la gente lo seppellisce nella sabbia. Tre settimane dopo, il capitano De la Roche trova nella sabbia del bordj (forte) l’ostensorio, e dà l’ostia a un soldato, ex seminarista, perché la consumi. Ostia, gettata per terra, come il corpo di colui che l’aveva consacrata e che aveva fatto della sua vita una eucaristia, realizzando pienamente e realmente il comando del Signore: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19).

Laperrine lo seppellisce il 26 aprile 1929 nel cimitero francese di El Golea, dove ancora oggi riposa.

La sua morte sembra adempiere quanto lui stesso aveva predetto pochi anni prima: «Come il grano nel Vangelo, devo marcire nella terra del Sahara per preparare la futura messe. Tale è la mia vocazione». Nella morte realizza perfettamente la sua vocazione: «Silenzio­samente, segretamente come Gesù a Nazareth, oscuramente, come Lui, passare sconosciuto sulla terra come un viaggiatore nella notte, poveramente, laboriosamente, disarmato e muto davanti all’ingiustizia come Lui, lasciandomi come l’Agnello divino tosare e immolare senza fare resistenza né parlare, imitando in tutto Gesù a Nazareth e Gesù sulla Croce».

Il suo ricordo rimarrà per sempre

Leggendo il Vangelo, fratel Charles aveva imparato che la santità non è separazione dal mondo ma fraternità universale, arrivando a considerare fratelli i musulmani con cui viveva.

Oggi, la sua memoria è conservata anche a Roma, nella Basilica di san Bartolomeo all’isola, santuario dei martiri del XX e XXI secolo. Il piccolo fratello di Gesù è presente, e la cazzuola con il cuore e la croce incisi nel manico, che lo aiutò a costruire il fortino di Tamanrasset, tiene viva la sua memoria.

«L’amore consiste non nel sentire che si ama, ma nel voler amare; quando si vuol amare, si ama; quando si vuol amare sopra ogni cosa, si ama sopra ogni cosa».

Giuseppe Ronco

La toma di fratel Charles  a El Goela (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

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Il 15 maggio 2022, papa Francesco ha canonizzato Charles de Foucauld, il fratello universale, in Piazza San Pietro.




Suor Carola Cecchin «mware muega»


La vita di questa suora del Cottolengo, in Kenya dal 1905 al 1925, è un inno alla carità, un’esistenza spesa a servizio dei più poveri, dei più bisognosi, avendo cura del prossimo nella concretezza del quotidiano tanto da essere chiamata dai Kikuyu e dai Wameru «mware muega» (suora buona*).

La vita di Maria Carola fu realmente conformata a Gesù Cristo, rinunciando a se stessa e vivendo con fedeltà gli impegni assunti con la sua professione religiosa di suora cottolenghina, prima in Italia e poi come missionaria in terra africana. Ma la prima terra di missione, come donna consacrata, fu la vita semplice e umile nella cucina del convento: «È là che si formò, che imparò lo spirito di sacrificio; è là che incominciò ad essere missionaria, a guadagnare anime a Gesù». Ciò che vale non è «fare il missionario», ma «essere missionario» nei tempi e nei modi che Dio e l’obbedienza richiedono.

Unita a Cristo

Il legame con Gesù fu la costante della storia di Maria Carola fin da ragazza e poi come giovane suora, e andò crescendo in modo straordinario nella sua lunga marcia missionaria. «Il pensiero che potrò in qualche modo concorrere a far dilatare il Regno di Gesù mi riempie di riconoscenza verso di Lei e verso il Signore, io offro fin da questo momento tutta la vita mia». Con queste parole, il 19 marzo 1904, chiese a padre Giuseppe Ferrero, successore del Cottolengo, la possibilità di essere inviata come missionaria in Africa. Desiderio che si realizzò il 28 gennaio dell’anno successivo. Pagò il suo legame con l’Africa attraverso il superamento di se stessa, la rinuncia non solo al male, ma anche agli affetti e alle cose più care. Una potatura che la segnò fino alla fine della vita perché il dono di sé era autentico e non effimero o interessato, come dice un canto: «L’amore vero è un taglio sul vivo, se non vogliamo dare il di più». […]

Nella sua offerta fatta il 6 gennaio 1899, solennità dell’Epifania, quando emise la professione religiosa, tenendo una candela in mano, formulò questa preghiera che anticipò quanto avrebbe vissuto poi: «Che il mio corpo si consumi come questa cera, o Gesù, scompaia dopo aver tanto fatto e sofferto, né di me resti traccia quaggiù come nulla resterà di essa! Che della mia anima, come da questo lucignolo, emani luce e calore: luce radiosa per me nella conoscenza Tua, calore infuocato per il prossimo che dovrò amare tanto da dimenticare me stessa, per poterlo beneficare, edificare e portare a Te, o Gesù, Amore mio Divino! A Te che scelgo per mia porzione nel tempo e nell’eternità».

Obbediente allo Spirito

[…] Suor Maria Carola, grazie alla sua fede e al sacrificio costante di sé, rifulge per la sua straordinaria capacità di sapere coniugare in modo mirabile l’annuncio del Vangelo e la promozione umana, ottenendo frutti di conversione spirituale e di liberazione umana e sociale. L’occupazione a cui suor Maria Carola attendeva con amore erano i catechismi in missione e a domicilio. Quale conforto provava e come si sentiva animata a nuovi sacrifici, nel poter dire: «Eccoti, Gesù, sono Tue queste anime, regna in esse sovrano!». E in quei villaggi sentiva l’altezza della sua vocazione, il dovere di pregare il Padrone della vigna, e il desiderio che il seme gettato germogliasse e giungesse presto a maturità. Era più che persuasa che soltanto dal lavoro della grazia dipende la conversione delle anime. «Noi lavoriamo – diceva – ci affatichiamo, Gesù muove i cuori, Gesù illumina le menti; Gesù è il gran Ladro d’amore; Egli solo sa rubare, e rubare, e rubar bene».

È bello riconoscere che suor Maria Carola, in forza della sua conformazione a Cristo e senza che lei se ne rendesse conto, diventò per i suoi e le persone incontrate una «traduzione dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire».

È bello ricordare la conversione del capo del popolo kikuyu. Nei pressi della missione di Tuso c’era il villaggio del gran capo del Ghekoio (così si scriveva allora, prima che si imponesse la traslittetrazione inglese, ndr), Karoli che era entusiasta di muare Karola, perché diceva: «Porta il mio nome». Quando poi capì che la mware cucinava molto meglio delle sue numerose mogli, la simpatia si accentuò e giornalmente le inviava carni da cuocere, farina e zucchero, burro per la confezione di paste dolci. E suor Karola lo trattava con mille riguardi nell’intento di far conoscere di più il cristianesimo. E infatti le sue speranze non furono deluse: il seme da lei gettato, benedetto dal Signore, germogliò e fruttificò nel 1916, quando Karoli ricevette il battesimo. […]

Per lei l’azione missionaria non fu «un palo secco da innaffiare», ma un’opera di Dio germogliata nel cuore della foresta. Era convinta che il seme della Parola, gettato in quella regione impervia e isolata, avrebbe dato frutti di carità e di rinnovamento.

Testimone della fede

[…] Suor Maria Carola conosceva molto bene gli elementi fondamentali della fede, che in passato erano noti a ogni bambino, perché li aveva appresi nella cerchia famigliare e alla scuola di santi sacerdoti ed educatori. Lei aveva imparato fin da ragazza, da giovane religiosa e poi da intrepida missionaria che «per poter vivere e amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarlo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione e il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola».

Ecco perché tutta la sua vita fu un annuncio continuo del Vangelo e della dottrina cristiana. Ogni occasione fu opportuna per indicare la salvezza nel nome di Gesù e di Maria. Sia cucinando, sia assistendo i malati, sia medicando, sempre la parola evangelica da lei seminata nell’intimo delle persone scese come medicina che cura le ferite e le piaghe dei cuori e delle anime.

Quanto lavorò. Non vi fu capanna, anche lontana, che non fosse visitata, e più volte, da lei; ma il suo prezioso compito fu il nucleo delle catecumene; quanta pazienza nell’impartire i principi della fede, nell’abituarle alla vita cristiana. E una volta cristiane era tutta di loro, giorno e notte, pronta sempre a confortarle, a far da madre a loro e ai loro bambini.

Era una donna di grande fede che sapeva trasmettere l’amore per il Signore pur nella difficoltà della lingua, sia nel catechismo che nei rapporti con la gente.

La sua fede era nutrita dalla Parola di Dio, da solide letture e da intensa preghiera e adorazione.

[…] Tutte le sue fatiche le offriva al Signore per le anime senza badare alla salute, al pericolo.

Presto beata

La beatificazione di questa missionaria del Vangelo (probabilmente in ottobre o novembre di quest’anno, ndr), ci aiuta a ricordare che le missioni hanno il loro centro nell’annuncio della salvezza nel nome di Gesù. Suor Maria Carola non era una dotta, un’intellettuale, ma con il suo annuncio toccò i cuori della gente, perché ella stessa era stata toccata nel cuore dalla grazia dello Spirito. E lo fece nel modo che le era più naturale, senza tanti artifici o metodi speciali. […]

«Per la salvezza delle anime»

Merita ricordare che suor Maria Carola lavorò instancabilmente per la salvezza delle anime, attraverso uno zelo e una dedizione incondizionata, fino al dono della sua vita. Oggi il termine «anima» sembra essere diventato una prerogativa esclusiva della psicologia e il parlare della «salvezza delle anime» sembra una cosa antiquata. […] Suor Maria Carola si preoccupava dell’uomo intero, delle sue necessità fisiche e spirituali. Con il suo esempio e il suo messaggio ci ricorda che «noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima».

Quante anime salvate. Quanti bambini salvati da morte sicura. Quante ragazze e donne difese nella loro dignità. Quante famiglie formate e custodite nella verità dell’amore coniugale e famigliare. Quanti incendi di odio e di vendetta estinti con la forza della pazienza e la consegna della propria vita. E tutto vissuto con grande zelo apostolico e missionario. Le persone che ebbero la grazia di incontrarla fecero l’esperienza di una donna e di una consacrata che non solo compiva coscienziosamente il suo lavoro, ma che non apparteneva più a se stessa. Una disponibilità continua, una dedizione rinnovata ogni giorno ai piedi dell’altare, una consegna fino al sacrificio supremo della vita per la riconciliazione e la pace.

Ella avrebbe voluto sacrificarsi per tutti, dicendo, più coi fatti che con la parola: «Darò a tutti le mie forze finché avrò vita e poi morirò contenta». «Sono tutte anime, sono nostre le anime di tutto il mondo».

L’esame delle ragazze che desiderano ricevere il battesimo.

Suor Carola: madre

Dalle testimonianze (raccolte per la causa di beatificazione, ndr) traspare un tratto distintivo di suor Carola: quello della maternità. Donandosi interamente a Dio, lei non aveva certo rinunciato al sublime senso della maternità, anzi lo rivendicava a sé con tutto il suo peso, le sue conseguenze, le angosciose trepidazioni. Con la tenace capacità di sperare a ogni costo, fu madre per tutti. Erano in tanti a riconoscere che la maternità che suor Carola manifestava verso tutti era un riflesso vivo della bontà della Madre di Dio e della sua cura per ogni suo figlio.

C’è una fotografia di suor Carola che è come l’icona della sua vita: quella in cui tiene tra le sue mani due neonati (foto pag. 24), quasi a significare che le sue mani furono grembo di vita. Questa suora cottolenghina servì l’amore e la difesa della vita, soprattutto la più fragile e vulnerabile, camminando nella via tracciata da san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Una donna che testimoniò i misteri cristiani dell’incarnazione e della redenzione: nella fotografia, la capanna sullo sfondo ci ricorda la grotta di Betlemme; le mani di suor Carola, che custodiscono e mostrano le due creature, sono come la mangiatoia che accolse il neonato Figlio di Dio fatto uomo nell’umiltà e nella povertà della nostra condizione. La croce che la missionaria porta sul petto è il richiamo a una vita consegnata e consumata nella grazia di Gesù Salvatore a favore di tutti gli uomini e di tutti i popoli. Le donne e le madri che accompagnano suor Carola rappresentano la sua dedizione per la difesa, la promozione della dignità della donna. Colpisce infine come in questa immagine suor Carola appaia così conformata alla missione e alla gente a lei affidata da assumere lei stessa tratti quasi africani.

Passaggio del Mar Rosso

La sua esistenza, vissuta nel segno della fede e della missione, terminò tra le acque del Mar Rosso dove il suo corpo fu lasciato a causa della morte sopravvenuta il 13 novembre 1925. Un mare che ricorda l’esodo, il cammino verso la terra promessa. Suor Carola visse un battesimo che la configurò pienamente al Signore Gesù nel suo sacrificio pasquale. Fu una donna redenta e collaboratrice della redenzione fino al dono totale di sé, quasi in una specie di olocausto come profeticamente aveva pregato il giorno della sua prima professione religiosa e come aveva scritto nella domanda per poter partire come missionaria. Soprattutto all’Africa, ferita d’ogni parte da germi d’odio e di violenza, da conflitti e da guerre, questa donna proclama la speranza della vita radicata nel mistero pasquale, esorta a perseverare nella speranza che dona il Cristo risorto, vincendo ogni tentazione di scoraggiamento. […]

Suor Carola ci dice che la Chiesa annuncia la Buona Novella non solamente attraverso la proclamazione della Parola che ha ricevuto dal Signore, ma anche mediante la testimonianza della vita, grazie alla quale i discepoli di Cristo rendono ragione della fede, della speranza e dell’amore che sono in essi.

Grazie alla testimonianza evangelica e cottolenghina di suor Maria Carola Cecchin «le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo il Signore di colmarci con la gioia del suo messaggio, affinché con zelo gioioso possiamo servire la sua verità e il suo amore».

Pierluigi Cameroni

* Letteralmente mware indica una ragazza non sposata, con allusione alla sua bellezza e vitalità. Abbiamo scritto la parola all’italiana, come si pronuncia, perché nella grafia inglese, imposta nei primi decenni del 1900, si scrive mwari. Una suora è una donna non sposata.


Testi tratti e adattati da:

  • «Carola Cecchin: donna di comunione e di pace», commemorazione della venerabile suor Maria Carola di don Pierluigi Cameroni, postulatore generale della Famiglia salesiana di don Bosco, Torino, Cottolengo, 28 novembre 2021.
  • rivista Incontri;
  • sito web del Cottolengo: www.cottolengo.org
    e delle suore cottolenghine: www.suorecottolengo.it

Ringraziamo suor Antonietta Bosetti, postulatrice della causa di beatificazione di suor Carola, per averci fornito il materiale e le informazioni necessarie.

Le foto sono dell’Archivio fotografico IMC, scattate probabilmente da monsignor Filippo Perlo.


Amare sino alla fine

Breve biografia

Fiorina Cecchin nasce a Cittadella (Pd) il 3 aprile 1877, da Francesco Cecchin e Antonia Geremia, settima di dieci figli, di cui i primi due morti in tenerissima età. Fiorina apprende dai suoi cari – dalla mamma in primo luogo – ad amare il Signore e a pregare ogni giorno.

Non ha nulla di particolare che la distingua dalle compagne, anzi viene descritta «senza foggia e colore», non bella fisicamente, ma semplice e determinata. Ama la solitudine e la preghiera. A 18 anni matura il desiderio di consacrarsi. Il suo parroco si rivolge alle suore del Cottolengo di Bigolino (Tv), dove è subito accettata e incaricata di prendersi cura di un gruppo di bambine orfane, servizio che svolge con tenerezza e cuore di mamma. La superiora accoglie la sua richiesta di abbracciare la vita religiosa per essere unicamente di Dio e del prossimo e l’accompagna a Torino, alla Piccola Casa.

Il 27 agosto 1896, entra nella Congregazione delle Suore di san Giuseppe Cottolengo (dette anche Suore Vincenzine della Piccola Casa della Divina Provvidenza). Veste l’abito religioso e inizia il noviziato il 2 ottobre 1897 prendendo il nome di suor Maria Carola. Nell’Epifania del 1899 fa la professione religiosa.

Per qualche anno, dal 1899 al 1905, presta servizio in qualità di cuoca a Giaveno, nel collegio affidato agli Oblati di Maria dove è ammirata per «l’obbedienza, l’umiltà, il suo spirito di preghiera, virtù rese attraenti dalla sua carità perché sempre disposta a sacrificare se stessa per essere di sollievo e conforto a tutti». Viene poi trasferita nella cucina centrale della Piccola Casa di Torino, dove serve, con dedizione esemplare, le suore che ritornano in Casa Madre per cure. Lì vede partire per il Kenya il primo gruppo di otto suore Vincenzine (il 25 aprile 1903) e poi il secondo di dodici (il 24 dicembre 1903) per coadiuvare i primi Missionari della Consolata che avevano sentito l’esigenza di avere personale femminile per l’evangelizzazione.

Il 19 marzo 1904 fa domanda scritta di poter partire anche lei per le missioni. La richiesta è accolta e il 28 gennaio 1905, a 28 anni, parte con la terza spedizione formata da sei suore cottolenghine e da tre missionari.

Arrivata a Mombasa il 19 febbraio, in treno raggiunge Limuru, appena oltre Nairobi, sull’altopiano che si affaccia alla Rift Valley. Lì si ferma alcuni mesi per ambientarsi. A fine giugno viene mandata a Tuthu (scritto Tuso, all’italiana), la prima missione fondata nel giugno 1902, dove rimane fino all’agosto del 1909 e conosce bene anche il gran capo dei Kikuyu, Karòli. Va poi per circa un anno a Iciagaki, e dal luglio 1910 fino alla fine del 1916 è a Mogoiri, dove lavora con padre Gaudenzio Barlassina, già incontrato a Tuthu.

Nel 1916 è trasferita a Wambogo (che diventerà poi Gekondi). La Prima guerra mondiale infuria anche in Africa, gli Inglesi, per la loro guerra, arruolano a forza oltre 500mila carriers (portatori), dei quali ne muoiono oltre 200mila. I missionari e le missionarie, comprese le Missionarie della Consolata arrivate in Kenya nel 1913, come la beata Irene Stefani, partono per curarli negli ospedali da campo in Kenya e Tanganyka. Parte anche suor Rachele da Wambogo e suor Carola prende il suo posto.

Nel settembre 1920 passa dalla terra dei Kikuyu al Meru, dall’Ovest all’Est del Monte Kenya. Nuova terra, un nuovo popolo e nuova lingua da imparare.

A Tigania (Meru), superiora di una comunità di quattro suore, si dimostra donna saggia e prudente, «attiva ma non dissipata, seria ma non ruvida, schietta ma non imprudente; era di una pietà così soda e soave insieme da mostrare la santa libertà di spirito che le era tutta propria; con la stessa disinvoltura afferrava il mestolo o il rosario; era sempre la stessa con le consorelle, con gli estranei, con i missionari, sia nei giorni di tregua che nelle incombenze più difficili e più pressanti». Ma qui, oltre i disagi e le fatiche, una malattia dolorosa e debilitante, diagnosticata come enterocolite sanguigna, le procura gravi sofferenze. Lei però è sempre pronta, sempre disponibile a uscire, a visitare i malati nei villaggi, a catechizzare con le parole e i gesti le giovani, i poveri. Tigania vede i suoi ultimi eroismi e la sua totale immolazione al Signore. Davvero, come Gesù, «amò i suoi sino alla fine» (Gv 13,1).

Dal 1919 in poi, i superiori della Piccola Casa dispongono il rientro delle suore a Torino, per gravi dissapori soprattutto con monsignor Filippo Perlo, vicario apostolico, parzialmente risolti grazie all’intervento di papa Benedetto XV. Il vescovo Perlo, pur riluttante, obbedisce all’ordine del papa, e le suore rientrano in Italia a gruppi di otto. Suor Maria Carola, pur sofferente ormai da anni, è l’ultima a lasciare l’amata missione con la consorella suor Crescentina Vigliano. Dopo 290 km a piedi fino a Nairobi, raggiunge in treno Mombasa dovei si imbarca sul piroscafo Porto Alessandretta il 25 ottobre 1925, destinazione Italia, Torino Piccola Casa.

Durante il viaggio si aggrava e muore il 13 novembre sullo stesso piroscafo ed è sepolta nel Mar Rosso nel tratto compreso tra Massaua e Suez. Ha 48 anni.

Gigi Anataloni

In evidenza i luoghi dove suor Carola ha operato. Cartina dell’area attorno al monte Kenya disegnata da padre Michel Camisassi negli anni ’30.




Taita Agustín


Lo scorso novembre è mancato a Manizales, in Colombia, un missionario amante dei monti, della natura, della gente e soprattutto del Creatore e Signore di tutto. Un ricordo personale da un confratello che è vissuto tanto con lui.

Bogotá, gennaio 1992. Non erano passate ancora ventiquattr’ore dall’arrivo a Bogotá, che già i miei genitori si sentivano un po’ persi e disorientati. L’inevitabile «jet lag» li faceva appisolare anche se erano le undici del mattino, ma soprattutto c’era un altro continente sotto i loro piedi e, in più, mia mamma faceva fatica a respirare.

«È un tipico sintomo del mal di montagna, normale ai 2.500 metri di altezza di Bogotá», aveva sentenziato un missionario veterano del luogo. Il problema era stato rapidamente risolto con una tazza di tè di coca che mia mamma aveva bevuto senza nascondere una certa preoccupazione.

All’ora di pranzo al tavolo con loro si era seduto padre Agostino Baima. «Non si può venire in America e in Colombia senza conoscere Bogotá. Qui vedrete sintetizzate tutte le contraddizioni che incontrerete nelle prossime settimane quando andrete con vostro figlio in Amazzonia. Qui abbiamo persone provenienti da ogni zona del paese e vi renderete conto di come vivono nella città. Questo pomeriggio vi lascerò riposare un po’ e poi alle 15 partiamo. Vi porto io a fare un giro». Il piano era fatto, non c’era possibilità di discuterlo.

All’ora prevista ci siamo imbarcati tutti sulla sua Daihatsu, non particolarmente grande né comoda, e lui, prima ha preso la rotta verso il Sud, con le sue baraccopoli, la sua povertà, il suo disordine, fino a raggiungere i quartieri nel margine sudorientale della città abbarbicati a un’altezza superiore ai 3.000 metri, là dove la folle e disordinata urbanizzazione era in quel momento in piena effervescenza. E poi, con tutta la velocità che si poteva spremere dal povero veicolo, ci siamo diretti verso Nord per godere dei quartieri signorili, delle «gated communities» e dei primi centri commerciali che stavano sorgendo in quegli anni. Tutta una metropoli visitata a volo di uccello, o meglio, di Daihatsu.

Quando la sera ho potuto sedermi tranquillamente con mia mamma e ascoltare le prime impressioni del viaggio missionario che stava appena cominciando, le sue parole sono state: «Quant’è grande questa città, quant’è grande la sua povertà, quant’è ostentata la sua ricchezza, quanto sono grandi i centri commerciali; che incredibile anche la mia stanchezza, ma a tutto questo bisogna aggiungere: quant’è grande il padre Agostino».

E sì, la missione è grande, grazie Taita Agustín1.

17 settembre 1971, sulla cima del Margureis in Val Pesio, Cuneo

Bogotá ottobre 1999

I missionari che stavano partendo per l’Argentina per partecipare al Cam (Congresso missionario americano) erano indaffarati per mettere assieme le loro ultime cose. Il congresso era già arrivato alla sesta edizione e, a causa dei risultati significativi, non si sarebbe più chiamato Comla (Congresso missionario latinoamericano) ma Cam, appunto. Era ora di aprire uno spazio alle chiese del Nord del continente che avevano poco a che fare con le chiese variopinte del Sud. I primi due congressi si erano tenuti in Messico, ma il terzo era stato a Bogotá, e Agostino, forse anche giustamente, si sentiva un po’ come il padre di quell’evento, ormai abbastanza lontano nel tempo ma non nel cuore. «Non possono lasciare a casa i dipinti di Chucho Tobar, dove sono?».

«Ma, padre Agustín, quelli erano stati preparati per il Comla 3 di Bogotá del 1987, dodici anni fa».

«Non importa. Tu non sai quanto abbiamo lavorato per preparare quel Comla. Non eravamo in molti: la missione a quel tempo era ancora marginale, una questione per pochi fuori di testa. Anche se questo è il continente più cattolico del mondo, i cristiani qui pensano ancora di non avere alcuna responsabilità nella missione universale. La nostra animazione missionaria deve sradicare questa convinzione errata. Mai, in nessun Comla, si sono visti dipinti così significativi e missionari. Quello di Bogotá era il “nostro” Comla. Quanto sudore, quanta fatica, quante notti in bianco, quante lotte per convincere tutti di quanto fosse importante per questa ricca chiesa colombiana, con una tradizione missionaria così radicata, farsi carico dell’organizzazione di quell’evento».

Milena, la segretaria del Centro di animazione missionaria, era arrivata trafelata con i preziosi dipinti che aveva alla fine scovato. Quando sono stati aperti davanti a lui, i suoi occhi brillavano e li accarezzava con quelle sue mani forti e scavate da tanto lavoro e impegno.

E sì, la missione è fatta di sudore e passione. Grazie, Taita Agustín.

Licto, anni ’90

La produzione di foto e video per documentare la vita dei popoli che incontrava è un’attività difficile da datare, poiché faceva parte della vita quotidiana di padre Agostino negli anni che ha passato nelle parrocchie di Punín e Licto in Ecuador. Era un metodo semplice e, a suo modo, tecnologico, per dare importanza alle comunità indigene. Senza mai separarsi dalla sua macchina fotografica, che lo accompagnava da anni, Agostino si stava modernizzando ed entrava nel mondo dei video amatoriali. Le attività tradizionali importanti per la vita delle comunità indigene venivano diligentemente filmate, ma quella era la parte più semplice di tutto il progetto. Poi le registrazioni dovevano anche essere mostrate «affinché – diceva – la gente potesse vedersi, come in un film, e scoprire che che anch’essa è importante e che la sua vita merita gli onori della cronaca e della storia».

Creare le condizioni per proiettare i film era la parte più laboriosa, e in questo Agostino aveva investito tutto il suo sforzo e la sua creatività, sempre al passo con l’evoluzione della tecnologia. Quando sono arrivato a Licto per la prima volta, nel vano posteriore della Toyota che lui guidava, entrava su misura un televisore con uno schermo molto grande che non era né sottile né leggero come quelli di oggi. Per resistere agli inevitabili scossoni delle strade non asfaltate, il televisore era conservato in una speciale cassa di legno su misura che lui stesso aveva confezionato e che pesava forse anche di più del televisore che conteneva. Erano necessarie almeno due persone muscolose per trasportarlo grazie a delle apposite maniglie poste alla base della cassa: dopo aver abbassato i sedili posteriori, con precauzione si infilava tutto lì. A questo punto non era nemmeno necessario scaricarlo: si apriva il portellone, si sganciava un lato della cassa, si attaccava un videoregistratore e, grazie a una abbondante serie di prolunghe che permettevano di far arrivare l’energia elettrica dai posti più impensati, lo spettacolo della vita comunitaria era servito. La felicità dei bambini e degli adulti che si riconoscevano nei film di Taita Agustín compensava tutta la fatica.

Dopo la televisione sono arrivati i videoproiettori, pesanti e grandi i primi, più leggeri i successivi, fino ai primi anni del secondo millennio quando la malattia ha allontanato definitivamente padre Baima dall’Ecuador. Tuttavia, quei film, e quel patrimonio di registrazioni, sono stati portati da Agostino a Manizales, e la sua preoccupazione ora era quella di tradurre il tutto dal Vhs ai formati digitali necessari per i computer di oggi. Diceva: «Questo materiale è prezioso e non può andare perso, racchiude una testimonianza della vita della gente che lavora e si impegna».

E sì, la missione la fanno le persone quando osano diventare protagonisti. Grazie, Taita Agustín.

Davanti al Santuario di Manizales

I mille e un orto di tutta una vita

«Sono un contadino, lo sono sempre stato; sono nato in una famiglia povera e numerosa e non lo rinnegherò mai perché è lì che ho imparato a coltivare la terra e a lavorare».

Non ho conosciuto tutti gli orti di padre Agustín, ma ne ricordo almeno tre: all’inizio degli anni ‘90 quello dietro la casa provinciale di Bogotá; alla fine degli anni ‘90 quello di Licto che era di gran lunga il più grande di tutti; dopo il 2015 quello della scuola di Manizales. Questo è stato l’ultimo, e lo ha dovuto abbandonare dalla mattina alla sera, a causa della malattia che gli ha impedito di guidare la vecchia Chevrolet Corsa, la sua ultima macchina che coccolava. A bordo della sua autovettura si presentava nei più improbabili luoghi di Manizales, che negli ultimi anni era ridiventata la sua città, come lo era stata nei primi anni della sua parabola missionaria, quando baldanzoso andava su e giù lungo i crinali del Nevado Ruiz vantandosi delle sue origini alpine.

A Bogotá la sua energia era sufficiente non solo per l’orto ma anche per mantenere tutto il parco pubblico del quartiere di Modelia, che non è piccolo, rasato come il green di un campo da golf. «Lo faccio perché tutti imparino che il pubblico è responsabilità di tutti e altrettanto importante, se non addirittura di più, di ciò che è nostro». A Licto il campo era grandissimo e tutto coltivato a mais: «Non è possibile che tutti i nostri vicini piantino ogni centimetro quadrato di terra perché di quello vivono, e noi trascuriamo e teniamo improduttiva la terra che Dio ci ha dato. Certamente non viviamo di questo, ma dobbiamo lavorare perché siamo come loro, non di una classe diversa, anche se ci chiamano taitamito (papà mio).

L’orto della scuola di Manizales l’ha coltivato fino alla metà del 2019 e l’ha fatto con la stessa determinazione e precisione dei precedenti, anche se gli anni erano passati e la zappa cominciava a pesare. Con la complicità di tutti, a cominciare dalla mia che ero l’amministratore del collegio, i dipendenti incaricati della cura delle aree verdi dedicavano anche un po’ di tempo a raddrizzare le aiole e a rimuovere la terra dell’orto di Agostino.

Veramente, l’orto, che nel suo caso ha attraversato tutte le età della vita, era quasi il sacramento di un servizio comunitario che viveva come qualcosa di indiscutibile, necessario e irrinunciabile. Un servizio per il quale non si è mai considerato troppo vecchio o troppo stanco.

E sì, la missione è servizio per tutte le età. Per tutto questo, grazie, Taita Agustín.

L’ultima barella

Manizales, novembre 2021. Ho molte altre immagini come queste che ricordano momenti che abbiamo vissuto insieme, ma ora voglio ricordare l’ultima, forse la più dolorosa. E lo scrivo come se ti scrivessi una lettera, Agostino.

Ti stavano portando in ospedale legato a una barella e padre Rino Delaidotti mi ha chiamato per vedere se, parlando con me che non vedevi da mesi, potevi distogliere la mente dalle procedure un po’ brusche a cui ti stavano sottoponendo. A dire il vero non sapevo nemmeno cosa dirti. Mi sarebbe piaciuto rivederti e poi avevo promesso a tua sorella che quando fossi tornato in Colombia ti avrei portato quel salame che ti aveva promesso. Ma te ne sei andato prima che arrivasse il salame. Sono in debito con te, dovremo mangiarcelo nel Regno. Eppure, pensandoci bene, a quella barella era legata la missione quasi come alla croce era legata la vita. Così come la vita non fu sconfitta dalla croce, vedendo te, credo che nemmeno una barella abbia potuto sconfiggere la missione in te. Non so come sarà la tua vita d’ora in avanti, ma so che sarà certamente missione.

E sì, la missione è per sempre, quindi Kaya kama2, Taita Agustín.

Gianantonio Sozzi

  1. Taita: papà (espressione infantile tipica in molti paesi dell’America Latina).
  2. Kaya kama: in quechua, lett. «fino al mattino», «a domani» e anche «buona notte».

Agostino Baima nasce il 26 dicembre 1939 nella frazione di San Firmino a Ciriè, provincia di Torino, ultimo di quattro figli. Nel 1950, dopo l’incontro con un missionario proveniente dal Kenya, chiede di entrare nel seminario dei Missionari della Consolata ed è accolto a Benevagienna (Cn). Frequenta poi il liceo a Varallo Sesia (Vc), e nel 1959 entra in noviziato alla Certosa di Pesio (Cn) dove emette la professione temporanea il 2 ottobre 1960.

Compie gli studi filosofico teologici a Torino e si impegna per la missione con la professione perpetua il 2 ottobre 1963.

Il periodo 1964-1970 è un tempo di grave malattia e lento recupero; per questo passa alcuni anni nella quiete della Certosa di Pesio come aiuto all’economo.

Il 7 febbraio 1971 i novizi in festa partecipano al suo mandato missionario, e parte per la Colombia, dove conclude gli studi teologici. L’8 aprile 1973 è ordinato diacono a Bogotà dal card. Munoz Duque e il 18 novembre 1973, sempre a Bogotà, mons. Pablo Correa León lo ordina sacerdote. Passa il 1974-1975 come viceparroco nella parrocchia dove c’è il seminario teologico, di cui è il vicedirettore. Dal 1975 al 1980 si dedica all’animazione missionaria a Manizales. Trasferito a Bogotà, dal 1980 al 1985 svolge il servizio di direttore di animazione missionaria vocazionale in tutta la Colombia, e accetta l’incarico di presidente della commissione missionaria della Conferenza dei religiosi.

Dal 1984, per tre anni svolge anche il compito di consigliere regionale IMC e dal 1985 al 1987 è superiore del seminario filosofico. Poi dal 1988 al 1992 serve come direttore del Centro di animazione missionaria a Modelia, Bogotà.

Nel 1992 viene inviato in Ecuador, dove fino al 1995 è viceparroco a Punín e poi è trasferito a Licto dove rimane fino al 2003. Tra il 1996 e il 1999 è di nuovo consigliere regionale.

Nel 2003 vive un nuovo periodo di malattia e convalescenza tra Colombia e Italia. Rimessosi, nel 2004 viene mandato al santuario della Madonna di Fatima a Manizales, dove rimane fino all’ultima chiamata, il 24 novembre 2021. È sepolto a Manizales.


Slideshow  di alcune (pochissime) foto di padre Agostino Baima

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Una vita per la Missione


Uno dei sogni di ogni missionario è quello di morire in terra di missione ed essere sepolto all’ombra del baobab, in mezzo al popolo che ha tanto amato. Non è stata la sorte di padre Franco Gioda. La sua gente in Mozambico non ha potuto accompagnare nel suo ultimo viaggio il corpo di colui che ha servito la missione con un ardore eccezionale.

Tutta la vita di padre Franco è stata intessuta di missione: da quando lasciò il seminario diocesano di Torino per diventare missionario della Consolata.

Intessuti di missione furono gli anni trascorsi in Italia, per la formazione, l’animazione, la direzione. Ma molto più intensi furono quelli vissuti in Mozambico.

Nel Niassa

La sua prima missione fu nel Niassa, durante la lunga e dolorosa guerra di indipendenza. Quando tutti vivevano in allerta, per timore di imboscate o assalti, padre Franco non tralasciava di visitare le comunità dei cristiani nei villaggi lontani. In bicicletta o a piedi, su sentieri impervi, con il sole o la pioggia, giornate e giornate di cammino per incontrare le piccole comunità, pregare, celebrare, dare coraggio e speranza: «Dio non vi abbandona, io sono qui nel suo nome».

Più di una volta fu sorpreso da attacchi di guerriglieri, sparatorie e saccheggi. E i cristiani lo nascondevano affinché non lo scoprissero. E quando l’assalto finiva, tutti, cristiani e no, lo salutavano e lo ringraziavano: «Dio ci ha protetti dalla morte, perché tu eri qui con noi! Ma, padre, perché sei venuto fin qua?». E lui: «Sono qui per Lui!», diceva alzando un crocifisso.

«Giovane» a Fingoé

«Lui» è stato la ragione della vita missionaria di padre Franco. In questi ultimi anni, superati i settanta, ma sentendosi ancora un giovanotto, ha fondato con altri due confratelli la missione di Fingoé, nella diocesi di Tete. Fingoé è il capoluogo di una regione vasta 30mila Km2, come Piemonte e Liguria insieme. Dal 1974 era rimasta senza nessuna presenza missionaria in assoluto. E padre Franco, quotidianamente, prima in macchina, poi in moto, e poi a piedi, secondo le possibilità che le cosiddette strade permettevano, visitava i villaggi. Incontrando qualcuno, chiedeva: «Amico, sai se qualcuno qui è cristiano?». «Mi sembra che nella famiglia che vive in quella casa là, qualcuno sia cristiano, ma non sono sicuro, perché qui non abbiamo missionari. Anch’io ho studiato con i padri, ma tanti anni fa». E padre Franco: «Non ti piacerebbe incontrarti con altri e insieme conoscere Dio e Gesù?», e così, iniziava con 4-5-10 persone. Passava poi in un altro villaggio, e un altro, e un altro. Decine di villaggi che oggi sono piccole e grandi comunità cristiane nel vasto territorio che forma la missione di Fingoé.

I capisaldi

Padre Franco credeva nell’importanza della «presenza» e, a costo di non avere un solo giorno di respiro, visitava continuamente tutte le comunità, anche le più piccole. I sentieri, le scarpate, le salite, la pioggia non spaventavano il «giovane» padre Franco. Lui – Gesù – doveva essere conosciuto e amato da tutti.

Con orgoglio padre Franco mostrava la mappa dei suoi villaggi. Non c’è ancora una carta geografica che li segnali, ma lui li aveva tutti identificati, con nome, abitanti, distanze, catecumeni, cristiani. La mappa del tesoro, le sue comunità.

L’altro caposaldo della sua missione era la formazione dei catechisti a cui dedicava tempo ed energie. Ecco allora il centro catechistico da lui fondato a Uncanha dove non bastava che i catechisti conoscessero la Bibbia, ma dovevano essere uomini e donne di Dio, capaci di testimoniare con la vita il Vangelo che predicavano e poi di ardere di vero spirito missionario per andare a evangelizzare le comunità.

A Fingoé, padre Franco ha vissuto la missione «che aveva sempre sognato», come lui stesso ha detto, dove si è sentito ringiovanito potendo dare tutto se stesso per i fratelli in nome del Vangelo.

A San Paolo di Tete

Quando è stato destinato alla città di Tete per dar vita alla nuova missione di San Paolo, ha accettato a malincuore, per obbedienza. La sua gente di Fingoé gli mancava. Quando però si è reso conto che San Paolo non era solo la periferia della città, ma anche una grande regione tra i fiumi Zambesi e Luenha, che pochi missionari negli anni avevano visitato, si è animato, e a 80 anni gli si sono aperti nuovi orizzonti. Con un gruppo di giovani e alcuni anziani e anziane, due volte alla settimana si è inoltrato in quella regione lasciando l’auto da qualche parte, e poi camminando fino ad arrivare a un villaggio, e là chiedere: «Amico, sai se…».

Ventidue nuove comunità sono sorte in questi ultimi due anni. Comunità che hanno già costruito le proprie cappelle, segno della presenza del Signore e della fede di un popolo umile e credente.

Il 17 ottobre scorso è morto un missionario che davvero ha annunciato un Nome, un Mistero, un Senso, una Vita: il Signore Gesù. Lui, Colui che nobilita, affratella, rende le persone migliori.

Lui, accolga il suo missionario tra le sue braccia, e gli faccia vedere la bellezza del Volto che a tutti ha annunciato.

Sandro Faedi

Il fuoco della Missione

Padre Franco ha servito con dedizione e amore molte comunità cristiane nel Niassa. Ha servito la Chiesa con passione. Durante la guerra civile ha percorso migliaia di chilometri in bicicletta per portare la Parola di Dio, l’Eucaristia e la consolazione alle comunità cristiane sparse nella regione. Ha subito imboscate, ha sofferto fame e sete, ha soccorso feriti, ha seppellito morti. Non aveva paura, ha sempre avuto fiducia nella protezione dall’Alto.

Nel 2012, all’età di 74 anni, ha accettato di accompagnare il vescovo Ignacio Saure a Tete. Il suo cuore missionario lo ha portato a visitare le comunità cristiane abbandonate di Marávia e Zumbo.

Nel 2014, all’età di 76 anni, ha iniziato la parrocchia di Fingoé. Si è dedicato con competenza pastorale e grande sacrificio all’animazione e alla creazione di comunità cristiane nelle missioni di Uncanha e Zumbo. Nel 2018 ha fondato il Centro catechistico di Uncanha per la formazione dei catechisti (vedi lettera di padre Carlo Biella).

Nel 2019 ha accettato la sfida di andare a lavorare nella città di Tete. Ha restaurato la parrocchia di San Paolo e l’ha trasformata in una parrocchia viva e missionaria. Ha fondato la parrocchia di Matambo. Ha visitato tutti i villaggi. Ha aperto nuove comunità, formato catechisti. Si è dato completamente fino alla fine, senza mezze misure. Ardeva nel suo cuore il fuoco della carità e la passione per la missione. Sempre disponibile a tutto e a tutti.

Accogliamo la sua scomparsa fisica e lasciamoci ispirare dalla sua vita, dal suo lavoro e, soprattutto, dalla sua viva testimonianza di fede, di simpatia e di bontà.

Ha amato e servito la Chiesa in tutto dando una testimonianza viva di fede e di missione. Viveva totalmente per Dio e per gli altri.

Il sacerdote è soprattutto l’uomo della carità; è padre più per gli altri che per se stesso. Durante la sua vita sacerdotale padre Franco si è ispirato a questa regola di vita e l’ha incarnata nella sua azione.

Avendo compiuto la sua missione accanto ai suoi fratelli, è stato chiamato a vivere nella gloria del Signore. Ora, gli sia dato di partecipare all’eternità riservata a coloro che sulla terra sono stati amici di Dio e hanno fatto la sua volontà.

Diamantino Antunes
Vescovo di Tete

Brevi note biografiche

Franco Gioda nasce a Poirino (To) il 17/07/1938.  Entra tra i Missionari della Consolata ed emette la prima professione dopo il noviziato in Certosa di Pesio il 02/10/1959.
È ordinato sacerdote a Torino dal cardinal Maurilio Fossati il 30/03/1963. Dopo aver servito prima nel seminario di Benevagienna (Cn) e poi di Biadene (Tv), passa per due anni nel seminario di Ermesinde in Portogallo. Nel 1970 parte per il Mozambico dove è viceparroco prima a Maica e poi a Nipepe, nel Niassa. Sono gli anni della guerra di indipendenza della Frelimo contro i portoghesi.

Richiamato in Italia a fine 1973, lavora per dieci anni come animatore missionario in varie case, e nel 1983 riesce a tornare nel suo amato Mozambico, dove, fino al 2000, alterna il servizio di parroco a quello di superiore (1990-1996) del gruppo dei missionari in quel paese. Sono i tempi duri della guerra civile tra Frelimo e Renamo (1981-1994).

Nel 2000 rientra in Italia. Dopo un periodo trascorso come animatore in Certosa di Pesio, serve per sei anni come superiore della regione, fino al 2008, quando va a Martina Franca (Ta). Nel 2011 torna nuovamente in Mozambico. Vive i suoi ultimi anni nella diocesi di Tete, prima con il vescovo Ignácio Saure e poi con monsignor Diamantino Antunes.

Rientrato in Italia per cure nel 2021, ha raggiunto la meta del suo camminare il 17 ottobre 2021, ad Alpignano (To). È sepolto nel Cimitero monumentale di Torino.

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Zizoti di Zechi, martire per amore

testo di Gigi Anataloni |


Il 1° ottobre 1921, padre Luigi Graiff (detto Zizoti [Gigiotti] in famiglia) nasce a Romeno, in Trentino, da Fiorenzo (detto Zechi) e Giuseppina Deromedis. Dal 1927 al 1934 frequenta le scuole elementari al paese. Conosce i Missionari della Consolata e, nell’ottobre del 1934, entra nel seminario minore di Favria Canavese, vicino a Torino, per gli studi ginnasiali (medie più 1ª e 2ª liceo di oggi, ndr). Qui frequenta i primi tre anni di ginnasio e poi la quarta e la quinta a Varallo Sesia (Vc). Il 15 agosto del 1939 veste l’abito chiericale per mano di monsignor Carlo Re e nell’ottobre comincia i tre anni di liceo.

Sono anni duri, gli anni del secondo conflitto mondiale. Il cibo è scarso anche nell’Istituto e i giovani chierici liceali ne soffrono. Nel giugno del 1941 Luigi completa a fatica la seconda liceo perché sempre malaticcio. Le vacanze estive lo rimettono un po’ in sesto, ma alla fine della terza il suo fisico è minato: ha contratto la tubercolosi. Passa quindi lunghi mesi, che diventateranno anni, nel sanatorio di Arco (Tn).

Come hai vissuto quel lungo periodo di malattia?

A luglio del 1943 erano già cinque mesi che mi trovavo in sanatorio e scrissi una lettera ai superiori a Torino. «Qui mi hanno voluto il Signore e la Madonna, e qui sono venuto compiendo con amore e volentieri questo sacrificio che mi costò assai. Finora nella mia vita non m’era successo mai niente, e appunto per questo m’attendevo qualche prova dal Signore. È venuta e l’ho benedetta. Sono pienamente rassegnato alla santa Volontà di Dio. Le sue vie sono mirabili se saprò uniformare la mia alla Sua santa Volontà. Il mio morale è molto alto e forte, e quando mi sopraggiungono le ore tristi, melanconiche cerco di scacciarle come tentazioni, perché potrebbero nuocermi. Finora tutto bene. Sono sempre contento e allegro. La ricordo giornalmente nelle mie preghiere. Le chiedo un memento nella santa Messa».

Una volta guarito, sei tornato in seminario?

È stata lunga guarire, ma nell’ottobre del ‘46 ho iniziato gli studi teologici alla Certosa di Pesio dove gli studenti erano stati trasferiti dopo che la Casa Madre e il seminario a Torino erano stati bombardati e non erano ancora agibili. Nel 1948, sempre in Certosa, ho fatto l’anno di noviziato e poi i primi voti religiosi il 1° ottobre 1949, giorno del mio 28° compleanno. In seguito, c’è stata un’accelerazione, e in pochi mesi ho completato tutti i passi necessari, ricevuto gli ordini minori e il diaconato, e il 18 dicembre di quell’anno sono stato ordinato sacerdote. Ricordo che, poco prima dell’ordinazione, scrissi una lettera al padre Gaudenzio Barlassina, superiore generale, ringraziandolo per la sua vicinanza e chiedendogli preghiere affinché «il profumo della mia vita fosse motivo di gioia per la Chiesa di Cristo».

Sei partito subito per le missioni?

Praticamente sì. Ho dovuto passare ancora un annetto a completare i miei studi teologici e nel marzo del 1951 sono partito da Venezia in nave per il Kenya, destinato alla diocesi di Nyeri. Prima nella missione di Gatanga e poi, dal 1954 al 1960, a Mugoiri. Sono stati anni bellissimi, di piena immersione nella realtà del popolo kikuyu.

Mentre costruivo la chiesa di Mugoiri si rinsaldava nella fede una comunità cristiana molto vivace, nonostante le tante difficoltà di quegli anni di rivolta anticoloniale (e a volte anche anticristiana) dei Mau Mau, di cui i Kikuyu erano i principali protagonisti.

Sei rimasto dieci anni di fila in Kenya, ma non facevate mai le vacanze in Italia?

Un tempo, quando si partiva, lo si faceva per la vita, anche perché i viaggi non erano facili. Invece noi potevamo già tornare per tre mesi ogni cinque anni. Quando sono tornato in Italia nel 1961, però, mi sono dovuto fermare per circa due anni, perché la mia salute non era delle migliori. Sono stato a Rovereto, nel seminario, sia per dare una mano, che, soprattutto per rimettermi in sesto. Però la nostalgia dell’Africa era troppo forte, tanto più che ero ben cosciente che il mio vescovo a Nyeri, monsignor Carlo Cavallera, era impaziente di aprire nuove missioni nel Nord della sua enorme diocesi, dove ai missionari era stato impedito di entrare fino ad allora.

Chiesa di Mugoiri

Ci vuoi spiegare meglio?

Certo. La diocesi di Nyeri è stata la prima a essere fondata dai Missionari della Consolata, già nel 1905. Aveva un’estensione enorme. Con la diocesi di Meru, che sarebbe stata separata da essa nel 1926, copriva un’area che andava dal Lago Rodolfo (oggi Turkana) fino ai confini con la Somalia e da un centinaio di chilometri a Nord di Nairobi fino all’Etiopia, un territorio più grande dell’Italia. Ma fino a dopo la Seconda guerra mondiale, tutta la zona poco più a Nord dell’equatore e a Est verso la Somalia era stata off limits per i missionari cattolici. Gli inglesi, allora colonizzatori, non la consideravano sicura e, tenendo conto che gli abitanti erano solo poche decine di migliaia, e tutti pastori nomadi, ritenevano che non fosse il caso di disturbare i musulmani e i pochi protestanti che erano già là (dove gli inglesi avevano aperto degli uffici governativi) ed erano considerati più che sufficienti per i bisogni religiosi di quella gente.

Ma monsignor Cavallera non era dello stesso parere. Sapeva che in quelle zone c’erano anche delle piccolissime comunità cattoliche e poi non poteva ignorare un così vasto territorio affidato alle sue cure pastorali. Per questo, fin dai primi anni Cinquanta, aveva fatto avventurosi viaggi per visitare tutti i centri dove gli inglesi avevano uffici governativi, da Wajir a Moyale, da Laisamis a Loyangallani, da Baragoi a Marsabit. Si era reso conto che sì, protestanti e musulmani si occupavano di religione, ma niente di più. Poi la gente non era affatto musulmana o protestante, ma la maggior parte era di religione tradizionale. In più non desiderava predicatori o imam ma molto di più scuole per i propri figli, centri di salute, progetti di sviluppo, acqua, cibo sicuro e pace. Così il vescovo aveva mosso mari e monti, con la tenacia di cui era capace, fino a ottenere dall’autorità coloniale il permesso di aprire missioni nel Nord, nel Marsabit e nel Samburu.

E qui vieni tu

Già. Monsignore era uno che non si risparmiava, ma era anche molto esigente con gli altri. Se mandava un missionario a iniziare una nuova missione (ed entro il 1964, anno in cui Marsabit è diventata diocesi, ne aveva iniziate ben 14), voleva che le cose fossero fatte «bene e subito», non dopo anni. Non importava se quella era una mission impossible dato che sul posto non c’era nulla e si doveva far venire il cemento da centinaia di chilometri, scavare pozzi per avere l’acqua, raccogliere le pietre per le fondamenta, trovare la sabbia per fare i blocchi, tagliare la legna per avere assi e travi, dormire con un occhio aperto per via degli animali (iene, leoni, elefanti e serpenti) che di notte entravano nel campo, creare piste e strade, attraversare pericolosi fiumi stagionali. Così lui mi ha chiamato, perché mi aveva visto costruire la chiesa di Mugoiri e aveva capito che ero di poche parole ma mi sapevo arrangiare.

La missuione di Laisamis

Da dove hai cominciato?

Nell’agosto del 1963 mi ha mandato a fondare la missione di Laisamis, tra i pastori rendille, più o meno a metà strada tra Isiolo e Marsabit. L’anno dopo, ho aiutato anche per le prime costruzioni della nuova missione di Archer’s Post tra i Samburu, circa 125 km più a Sud. A Laisamis sono rimasto dieci anni. L’inizio è stato davvero duro. Quando sono arrivato non c’era nulla. I serpenti erano i padroni assoluti. Mi attendeva un lavoro immane. Ho misurato allora a lunghi passi l’area della futura missione, mi sono rimboccato le maniche e, con l’aiuto di alcuni volenterosi del luogo, ho cominciato a rimuovere le pietre. E poi è venuto tutto il resto del lavoro. Scuola (che serviva anche da chiesa), dormitori per gli studenti e dispensario (che sarebbe diventato poi un vero ospedale) sono state le prime costruzioni che ho fatto. Entro il 1965 sono riuscito a costruire anche una casetta per me.

Cos’è che ti ha provato di più?

La solitudine. È vero che il lavoro non mancava e attorno c’era la gente del villaggio, i bambini della scuola, i maestri e gli infermieri, ma, come missionario, ero solo. E alcune volte la solitudine diventava intollerabile, come è successo nel luglio 1964 dopo che il villaggio e la missione erano stati fatti bersaglio di un attacco notturno degli Shifta, quando ho mandato questo messaggio via radio a Nyeri: «Io sto male, ho bisogno che venga subito qualcuno». Un mio confratello, mio grande amico, ha subito accolto l’appello e quando, dopo un viaggio avventuroso, ha raggiunto Laisamis sull’imbrunire, dal poggio della missione gli ho gridato: «Te l’ho fatta». Non ero ammalato, avevo solo bisogno di compagnia.

Ovvio che poi c’erano altre difficoltà. Una delle più grandi era quella degli Shifta, banditi di origine somala che terrorizzavano la popolazione razziando il bestiame e uccidendo indiscriminatamente. Quando hanno attaccato Laisamis, hanno fatto scappare tutta la gente, terrorizzata dalla loro violenza. Sono stato l’unico a rimanere, anche se da solo. Vani sono poi stati i miei appelli affinché la gente tornasse. È stata solo la fame e la mancanza di pascoli che li ha convinti a ristabilirsi attorno alla missione, dove, grazie al fiume stagionale, avevano cibo e acqua per il loro bestiame.

Monsignor Carlo Cavallera e padre Luigi Graiff

Intanto nel 1964 Marsabit era diventata diocesi, staccandosi da Nyeri, anche se le strutture erano minime e il vescovo viveva sotto una tenda.

Il vescovo, sostenuto dall’arrivo di nuovi missionari – nel 1968 sarebbe arrivato anche un mio compaesano, padre Aldo Giuliani, che era entrato in seminario dopo avere partecipato alla mia ordinazione sacerdotale – continuava nel suo impegno per aprire e rafforzare nuove missioni. Nel 1965 ha iniziato la missione di Loyangallani, al Lago Rodolfo, e lo ha fatto con un maestro e un catechista, dopo che lì, il 19 novembre 1965, era stato brutalmente ucciso dagli Shifta il padre Michele Stallone. Così nel 1973 ha mandato me in quell’oasi verde sulle sponde pietrose del lago, dove a pochi chilometri di distanza, a Komote, viveva la piccola comunità dei pescatori Ol Molo che avrebbe subito rubato il mio cuore. Avviata Loyangallani, nel 1979 il vescovo mi ha spostato a South Horr con il compito particolare di curare le due comunità di Tuum e Parkàti che erano state iniziate pochi anni prima da padre Giuseppe Polet.

Ma non era troppo pericoloso spingersi in quelle aree così remote?

Tuum e Parkàti sono, ancora oggi, due punti che trovi a fatica sulle carte geografiche. Tuum è in una valle sul versante Ovest del monte Nyiro, il monte sacro dei Samburu, all’opposto di South Horr, mentre Parkàti si trova a una ventina di chilometri più a Nord verso il lago, in un territorio caldissimo, la Suguta Valley. Grazie alla presenza di sorgenti d’acqua, erano quasi delle oasi adatte per costruire una scuola e un centro di salute per i nomadi che là vivevano.

Lì, ancora tren’anni prima, sospinti dalla fame, abusivamente, i Turkana erano entrati nella terra dei Samburu. Erano file di donne, uomini, vecchi e bambini che, per le piste sassose e polverose, preceduti dai loro armenti e da qualche asinello carico di pentolini, pelli e stracci, curvi e tristi, fuggivano dalla fame.

Inizialmente erano poche migliaia, ma quando sono arrivato a South Horr, la loro presenza contava ormai più di 30mila persone. Poco a poco, i Turkana si erano impadroniti della lunga striscia di territorio situata a Ovest dell’orrida e scoscesa valle di Suguta, una terra tristemente nota per le frequenti scorrerie dei banditi Ngorokos, e quindi poco frequentata dai Samburu.

Chiesetta di Parkati

Chi sono gli Ngorokos?

Erano una banda di predoni, composta prevalentemente da Turkana, ma anche da altri gruppi etnici. Si ritiene che a loro si fossero uniti anche degli ex militari ugandesi di Idi Amin, defenestrato nel 1979. Avevano armi sofisticate e si sospettava che qualcuno dall’esterno li manovrasse e comunque comprasse il bestiame da loro rubato, che andava poi a finire nei macelli di Nairobi. Attivi fin dagli anni Sessanta, hanno fatto pesanti incursioni nei villaggi dei Samburu e dei Rendille, che hanno poi cercato vendetta attaccando i Turkana, aumentando così i conflitti intertribali.

Fino a che punto i Turkana erano responsabili delle scorrerie operate dagli Ngorokos?

La risposta non è facile. Se da una parte è vero che nella banda erano attivi molti elementi della loro tribù, dall’altra è anche vero che i Turkana detestavano cordialmente quegli assassini, chiedendo al governo e persino a noi missionari le armi necessarie per combatterli. E avevano le loro buone ragioni. Quando gli Ngorokos preparavano una razzia contro i Samburu, non trovavano di meglio che allenarsi assaltando le manyatte dei Turkana, violentando donne e ragazze e uccidendo quanti opponevano resistenza. Quando poi compivano le loro razzie nei territori dei Samburu o dei Rendille, chi ne andava di mezzo erano ancora i Turkana perché ritenuti responsabili dell’accaduto. Nel 1975, la conca di Parkàti è stata spettatrice di una di queste feroci rappresaglie: quattordici fra vecchi, donne e bambini, sono stati trucidati dai Rendille, e 7mila i capi di bestiame (capre, asini e cammelli) razziati.

E voi siete andati di proposito a costruire una missione proprio là?

Proprio così. Abbiamo voluto impiantare a Parkàti una piccola stazione di missione perché il sorgere di un abitato stabile avrebbe garantito protezione e tranquillità alla gente, e la presenza di missionari, disposti a servire indistintamente i due gruppi, avrebbe contribuito a placarli e conciliarli. Con la missione, poi, si sarebbe dovuta aprire anche una strada che avrebbe apportato non pochi benefici: dall’intervento tempestivo delle forze dell’ordine in caso di necessità; al trasporto di acqua e generi alimentari, soprattutto nei periodi di siccità; alla rapidità di spostamento anche per la popolazione e il bestiame.

È stato padre Polet che ha convinto il governo ad aprire una strada tra le rocce, guadagnandosi così la totale fiducia della gente, e poi ha costruito un dispensario, aule scolastiche, dormitorio e casette per i maestri. Nel 1977 era spuntata anche la cappella, umile ma funzionale, e, infine la casetta per il missionario. Nella valle dell’inferno era nata la missione di Parkàti. Ogni fine settimana, da South Horr, andavo là e a Tuum.

Cos’è successo all’inizio del 1981?

La situazione era molto tesa. Le razzie degli Ngorokos erano continue e stavano diventando sempre più forti e più crudeli. Prima di Natale, gli altri missionari mi avevano sconsigliato di andare troppo spesso a Parkàti, ma avevo risposto che, se veramente avessero voluto uccidermi, avrebbero potuto farlo già tante altre volte. Solo poche settimane prima, ad esempio, avevano assalito la bottega di Parkàti mentre io ero lì a vedere tutto a circa cento metri di distanza. Scherzando, i miei confratelli mi dicevano che ero il cappellano degli Ngorokos  e, prima o dopo, li avrei convertiti tutti. Anche alcuni dei miei cristiani mi avevano sconsigliato di andare, ma un po’ celiando, un po’ sul serio, avevo risposto loro: «Cosa debbo farci dal momento che la mia tomba è là?».

E così ti sei preparato al safari.

Il 9 gennaio, era venerdì, al mattino presto sono andato alla missione di Baragoi per acquistare farina e zucchero da portare a Parkàti. A padre Pietro Davoli e suor Cristiana Sestero, che mi pregavano di non andare laggiù perché ormai erano scappati quasi tutti a causa degli Ngorokos, ho risposto: «Anzitutto, faccio solo il mio dovere; in secondo luogo, vi sono ancora i bambini della scuola e i pochi vecchi che non sono riusciti a fuggire; se non porto loro un po’ di farina, che cosa mangeranno? Non posso lasciarli morire di fame. D’altronde, se il Signore mi chiama, sono pronto».

Lo stesso giorno, passato a South Horr e caricato tutto il necessario, sono partito per Parkàti e, passando per Tuum, mi sono fermato a visitare la famiglia di Veronica che aveva cura della chiesetta quando io ero assente. Vedendo un calendario sulla parete della capanna, mi è venuto di dire: «Sapete? Morirò il giorno 10 gennaio». Poi ho consegnato a Veronica una busta: «Qui c’è qualche shellino, dopo la mia morte fatemi dire delle messe». Prima di partire le ho anche dato quaranta metri di cotonata blu per fare dieci divise per i bambini della scuola, chiedendole di tenerne da parte una misura grande per avvolgervi il mio cadavere. Perplessa e un po’ spaventata, mi ha domandato: «Padre, perché parli così oggi?». Sono rimasto zitto per un po’, poi, ridendo, le ho detto: «Veronica, tieni d’occhio il sacchetto del denaro, non voglio morire con quello come Giuda». Li ho salutati e sono poi arrivato a Parkàti, dove mi sono fermato tutto il sabato.

E sei partito per tornare a Tuum.

Domenica mattina, l’11 gennaio verso le 6 e mezza, sono partito per Tuum dove, come al solito, mi aspettavano per la santa Messa. Mi accompagnava il catechista Patrick, Peter Areman (un giovane diciottenne) e quattro ragazzi che dovevano andare a scuola a South Horr. Il viaggio è stato senza intoppi fin quasi a metà del percorso. A una dozzina di chilometri da Tuum, improvvisamente si è parata davanti a noi una ciurma urlante di uomini armati. Erano più di duecento. Avevano panghe (coltellacci), lance, fucili e anche mitra. Ho capito immediatamente il pericolo e ho tentato di invertire la marcia, ma una raffica ha bloccato la Land Rover. Non c’era più scampo. Eravamo accerchiati. Sceso di corsa, sono andato dietro per aprire il portellone della Land Rover e far uscire i ragazzi. «Non ci resta che inginocchiarci, pregare e morire», ho detto loro. Speravo proprio che si limitassero a derubarci.

Croce posta sul luogo uccisione padre Graiff a Parkati, con padre Pietro Davoli e padre Cornelio Dalzocchio

È l’11 gennaio, solennità del Battesimo del Signore. Padre Zizoti, riceve il battesimo per la Vita.

Funerali di p Graiff .

Una fucilata alla testa lo fa cadere nelle braccia del catechista. Anche Peter e Lothuru Lomakar, uno degli studenti, sono brutalmente ammazzati. Il catechista Patrick, tra le botte, riesce a parlare con gli assalitori, riconoscendone alcuni. Supplica e ottiene di avere salva la vita, per sé e i ragazzi superstiti. È percosso e spogliato. Gli dicono di avvertire la missione. Riesce a spostare il corpo di padre Graiff a circa due metri dalla macchina che è stata incendiata. Il corpo però subisce gravi lesioni perché i banditi infieriscono su di lui, denudandolo e strappandogli il cuore e le viscere, quasi applicando antichi e brutali rituali per rubargli lo spirito di uomo coraggioso. Patrick risale con grande difficoltà fino a Tuum ad avvisare. Di qui due giovani partono immediatamente con una lettera per padre Cornelio Dalzocchio a South Horr e, attraversando la montagna del Nyiro, giungono alla missione verso le cinque del pomeriggio. Dolore e sbigottimento. Partono subito in quattro, con la Land Rover: padre Dalzocchio, don Tibaldi, suor Floremilia e suor Assunta. Quando, in piena notte, giungono sul luogo dell’eccidio, una scena raccapricciante si presenta ai loro occhi: tre corpi nudi, orrendamente feriti e crivellati di proiettili, bruciati e tumefatti, giacciono sul terreno accanto alla carcassa della Land Rover.

Raccolgono i resti, li trasportano al centro di Maralal, a oltre 200 chilometri di distanza, dove, oltre alla missione, c’è anche il posto di polizia. Espletate le formalità burocratiche e ottenuto il permesso di sepoltura, il giorno dopo hanno luogo i funerali, celebrati da mons. Carlo Cavallera e da tutti i missionari della diocesi. Il pianto dei missionari, degli africani e in particolare dei nomadi è immenso.

Padre Luigi è ora sepolto nel cimitero della missione di Maralal, accanto alle spoglie di padre Michele Stallone, ucciso a Loyangallani il 18 novembre 1965 e di padre Luigi Andeni, ucciso ad Archer’s Post il 15 settembre 1998.

Gigi Anataloni

Maralal Mission cemetery




Perdenti 64.

Suor Dorothy Stang, difesa degli oppressi

testo di Don Mario Bandera |


Il 12 febbraio 2005 veniva uccisa in Brasile, in piena foresta amazzonica, una suora statunitense settantatreenne, Dorothy Mae Stang (nella cantilenante lingua portoghese-brasileira, amorevolmente chiamata Irmã Dorote) della congregazione delle Suore di Notre Dame di Namur.

Subito balzò agli occhi che non si era trattato di un atto violento di intolleranza religiosa, ma di qualcosa di ben più efferato che scosse, oltre che la sensibilità della grande famiglia missionaria, anche la sonnolenta coscienza collettiva dell’opinione pubblica internazionale. Ma chi era suor Dorothy? In Brasile, soprattutto in quelle regioni remote e inaccessibili del Nord Est del paese, ella rappresentava una presenza umile e solidale a fianco dei poveri contadini «sem terra» in cerca di terra incolta da coltivare.

Era, suor Dorothy, una presenza viva e scomoda di Chiesa in un luogo dove nessun missionario aveva ancora messo piede, e punto di riferimento per tante famiglie di contadini costantemente in balìa dei grandi interessi economici che con tracotanza, e anche violenza, si contendevano ogni metro quadrato della foresta amazzonica.

Suor Dorothy, col tempo, era diventata una voce profetica in quanto ricordava a tutti che la persona va sempre difesa, in modo particolare gli esclusi della società e i più poveri fra i poveri, e che la terra e la foresta non vanno aggredite e devastate per ricavare più profitti economici a beneficio dei pochi ricchi fazendeiros (proprietari di enormi aziende agricole, latifondisti, ndr) e delle insaziabili multinazionali, ma rispettate, protette e amate perché sono patrimonio di tutti.

Parlaci un po’ di te, chi sei, da dove vieni, perché sei diventata suora e missionaria.

Sono nata il 7 giugno 1931 in Dayton, Ohio, Usa, nella fattoria del tenente colonnello Henry Stang, trasformato in contadino, padre di ben nove figli e figlie. Ex militare, mi ha insegnato un forte senso della disciplina e del dovere. Da lui ho preso anche una grande passione per la natura e la vita contadina. Da mia madre Edna, invece, ho preso l’allegria e la spensieratezza. A sedici anni sono entrata con la mia amica Joan nella congregazione delle Suore di Nostra Signora di Namur. Questo è successo per due ragioni: la mia partecipazione al gruppo dei Giovani studenti cristiani, dove avevo imparato il metodo del «vedere, giudicare e agire», e il fatto che avevo studiato nella Julienne, una scuola proprio delle suore di Namur, dove si respirava un forte spirito missionario.

Perché sei andata in Brasile?

Dopo gli anni di preparazione, ho fatto i primi voti nel 1951 e ho preso il nome di suor Mary Joachim. Ho passato i miei primi anni come insegnante nelle nostre scuole negli Usa, ma il desiderio della missione è andato crescendo in me, anche sotto la spinta del Concilio Vaticano II. Quando papa Giovanni XXIII ha lanciato un appello alle suore del Nord America affinché mandassero almeno il 10% del loro personale in America Latina, mi sono resa subito disponibile, incoraggiata anche dal fatto che due dei miei fratelli erano diventati missionari. È stato con immensa gioia che nel 1966 ho ricevuto la notizia di essere parte del secondo gruppo di suore di Namur destinate al Brasile.

Sei finita di nuovo nella scuola?

Sembrava la cosa più naturale visto il tipo di attività che la nostra congregazione faceva, ma le cose sono andate diversamente. Appena arrivate in Brasile, nell’agosto del 1966, siamo andate a Rio de Janeiro, nel Centro di formazione interculturale, per imparare la lingua e per l’inserimento nel paese. Là, tra le nostre guide, c’erano Gustavo Gutierrez e Jon Sobrino. Già da subito, l’impatto con la gente delle favelas di Rio ci ha messo in discussione, a cominciare dal nostro modo di vestire, per cui abbiamo lasciato l’abito «da suore» e abbiamo cominciato a vestirci con abiti semplici.

Dopo il corso di inserimento dove siete andate?

Appena prima di Natale siamo partite per la nostra prima destinazione, Coroatá, nel Maranhāo, accolte con calore da due missionari italiani e sistemate in una casa crollata a metà, quindi tutta da sistemare. Pensavamo di insegnare nella scuola, invece ci hanno mandato subito a visitare la gente del posto e ad animare le nascenti comunità ecclesiali di base. Era una pastorale nuova, attenta ai poveri e quindi, quasi da subito, ci siamo trovate in contrasto con i fazendeiros, che erano abituati a dominare tutta la vita dei loro contadini, anche quella religiosa (con messe celebrate solo nelle loro fazendas e feste patronali organizzate in tutto e per tutto da loro).

Un contesto carico di problemi e di tensioni sociali.

Indubbiamente. I latifondisti trattavano i contadini come gli schiavi di un tempo e impedivano qualsiasi azione di riscatto sociale. Anche costruire una scuola era visto male perché avrebbe reso i poveri più coscienti della loro situazione. Inoltre, c’era un meccanismo di sfruttamento ben oleato. Il governo prometteva lotti di terra a chiunque era disposto a entrare nella foresta e disboscare. Così molti poveri contadini senza terra si buttavano all’avventura. Disboscavano, preparavano la terra, la rendevano pronta per la coltivazione. Passati cinque anni, arrivavano i fazendeiros o le grandi multinazionali, che intanto si erano assicurati i titoli di proprietà di quelle terre, e, forti dei loro «diritti», cacciavano via tutti per impiantare le loro grandi fazendas. Nessun compenso era pagato ai contadini, anzi veniva usata la forza della polizia o di sgherri privati per costringere la gente ad andarsene, il tutto accompagnato da case bruciate, pestaggi, imprigionamenti di chi resisteva e anche uccisioni.

E voi closa facevate per aiutare la gente?

La priorità era il sostegno alle comunità di base, poi abbiamo cominciato a celebrare le messe, gli incontri e le feste nei villaggi dei contadini invece che nelle case dei possidenti.

Questo è stato vero a Coroatá, la prima missione. Ma lo stesso abbiamo fatto quando ci siamo spinte ancor più nell’interno, dal Maranhāo al Pará, e ci siamo stabilite prima ad Abel Figueredo (nel 1974) e poi ad Anapu (nell’82), una zona ancora più «calda» nella diocesi di Altamira.

Con una certa audacia fondaste anche il sindacato locale dei contadini.

È stata una scelta ovvia quella di aiutarli a organizzarsi. Era importante che diventassero loro soggetti del loro riscatto. E poi c’era l’istruzione. Immagina che con loro abbiamo costruito (e ricostruito, perché spesso ci venivano bruciate) ben ventitré scuole primarie in un’area dove l’istruzione di base era completamente assente.

Insegnaste anche le tecniche di agricoltura sostenibile.

Certamente. Abbiamo cercato inoltre anche l’incontro e la collaborazione con i popoli indigeni, per renderli coscienti della situazione e far loro comprendere l’importanza di battersi per i loro diritti. Dimostrando a tutti che cosa può fare chi ha fede, coraggio e determinazione per cambiare una parte del mondo disperatamente bisognosa di giustizia.

Ma allora eravate più attiviste sociali che missionarie.

No, proprio perché facevamo ogni giorno una scelta di vita e impegno secondo il Vangelo, avevamo la forza e la lucidità per affrontare quelle situazioni. Era il confronto giornaliero con la Parola di Dio che ispirava non solo me, ma i preti con cui lavoravamo e i leader delle comunità di base.

Inutile dire che la vostra azione sociale e pastorale non era ben vista dai potenti della zona.

Fin dal mio arrivo in Brasile sono stati diversi gli avvertimenti che questi individui ci facevano giungere, mettendoci in guardia per la nostra azione in difesa degli indigeni e dei contadini più poveri. La prima minaccia risale addirittura al 5 agosto 1970. In quel tempo lavoravo a Coroatà, quando un commando di uomini armati ha fatto irruzione nel centro parrocchiale minacciando le suore che in quella sede riunivano la gente per educarla ai propri diritti.

E non solo noi eravamo malviste, ma anche i sacerdoti con cui lavoravamo e i leader della comunità di base, gli insegnati delle scuole. Molti di loro, e non solo noi suore, hanno pagato con minacce, arresti abusivi, imprigionamenti, torture e anche la morte il loro impegno per la giustizia e i poveri.

In ogni caso la vostra situazione peggiorava di giorno in giorno.

I ricchi moltiplicano i loro piani per sterminare i poveri, riducendoli alla fame. Uno di essi, il sindaco di Anapu, mia ultima destinazione missionaria, se n’era uscito con una frase terribile e lapidaria indirizzata alla mia persona: «Dobbiamo sbarazzarci di questa donna se vogliamo vivere in pace».

Tu però non ne avevi nessuna intenzione di lasciare la tua gente.

So che volevano togliermi di mezzo a qualunque costo, ma io di andarmene non ci pensavo proprio. Il mio posto restava con la gente continuamente umiliata, sfruttata e calpestata».

La mattina del 12 febbraio 2005, «mentre cammina da sola nella foresta, la sua via viene sbarrata da due uomini armati. Dal borsello di plastica, che porta sempre con sé, estrae mappe e documenti per dimostrare che l’area contesa è stata dichiarata riserva per i poveri senza terra. Uno dei due uomini le chiede se ha un’arma. Lei sorride e tira fuori la Bibbia. “Questa è l’unica arma che ho”, dice, e comincia a leggere dalle Beatitudini: “Beati i poveri in spirito. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia. Beati gli operatori di pace; saranno chiamati figli di Dio”.

Quando si volta per ripartire, uno degli uomini la chiama. L’altro impugna l’arma, e mentre la suora si gira, le spara a bruciapelo mentre ha ancora la Bibbia in mano. Continua a sparare, sei volte. Poi i due corrono verso i cespugli e fuggono verso la tenuta di uno dei mandanti». (Da Roseanne Murphy, Martire dell’Amazzonia, la vita di suor Dorothy Stang, Emi 2009).

Dorothy Stang, per il suo sacrificio come «testimone della fede», rappresenta uno dei più luminosi esempi ai nostri giorni di devozione al Vangelo applicata sul campo, accanto ai più umili e poveri, ai così detti «senza voce». Nella sua azione sociale e pastorale, contrastò interessi importanti; per questo venne messa a tacere in una triste, piovigginosa mattina del febbraio 2005. Ma la sua testimonianza è tutt’ora viva e la sua memoria, ripropone temi, problemi e impegni attuali più vivi che mai. Ecco perché «la sua storia è tutt’altro che terminata».

Ad ogni anniversario della sua morte, centinaia di persone si radunano attorno alla sua tomba nella foresta amazzonica. Fra esse i rappresentanti delle tante comunità di base sorte soprattutto dopo il sacrificio di Dorothy Stang, per condividere il Vangelo e viverlo sul campo, come lei aveva insegnato. La recente Esortazione apostolica Querida Amazonia di papa Francesco è un doveroso omaggio a questa piccola donna, paladina della giustizia sociale, e a tutti quelli che hanno donato la vita per difendere la loro fede. 

Ultimo, profetico segnale: nel 2004 – l’anno prima di venir uccisa – suor Dorothy viene insignita con la «Medaglia di Chico Mendes» da parte dell’Organizzazione brasiliana degli avvocati per i diritti umani. Quasi a riconoscerla erede – e tragicamente fu proprio così – del sindacalista, difensore degli ultimi, assassinato nel 1988.

Don Mario Bandera

Da leggere:

Roseanne Murphy, Martire dell’Amazzonia, la vita di suor Dorothy Stang, EMI, 2009