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Una vicina di casa tutta da scoprire

Superare i pregiudizi.
Ciò che i mass media no dicono.

uando si pensa alla missione, si immaginano sempre luoghi lontani: le foreste dell’America Latina, le savane dell’Africa, i popoli dell’Asia, le isole dell’Oceania. Raramente si pensa alle terre vicine, alla nostra stessa terra.
L’Albania, dove abbiamo vissuto un’esperienza missionaria, dista da casa nostra solo due ore di aereo; è al di là del piccolo Mare Adriatico. La gente ha lo stesso nostro colore della pelle. Sono come noi.
Per essere missionari, non è necessario partire per un angolo dimenticato del mondo; basta sapere incontrare l’uomo dove vive, con le sue giornie e i suoi dolori, e annunciare il motivo della propria presenza.
L’enciclica Redemptoris missio ricorda che la nuova evangelizzazione è un fronte anche in Europa.

Eravamo partiti per l’Albania
senza sapere che cosa ci sarebbe aspettato. Eravamo informati solo su quanto la televisione italiana ci mostra.
Ma ben presto abbiamo scoperto un altro volto dell’Albania: un volto giovane, carico di speranza. Questo deve essere conosciuto, per incoraggiare la gente locale a cambiare, ricostruire. Di questa faccia diversa vogliamo parlare.
Eravamo ospitati nel villaggio di Gijader, presso le Maestre Pie Venerini. Le suore ci avevano invitato ad un’esperienza di condivisione con alcuni giovani albanesi, che stanno costruendo un oratorio soprattutto come «struttura educativa». Impresa non facile, data la situazione viaria dell’Albania.
In tanta parte del paese esistono solo strade sterrate, in pessime condizioni, che non permettono una comunicazione agevole fra i villaggi e allungano notevolmente i tempi degli spostamenti; scarseggiano le linee telefoniche; specialmente manca nella gente la fiducia in quel poco che ha e in quello che è.
La nostra attività si svolgeva nel villaggio di Grash, vicino a Gijader. Era la prima volta che delle persone si dedicavano all’animazione dei bambini e all’incontro sistematico delle famiglie. Di regola è assicurata solo la messa domenicale e qualche sporadico incontro di catechesi.
Ogni pomeriggio, mentre in jeep raggiungevamo il villaggio, già da lontano una folla di bambini ci correva incontro a piedi scalzi: saltavano sul paraurti dell’auto, ci stringevano la mano dal finestrino, volevano una carezza. Poi al lavoro con due grossi gruppi: uno per i bambini e uno per gli adolescenti e giovani. Bastava poco: in cerchio sulla strada (non esistono ambienti dove ritrovarsi) per cantare e giocare; oppure nella chiesa cadente per raccontare la storia di Gesù e fare il catechismo con le sue parabole.
Era la prima volta che i ragazzi avevano a disposizione qualcuno che li aiutasse crescere dove già vivono, senza evadere nel mito dell’«Italia ricca». Si tratta di un atteggiamento mentale che investe il terzo mondo, ma anche l’Europa, dove l’egoismo politico di qualcuno ha distrutto la dignità di intere popolazioni.
A differenza dei sospettosi albanesi emigrati in Italia, qui abbiamo sperimentato accoglienza e apertura. Nei giovani è vivo il desiderio del confronto, per capire come possono cambiare; non hanno modelli a cui ispirarsi, ma desiderano trovarli. Abbiamo incontrato una generazione con la volontà di costruire un’Albania diversa; ma si scontrano con la chiusura degli adulti. Però gli occhi sorridenti di tanti ci hanno dato una grande carica che vogliamo comunicare, anche per sfatare lo stereotipo dell’albanese pigro e cattivo.
La nostra televisione non racconterà mai che dei giovani albanesi, dopo avere ospitato nel proprio villaggio alcuni profughi kosovari assicurando loro il cibo, li hanno riaccompagnati a casa e hanno iniziato insieme a ricostruire i villaggi distrutti. La tivù non si soffermerà su altri giovani che vogliono capire chi manovra il rapimento delle ragazze per destinarle alla prostituzione; né si saprà che, al ritorno delle sventurate a casa, i giovani le difenderanno dalle cattiverie nel villaggio.
I mass media non diranno che alcuni giovani lottano con il capovillaggio per acquistare, con i soldi di una lotteria, un campo da destinarsi a cimitero per una degna sepoltura dei loro parenti. La tivù non farà sapere che le suore hanno aperto una scuola professionale per dare a tanti la possibilità di ritrovare dignità e cultura, annientate negli anni passati dal regime comunista.

Necessario e decisivo
è l’aiuto dei missionari: la catechesi ai giovani è un incoraggiamento per scoprire i propri talenti e sfruttarli.
La chiesa albanese sta rinascendo dopo la morte imposta dal comunismo e incomincia a camminare con le sue gambe. Non è facile, perché è stato tutto cancellato: scomparsi i registri, non si sa chi sia battezzato e chi no. Lo stesso dicasi per gli altri sacramenti. Oggi si insiste sulla preparazione ai sacramenti, che non devono essere dispensati con superficialità.
Durante la nostra presenza abbiamo conosciuto alcuni seminaristi di Scutari. Uno ci ha detto che presto saranno ordinati i «primi» sei diaconi albanesi dalla fine del regime. Era fiero e orgoglioso. E noi pensavamo con tristezza alle diocesi italiane che contano, invece, gli «ultimi» ordinati al sacerdozio.
Per noi «nuova evangelizzazione» significa pure «caricarsi» dall’esempio delle chiese giovani per ritrovare entusiasmo, nonostante le difficoltà; significa condividere con esse le nostre forze, perché insieme è più facile testimoniare l’unità, superando le divisioni che l’egoismo ha creato, e far capire al mondo che cosa significhi «pace».
Nel partire per l’Italia, abbiamo detto ai giovani che avremmo raccontato il bello dell’Albania. Eccoci qui ad adempiere alla promessa, invitando chi legge ad abbandonare i pregiudizi.
Non sottovalutiamo i grandi problemi dell’Albania. Ma… millennio nuovo, speranze nuove anche per la «nostra vicina di casa».

Roberto ferranti e Sergio Lussignoli




Un acquedotto al politecnico

Un missionario geniale e la collaborazione degli africani per soddisfare il bisogno d’acqua.

O ggi una delle sfide più importanti è quella di creare rapporti diversi tra i popoli, per vivere in pace e nello sviluppo. Se il mezzo per raggiungere tale scopo è l’acqua, l’impegno necessita anche dello stupore del bimbo di un villaggio africano. «Oggi finalmente è piovuto! Erano 140 giorni che non vedevo una goccia d’acqua» ha scritto sul quadeetto di scuola la piccola Noaga.

L’acqua è un fattore
di unione e, nello stesso tempo, di divisione tra i popoli. È urgente portarla alla sua funzione primaria: quella della gratuità, dell’incontro, dell’igiene personale e morale. Base della vita, l’acqua è anche strumento di comunicazione: alimenta scambi nella materia e tra le persone.
Esistono popolazioni che pagano la loro emarginazione, la povertà, la mancanza di riconoscimento… per le scarse risorse idriche. La situazione è drammatica: lo confermano le siccità sofferte dalle genti del Sahel, le carestie (causate dalla scomparsa delle piogge stagionali) che decimano le mandrie in Etiopia. I pozzi vuoti, i bacini asciutti, l’assenza prolungata di piogge e la loro limitata o disordinata caduta causano crisi agricole e alimentari, tali da rievocare le carestie bibliche.
Esperti sostengono che nel XXI secolo sarà l’acqua a mobilitare le strategie geopolitiche dei governi, e non più il petrolio. Oggi intanto c’è chi paga con la vita: nel mondo ogni otto secondi un bambino muore per malattie legate all’acqua!
Di fronte a queste provocazioni, è nato in me il desiderio di orientare gli studi al Politecnico di Torino verso una possibile soluzione del problema «acqua». Ho scritto la tesi di laurea in ingegneria dal titolo: «Progetto di cooperazione Tuuru water scheme: studio della diga in terra sul torrente Ura».
La tesi riguarda un acquedotto che prende il nome dalla missione di Tuuru, nella regione del Meru (Kenya), intrapreso dai missionari della Consolata nel 1965. È uno studio tecnico sulle opere di presa dell’acquedotto, con la proposta di un progetto per la costruzione di una diga in terra su un torrente. Prima di scrivere la tesi, ho trascorso due mesi sul posto.

Oltre a rispondere
ai problemi tecnici per la progettazione di un invaso artificiale, la mia tesi testimonia il lavoro che si sta già svolgendo, in particolare nel Meru, contro la povertà e per lo sviluppo. «Kenya, il missionario dell’acqua. Un’impresa colossale»: intitolava il Corriere della Sera, 11 gennaio 1998, presentando i 250 chilometri di acquedotto, realizzati da un missionario della Consolata, fratel Giuseppe Argese, e dalla gente del luogo.
L’opera fu iniziata 35 anni fa, per fronteggiare una prolungata siccità che colpì anche il Centro per bambini poliomielitici di Tuuru. Oggi c’è acqua potabile per centinaia di migliaia di persone della zona, dove mancano torrenti perenni, le falde acquifere sono molto profonde e le attività dipendono dal regime delle piogge. L’approvvigionamento d’acqua è assicurato da «prese» nella circostante foresta equatoriale, a circa 2.000 metri di altitudine, circondata dalla pianura semidesertica.
Però l’intercettazione d’acqua non è sufficiente a soddisfare i crescenti fabbisogni della popolazione. Una soluzione a tale emergenza sarebbe la costruzione di una diga nella valle del torrente Ura. Il relativo invaso artificiale permetterebbe di immagazzinare la notevole quantità di acqua piovana e, quindi, distribuirla nell’arco dell’anno.

L’acquedotto,
dai sopralluoghi effettuati in loco e dai risultati, costituisce un esempio-modello tra i molti progetti di sviluppo. Tre fattori contribuiscono al funzionamento dell’opera e rappresentano le prerogative per l’efficace attuazione della diga sull’Ura:
– la collaborazione tra locali e tecnici stranieri, alcuni dei quali operanti stabilmente sul territorio;
– l’utilizzo di tecnologie semplici e appropriate, nonché il rispetto massimo della natura;
– la presenza di un comitato (costituito da persone del luogo), che assicurerà l’autogestione dell’opera.
L’acquedotto ricorda un dato da non scordare: l’acqua è una risorsa limitata; quindi è da conservare, riciclare e prevenire da contaminazioni dovute a sfruttamenti incontrollati delle falde.
La scelta di non sfruttare le acque sotterranee in zone aride (dati i costi e i problemi di manutenzione dei macchinari), bensì di utilizzare le risorse idriche della foresta, si realizza nel rispetto massimo degli aspetti ecologici anche a lungo termine.
Tra i materiali, si impiega il terreno argilloso locale: quindi l’ambiente, che potrebbe essere alterato con metodi indiscriminati di costruzione, è salvaguardato. Per conservare le risorse idriche e difendere flora e fauna, c’è la sorveglianza da parte del personale dell’acquedotto.

La mia tesi si inserisce
fra gli studi tecnico-progettuali di soluzioni ingegneristiche, con la caratteristica di riguardare una realtà già operante. Ma per il progetto esecutivo della diga sull’Ura e per la natura stessa dell’acquedotto altre indagini sono possibili.
Per una corretta valutazione della diga, all’interno dell’«acquedotto», occorre riferirsi alla nozione di sviluppo, che prevede un livello più alto di benessere. Altri obiettivi significativi sono: la riduzione di fatica per l’approvvigionamento d’acqua, una migliore nutrizione, l’aumento dell’igiene. Sono traguardi che favoriscono qualità di vita, libertà personale, identità culturale, educazione.
Prima dei 250 chilometri di tubazione dell’acquedotto e delle tante fontane nei villaggi, molte donne e bambine camminavano persino una giornata per raggiungere le poche sorgenti d’acqua. Oggi, grazie all’acquedotto, il tragitto dura 10 minuti: il tempo risparmiato consente alle donne di dedicarsi meglio alle faccende domestiche e, soprattutto, permette alle bambine di frequentare la scuola.

Oggigiorno,
con il radicale mutamento dei rapporti tra i popoli, occuparsi del sud del mondo è una scelta quasi obbligata: basti pensare che il sud rappresenta i 2 terzi dell’umanità, indipendentemente dal fatto che siano ricchi o poveri.
Ma il sud non può più essere considerato una realtà a cui «dare» aiuto, bensì un soggetto con il quale «cornoperare». Calati in tale prospettiva, trovare soluzioni per i 2 terzi dell’umanità conduce al miglioramento di vita anche del restante 1 terzo, ossia di tutti noi.
L’acquedotto di fratel Giuseppe e della sua gente nasce da senso di responsabilità collettiva, oltre che da solidarietà evangelica: la diga sull’Ura l’accresce. Questo lavoro missionario è una strada percorribile per eliminare la piaga della povertà e, come è stato affermato al vertice ECOSOC (1999), è anche una via per servire la pace tra i popoli: pace che è «l’altro nome dello sviluppo».
Quando lo studio riguarda un bisogno basilare come l’acqua, la ricerca scientifica diventa anche un «riappropriarsi» dei valori che «sorella acqua» esprime, cioè semplicità, trasparenza, purezza senza infingimenti. Valori incarnati da tanti bimbi, come Noaga, che tuttavia soffrono la mancanza d’acqua.
Acqua che invece c’è, e per tutti.

Daniele Giolitti




I bambini della pace

Con alcuni studenti veneti e all’Assemblea dei popoli di Perugia, per rivendicare vita e serenità.

M onica Godoit, 17 anni, vive a Bogotá e con altri coetanei anima il Movimiento de los niños por la paz: un’organizzazione che si sforza di estirpare le radici culturali della violenza che sconvolge la Colombia. Sorto nel 1996, in quattro anni il Movimiento ha mobilitato qualche milione di minori, dai 6 ai 18 anni.
Insieme a Nydia Quiroz, responsabile in Colombia del Programma dell’Unicef «pace e diritti dei bambini», Monica è stata ospite del comune di Nervesa della Battaglia (TV). Ha poi partecipato alla III Assemblea dell’Onu dei popoli, svoltasi a Perugia il 23-25 settembre 1999, e alla marcia per la pace e giustizia «Perugia-Assisi» del 26 settembre.
Nydia e Monica sono state ospiti del nostro comune, anche perché a Nervesa opera padre Angelo Casadei. Questi ha studiato teologia a Bogotá, è stato animatore della campagna «Non di sola coca» e cornordina i «Laici Missioni Consolata» (Milaico).
Negli scorsi anni Milaico ha organizzato alcune esperienze missionarie in Colombia, ponendo i presupposti per un incontro con los niños por la paz.

Monica, dolcissima
nel suo spagnolo, ha incontrato gli studenti delle scuole medie di Nervesa e Giavera, mettendoli bruscamente a confronto con la tragedia quotidiana dei loro coetanei colombiani. Ragazzi che non possono giocare all’aperto per paura di sparatorie e sequestri, arruolati con forza nelle formazioni guerrigliere, straziati da mine, sfollati con le loro famiglie per non creare ostacoli al lucroso traffico della cocaina e degli smeraldi.
I bambini, fino al 1996, non hanno avuto l’opportunità di far sentire la loro voce; oggi, grazie al Movimiento, sono diventati interlocutori del presidente Andrés Pastrana, del segretario dell’Onu Kofi Annan, dei premi Nobel per la pace Rigoberta Menchú e José Ramos Horta. Bambini che, a loro volta, sono candidati al Nobel.
L’arma vincente del Movimiento è la fantasia. Nel 1996 i bambini si sono imposti all’opinione pubblica inventandosi una autentica consultazione elettorale, con la quale oltre 2.700.000 minori hanno impegnato il governo colombiano nell’attuare i diritti sanciti dalla Dichiarazione universale del fanciullo. Mette i brividi pensare che i diritti più invocati (perché più calpestati) sono quelli alla vita e alla pace.
L’esempio è stato contagioso. Alle elezioni del presidente del 1997 ben 10 milioni di adulti hanno accettato di inserire nell’ua, insieme alla scheda ufficiale, un foglio verde che invocava la pace e lo stop all’uso dei minori nei conflitti. Nel clima di intimidazione che si respira in Colombia, l’opinione pubblica non aveva mai così massicciamente detto no alla violenza.
Negli incontri a scuola e in quello pubblico a Treviso, Monica ha ripetuto che i mali del suo paese sono la paura e l’indifferenza. La paura è dei colombiani, nella stragrande maggioranza stanchi della situazione, eppure incapaci di contrastare chi della violenza ha fatto un business; l’indifferenza è del nord del mondo, che fa troppo poco per aiutarli ad uscire dal vicolo cieco.
L’innocenza dei bambini costringe al confronto con verità scomode. Monica ha paragonato la Colombia ad un dedito machucado, un ditino del piede calpestato. La sofferenza dovrebbe ripercuotersi sul corpo intero, ossia sulla comunità internazionale. Invece, inspiegabilmente, il ditino soffre da solo!

Con Gianni De Lorenzi,
ho accompagnato Monica a Perugia per la III Assemblea dell’Onu dei popoli, incentrata su «Il ruolo della società globale e delle comunità locali per la pace, l’economia di giustizia e la democrazia internazionale».
L’Assemblea ha offerto spunti preziosi di riflessione sul ruolo che anche un piccolo comune può assumere nella cooperazione decentrata. Dall’Afghanistan al Tibet, dal Sahara spagnolo al Nicaragua, dalla Cecenia all’Algeria, oltre 140 rappresentanti (insegnanti, sindacalisti, attivisti per i diritti umani, amministratori, ecc.) hanno presentato uno spaccato desolante del fardello di ingiustizie che il mondo porta con sé. Partecipando al gruppo di lavoro sulla pace, abbiamo trovato conferma alle nostre perplessità sull’intervento della Nato in Kosovo.
Oggi le guerre sono prevalentemente intee agli stati. Guatemala e Rwanda (per citare due casi) insegnano che imporre il «cessate il fuoco» con la forza non basta.
Indispensabile è il processo di pacificazione nazionale, stabilendo la verità su quanto è successo e individuando le responsabilità. È un processo lungo e difficile (che nemmeno il Sudafrica di Mandela ha del tutto completato), che non ha nulla a che fare con i bombardamenti indiscriminati descrittici dal sindaco di Panchevo (Serbia).
Non sono mancati segnali di speranza: ad esempio, vedere il rappresentante di Timor Est e quello dell’Indonesia condividere ogni momento della manifestazione.
Monica ha seguito i lavori dell’Assemblea con grande responsabilità. Con l’orgoglio di un padre, l’ho sentita affermare le sue ragioni davanti al presidente della Camera Luciano Violante e ai delegati inteazionali. Ha ottenuto emendamenti al documento finale, da presentarsi all’Assemblea generale dell’Onu, affinché sia chiaro che i bambini non rappresentano solo il futuro, ma anche il presente. Pertanto rivendicano subito un’esistenza dignitosa.

Nydia Quiroz ha vigilato
su Monica come una mamma, verificando la destinazione delle interviste che la ragazza ha rilasciato, perché «in Colombia chi lavora per la pace diventa un obiettivo militare».
Nydia, psicologa, in passato si è occupata dei bambini coinvolti nei conflitti del Mozambico e Salvador. Passeggiando fra i viottoli di Assisi abbiamo parlato, in stridente contrasto con la pace circostante, dei bambini sconvolti per avere assistito al massacro della propria famiglia, utilizzati come cavie per scoprire i campi minati o costretti ad uccidere per dimostrarsi utili alla guerriglia, e non essere a loro volta uccisi.
Nydia ha illustrato le tecniche di riabilitazione: si impiegano giocattoli e disegni per dar sfogo all’angoscia nelle coscienze dei ragazzi. Ma esistono coetanei che, in mancanza di strutture e personale specializzato, si improvvisano essi stessi terapeuti per confortare i traumatizzati.
Abbiamo scelto per il commiato la sacralità di san Damiano, con la speranza che la pace di «Francesco» possa giungere anche in Colombia.
Monica ha ripetuto la richiesta fatta ai ragazzi di Nervesa e Giavera: «Non lasciate che la Colombia sia dipinta solo in termini di violenza e narcotraffico. Aiutateci a testimoniare che c’è anche tanta gente meravigliosa che vuol vivere in pace».
Buena suerte niña.

Francesco Tartini




L’Africa di Mariana e Upendo

A che serve il mercato?
Perché la bimba se n’è andata? La fiala…

In Tanzania ho trascorso poco più di un mese: due settimane con i missionari della Consolata a Makambako, a nordest del Lago Malawi, e tre settimane a Mtwango, a 15 chilometri da Makambako.

Makambako, 13 settembre 1999
«A padre Giuseppe Inverardi, che partiva definitivamente da Makambako per Iringa, ho affidato mie notizie da comunicare in Italia via fax. Il missionario ci mancherà: è avvenuto tutto troppo in fretta. Buono, gentile, disponibile, colto, lungimirante, soprattutto umile. La sua partenza ha lasciato esterrefatto anche il vicario del vescovo di Njombe che, informato del nuovo incarico di superiore dei missionari in Tanzania, ha scosso la testa. Come dire: non ci voleva proprio per la diocesi.
I missionari sono così: seminano per lasciare il raccolto ad altri. Di loro c’è veramente bisogno in Africa.

17 settembre 1999
Questa mattina sono andato in un villaggio, per visitare la madre malata di un benestante. Non c’era. Incongruenze: fuori ce ne stavano mille altri!
Alla missione ho sgranato un po’ di mais; quindi un giro al mercato fra la gente che non può permettersi di comprare. Allora che ci sta a fare il mercato? Forse è solo per pochi. I tanzaniani mangiano una volta al giorno. Un po’ di ugali, la polenta bianca locale, con qualche erba. Spesso per indigenza si salta anche questo unico povero pasto.

Mtwango, 21 settembre 1999
Alle 10 viene a prendermi padre Tarcisio, missionario fidei donum di Brescia, da 23 anni in Africa. Ha 52 anni e sprizza energia da tutti i pori. Dopo 25 minuti di macchina, arriviamo alla missione. Non ho il tempo di riporre le valigie. Già mi attendono al dispensario.
Qui opera un «medico», con studi di praticandato in medicina lunghi (si fa per dire) due anni. Dei vari casi che via via succedono mi chiede gentilmente in inglese cosa io ne pensi, o meglio quale sia il mio parere. Incomincia così a prendere appunti e a prescrivere come io suggerisco; non essendoci però energia elettrica (cosa molto frequente da queste parti), non è possibile guardare al microscopio e le diagnosi di malaria vengono interpretate clinicamente.
Padre Tarcisio insiste perché io veda quanto prima Mariana, una bimba di quattro anni accompagnata da una sorellina maggiore. Vengono a piedi scalzi da un villaggio distante circa 20 chilometri… Mariana è in pessime condizioni: grave denutrizione, disidratazione, febbre, tosse. Dimostra un anno di vita. Probabilmente malaria e TBC insieme.
Il problema da risolvere subito è la reidratazione. Nelle esili braccia di Mariana prendo una vena, che si rompe subito. Riprovo, con lo stesso deludente risultato, mentre sister Fausta provvede zelantemente a rasare le regioni temporali per evidenziare altre vene. Anche qui fallimento.
La reidratazione sarà tentata per bocca domani. Però la sorellina riporta Mariana alla capanna del villaggio. È un caso davvero urgente. Ma ora chi la trova?
Alle 14 finisco con i malati del dispensario. Un boccone, e visito quelli che attendono in missione. Saranno una cinquantina di bambini tra i 10-15 anni.
Non mi sono mai sentito così bene. Difficile da spiegare: occorre solo provare. Per carenza di medicinali, arrivo a sottodosare i farmaci, ma qualcosa mi dice che tutto andrà bene.

27 settembre 1999
Upendo (in lingua swahili significa amore) sta morendo. È una donna di 34 anni, madre di cinque figli; il marito è deceduto quattro anni fa per Aids. L’ho vista ieri nel mio giro fra gli ammalati più poveri dei villaggi limitrofi. Non esiste macchina o altro mezzo che non siano i piedi a portarti da loro. Ti inoltri per strade e sentirneri sterrati, che sanno veramente di primitivo.
Questa mattina sono riusciti a portarla al dispensario: è cachettica, ha dolori addominali con vomito, diarrea, febbre, candidiasi orofaringea, disidratazione. È un Aids terminale. Sul suo volto si interpretano ancora lineamenti gentili, ma in quel letto (uno dei quattro disponibili) è un povero cristo in croce. Fleboclisi glucosata, antidiarroici, antiemetici, antimicotici, antidolorifici: è tutto quello che riesco fare con i pochi farmaci disponibili.
Dalle 8.30 alle 15.30 ho visitato ininterrottamente, mentre in serata vengo a sapere da padre Tarcisio che il piccolo dispensario di Mtwango non è mai stato così affollato come in questi giorni di mia presenza… Mangio qualcosa di scotto, un po’ di erbe africane e too da Upendo. Sono scomparsi il dolore e la diarrea, ma il vomito persiste.
Quanto vorrei avere almeno una fiala di plasil da mettere in flebo!

Andrea Valieri




Emozioni a valanga

Dalle ragazze cieche di Meru ai bambini orfani di Matiri, con una preghiera a Morijo. Tutto in Kenya.

LA SCALATA DELLE CIECHE

D esideriamo parlare del coraggio con cui alcune ragazze del Kenya si conquistano ogni giorno il proprio futuro. Nella loro «scalata» devono vincere sia l’handicap fisico sia la risposta che ad esso dà una società poco tollerante. In questo sforzo le giovani sono appoggiate da una struttura fondata dalle missionarie della Consolata e poi ceduta ad un ordine locale.
Le ragazze provengono per lo più da contesti agricoli, dove la donna è il motore della famiglia, responsabile del lavoro nei campi e della casa, e dove più radicato è l’attaccamento a questi schemi. L’handicap è la cecità, a volte parziale a volte occorsa dopo la nascita.
La struttura che accoglie le ragazze è l’Irene Centre for the Blind nel Meru, regione con una forte diffusione della cecità e dell’albinismo. Il Centro provvede alle giovani una professione artigianale con lavoro al telaio: è la partenza per una attività sartoriale in proprio, che permette loro di guadagnarsi indipendenza.
Le ragazze lottano contro la scarsa accettazione della loro «diversità» da parte della società locale e si impegnano a costruire una loro identità attraverso strumenti che la cultura tradizionale non offre, di cui è promotore l’Irene Centre. Considerate inadatte ad assolvere compiti femminili (anche se il loro avvicendamento nelle faccende domestiche del Centro conferma il contrario) e, quindi, private di un ruolo all’interno della famiglia, le cieche rappresentano un peso per quest’ultima, che, quando le accetta, stenta però a trovar loro stimoli ed occupazioni. La comunità locale le allontana e non le aiuta a guadagnarsi uno spazio che non sia la strada.
Scarsamente integrate nelle occupazioni familiari e con poche possibilità di partecipare alla vita della comunità che le rifiuta, le ragazze rischiano di rimanere prive di compiti e responsabilità. È come se lo stato tradizionalista, di cui fanno parte, negasse loro la cittadinanza con diritti e doveri.
È necessario che un’altra entità, più progressista, «riconosca» le giovani, attribuendo loro una nuova identità. È la sfida costante che si gioca all’Irene Centre con lo sforzo delle ragazze. Se così non fosse, non si riuscirebbe a creare una sinergia tra formazione e costruzione di professionalità, una nuova identità e indipendenza. Ma lo sforzo delle ragazze è tutt’altro che scontato:
– sono contagiate da dubbi sulla validità del percorso formativo intrapreso e le reali possibilità di successo, quando ancora soffrono per la cecità;
– vivono nell’apprensione di non disporre di sufficienti risorse finanziarie per avviare una attività in proprio, mentre manca l’appoggio familiare;
– temono di non guadagnarsi autonomia, essendo il futuro carico di ostacoli.
In altre parole: sono colte da sconforto. Costruire e immaginare un futuro diverso è per loro veramente difficile, essendo così poco protette, riconosciute e ascoltate in un mondo arcaico!
V orremmo sperare che la nostra presenza all’Irene Centre abbia rincuorato un po’ le ragazze circa l’importanza della loro scelta. Abbiamo partecipato alla vita della comunità (dal laboratorio alla cucina, dal tempo libero alla preghiera, al canto) e condiviso felicità, tristezze, desideri. Chissà che qualcuna non si sia detta: «Se costoro sono giunti fin qui da molto lontano… ci sarà pure un motivo!».
Ci auguriamo che il nostro messaggio si riverberi su queste amiche. Riteniamo importante l’investimento che stanno facendo su se stesse. Ed è indispensabile incoraggiarle e credere, anche da parte nostra, nel «loro progetto per il loro futuro». In cambio abbiamo ricevuto affetto e gioia; ci hanno coinvolto nella loro vita; con il canto ci hanno rigenerati…
Siamo tornati dal Kenya con delle grosse valigie. Al check in di Nairobi nessun addetto aeroportuale le ha viste. Ci siamo stupiti. Eppure non erano mica nascoste. Solo che erano zeppe solo di… emozioni e progetti.
Chiara e Sabrina, Paolo e Luigi

È SCONVOLGENTE CHE…

P er anni ho sognato l’Africa. Quest’anno i miei piedi hanno toccato il suolo del Kenya. Toata in Italia, ho ascoltato alcuni ragazzi che parlavano dell’Africa un po’ romanticamente: «Tutto è bello, i missionari non ti hanno fatto mancare nulla, la gente è meravigliosa e sembra che persino i coccodrilli siano buoni».
Per me non è stato così. In Africa c’è fame e i coccodrilli… Per raggiungere un qualsiasi luogo, si deve camminare ore a piedi sotto il sole; e non solo una volta, come è stato per me, ma per tutta la vita. Eppure si sa ridere e ballare.
È sconvolgente che qualcuno rischi di morire per una ferita, perché l’ospedale più vicino è a due ore di buche. È sconvolgente trovarsi davanti una «mami» all’undicesimo figlio in grembo. È sconvolgente la fierezza della gente, nel suo modo di camminare o guardarti, soprattutto se non ti conosce. A volte è anche un po’ timorosa.
Non ho incontrato folle di persone che ti corrono incontro a braccia aperte dicendo: «Fa’ come se fossi a casa tua» (esclusi i missionari: padre Orazio Mazzucchi e Rita Drago, a Materi, sono stati accoglientissimi). Ho incontrato persone difficili da conquistare, ma anche oneste da diventare amiche quando si è condiviso qualcosa, e non prima. Ho visto individui gentili, nella speranza che dall’Italia mandassi loro dei soldi per aiutarli a studiare. Se potessi lo farei, ma lavoro per studiare anch’io.
P erò, quando me ne sono andata, avevo voglia di piangere salutando Peter, che non smetteva di abbracciarmi. Peter è un infermiere del dispensario, che ho aiutato durante gli screening dei bambini; parla un inglese tanto osceno che ho impiegato una settimana per capire foreign body (corpo estraneo).
Porto nel cuore gli infermieri con i quali si andava a «fare le cliniche»: cioè visitare i villaggi dove le mamme portano i bambini perché siano pesati e vaccinati. Ho in cuore Murugi e Kariungi, orfani di mamma alla missione… Ho imparato a cambiare i pannolini e addormentare (impresa non facile) un pupo stanco. Nel cuore c’è pure Beard, il cuoco, che la mattina insegnava a me e a Francesca, mia cara compagna, delle frasi in kimeru, la lingua degli ameru. Vivono anche nel Tharaka: una zona povera, perché manca la possibilità di utilizzare l’acqua dei fiumi.
Non aver acqua a qualsiasi ora, lavarsi con quella fredda in bacinelle… forse non è molto faticoso se ci si adatta. Ma se questo dura una vita?
È duro per la prima volta nella vita sentirsi «il diverso», che i bambini guardano incuriositi, e non solo essi. La nostra pelle è ruvida; stupiscono le vene visibili e bluastre dei polsi e i nei. Incredibile è la curiosità della gente: se potesse, ti si infila in tasca per vedere cosa c’è.
È sconvolgente osservare la gente che non fa nulla e, soprattutto, capire che fare qualcosa o non far nulla cambia poco le cose; sconvolge vederla seduta ad aspettare e aspettare, senza lamentarsi. Sconvolgono le donne che partoriscono senza urlare. Sconvolgente è la colazione all’Hilton Hotel: costa un quinto dello stipendio di un infermiere.
Ma è importante adattarsi alle abitudini locali, perché hanno valore anche le cose che sembrano un gioco: contrattare quando si fa la spesa, per esempio, vuol dire rispettare la persona (pagare una cosa tre volte il suo valore significa, più che farsi beffare, ostentazione).
Alcuni dicono di avere sentito in Africa la presenza di Dio in modo più forte. Però Dio è presente in Kenya come in Italia: lo trova chi vuole incontrarlo, non importa il dove. Forse in Africa è un po’ più facile fare silenzio, quel silenzio indispensabile per ascoltare e tanto facile da smarrire tra tivù e discoteche.
L’Africa mi ha insegnato l’apertura. È l’unico modo per capire e accettare gli altri e forse anche se stessi e Dio.
L’Africa è colore: il rosso mattone della terra polverosa che ti rimane ovunque; l’azzurro del cielo che sembra di giorno più grande e di notte disordinato per le stelle irriconoscibili; il bianco delle nuvole; il rosso e giallo dei frutti e fiori. È sapore: mille gusti diversi, prima strani e poi squisiti (mango, papaia, passion fruits, margarina, chai, cioè il tè col latte). È suono: processioni nottue di circoncisori, canti, tamburi, passi di ballo, parlare sussurrato e veloce, voci di bambini.
L’Africa è odore: così forte all’inizio che dà fastidio. È nell’aria, sulle persone, sui vestiti, su di te. L’odore intenso diventa poi un compagno, un amico di cui senti la mancanza… A casa mia c’è una stuoia su cui ho riposto gli oggetti portati dal Kenya. Di tanto in tanto afferro una borsa: infilo il naso per risentirne l’odore.
Erika Cravero

FAME E SETE

N el mese trascorso a Morijo abbiamo avuto fame e sete: non di lasagne al foo o di un bicchiere di pinot, ma di amore, silenzio, gioia, solidarietà, fratellanza.
Ora i nostri sensi sono diventati più acuti. Il cuore ricerca purezza. La mente si prefigge solidarietà. E la nostra persona ne esce cresciuta, ma anche perplessa su «chi» siamo e il «perché» della vita. Siamo un granellino di polvere, ma anche un fiore dall’infinita fragranza.
A Morijo abbiamo visto, ascoltato, parlato e compreso di più il Signore.
Colui dove il niente è tutto,
la semplicità è ricchezza,
il silenzio è parola;
Colui che risiede la nostra anima.

AA.VV




DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZISotto tutte le latitudini

PAGINE BIANCHE
Bellaria (RN), 13 settembre 1998. Al termine del Convegno missionario nazionale, il vescovo Renato Corti esortava a leggere «il libro delle missioni», per conoscere ciò che molti fratelli compiono per il vangelo, a servizio dell’uomo.
«Il libro delle missioni» è gli Atti degli apostoli. Un libro speciale, perché incompiuto, con tante pagine bianche messe a disposizione di chi voglia raccontare la sua fede in Colui che si è fatto uomo, ha patito, è morto e ora resta con noi sino alla fine dei tempi. Molte di queste pagine sono state riempite dai missionari e missionarie della Consolata: costituiscono la rivista Missioni Consolata, giunta alla bella età di 100 anni.

o C’era una volta
L’intuizione (100 anni fa davvero anticipatrice) fu del beato Giuseppe Allamano e del suo geniale collaboratore Giacomo Camisassa. Nel gennaio 1899 fondarono a Torino il mensile La Consolata, organo dell’omonimo santuario, di cui erano rispettivamente rettore e vicerettore.
L’Istituto Missioni Consolata (il capolavoro dei due preti torinesi) era ancora in gestazione, ma già se ne intravvedevano le premesse. Il periodico, infatti, si proponeva di informare sulla devozione alla Vergine Consolata: in Piemonte, specialmente, dove esistevano chiese e cappelle che portavano il suo nome. «Daremo notizie (anche) – scriveva il mensile – sulla devozione alla Consolata nel resto d’Italia, in Francia, Inghilterra e nelle Americhe dove i nostri emigrati portano questo tesoro di pietà e di speranza» (La Consolata, numero 1, 1899).
Questa apertura al mondo si ampliò grandemente con la fondazione dell’istituto missionario. La rivista seguirà il cammino dei missionari della Consolata, fino a occupare la maggior parte delle pagine d’ogni numero. Attraverso testimonianze e reportages, i lettori saranno coinvolti nell’opera missionaria: attratti dall’Africa, dai suoi popoli, dai loro usi e costumi, dalla cultura e religione.

o IL PONTE SPECIALE
Dopo la morte del beato Allamano (1926), data la crescita dell’istituto, si giunse ad una opportuna distinzione. La Consolata si trasformò in due pubblicazioni:
Il santuario della Consolata
e Missioni Consolata.
Ognuna si rivolgeva al proprio campo d’azione. Tuttavia la comune origine contagerà sempre ambedue i giornali e manifesterà il valore del legame tra la Consolata e la missione.
I missionari saranno un «ponte»: porteranno nel mondo la Consolata e, con lei, la fede ricevuta nei paesi di origine, e a questi faranno conoscere i popoli presso i quali operano.
L’Allamano comprese l’importanza dell’informazione che crea scambio, stima e solidarietà: e, fatto significativo per quei tempi, presentò l’abbonamento alla rivista come un mezzo per «aiutare le missioni». Foì i missionari di penna e macchina fotografica, per riprendere e comunicare ciò che incontravano. A ognuno chiedeva notizie sulla salute, le impressioni di viaggio, le difficoltà, l’andamento della missione. E ancora: informazioni sui costumi locali, la geografia, l’etnografia, la storia naturale, nonché conversazioni, detti e proverbi della gente.
L’Allamano aggiungeva: «Mi è impossibile enumerare ciò che dovete dire: vi basti ricordare ciò che fanno le cronache dei giornali e le minute descrizioni che danno dei fatti che succedono».

o UN OCCHIO BENEVOLO
Missioni Consolata, «il libro delle missioni», ha fatto conoscere le genti. Questo non tanto per soddisfare la curiosità dei lettori, ma per farli crescere nell’apprezzamento dei popoli. Non era poco in un tempo di colonialismo, con il senso di superiorità dell’occidente (italiani non esclusi) sul resto del mondo.
E non è poco oggi. C’è bisogno di uscire dai pregiudizi che impediscono la convivenza tra persone e gruppi di cultura diversa.
Fin dall’inizio la rivista ha presentato in modo positivo i popoli presso i quali i missionari lavoravano. I galla (oromo) dell’Etiopia, ad esempio, sono descritti: «gente di carattere schietto, portamento dignitoso e ospitale con lo straniero, facile alla compassione, energicamente fiera, di mente pronta e sveglia». Così i kikuyu, definiti «bella razza, valenti fabbri; sotto la pelle nera hanno un cuore buono e sentire delicato».
I missionari hanno proseguito nella linea tracciata dal fondatore e, nell’arco di 100 anni, la loro rivista ha passato in rassegna i popoli: la loro storia, il sofferto cammino per l’indipendenza, lo sviluppo e la cultura.
Nello stesso tempo i missionari hanno narrato il cammino del vangelo: la nascita e crescita di nuove chiese, frutto della loro evangelizzazione, fino alla maturazione. Anche in questo le indicazioni dell’Allamano erano precise: «Riferire in qual modo accolgono le vostre parole, quali impressioni fanno su di essi; le interrogazioni e obiezioni che vi fanno sulle verità della fede, come accolgono gli insegnamenti religiosi che avete loro fatto».

o FELICI ANCHE IN TERRA
L’Allamano mirava all’«elevazione» dei popoli, per renderli artefici del loro benessere. Il principio ispiratore era: lavorare alla conversione al vangelo, promuovendo lo sviluppo sociale. «Fateli felici anche in terra» ripeteva ai missionari. Una felicità frutto di fede, maturità, responsabilità, lavoro.
Il vangelo è promozione, soprattutto dei poveri e degli indifesi, di coloro ai quali vengano negati i diritti fondamentali.
L’Allamano mandò i missionari a portare «consolazione», che si traduce in presenza, solidarietà, impegno per la giustizia e la pace, sviluppo e liberazione. Questo avviene anzitutto con l’annuncio del vangelo, che suscita il senso di dignità in ogni figlio di Dio, aiuta a «essere di più» anche se «si ha di meno». Ogni popolo ha la capacità di assumere le proprie responsabilità.
L’attenzione all’umano era una caratteristica dell’Allamano, manifestata in ogni ambiente in cui operava. Aveva un atteggiamento che il biografo, Domenico Agasso, ha espresso con «immersione». A Torino era ricercato per l’acutezza delle analisi e la sicurezza dei consigli, perché sapeva immedesimarsi nelle situazioni e farle sue.
Lo stesso fece con l’Africa lontana e a lui sconosciuta. Imparò a conoscerla dai missionari: e pervenne a una comprensione dei problemi con la sicurezza di chi si è preparato con anni di ricerca specifica, proprio perché vi si «immergeva».
L’Allamano è l’uomo della missione modea, con una straordinaria capacità di vivere le situazioni lontane, senza tuttavia muoversi dalla sua terra… «sempre ruminando i problemi di casa sua e dell’Africa» (Agasso).

o IN FESTA
In questo stile è stato celebrato il centenario di Missioni Consolata, che il 24 ottobre 1998 ha riunito a Torino personalità di spicco per discutere un tema di attualità:
Il sud del mondo fra giudizi e pregiudizi.
Ne è scaturito un convegno di alto livello culturale, secondo l’indirizzo che la rivista ha sempre cercato di avere.
La festa è stata pure un’occasione per ricordare chi ha profuso con professionalità le migliori energie nella redazione della rivista: Giacomo Camisassa, Filippo Perlo, ecc. Senza scordare gli ultimi direttori e redattori: sono missionari che lavorano al computer e navigano in internet, affiancati da laici competenti e appassionati.
Anche la loro è «missione», perché diffonde l’amore ai popoli, sollecita solidarietà, crea amicizia. Sotto tutte le latitudini.
p. Gottardo Pasqualetti
superiore dei missionari della Consolata
in Italia

Francesco Beardi




DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZIUn grazie da…

Cari amici, il saluto del sindaco
Valentino Castellani, che non ha potuto partecipare a questo Convegno. Oggi celebrate i 100 anni della rivista Missioni Consolata. Torino guarda con grande ammirazione all’opera che i missionari della Consolata hanno compiuto e compiono in tanti angoli della terra. Guardiamo alla vostra attività con quell’orgoglio che fa di Torino un luogo di santi, di esperienze significative, di esempi di carità che, in forma rinnovata e feconda, realizziamo in Italia e, soprattutto, nel mondo.
In particolare, è importante la vostra attività per la testimonianza che offrite anche alla nostra città. Le parole del canto «Un’altra umanità» sono emblematiche di uno stile di vita, di un modo di essere cittadini prima ancora che missionari. Cittadini sobri, responsabili, consapevoli che il destino di ciascuno di noi è un destino comune.

Stefano Lepri,
assessore ai servizi
sociali di Torino

Io sono a Torino
solo da un mese, anche se conosco la città per precedenti esperienze di lavoro a La Stampa. In questo mese ho avuto incontri che mi hanno fatto capire come il tema del vostro Convegno, «Il sud del mondo fra giudizi e pregiudizi», abbia a Torino una sua specificità e articolazione. È anche un problema che divide la città. Da questo punto di vista ritengo che il giornalismo, un buon giornalismo, possa fare molto per contribuire a capire, a sviscerare «giudizi e pregiudizi», affinché tutto sia affrontato in modo più disteso.
Ne ho parlato anche con le autorità cittadine: il sindaco, il prefetto, il procuratore. Ebbene, se La Stampa può fare qualcosa, assicuro la mia disponibilità.

Marcello Sorgi,
direttore de La Stampa

Pochi giorni fa a Roma
ho partecipato ad un dibattito sul narcotraffico, in occasione dell’apertura della mostra «Coca e maloca». Alessandro Calvani, delle Nazioni Unite, diceva che siamo arrivati ad un punto in cui deve essere stabilita un’etica delle relazioni inteazionali; non per un generico buonismo, ma perché l’etica è l’unico strumento per un riequilibrare le sorti di un mondo socialmente distorto.
Qualcuno si interroga su che cosa il Nord del mondo possa fare per il Sud. Io mi domando: che cosa il Nord deve restituire al Sud? Il colonialismo e il neocolonialismo impongono delle restituzioni. È da queste realtà che prende corpo una «nuova etica» nelle relazioni inteazionali. S’impone un dovere di restituzione.

Monica Maggioni,
giornalista Rai

Ha stupito molti la notizia,
de La Voce del Popolo, che oggi in Italia operano oltre mille sacerdoti stranieri. Io quest’anno ho firmato quattro nomine di vicari, cornoperatori di nostri parroci: sono preti che arrivano dall’Africa o dal Sudamerica. Poco fa si parlava di «restituzioni». Noi, invece, continuiamo a ricevere dal Sud del mondo. Questo è molto significativo.
Nel Concilio ecumenico vaticano II si è parlato di chiesa apostolica, cattolica… e l’aggettivo «romana» è stato tolto. Credo che sia giusto. La chiesa è apostolica, perché voluta da Cristo; ma non deve essere necessariamente romano-italiana per insegnare la nostra cultura a tutti gli altri.
Quando, 100 anni fa, nasceva il bollettino La Consolata c’era un creatore, il beato Giuseppe Allamano, che fin dai primi numeri prospettava una missionarietà tipica del tempo, forse non molto profetica. Oggi i nipoti e pronipoti dell’Allamano, che hanno preso dalla Consolata tutta la forza per essere missionari, stanno dimostrando che nella chiesa c’è profezia. Guai a noi se ci riteniamo gli ultimi maestri della storia e guai a noi se, come italiani, cadiamo nel «pregiudizio» di dover andare ad insegnare agli altri. Un grazie a Missioni Consolata che ce lo ricorda continuamente.
Ma la Vergine Consolata resta la maestra di tutti.

Franco Peradotto,
provicario di Torino

aa.vv




DOSSIER GIUDIZI E PREGIUDZITu pensi e io penso. Ma chi ci crede?

Dunque il 24 ottobre 1998 la rivista
«Missioni Consolata» ha compiuto 100 anni.
L’anniversario è stato celebrato a Torino con il Convegno«Il Sud del mondo fra giudizi e pregiudizi».

I relatori:un economista di Torino,
una pedagoga del Brasile,un esponente
della Comunità sant’Egidio (Roma),
un opinionista de «La Stampa»,
un rettore di università (Mozambico).
Offriamo una sintesi dei loro interventie del dibattito
con il pubblico.

Daniele Ciravegna,
preside di «Economia e commercio» (Torino)

I CIRCOLI del VIZIO

È necessaria una rivoluzione culturale.

C’ è una frattura fra Nord e Sud del mondo, perché il primo è sviluppato e il secondo sottosviluppato. Esiste una soluzione del problema? Si stenta a trovarla, perché nei paesi sottosviluppati «la povertà si autornalimenta».
Siamo di fronte ad una situazione in cui le nazioni povere sono incapaci di produrre beni sufficienti per avere un buon tenore di vita. Quando la bassa produzione pro-capite non permette di ottenere nemmeno il minimo per sopravvivere, è evidente che scarseggino le risorse per gli investimenti.
E, se non si investe o si investe poco, si ottiene pure poco e lo si consuma tutto. Quindi non resta nulla da investire.
Come uscire dal circolo vizioso? Attraverso accordi inteazionali di cooperazione allo sviluppo o l’entrata di risorse per creare investimenti, senza deprimere i consumi interni già bassi.
E come pagare le risorse estee? Con l’esportazione di propri prodotti. Però, così facendo, non si risolve il problema: infatti, se non si possono comprimere i consumi interni, c’è poco da esportare. Allora l’unico modo per avere risorse è di non pagarle o di non pagarle subito: quindi ottenere trasferimenti di beni e regalie del Nord. Ma anche questo non è facile, perché il Nord non ha acquisito la mentalità di dover contribuire alla sviluppo del Sud, senza chiedere una contropartita. Il Nord si è proposto di destinare lo 0,7% del prodotto interno lordo allo sviluppo del Sud. Ma ciò non avviene.
Stando così le cose, si è imboccata un’altra strada: permettere ai paesi del Sud di acquisire risorse senza pagarle subito, cioè indebitandosi. Qui sorge un ennesimo problema: se il debito non verrà cancellato, fra 5-10 anni bisognerà trovare dei beni per restituirlo.
Se le risorse ottenute vengono investite nel Sud in modo produttivo, fra 5-10 anni esse potranno essere pagate; ma, se il loro impiego è stato improduttivo (si pensi agli sprechi in armamenti), il debito contratto non potrà essere rimborsato al tempo stabilito. Allora si rinvia ancora il pagamento. A questo punto si può intervenire cancellando tout court i debiti: ciò significa regalare i beni, anziché subito, dopo alcuni anni. Qui pure c’è un limite, perché il Nord non è disponibile a investire risorse a fondo perduto.
Come si situa la globalizzazione
economica in questo contesto? Essa ha aspetti positivi e negativi. È positivo che i beni si vendano e si comprino liberamente. Ma questo riguarda soprattutto le economie a un buon livello di sviluppo, che possono cedere beni per acquisie altri. Ne ricavano vantaggi le economie specializzate.
La globalizzazione crea anche difficoltà, perché l’apertura economica internazionale può causare il fallimento delle attività intee non sufficientemente protette. Se globalizzazione vuol dire «liberalizzazione selvaggia», le economie povere ne fanno le spese. Quindi la globalizzazione deve essere controllata.
Questo è evidente nel campo finanziario. Qui gli scambi sono cospicui; ciò di per sé non è negativo, ma lo diventa se si evade ogni controllo delle autorità governative. Gli effetti deleteri si verificano quando ci si avvale dei «paradisi fiscali», che proteggono scambi finanziari illeciti. Esistono «paradisi fiscali» anche nei paesi in via di sviluppo, dove è facile pulire o riciclare i «soldi sporchi» del narcotraffico o del commercio di armi.
Se la circolazione di denaro è senza controlli, è facile corrompere la classe politica. Alcuni narcotrafficanti hanno dichiarato di aver finanziato (furbescamente) sia il partito A sia il partito B: quindi, qualunque partito vinca, per loro va sempre bene.
Senza un controllo super-nazionale (e qui l’Onu è chiamata in causa), si crea una spirale perversa: si ricicla denaro sporco in un paese, si corrompono le persone influenti, per continuare a livelli sempre più alti, complice il sottosviluppo.
Come spezzare la spirale?
Soltanto in un modo: puntare sulla qualificazione morale e culturale della gente. In altre parole: bisogna investire sul capitale umano.
Se consideriamo solo il risultato finale materiale («ho prodotto tanto», «ho prodotto poco»), non abbiamo capito l’essenza della questione: questa non sta nel produrre tanto o poco, ma nel compiere una «rivoluzione culturale». È una rivoluzione fatta di investimenti nella formazione morale, sociale, economica.
Cito il caso della Colombia, con l’azione dei missionari della Consolata contro «la cultura della coca» attraverso le fattorie familiari amazzoniche e il progetto dell’università «Allamano». Il comune denominatore di queste iniziative è: un programma educativo, morale ed economico.
Se non si investe in questo modo, non si pone fine al problema scandaloso del sottosviluppo nel Sud del mondo.

Theí de Almeida Vianna,
rifugiata politica e pedagoga (Brasile)

POVERTÀ o INGIUSTIZIA?

Missionari per i politici.

Io vengo dal Brasile, un paese di 8.511.000 chilometri quadrati e 170 milioni di abitanti. È l’ottava potenza economica del mondo: primo in caffè, frutta e soia; secondo in apparati di aria condizionata; sesto in riso; settimo in oro, ventesimo nel petrolio e gas naturale. Dunque vengo da un paese ricco, dove la gente vive in case con bagni faraonici. E come mai ci sono i bambini di strada? Perché le favelas? Perché la vita vale zero?
Quando il professore Ciravegna parlava del Nord e Sud del mondo, io pensavo al mio paese, dove le zone di ricchezza e povertà sono capovolte: il sud è ricco, mentre nel nord la gente dorme anche per strada e, talora, muore di fame. Allora il Brasile non è sottosviluppato: è un paese ingiusto. Chi ha detto questo è il presidente Enrique Cardoso.
Io, però, devo badare a come parlo, perché sono una rifugiata politica e ho intenzione di ritornare in patria.
Un aneddoto.
Dio, nel creare il mondo, disse ad un angelo: «Fa’ scorrere questo fiume maestoso in Brasile». Poi: «Scarica i terremoti e le gelate in Europa, ma pianta questi alberi maestosi in Amazzonia e riempi la terra di minerali preziosi…». L’angelo interruppe: «Scusa, Signore! Perché al Brasile dai solo cose belle e agli altri cose brutte?». E Dio: «Ma tu non sai che razza di politici io metterò in quel paese!». Ecco perché il problema del Brasile non è la povertà, ma l’ingiustizia.
Giunta in Italia, ho notato tanti pregiudizi, anche perché non si conosce il Brasile. Numerosi italiani dicevano: «Tu sei proprio brasiliana? Non sei mica nera!». Oppure: «Voi mangiate sempre con le mani, senza posate?».
Però perché l’ingiustizia fra nord e sud del Brasile? Perché siamo stati una colonia del Portogallo. Quando il Brasile fu «scoperto», il territorio venne diviso in capitanias, in feudi, assegnati agli amici del re. Ancora oggi esistono baroni, colonnelli e politici discendenti dalle prime famiglie: tutti grandi proprietari terrieri.
La colonizzazione del Brasile è stata diversa da quella dell’America del nord: gli inglesi sono emigrati negli Stati Uniti per restarci; invece i portoghesi sono venuti da noi per arricchirsi e poi ritornare a casa. Qui, sì, che si dovrebbe parlare di restituzione: ridare ai brasiliani ciò che fu preso tanti anni fa.
Dopo la conquista, la schiavitù. I portoghesi obbligavano gli indios a lavorare la terra; ma questi, piuttosto, si lasciavano morire. Così si importarono schiavi dall’Africa.
Il 13 maggio 1888 la regina Isabella abolì la schiavitù, perché non era più economicamente redditizia. Così milioni di persone che, fino a poco tempo prima (pur nella schiavitù), avevano una casa e una porzione sicura di cibo, dal detto al fatto si sono trovati sulla strada. E dove sono finiti? Alcuni hanno iniziato le favelas. Chi le ha viste sa che lì i bianchi sono rari. I residenti in favelas sono i nipoti e i pronipoti degli schiavi buttati sulla strada nel 1888. E dire che, talora, gli schiavi avevano più cultura, erano più civilizzati dei loro padroni!
Il contributo economico che l’Africa ha dato al Brasile è stato alto e se ne vedono ancora i risultati. Ad esempio: chi lavora nelle miniere di Minas Gerais? chi raccoglie il cotone nel nord-est? Sono soprattutto gli afrobrasiliani.

Matteo Zuppi,
esponente della Comunità
di sant’Egidio (Roma)

COOPERAZIONE in PANNE

Investire nella pace.
A proposito dei latifondisti,
ricordate Chico Mendes? Egli era contro la strada transamazzonica, che favoriva Olacyr Ribeiro, il «re della soia». Mendes fu ucciso nel 1988, tre giorni prima di natale. Allora presidente del Brasile era Collor De Mello, discendente ricchissimo dei portoghesi. Il 22 dicembre 1988 la tivù Globo di Roberto Marinho (la cui figlia è stata la prima moglie di Collor) trasmetteva la telenovela Valitudo, tutta centrata sull’uccisione del personaggio Odette Reutman. Il giorno seguente tutti i giornali titolavano: «Chi ha ucciso Odette?». E nessuno si chiese chi avesse amazzato Chico Mendes.
Collor De Mello, Marinho e altri fanno parte dell’élite che continua a sfruttare il nord-est brasiliano, l’Amazzonia… ma nessuno dice niente. Anzi, la moglie di Collor ha preso i soldi dalla «Legione di assistenza» e la cugina è sparita con i soldi delle «merende scolastiche».
Il Brasile ha bisogno di una rivoluzione morale. Per farla, si dovrebbe predicare il vangelo specialmente ai politici. Certo, qualcosa si sta facendo. Ma sono ancora troppi i brasiliani che vivono in «una gabbia dorata»: non vogliono vedere ciò che c’è fuori.
Allora ai missionari della Consolata dico: «Andate pure fra gli indios yanomami. Ma, por favor, andate soprattutto a Brasilia, sede del potere politico!».
Grazie a Missioni Consolata, 100 anni fa c’era un sogno: quello di stabilire un rapporto con il Sud del mondo. Oggi, invece, chi sogna di investire energie umane nel terzo mondo?
L’Europa ha ridotto la cooperazione allo sviluppo ai minimi termini. In Italia la cooperazione, in questi ultimi anni, è passata da 5.000 a 500 miliardi di lire. E buona parte di questo denaro viene gestito da organismi inteazionali, che ne spendono il 50-70% per mantenere il loro «baraccone»!
La crisi della cooperazione allo sviluppo è la spia di un disagio più profondo, dovuto anche alla globalizzazione: il liberismo economico ha schiacciato la cooperazione, specie in Africa. Tuttavia il viaggio di Clinton in questo continente, nel 1998, ha ridestato la speranza. Finalmente l’Africa – si diceva – sta invertendo la tendenza e può risorgere dalle ceneri.
Ci sarebbe un’Africa diversa con nuovi dirigenti; i vecchi dittatori, come Mobutu, sono stati cacciati. Ora si può trattare con le nazioni africane da pari a pari. «Se farete funzionare l’economia, saremo vostri partners»: questo in poche parole il succo del discorso di Clinton in Africa.
Ma si è ricaduti nel pessimismo,
perché i nuovi capi africani fanno la guerra come quelli vecchi: si pensi a Kabila in Congo, all’Etiopia, all’Eritrea…
Questo solleva il problema delle guerre, che in Africa sono tante, interminabili e tragiche: 30 dal 1970 al 1996. Solo nel 1996 erano ben 14 i conflitti aperti su 53 paesi, e da allora ne sono sorti altri, senza chiudee quasi nessuno. C’è però il caso positivo (forse unico) del Mozambico, che ha saputo giungere alla pace.
Di fronte alla guerra, c’è l’incapacità della comunità internazionale di occuparsene. L’azione delle Nazioni Unite in Somalia ha fatto passare la voglia di intervenire nei conflitti africani: sono parole del segretario Kofi Annan in un rapporto al Consiglio di sicurezza nell’aprile 1998. Oggi si tenta di delegare agli stessi africani la soluzione dei conflitti. Ed è giusto, perché gli africani devono essere i primi interlocutori dei loro problemi. Però…
Per l’occidente questo potrebbe essere anche un atteggiamento di comodo, perché consente di lavarsi le mani e di… chiudere «la porta del Mediterraneo». Inoltre tale distacco dai conflitti è ipocrita, laddove ci sono stati condizionamenti economici e militari molto pesanti. Ciò vale per l’Africa, come per tanti paesi del terzo mondo.
Una proposta: per vivere in pace, bisogna investire nella pace anche in termini economici. La pace, come la guerra, è un mercato: bisogna investirci affinché diventi un «affare utile». Le repressioni contro le guerriglie non risolvono i problemi che vi si nascondono.
Una guerriglia, in una situazione di povertà, come può diventare un partito politico legale senza un investimento economico contro il degrado sociale? Missioni Consolata lo sa bene, allorché ha lanciato la Campagna contro il narcotraffico in Colombia.
Investire nella pace
significa rilanciare la cooperazione internazionale allo sviluppo con strumenti efficaci e in una luce nuova, che non sia quella del mero profitto economico! Una cooperazione che investa sulla scuola. Al riguardo la cooperazione italiana è assolutamente latitante. Se non si investe nell’educazione, ci sarà sempre un’Africa incapace di soddisfare le esigenze dei suoi abitanti, molti dei quali fuggono altrove.
Ultima considerazione: un comune destino lega il Nord al Sud, e viceversa. Missioni Consolata, 100 anni fa, ha incominciato a guardare al mondo. Oggi, per non essere un’aquila divenuta pollo, ricorda che la giustizia non è un optional, che la restituzione ai poveri non è buonismo, che il condono del debito estero del Sud non è benigna concessione del Nord. È, invece, una esigenza etica che coinvolge il Nord come il Sud.
Dobbiamo essere grati ai missionari che ce lo ricordano. Essi, inoltre, fanno conoscere il Sud del mondo non con giudizi e pregiudizi, ma nella sua realtà.

Igor Man,
opinionista de «La Stampa»

l’ISLÀM è… LEGGE

Bisogno di «tenerezza».

Teheran, 8 settembre 1978. In Iran regnava ancora lo scià. Ma le manifestazioni contro di lui ammassavano gente a centinaia di migliaia. Quel giorno, in piazza Zhalé, arrivò un colonnello in jeep. Ai giornalisti disse: «Se non ve ne andate, do ordine di sparare. Allora assistei ad una scena incredibile: alcuni iraniani si sedettero davanti alla jeep e dissero: «Fratello, se hai coraggio, spara». Sparò. Seguì una strage di 10 mila persone.
Teheran, 29 gennaio 1979. Incalzato da milioni di persone, lo scià aveva lasciato il paese il 17 gennaio. La rivoluzione, teleguidata da Khomeini, aveva vinto una battaglia, ma non la guerra. La cacciata dello scià aveva incattivito gli ufficiali dell’esercito, perché numerosi soldati se ne tornavano a casa.
Quel 29 gennaio, mentre gli studenti protestavano, passò una colonna di pretoriani ancora fedeli allo scià, sparando alla cieca. Io fui ferito. Qualcuno chiamò un’ambulanza. Intanto gli sgherri continuavano a sparare.
Incuranti dei colpi, umili cittadini crearono attorno a me e a un collega francese una sorta di trincea: ci protessero con i loro corpi. Più tardi, nel lasciare l’ospedale, espressi gratitudine, ma anche stupore, a chi aveva rischiato la vita per uno straniero, un cristiano. Un piccolo borghese rispose: «I credenti sono tutti fratelli». Era una citazione del corano, sura 49, versetto 10.
In pieno materialismo,
quando tutti vogliamo subito la ricchezza facile, esiste ancora gente disposta a rischiare la pelle per uno sconosciuto, solo perché «i credenti sono tutti fratelli».
Mi domando: è possibile il dialogo interreligioso? Esso è voluto da Giovanni Paolo II, specialmente dopo l’incontro di Assisi, nel 1987, di numerosi capi religiosi. Il santo padre insiste molto anche sul dialogo fra islàm e cristianesimo.
Non sono poche le consonanze fra le due religioni. Numerose sure del corano riecheggiano il vangelo: si esalta la verginità feconda della Madonna, si riconosce in Isa (Gesù) un santo profeta. Però qui cade la prima mannaia; eccola nelle parole di Raimondo Lullo: «I saraceni credono che il Signore nostro Gesù Cristo è figlio di Dio, ma non credono che egli sia Dio».
Islàm e cristianesimo hanno in comune il Dio unico, trascendente, creatore, retributore. Ma fra cristianesimo e islàm esistono pure linee nette di separazione. Per il cristiano Dio si è rivelato in Cristo Gesù, redentore dell’umanità, che ha fondato la chiesa come suo prolungamento. Da Cristo proviene ogni grazia.
Per l’islam Dio rivela la sua parola, ma non se stesso. Egli resta inaccessibile. L’unica mediazione tra Dio e l’uomo è il corano, dove l’individuo può accostarsi ad Allah, subie la potenza e godee la misericordia. Muhammad è solo un profeta. Ancora: nell’islam solo i puri, gli ortodossi, hanno la verità. C’è l’imam (capo religioso) e, quindi, l’interpretazione della sharia (legge).
Qui cade la seconda mannaia: la sharia appunto. Se infatti, secondo il corano, i cristiani e musulmani potrebbero trovare un punto d’incontro, la sharia blocca ogni sistema di vasi comunicanti. La sharia è un insieme di regole con le quali i califfi, dopo Muhammad, hanno affermato il loro potere. Gli attuali epigoni dei califfi sono alcuni leaders arabi.
Sulla «sharia»
Hussein Hamed Amr, musulmano egiziano, nel 1987 scrisse: «La maggioranza dei musulmani crede che le disposizioni della sharia siano tali e quali a quanto sancito dal corano e dalla sunna, identiche a come le lasciò il profeta; chi invece studia la storia dell’islam comprende che la sharia è un palazzo, i cui molti piani sono stati costruiti, uno dopo l’altro, lungo i secoli in funzione della società e delle esigenze dei califfi o tiranni».
Di più: in molti paesi islamici, accanto alla giurisdizione ordinaria, se ne è formata un’altra extra ordinem dei sovrani. L’indipendenza del giudice non esiste, limitata dal califfo che incarna il potere giudiziario.
Il difficile dialogo tra islam e cristianesimo ha bisogno di un aiuto, che sta nel creare posti di lavoro e nella comprensione.
Una volta i vu’ cumprà in Europa cercavano di farsi assimilare; oggi, dopo il risveglio islamico, sanno di appartenere ad una grande cultura-religione; chiedono rispetto, la moschea…
E la nostra società non è preparata: da ciò incomprensioni, attriti, razzismi. Ritengo che dobbiamo ripensare il nostro modello di vita e rinunziare a molte presunzioni.
Un grande africano, benché controverso, Ben Bella, mi diceva: «Il Sud del mondo ha anche bisogno di tenerezza». Voleva dire: se non lo comprenderemo, un giorno ci chiederà il conto.

Filipe José Couto,
rettore dell’università cattolica (Mozambico)

RICORDO E DIMENTICO<7b>

L’università della ricostruzione

Oltre trent’anni fa su Missioni Consolata è apparso un mio articolo… Io, che sono del terzo mondo, ho avuto la possibilità di scrivere quello che pensavo. Successivamente, durante la guerra civile in Mozambico, ho espresso delle opinioni scomode; ma la rivista le ha riportate, pur con la nota: «Quanto affermato da padre Couto non corrisponde in tutto al pensiero della redazione». Questo fa onore a Missioni Consolata, perché non ha avuto pregiudizi: è stata ed è una rivista dove tutti si esprimono liberamente.
Ora dovrei parlare dei pregiudizi che, come africano, ho incontrato in Portogallo, Italia, Germania e Inghilterra, dove ho studiato e insegnato. Dico subito che molti africani non concordano su quanto sto per affermare. Però lo dico ugualmente, perché è la mia esperienza.
Io non ho subìto grandi pregiudizi. Se dicessi che nei paesi sopra ricordati sono stato trattato male, direi il falso. Se sono arrivato ad avere una laurea in filosofia e teologia, lo devo all’Italia e Germania.
Però c’è stato un fatto: quando io ragionavo «in un certo modo», mi sentivo dire: «Tu non sei africano!». Quando il mio ragionamento filava e capivo san Tommaso o Kant, molti commentavano: «Tu non sei africano!».
Questo è stato ciò che più mi ha fatto male. Perché? Perché gli uomini e le donne, in ogni parte del mondo, sono uguali. Non esiste una razza superiore o inferiore all’altra. Devo, però, precisare che la frase «tu non sei africano» non nascondeva malizia: gli italiani o i tedeschi la dicevano solo perché erano abituati ad africani che ragionavano in un modo diverso.
Per loro io rappresentavo un’eccezione.
Anche noi, africani,
abbiamo qualche pregiudizio. Da alcuni anni, sulla bocca di tutti, circola la parola «inculturazione». Ma io non la uso più, perché l’inculturazione può giustificare i nostri ritardi… Non lo dobbiamo accettare, se vogliamo contribuire alla costruzione o ricostruzione di una società africana diversa. Se siamo uguali a tutti (e lo siamo!), dobbiamo anche «correre», perché questo fa parte della vita.
Secondo un poeta del Tanzania, «kukumbuka ni wajibu, kusahau ni faraja», che significa: ricordarsi del passato (quindi dei pregiudizi e di quanto si è sofferto) è un dovere; tuttavia dimenticare è un conforto. Noi africani dobbiamo dimenticare che siamo stati sfruttati e colonizzati, per essere più propositivi. E smettiamola di giocare il ruolo dei «poverini», facendo i mendicanti!
Detto questo sui pregiudizi,
parlo dei missionari della Consolata. Secondo lo stile del fondatore, il beato Giuseppe Allamano, essi sono stati molto concreti nell’emancipazione dei popoli. Giunti in Mozambico nel 1926, hanno incominciato l’attività nel Nyassa, nel nord del paese. Oggi qui si è verificato un fatto meraviglioso.
Dopo la guerra civile, chi ha mediato tra il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) e la Renamo (Resistenza nazionale mozambicana)? È stato Brazão Mazula, ex missionario della Consolata. È stato lui il mediatore del processo di pace: don Matteo Zuppi può dirlo. Al presente Mazula è rettore dell’università statale. Poi c’è Carlos Machili, un altro ex missionario della Consolata, che è preside della facoltà di pedagogia. E ci sono anch’io, rettore dell’università cattolica, con padre Francesco Ponsi, vicerettore, e padre Bruno Pipino, professore. Siamo tutti missionari della Consolata.
Questi sono alcuni frutti dell’opera dei nostri missionari, che hanno lavorato e lavorano per la ricostruzione del Mozambico, sfruttato dal colonialismo e dilaniato dalla guerra civile.
L’Allamano diceva: il bene, anche se è poco, bisogna farlo bene affinché cresca. Ebbene, l’università cattolica, dopo tre anni di vita, ha compiuto passi da gigante: c’è la facoltà di economia e commercio a Beira; c’è la facoltà di diritto e educazione a Nampula; si è aperta la facoltà di agricoltura nel Nyassa, dalla quale troveranno giovamento oltre cinque milioni di contadini. Fra poco avremo anche la facoltà completa di medicina.
In questi tre anni gli studenti sono passati da 90 a circa 577: e tutti pagano 500 dollari. All’inizio è stato duro, perché numerosi studenti dicevano: «Signor rettore, noi non possiamo pagare 500 dollari, perché siamo poveri». Al che io rispondevo: «Se siamo poveri, non dobbiamo diventare anche accattoni». Hanno capito.
Nonostante gli errori del passato, credo che la chiesa e i missionari possano e debbano ancora fare molto per la cooperazione tra i popoli del Nord e Sud del mondo, affinché ci sia una società più giusta e fratea.

aa.vv




Dalla parte del capitalismo

Dopo il fallimento del comunismo,
quasi tutti i paesi si sono adeguati
al sistema economico capitalista.
Sul pianeta permangono pesanti squilibri,
ma le colpe non vanno fatte ricadere sull’Occidente.
Soltanto attraverso una collaborazione
non faziosa si possono trovare soluzioni efficaci.

Oggi le economie delle singole nazioni sono così profondamente interrallacciate che si può parlare di un unico sistema economico di dimensioni planetarie. Il processo è molto recente e lo stato di sviluppo delle singole nazioni è così variabile che non è stato ancora identificato un insieme di regole per il raggiungimento di un sistema equilibrato di generazione e distribuzione della ricchezza.
È un fatto innegabile che, oggi, la distribuzione della ricchezza sul pianeta sia tutt’altro che soddisfacente. È, quindi, necessario operare dei correttivi a vari livelli. Attualmente, fra le soluzioni proposte, ve ne sono alcune che non solo non raggiungono i risultati, ma hanno come obiettivo implicito di indebolire le economie forti e non di rafforzare quelle deboli. Il parlare di ricchezza non deve far dimenticare un certo numero di persone che, particolarmente in Italia, ritiene che la ricchezza costituisca una manifestazione diabolica.
«Dio non vuole la povertà del suo popolo» afferma il documento del Pontificio Consiglio «Cor Unum», intitolato La fame nel mondo. Una sfida per tutti: lo sviluppo solidale. E aggiunge che i cristiani sono ingiustamente accusati di voler perpetuare la povertà fisica delle persone. Pertanto è da considerarsi un messaggio stimolante della chiesa il trovare i mezzi per «arricchire» tutti i popoli della terra, colpendo non la povertà evangelica (che va invece perseguita), ma quella generata dalla indisponibilità di denaro e, soprattutto, dei mezzi per generarlo.
Occorre, infatti, non dimenticare che, per distribuire la ricchezza, è necessario in primis generarla. In questo contesto è significativa la scomparsa del comunismo come sistema economico e sociale. Esso è crollato sotto il peso della propria inefficienza nel generare la ricchezza per i cittadini ad esso sottomessi. Al di là delle storture «demoniache» di voler addirittura distruggere la persona umana, per rifarla come automa alle dipendenze del sistema, il comunismo si è mostrato incapace non solo di far arricchire i propri cittadini, ma li ha mantenuti in stato di perpetua povertà. Infatti, nonostante il tenore di vita bassissimo esistente in tutti i paesi comunisti, la generazione di ricchezza a livello nazionale è stata inferiore al consumo della medesima, contribuendo alla conseguente caduta del sistema. Quindi, parlando di sviluppo, non si può più sostenere il comunismo proprio perché, pur nella gestione dittatoriale del potere e senza alcun impedimento interno, esso ha generato solo miseria e distruzioni ambientali, come nel caso del Mare d’Aral.

A questo punto occorre fare una considerazione che spieghi l’attuale divario economico fra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. È innegabile che il progresso tecnologico è stato finora appannaggio quasi esclusivo dei paesi occidentali.
Lo sviluppo ha avuto una formidabile accelerazione dopo l’ultima guerra mondiale e sta ancora progredendo con significativa velocità. Esso ha interessato tutti i campi: dalla medicina alla meccanica, dall’elettronica all’informatica. Non sempre però viene fatto risaltare il fatto che, nel contempo, sono state sviluppate anche le tecniche economiche che hanno permesso lo sviluppo attraverso la disponibilità di capitali. Anche l’economia è una tecnologia inventata dall’uomo; anzi, essa sottende qualsiasi attività umana.
Occorre ancora precisare che l’uomo «scopre» le cose, le «inventa» secondo il significato etimologico della parola latina «invenire», cioè «trovare». Ciò significa che tutto è stato creato da Dio e che l’uomo realizza via via molte scoperte: «trova» cose inizialmente nascoste, ma esistenti, perché create da Dio. Quindi tutte le scoperte o invenzioni in sé sono buone, compresa l’energia nucleare che è la stessa che tiene accese miliardi di stelle in miliardi di galassie. Pur essendo tutte intrinsecamente buone, le tecnologie debbono essere usate correttamente, comprese quelle economiche, che infatti hanno generato la prosperità dei paesi occidentali che le hanno «inventate».
D’altra parte, anche la bibbia nel libro dei «Proverbi» sostiene:

«se appunto invocherai
l’intelligenza e chiamerai
la saggezza, se la ricercherai come l’argento e per essa scaverai come per i tesori, allora comprenderai
il timore del Signore
e troverai la scienza di Dio,
perché il Signore dà
la sapienza, dalla sua bocca
esce scienza e prudenza» (Pr 2,3).

È quindi sorprendente osservare gli attacchi alle economie occidentali eseguiti da gruppi di individui, che a ben guardare sono dei parassiti delle nostre società, perché ne godono i frutti ma ostentano di disprezzarli.
Grazie alle tecnologie mediche, alimentari ed economiche nel mondo – ricorda il citato documento vaticano -, «dal 1950 al 1980 la produzione complessiva delle derrate alimentari è raddoppiata e nel mondo esiste complessivamente sufficiente cibo per tutti. Dal 1960 al 1987 il tasso di mortalità dei bambini al di sotto dei cinque anni si è ridotto della metà, e due terzi dei lattanti al di sotto dell’anno di età sono vaccinati contro le principali malattie dell’infanzia. Il consumo di calorie per abitante è aumentato del 20% circa fra il 1965 e il 1985».

Nel processo di sviluppo, però, occorre non trascurare la preservazione delle risorse del pianeta. Il clima sul nostro pianeta dipende da cause naturali, che si basano essenzialmente sul rapporto esistente fra il Sole e la Terra. Questo rapporto è attualmente sconosciuto; ma si sa, ad esempio, che 12 mila anni fa si è verificata una glaciazione che ha interessato tutto il pianeta, che è durata parecchie centinaia di anni, e si è poi esaurita. Nessuno è in grado di spiegare che cosa sia successo; ma il fatto che si sia verificata significa che esistono forze ignote che condizionano il nostro clima. D’altra parte gli stessi parametri dell’orbita terrestre, intorno al Sole, non sono fissi nel tempo, ma variabili con periodi lunghissimi che sono stimati anche in decine di migliaia di anni, con conseguenti variazioni sul clima.
Quindi non dobbiamo aspettarci un clima stabile e duraturo, perché tutto l’universo è stato creato in modo da evolversi ed arrivare ad una fine. Ciò non toglie che si debba rispettare l’evoluzione naturale del clima, senza introdurre disturbi come il volume delle emissioni di anidride carbonica o l’abbattimento di intere foreste.
Il problema non è, semplicisticamente, quello di distruggere le fonti di energia attualmente utilizzate, ma consiste nell’individuare i sistemi che mantengano e migliorino l’attuale qualità della vita, che richiede una quantità sufficiente di energia; e questo senza intaccare la naturale variabilità del clima, che dipende da cause estee al sindacato dell’uomo.
A proposito della distribuzione della ricchezza, esistono pubblicazioni che affrontano il problema opponendosi alle economie occidentali, aprioristicamente ritenute responsabili dello stato di povertà delle altre nazioni. Questi libri demonizzano la cultura economica occidentale a favore di… niente, in quanto, come si è visto, il comunismo, il cui fantasma continua ad aleggiare per certi nostalgici, si è dimostrato incapace non solo di distribuire la ricchezza, ma anche di generarla.
È condiviso il fatto che nel mondo esistono problemi di sfruttamento di parti di popolazioni, ma è altrettanto vero che il comunismo si è dimostrato sfruttatore di tutte le popolazioni assoggettate. Quindi il desiderio legittimo e doveroso di contribuire allo sviluppo economico delle nazioni povere deve prescindere dall’applicazione delle «tecniche» fallimentari del comunismo.
A titolo di esempio di faziosità cito un grafico, riportato in uno di questi libelli, sulla spartizione del valore di una banana fra il produttore, i grossisti, la distribuzione e l’utente finale, secondo cui al produttore rimane circa il 6% del prezzo finale. Supposto che siano vere le percentuali riportate, la malizia dell’esposizione cerca di far gridare allo scandalo dello sfruttamento del Nord rispetto al Sud. In realtà ciò è falso nei limiti in cui non si introduce il concetto del potere di acquisto delle monete nei singoli paesi e del rispettivo costo della vita.
Se si osservano obiettivamente i dati e si calcola la quantità di denaro che rimane in mano al produttore, secondo la percentuale indicata, si ottiene che la cifra ammonta a una determinata entità. In sè essa non dice nulla; diventa significativa solo se rapportata al costo della vita locale. In Italia la cifra trovata sarebbe misera e sintomo di sfruttamento ma in loco, cioè in quei paesi tropicali, probabilmente no, in quanto il costo della vita è molto più basso.
Con ciò non intendo dire che la suddivisione del prezzo delle banane, durante il loro spostamento dal produttore al consumatore, sia corretto o no; voglio però sottolineare che il metodo esposto è malizioso e intende solo affermare acriticamente che il Nord sfrutta il Sud.
Da ciò si deduce che non è corretto individuare il reddito pro-capite annuo per i cittadini di ogni nazione come parametro unico con cui stimae lo stato di povertà o meno; occorre anche rapportare il reddito al potere di acquisto locale. Quando si applica questo criterio (ed è stato già fatto) si rileva che, ad esempio, il cittadino cinese medio, anche se ha meno disponibilità, ha attualmente un potere di acquisto superiore a quello dell’italiano medio, per il quale il costo della vita è superiore.

Per aiutare i paesi poveri, occorre innanzitutto non privarli dei loro mezzi. Quindi, prima di iniziare ad esportare, specialmente prodotti alimentari, ogni paese deve soddisfare le esigenze alimentari della propria popolazione. In questo contesto, non si capisce come si possa sottrarre, ad esempio, il miele ai messicani per venderlo a maggior prezzo in Italia, nei «centri di commercio solidale». Questo non è commercio solidale, ma un impoverimento delle popolazioni locali, a cui il miele serve, a favore di un limitatissimo numero di produttori locali che ha trovato vie di esportazione forzose e meglio remunerate. Per il bene delle popolazioni locali, è necessario che il miele rimanga nel paese di origine fino a che una produzione superiore al consumo locale non stimoli l’esportazione.
Occorre seguire l’esempio dell’India, che ha migliorato la propria produzione agricola fino a diventare autosufficiente ed ora può pensare all’esportazione dei beni prodotti.
Quindi uno dei contributi che si possono dare ai paesi poveri è quello di sviluppare innanzitutto le vie intee dei commerci dei propri prodotti, quando non vi sono eccessi di produzione come, ad esempio, per le banane in vari paesi. In questo caso è corretto esportare un bene nei paesi che, per ragioni di clima, non possono ottenee la produzione.
Ed è inoltre sacrosanto che questa esportazione venga fatta in modo tale da distribuire equamente il guadagno fra tutti gli interessati. Il commercio diventa veramente solidale quando si individuano vie alternative nello scambio planetario delle merci, che richiedano anche un minor numero di intermediari.

In conclusione, il mondo occidentale è stato il primo e, in molti casi, l’unico a sviluppare le tecnologie, anche economiche, attualmente esistenti, e ne detiene la conoscenza. Quindi, nella distribuzione della ricchezza fra tutti, non è seminando faziosità e odio di classe che si risolvono i problemi, ma solo con l’utilizzo delle tecnologie disponibili e con sincera collaborazione.
Le soluzioni individuate dovrebbero essere mirate ad aiutare i paesi poveri, ma senza demonizzare l’Occidente, anzi dando inizio a una effettiva collaborazione in cui gli occidentali mettano a disposizione il loro patrimonio tecnico in ogni campo.

Piergiorgio Motta




Dalla parte del sud

Fermato (per ora) l’imbroglio del M.A.I.

La mobilitazione della solidarietà internazionale è riuscita a bloccare
l’«Accordo mondiale sugli investimenti» (M.A.I.), l’apoteosi del dogma
liberale, la massima espressione
del prevalere degli interessi
privati su quelli pubblici.
Nel frattempo, l’ultimo «Rapporto sullo sviluppo umano»…

Si chiama «Accordo mondiale sugli investimenti» (M.A.I.): una nuova sigla nell’intricato panorama dei rapporti inteazionali caratterizzato – ora più che mai – dal dogma liberale, secondo il quale la libera circolazione dei beni e dei servizi legati al commercio mondiale e la libera circolazione dei capitali hanno contribuito a sostenere la crescita economica mondiale.
Nei Paesi in via di sviluppo (PVS) tale crescita economica (sintetizzata spesso dall’evoluzione del Prodotto interno lordo per abitante) è stata principalmente determinata da: aiuti allo sviluppo, investimenti stranieri diretti, investimenti in portafoglio, rimesse degli emigrati in diaspora, prodotti delle esportazioni intra ed extra-regionali.
I flussi netti di risorse finanziarie verso i PVS sono passati dai 10 miliardi di dollari (1970) ai 284,6 miliardi di dollari (1996), dei quali ultimi l’86% proveniente dal settore privato. Bisogna subito dire che la ripartizione non è stata uniforme: l’Africa Sub-sahariana non ha rappresentato che il 5% di tali investimenti mentre l’Asia ed il Pacifico il 44,5% e l’America Latina ed i Caraibi il 30,5%.
Nel frattempo – come ci informa l’ultimo Rapporto sullo sviluppo umano dell’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) – il numero dei cittadini del pianeta che dispongono di un reddito giornaliero inferiore al dollaro è passato, nel periodo 1987/1993, da 100 milioni a 1,3 miliardi. È sempre l’Africa Sub-sahariana che conosce «la più elevata proporzione ed il più rapido tasso di crescita di povertà umana».

S u richiesta delle società transnazionali e degli stati dei paesi dell’OCSE, è emersa la necessità di attivare – quale corollario al quadro giuridico esistente nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio – un sistema multilaterale: questo dovrebbe annullare gli effetti indesiderabili dell’interventismo degli stati in materia di investimenti… L’obiettivo del MAI è, da una parte, di assicurare una protezione agli investimenti e, dall’altra, creare un quadro globale incitativo che favorisca gli investitori.
Un tale accordo dovrebbe favorire l’impiego ottimale del risparmio mondiale circolante sotto forma di investimenti. Non esiste alcun riferimento all’importanza di creare impieghi, né alla distinzione tra investimenti che li generano e quelli che non lo fanno.
Il MAI ha per obiettivo la liberalizzazione dei regimi di investimenti e la protezione degli investitori. Esso è fondato sul postulato secondo il quale la continuità della crescita mondiale si basa sulla liberalizzazione del commercio, la quale è legata al ruolo pionieristico degli investitori.
Il ruolo degli stati sarebbe ridotto a quello di cinghia di trasmissione delle misure di accompagnamento, che debbono garantire il diritto assoluto dell’investitore mediante un sistema di responsabilità senza errore. Gli stati sarebbero infatti costretti a rimborsare perdite e danni subiti dagli investitori…
Stiamo abbandonando la società in cui il consumatore era il re per una società in cui l’investitore sarà il re. Con il MAI le società transnazionali aumenteranno il loro diritto alla capacità di influenza nel mondo.
Questa è la preoccupata analisi pubblicata su Le courrier ACP-UE (maggio-giugno 1998): il suo autore è Yves Ekoué Amaizo, responsabile dei programmi speciali dell’UNIDO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, con sede a Vienna).

Nel 1995 a Parigi, nella sede dell’OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che raggruppa i 29 paesi più ricchi al mondo: Brasile ed Argentina stanno premendo per entrare nel club), prendono l’avvio i negoziati per promuovere il MAI: questo dovrebbe essere «una delle ultime pagine della costituzione di un’economia mondiale unificata» come l’ha salutato il direttore generale dell’OMC (Organizzazione mondiale del commercio), l’italiano Renato Ruggiero.
In realtà, il testo provvisorio del MAI – dopo che alcune Organizzazioni non governative statunitensi lo hanno scoperto e diffuso – è stato talmente criticato che la sua firma ha dovuto essere più volte rinviata.
Nel testo attuale, al capitolo «Diritti degli investitori», è sancito il diritto assoluto di acquistare senza alcuna restrizione terreni, risorse naturali, servizi di telecomunicazioni, valute, ecc. Gli stati dovrebbero: garantire incentivi fiscali, ecc. tanto alle società nazionali quanto a quelle straniere; impegnarsi a non emanare leggi che limitino l’espansione delle imprese o impongano controlli delle stesse su risorse naturali, minerarie, forestali; impegnarsi a non esercitare pressioni sugli investitori per il rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente; non sottoporre a embargo né bloccare investimenti diretti a paesi che violano i diritti umani. Gli stati hanno solo doveri pesanti; chi investe capitali ha solo diritti: anzi, il MAI prevede che le società transnazionali siano autorizzate a citare in giudizio quei governi che – con leggi su tutela ambientale, tutela dei lavoratori, dei consumatori, ecc. – ledano i loro interessi e ne facciano diminuire i profitti… I parlamenti – quand’anche eletti democraticamente – sarebbero esautorati dalle transnazionali.
Le critiche al MAI vengono da ogni parte, USA inclusi.
Molti parlamentari ACP hanno evidenziato come il MAI, proibendo il rafforzamento delle industrie nazionali, di fatto espellerebbe le imprese del PVS dal mercato mondiale. Inoltre, gli stati – specie i più deboli in termini di potere contrattuale – sarebbero impotenti nei confronti delle manovre speculative delle società transnazionali.
Infine, sarebbero vanificati del tutto i difficili processi di democratizzazione in atto in molti PVS.

Dopo 6 mesi di stop, i negoziati sul MAI avrebbero dovuto riprendere il 20 ottobre a Parigi. Ma, a pochi giorni dall’inizio, il governo francese ha fatto sapere che non avrebbe partecipato, in quanto non condivideva la formulazione dell’accordo. Un brutto colpo per i sostenitori del MAI; un successo per tutte le centinaia di associazioni ambientaliste e di solidarietà internazionale che si sono mobilitate per fermare l’imbroglio.

Piergiorgio Gilli