“Voglia di sicurezza”

Malika è sola e disperata. Risiede in Italia da 10 anni, con regolare permesso di soggiorno, assunta con i libretti di lavoro presso una cornoperativa che si occupa di assistenza agli handicappati. Sposata con un giovane tunisino, Malika ha una figlia di due anni e un altro appena nato, è sola e disperata. Questa donna, energica, con un fluente italiano, con nessuna voglia di tornare in Marocco, da alcuni mesi si era ritrovata a far i conti con il parto che incombeva, con la figlia piccola e con nessuno a cui lasciarla. Suo marito, che aveva richiesto la regolarizzazione, è stato rispedito per direttissima in Tunisia, perché nel ’92 aveva commesso un reato minore e risultava, agli atti, «persona pericolosa» e non gradita. Tuttavia, al di là delle motivazioni legali all’origine di tale espulsione, resta valido il fatto che una famiglia di immigrati, con figli piccoli, sia stata divisa. L’ultima legge sull’immigrazione, la Turco-Napolitano, voluta dalle sinistre, per accontentare le destre e la «voglia di sicurezza» degli italiani, non prevede concessioni, o attenuanti, nel caso di nuclei familiari composti da soli stranieri.
Nella categoria degli «inespellibili» risultano infatti solo le donne incinte, con figli fino al sesto mese di età, le persone coniugate e conviventi con cittadini italiani; per gli altri non sono previste agevolazioni, e il decreto di espulsione può essere comminato non solo in caso di reato, ma anche in numerose altre situazioni di irregolarità ‘amministrativa’ e non penale, mancanza temporanea di lavoro, mancata presentazione entro gli otto giorni lavorativi della domanda di soggiorno, ecc.

Trasformarsi in clandestini, irregolari, è dunque molto facile, più di quanto si pensi. E il dramma è che lo possono diventare padri di famiglia che, al momento del rinnovo del permesso di soggiorno, risultino senza lavoro (perché, magari, lo hanno appena perso).
Si tratta dei nuovi disperati – persone che hanno situazioni di miseria o di guerra alle spalle – e qui finiscono con divenire vittime di una legge che, seppur vuole essere strumento di «ordine» verso i criminali, riesce spesso a colpire i più deboli. A ciò si aggiunge che, da qualche anno, alcuni avvocati italiani (con pochi scrupoli) hanno scoperto in tanti immigrati sprovveduti, confusi o semplicemente «persi» tra le pastornie burocratiche italiane, l’Eldorado dei soldi facili. Molti fra gli stranieri ancora irregolari che l’anno scorso hanno presentato domanda di regolarizzazione, si sono appoggiati ad avvocati per presentare le pratiche di soggiorno, di ricorso in caso di rigetto, di ricongiungimento, o per eventuali carichi penali passati. Taluni di questi legali chiedono fior di milioni promettendo loro tutele che poi non arrivano.
Ancora una volta, dunque, capita che, in un’Italia che ha quasi paura degli immigrati, o che li usa come capri espiatori per rimuovere altri problemi, ad essere vittima dei raggiri siano spesso proprio loro, gli extracomunitari che vogliono diventare cittadini regolari.
A.L.

Angela Lano




Musulmani in Italia

Questo è il titolo dell’interessante video curato e prodotto dal Centro diocesano torinese di studi arabi e dalla Nova-T. Il lavoro è stato presentato l’8 aprile scorso dallo scrittore e giornalista Furio Colombo.
La presenza di cittadini provenienti da paesi musulmani è sempre più visibile, in tutta la penisola italiana, sia attraverso moschee, negozi e ristoranti etnici, centri culturali, ecc., sia negli ospedali, scuole, mense pubbliche, fabbriche, mezzi di informazione, che devono ormai fare i conti con festività religiose e altri aspetti della cultura islamica.
In che misura è dunque possibile convivere – si chiedono gli autori del video – con l’islam e con i valori di cui è portatore? E ancora: islam e Occidente potranno mai trovare una via di comunicazione non conflittuale?
«L’Italia, a differenza degli Stati Uniti, è poco preparata ad accogliere cittadini di altre culture – ha affermato Furio Colombo –. Noi non possediamo la coscienza dell’appartenenza politica e culturale alla nazione di cui siamo cittadini. Il rispetto dei principi costituzionali non è così sentito come negli Usa, dove, proprio a causa di questa forte identità nazionale, è stato possibile formare, con tutti i pregi e i difetti, una società veramente multietnica. In Italia si fa fatica ad accettare la diversità, proprio perché manca questo senso di identità. D’altronde, negli Stati Uniti, nessun Bouriqui Bouchta (il responsabile della Moschea di Porta Palazzo, ndr) potrebbe azzardarsi ad affermare, come ha invece fatto durante l’intervista registrata nel video, che la scuola italiana, laica, dovrebbe insegnare ai suoi figli il corano e che il musulmano, che vive in Italia, non possa accettare un ambiente anti-islamico».
Il video, curato da Tino Negri (del Centro Peirone) e da Sante Altizio (della Nova-T), si compone di due parti: la prima, di contenuto generale, introduce alla religione e alla cultura islamica; la seconda, attraversa alcune città italiane alla scoperta delle numerose comunità islamiche presenti.
Nel corso dell’opera, gli autori si interrogano su questioni di estrema importanza per gli attuali rapporti tra le varie comunità islamiche e lo Stato: «Perché molti cittadini di fede islamica residenti in occidente, rifiutano l’integrazione? Perché in alcuni paesi islamici sono vietati i culti di altre religioni? Perché non è possibile trovare un interlocutore riconosciuto da tutte le comunità musulmane italiane?».
Angela Lano

Per ulteriori informazioni:
«Nova-T»
Produzioni televisive dei Frati Cappuccini
via F. Bocca, 15 – Torino
tel. 011-8987098;
«Centro di studi arabi “Federico Peirone”»
via Barbaroux, 30 – Torino
tel. 011-5612261

Angela Lano




Furio Combo e la scuola materna

Scrive su «la Repubblica» del 13 aprile scorso l’on. Furio Colombo, deputato al parlamento, giornalista e scrittore di successo: «Di là dalla chiesa e dal fiume Dora c’è la scuola matea. Un avviso comunica che cominceranno le lezioni di arabo. Pensi che la civiltà cammina in fretta, e che i bambini faranno da tramite fra comunità che non si conoscono. Ma c’è una seconda parte dell’annuncio. Dice: “Solo per bambini arabi”. In due righe, la costituzione italiana viene prima affermata (il diritto all’educazione anche per i nuovi venuti) e poi negata (quel diritto non è per tutti)».
La scuola matea torinese di cui parla Furio Colombo è quella di via Cecchi, in un quartiere a ridosso di Porta Palazzo, popolato da immigrati (in modo particolare, d’origine africana e araba). Conoscendo personalmente il circolo didattico, di cui la struttura per l’infanzia in questione fa parte, come altamente motivato e coinvolto a livello professionale nei confronti delle famiglie immigrate, ritengo azzardata e ingiustificata l’accusa di «anticostituzionalità» mossa dal noto giornalista e politico. Il corso di arabo era sì offerto a un’utenza proveniente da paesi islamici, ma come semplice alternativa all’ora di religione cattolica (proposta ai bambini italiani) e come risposta ad una precisa richiesta di alcuni genitori musulmani, che volevano dare ai propri figli la possibilità di recuperare la lingua araba senza dover ricorrere alle scuole coraniche, di cui non condividono strategie e finalità educative.
La scuola aveva dunque accettato di intraprendere questo esperimento coraggioso e pionieristico, magari con un tocco di superficialità – garantire l’accesso alle lezioni ai soli bambini arabi e non a tutti -, dettata più dall’inesperienza e dalla scarsezza dei mezzi a disposizione (una sola insegnante per tanti bimbi), che dalla volontà di trasgredire alle norme costituzionali.
Ecco, dunque, che diviene necessario aprire due parentesi: da una parte siamo di fronte alla buona volontà e all’entusiasmo di insegnanti ed operatori del settore scolastico, che, pur desiderando accogliere al meglio i nuovi scolari (in numero sempre più crescente), spesso non hanno la formazione necessaria a raggiungere senza incidenti di percorso tale obiettivo; dall’altra, ci troviamo davanti a giornalisti e mezzi d’informazione che, in materia di immigrazione, agiscono sull’onda delle emozioni, della disinformazione, dell’ignoranza e della superficialità. E tutto l’articolo dell’on. Colombo, apparso in prima e quattordicesima pagina dell’importante quotidiano nazionale, ne è una dimostrazione lampante.
Angela Lano

Angela Lano




“Uno starniero non è mai felice”

Un architetto e una prostituta, entrambi «stranieri», ma con risultati apparentemente opposti: il primo inserito nella società, la seconda ai margini. Sono i protagonisti del romanzo di Younis Tawfik, uno scrittore iracheno che da anni vive a Torino, città multietnica con molti problemi.

Straniero come estraneo, diverso, sradicato: come immigrato. Una persona dotata di un corpo dai tratti che talvolta differiscono da quelli a cui siamo abituati, ma anche di un’anima, a volte piena di rabbia o di malinconia. Straniero come portatore di una cultura «altra», non sempre e necessariamente stridente con la nostra. Immigrato, ma non sempre criminale, indesiderato occupante del territorio italiano, bensì lavoratore disposto a svolgere quelle mansioni pesanti, pericolose e spesso malpagate, che noi scartiamo ormai da qualche decennio.
Straniero, come il titolo del bellissimo libro dello scrittore iracheno, ma naturalizzato torinese, Younis Tawfik (La straniera, Bompiani Editore, lire 20.000), che in circa 200 pagine racconta, con disarmante drammaticità, due spaccati di vita: quella del protagonista, un architetto mediorientale, dalla carriera ben riuscita e inserito nella società torinese, e quella di Amina, una sfortunata ragazza marocchina piena di sogni e speranze, finita sul marciapiede. I due personaggi si incontrano una notte, ed iniziano a narrare, in prima persona e in alternanza, la propria storia, soffermandosi sui ricordi dell’infanzia, della famiglia e della patria lontana.
L’amore presto s’insinua tra i due, tormentato e conflittuale come le loro stesse esistenze, e li porta verso un tragico destino.

Younis Tawfik, come è nata in te l’idea di questo romanzo?
«Dal mio incontro casuale, in una birreria di Torino, con una prostituta marocchina. Mi trovavo in compagnia di amici, così l’ho invitata al nostro tavolo e lei, spontaneamente, mi ha raccontato la sua storia, che è in parte simile a quella da me narrata nel libro. Sentendola parlare, infatti, decisi di mettermi a scrivere. Passarono tre anni, e un amico mi parlò di una ragazza marocchina che lavorava in una macelleria, morta di tumore al cervello. Volevano raccogliere dei soldi per mandare il corpo in patria. Ecco, allora, che decisi di inserire e fondere con la storia di Amina, la prostituta, quella di Mina, la macellaia, che, con la sua tragica fine, sarebbe divenuta strumento di riscatto e redenzione per l’altra».
Il protagonista, l’architetto, rispecchia il prototipo dell’immigrato colto, di successo, che ad un certo punto entra in crisi. Ce ne puoi parlare?
«Lui rappresenta l’immigrato che vive in Italia da tanti anni e che si sente completamente inserito nella società, o almeno così crede: è colto, educato, sposato e separato, con un buon lavoro. Ha fatto di tutto per farsi accettare da una società benestante e borghese come quella torinese. Ad un certo punto, però, incontra Amina, la prostituta, una ragazza ai margini: improvvisamente, la sua memoria sopita, il suo senso d’identità perduto si risvegliano.
Ora riesce a provare nuovamente sensazioni, emozioni, che aveva rimosso. Capisce che non era poi così “integrato”, e che l’integrazione stessa non significa annullare, dimenticare le proprie radici. Con e grazie ad Amina inizia il percorso a ritroso del recupero della memoria: lei rappresenta la Shahrazade delle Mille e una notte, quel raccontare storie l’una nell’altra, che l’aiutano a mantenersi in vita e a far vivere. Attraverso di lei il protagonista riscopre colori, profumi, desideri, ambienti che gli appartenevano, ma che aveva dimenticato. Questa donna, tuttavia, diviene anche la terra traditrice, la prostituta (la madre terra che lo ha costretto ad andarsene via). Quando la perde, scopre il vuoto, capisce di essere un immigrato, quello straniero che aveva dimenticato di essere».
Il romanzo si inserisce bene all’interno dello stile narrativo arabo: prosa e poesia mescolate insieme, trama ad incastro (per intenderci, il racconto nel racconto), uso abbondante della memoria. Tuttavia, è un’opera italiana, scritta nella nostra lingua, che contiene descrizioni e situazioni a noi familiari. Insomma, gli stranieri che tu descrivi li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Possiamo dunque parlare già di letteratura araba in lingua italiana, come avviene, ad esempio, per quella araba in lingua francese o inglese?
«Direi di sì. Ho usato la lingua italiana come strumento di espressione: strumento che, più volte, mi è stato stretto, e che mi rendeva prigioniero di un vocabolo in cui non riuscivo pienamente a comunicare ciò che desideravo. Tuttavia volevo dimostrare che, in Italia, gli intellettuali arabi possono considerarsi allo stesso livello di quelli anglofoni o francofoni, anche perché ritengo che, quella italiana, sia una bellissima lingua, che ben s’adatta a raccontare storie nello stile narrativo arabo».
Perché hai deciso di raccontare agli italiani una storia di immigrazione?
«Il mio obiettivo era quello di fornire uno strumento per capire la psicologia degli immigrati, gente dotata di un corpo, una mente e un cuore, che ride, soffre, piange o si dispera. Per me è una grande soddisfazione sentir dire da un italiano: “Finalmente sono riuscito a guardare uno straniero per quello che è: una persona come tutte le altre, con il proprio bagaglio di sogni e speranze, di tragedie quotidiane, ecc. Prima li consideravo poco più di ombre, senza identità, senza peso, senza emozioni”. Già, essi sono anime in “trasferta”, spesso loro malgrado, costrette dalla miseria, dalle guerre, dalle persecuzioni a lasciare la propria famiglia, la propria terra, e a vivere all’estero una vita difficile, a volte drammatica e densa di solitudine e malinconia».
Quale messaggio vorresti comunicare agli italiani?
«Vorrei poter dire loro che non tutti gli immigrati sono criminali o gente che ruba il lavoro, perché, nella maggior parte dei casi, svolgono quelle mansioni che nessuno vuole più fare. Gli immigrati costituiscono una ricchezza per l’Italia. Se viene data loro la possibilità, sono in grado di contribuire alla nascita di una società multietnica: si tratta di un processo mondiale che, in era di globalizzazione, è divenuto ormai irreversibile.
Fino alla fine degli anni ’60 erano gli italiani ad emigrare nel nord Europa o in America, ora sono loro ad accogliere gli stranieri. Tuttavia, le leggi sull’immigrazione non giocano a favore degli immigrati, e, nello stesso tempo, non aiutano lo stato a combattere la criminalità. Quest’ultima sanatoria è servita solo per schedarli, e i permessi di soggiorno tardano ad arrivare, creando grossi problemi a chi un lavoro l’aveva trovato o potrebbe trovarlo.
Hanno espulso ingiustamente onesti padri di famiglia, che mantenevano figli e genitori al loro paese, oppure hanno diviso famiglie rimpatriando i genitori e mandando in affidamento i figli presso famiglie italiane; da un altro canto, però, non riescono a liberarsi dei grandi spacciatori, dei delinquenti o di chi si arricchisce con il racket della prostituzione.
Paradossalmente, spacciatori, ladri e prostitute hanno i soldi necessari per ottenere il permesso di soggiorno, altri onesti lavoratori no. Quante prostitute sono state regolarizzate perché hanno pagato ditte italiane o famiglie che hanno dichiarato fittiziamente di averle assunte come operaie o come colf?».
Perché hai scelto la parola «straniera» come titolo del tuo romanzo?
«Perché l’altra, “extracomunitaria”, comunemente usata, è spregiativa e discriminatoria. “Straniero” indica l’estraneità, il disagio provocato dal vivere in un certo ambiente. Ed è quello che io ho descritto: il disagio di esistere, l’essere un po’ estranei in patria e stranieri in Italia».

Angela Lano




DOSSIER PERU’ – La teologia della liberazione

Monsignor Bambaren:

UN IMPEGNO PER I POVERI,
PER LE PROBLEMATICHE SOCIALI, PER LA DIGNITÀ UMANA

Monsignor Bambaren, qualcuno dice che la «teologia della liberazione» è morta?
«Morta? No, le idee non muoiono mai».

Nel 1998, abbiamo incontrato, qui a Lima, Gustavo Gutierrez (*), considerato il padre della teologia della liberazione. A suo modo di vedere, cosa c’è di giusto e cosa di sbagliato nelle sue idee?
«Nei primi anni Ottanta il papa fece una distinzione tra una teologia della liberazione buona che si deve appoggiare e un’altra che devia e va corretta. Io credo che ogni fenomeno vada collocato nel suo momento storico. Quando nasce la teologia della liberazione, in tutta l’America Latina ci sono fermenti rivoluzionari: Cuba, Cile, Bolivia, Perù, Colombia, Panama hanno movimenti o governi che cercano il cambiamento. È comprensibile che la situazione del momento possa aver esasperato la preoccupazione sociale dei cristiani. Anche attraverso gli sbagli la teologia della liberazione è andata maturando, superando quello che c’era di eccessivo».

Cosa va salvaguardato di quella teologia tanto dibattuta?
«In generale, possiamo dire che la teologia della liberazione ha portato a un maggiore impegno per i poveri, le problematiche sociali, la dignità della persona. Io voglio ribadire il concetto da cui sono partito: le idee non muoiono mai».

Monsignor Cipriani:

UN’IDEOLOGIA MARXISTA. PADRE GUTIERREZ
DOVREBBE SCUSARSI

Monsignor Cipriani, cosa pensa della «teologia della liberazione»?
«Io ho studiato a fondo la teologia della liberazione. E posso dire che non è una teologia. È un’ideologia, che ha una struttura filosofica al 90% marxista. È un coagulo di idee al servizio di un obiettivo. L’obiettivo non è la redenzione, ma la liberazione messianica ad opera di un movimento politico. E ciò viene fatto con citazioni del vangelo e tutta una manipolazione dei testi».

Dunque, lei non vi scorge nulla di positivo…
«Se dobbiamo trovarvi qualcosa da salvare, possiamo dire che essa è riuscita a mettere sul tavolo una maggiore preoccupazione per le enormi differenze sociali, enfatizzando le gravi ingiustizie di questo mondo».

Quindi, qualcosa di buono c’è stato…
«Ma il prezzo pagato è stato altissimo. Essa ha creato un’enorme confusione dottrinale all’interno di moltissime congregazioni, conventi, sacerdoti… Ha generato uno scontro molto forte con l’insegnamento della chiesa. E da questo, purtroppo, non si è ancora usciti».

Non si è ancora usciti?
«Esattamente. Perché la teologia della liberazione ha invertito la missione della chiesa. Con essa i sacramenti furono posti molto in secondo piano. Al primo posto vennero messi gli aspetti politici ed economici dei differenti paesi. Per queste cose la chiesa ha sempre avuto una pastorale molto ben strutturata e armonizzata. La teologia della liberazione, in molte delle sue parti, fu una critica frontale alla dottrina sociale della chiesa e alla sua opera. Purtroppo alcuni dei suoi sostenitori divennero guerriglieri, altri finirono con lo sposarsi, altri uscirono dalla chiesa».

E cosa ci può dire di Gustavo Gutierrez?
«L’ho incontrato. Non è mio compito valutare la sua coscienza, il suo mondo interiore. Credo però che egli abbia un obbligo di giustizia importante: scri-vere un libro per spiegare i concetti fraintesi nelle sue prime opere».

Paolo Moiola




Toledo scalzerà Fujimori

Nonostante la poderosa campagna elettorale e i brogli, il presidente Fujimori non è riuscito a farsi eleggere al primo tuo. Ora per lui le cose si fanno più complicate. Alejandro Toledo, indio e professore di economia, a giugno potrebbe diventare il nuovo presidente del Perù. Una svolta, dopo 10 anni di fujimorismo.

Il nostro appuntamento con Alejandro Toledo era in un ristorante di Lima. Ne è uscita una conversazione di circa due ore incentrata sui problemi economici e sociali del Perù. Allora il suo partito («Perú Posible», di centro-sinistra) era accreditato di un 6-7% dell’elettorato. Di quella lunga intervista riportiamo di seguito alcuni brevi stralci.
Professor Toledo, lei insiste molto sulla sua appartenenza etnica, sul suo volto da indio. Lo fa per calcolo elettorale o c’è dell’altro?
«Io provengo da un grande impero, l’impero incaico. Non mi vergogno della mia razza. Al contrario, ne sono orgoglioso. Mai nella storia di questo paese è esistito un candidato presidenziale che provenga dalla razza da cui io provengo. Dopo 500 anni nei quali il Perù è stato governato dal 5% della popolazione, è arrivato il momento di metterci in piedi per risvegliare la nostra indignazione costruttiva. Ho la sana pazzia di tentare di essere il presidente di questo paese per molte ragioni. Una di queste è la mia razza».
Il Perù attuale è un paese democratico?
«No, certamente no. Il Perù di oggi è un paese democratico sequestrato da Fujimori e Cambio-90».
Cosa hanno avuto i suoi connazionali da questi 10 anni di fujimorismo?
«Nonostante alcuni risultati importanti, la gente sta in condizioni peggiori. Il livello salariale, il potere d’acquisto, i tassi di malnutrizione, mortalità infantile, abbandono scolastico, disoccupazione, tutti questi indicatori socio-economici sono peggiorati. Come economista, io dico che gli obiettivi finali della politica economica non sono l’inflazione zero o la benedizione del “Fondo monetario internazionale”. Per me i risultati economici si vedono nel miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Quando la gente ha più lavoro, più educazione, più accesso alla salute».
Tutto questo è molto bello. Ma come raggiungerlo? Con una politica keynesiana?
«No, no. Io non sono keynesiano. Sono propugnatore di una terza via. Oggi è possibile (questo lo insegno a scuola) gestire l’economia con responsabilità. Per esempio, attraverso una distribuzione diversa della spesa pubblica. Io non voglio continuare a comprare navi, tanks o aerei; voglio comprare più libri e più equipaggiamenti per le scuole e gli ospedali. I nostri paesi sono più fragili e vulnerabili perché fondano le loro economie soltanto sull’esportazione di materie prime. Occorre cambiare, puntando sulle imprese che si basano sulla conoscenza. Ma, per arrivare a questo, dobbiamo prima investire in nutrizione, salute ed educazione.
Per favore, devi registrare quello che ti dico ora. Io voglio essere il presidente dell’educazione. E sai perché? Perché io sono la testimonianza vivente degli effetti positivi che essa ha sulle persone. Senza l’istruzione io non sarei mai arrivato fin qui, nascendo dove sono nato».
Dov’è nato, professore?
«Nelle Ande, nella “Cordillera Blanca”, nella povertà più estrema. Io ho avuto fortuna, ma se sono emerso lo debbo all’educazione».
Paolo Moiola

Paolo Moiola




DOSSIER PERU’ – La chiesa tra potere e gente comune

A Lima abbiamo
incontrato le due massime autorità della chiesa
peruviana: monsignor
Juan Luis Cipriani,
arcivescovo della capitale
e primate del paese,
e monsignor Luis Bambaren, presidente della
Conferenza episcopale.

Incontro con l’arcivescovo di Lima

«MA QUESTO ERA UN INFERNO»

Vescovo di Ayacucho (la patria di «Sendero»), membro dell’«Opus Dei», amico di Fujimori, ex giocatore di pallacanestro, monsignor Juan Luis Cipriani divenne famoso durante la vicenda dell’ambasciata giapponese. Abilissimo affabulatore e con una forte connotazione da Savonarola, nel gennaio 1999 il prelato è stato nominato arcivescovo di Lima.
Nonostante i successi e la rapidissima carriera, anche monsignor Cipriani ha sbagliato qualche «tiro». Innanzitutto, per la prima volta nella storia della chiesa peruviana, l’arcivescovo di Lima non è stato eletto presidente della Conferenza episcopale. E poi monsignor Cipriani è riuscito rendersi inviso a quasi tutte le organizzazioni per i diritti umani, da lui accusate di essere ispirate soltanto dall’amore per i dollari.
Ecco quello che lui ci ha raccontato durante un lungo incontro.

Il 17 dicembre 1996 un commando del «Movimento rivoluzionario Tupac Amaru» (Mrta) assalta l’ambasciata giapponese di Lima prendendo in ostaggio centinaia di persone. Un mese dopo, il nome di Juan Luis Cipriani, vescovo di Ayacucho e membro dell’«Opus Dei», è conosciuto dai giornalisti di mezzo mondo.
Su proposta del Vaticano, il giovane prelato è infatti entrato nei negoziati tra i sequestratori e il governo peruviano. L’estenuante vicenda si conclude nel sangue il 22 aprile 1997. Sul terreno rimangono tutti i 14 guerriglieri dell’Mrta, due militari e un ostaggio, il giudice Carlos Giusti.
Ad operazione conclusa, monsignor Cipriani dice che non sapeva. Piange per le 17 vittime. Ci sono però anche voci dissonanti. Si fa notare che monsignor Cipriani non poteva non conoscere nei dettagli l’operazione militare e che, di conseguenza, le sue sono state lacrime di coccodrillo.
Monsignor Cipriani torna al lavoro nella diocesi di Ayacucho fino al gennaio 1999 quando viene nominato arcivescovo di Lima, in sostituzione di Augusto Vargas Alzamora. Il prelato non ottiene però le preferenze necessarie per essere eletto presidente della Conferenza episcopale, carica che va a monsignor Luis Bambaren, vescovo di Chimbote.

CERPA CARTOLINI, UN UOMO DIBATTUTO

Lei è stato vescovo di Ayacucho, la «patria» di Sendero Luminoso. Cosa ricorda di quell’epoca?
«Ricordo che vidi troppa gente morta, troppa violenza. E, badi bene, non era una violenza dei poveri contro i ricchi».
Potrebbe spiegare meglio quest’ultimo concetto?
«Sendero Luminoso fece una lotta non per gli ideali, ma per un’idea brutale di tipo maoista-polpottiano. Quando la gente prende la strada della violenza, si spoglia della dignità di persona. Ciò significa che l’immagine di Dio ne rimane cancellata. E questo non trova giustificazione né davanti alla povertà né davanti all’ingiustizia, perché la maggior povertà e ingiustizia si ha quando l’uomo si spoglia della propria dignità.
Il mio messaggio è stato sempre molto chiaro e fermo: si recupera la dignità di persona soltanto se ci si libera della violenza come modo di comportamento».
Rimaniamo su queste tematiche. Nella crisi dell’ambasciata giapponese (17 dicembre 1996 – 22 aprile 1997) lei ricoprì un ruolo di primo piano. Cosa ricorda o cosa vuole dire di quella vicenda?
«La mia non fu un’iniziativa personale. Fui chiamato dalla Santa Sede attraverso la nunziatura. Pensai subito che l’unico modo per uscire da quella situazione era una conversione interiore dei terroristi dell’Mrta. Quelle persone dovevano cioè riuscire a capire che la loro azione non poteva avere soluzione, se non c’era un cambio d’attitudine. Tuttavia, pur nella tragedia, io riuscii ad instaurare un rapporto d’amicizia con i terroristi».
Anche con il loro capo, Nestor Cerpa Cartolini?
«Direi che con lui ci fu un’amicizia speciale. Cerpa aveva la moglie incarcerata e condannata all’ergastolo e i figli in Francia con la sua mamma. Era quindi un uomo dibattuto tra la responsabilità di un padre davanti ai suoi figli e la solidarietà con la sua sposa. Credo che non fu lui il responsabile principale del fallimento, ma qualcuno dei suoi collaboratori».
Intende dire che le soluzioni ci sarebbero state?
«A mio parere, ai sequestratori si offrirono delle alternative accettabili: l’uscita pacifica verso Cuba, la collaborazione di organismi stranieri nel monitoraggio delle carceri peruviane, la possibilità di continuare il dialogo anche dopo aver lasciato l’ambasciata. Probabilmente la loro intransigenza fu alimentata anche dai mezzi di comunicazione. Fecero molto danno la vanità e la superbia di pensare che il risalto dato alla vicenda li aveva trasformati nei protagonisti di una sorta di messianismo. La copertura mondiale della vicenda, certamente comprensibile, fece perdere loro la testa. Non parlavano tanto seriamente con me come con i mezzi di comunicazione. Persero il senso della realtà, del tempo, dei loro limiti».
La crisi dell’ambasciata terminò con un atto di forza, l’assalto di un commando delle forze armate…
«Io non ebbi nulla a che vedere con l’operativo militare. Non ne ero nemmeno a conoscenza. D’altra parte, non posso nemmeno dare la colpa al governo e alle forze armate: c’era in gioco il bene di un folto gruppo di persone, detenute non da un giorno o due, ma da 4 mesi».
Tuttavia, ci furono ben 17 morti. Non le sembra che una simile conclusione sia stata un fallimento anche per voi?
«Fu molto duro accettare tutte quelle morti. Fu il trionfo del male sul bene, perché non si trovarono sufficienti risorse morali e personali per rendersi conto che il rispetto per la vita avrebbe potuto dar luogo a una soluzione diversa. Per tutto ciò io piansi».

MANCA LA FIBRA MORALE
Come vede lei il Perù di oggi da un punto di vista sociale ed economico? È veramente, come recita la pubblicità di Fujimori, un paese con futuro?
«Io non voglio entrare in una discussione politica domestica. Vorrei evidenziare un’altra questione, molto più profonda. Al Perù quello che manca, oggi più che mai, come in altre parti del mondo…».
… è il lavoro?
«È la fibra morale. La frustrazione di non avere un futuro porta all’alcornol, alla droga, al divorzio, alla violenza, alla corruzione, al disordine. Si pensa: “Perché mi debbo comportare bene, se non posso mangiare o portare avanti la mia famiglia?”. I laici daranno le risposte ai problemi economici, mentre la chiesa deve continuare a essere un ricettacolo di speranza e dignità. La risposta della chiesa a questa frustrazione deve essere un “supplemento di anima”. Quando l’uomo ha un supplemento di anima è capace di molte cose. Non compete né a me né ad alcun uomo di chiesa fare diagnosi sul Pil, i salari, i modi per generare impiego. Ripeto, il problema principale è morale: la famiglia è corrosa alle sue basi».
In tutto questo la globalizzazione c’entra qualcosa?
«La globalizzazione è veramente un problema tragico. I grandi stanno mangiando i piccoli, ma ad una velocità molto più alta che nella rivoluzione industriale. Proviamo a pensare un momento: se la rivoluzione industriale ha dato origine al marxismo, la globalizzazione a cosa ha dato origine? Al nichilismo, alla droga, al terrorismo.
La globalizzazione è un materialismo selvaggio con grandi profitti economici per alcuni e un maltrattamento brutale per la maggioranza del mondo.
Il mondo è dominato dall’egoismo dei paesi più potenti. Gli Stati Uniti emettono buoni del tesoro e succhiano tutti i risparmi del mondo, per continuare ad alimentare il loro benessere e mandare le loro navicelle nello spazio. L’Unione europea paga gli agricoltori per non seminare. Tutto ciò è lecito? È morale?».
Lei mi sembra piuttosto esperto in economia…
«Sono molto esperto in umanità. Mi fa soffrire molto la situazione dei poveri. Tutti hanno diritto ad avere una casa, una famiglia, educazione e salute. Quando la miseria impedisce di svilupparti liberamente, questo è inumano».
In questa situazione di capitalismo selvaggio (che anche lei riconosce), come si può attuare l’opzione preferenziale per i poveri?
«Se avessi la risposta, sarei un genio. Ma mi lasci spiegare una cosa. Nessuno ha scelto dove nascere e in che condizioni nascere. C’è chi viene al mondo in un ambiente con più mezzi economici e più cultura. C’è invece chi questa fortuna non l’ha.
Poiché Dio ha fatto nascere alcuni uomini in luoghi più fortunati, questi hanno un debito con chi è nato in posti più umili, dove manca l’accesso all’educazione o altri vantaggi. Questo non è un problema né di governo né di leggi. È un problema di umanità.
Il giubileo affronta anche la questione del debito estero. Questo è un problema economico o un problema morale?
«È prima di tutto un problema morale. Nel debito ci sono corruzione, ingiustizia, abusi, usura, furti. Questi non sono problemi economici o sociali, si chiamano peccati. E in quanto tali soltanto Dio può perdonarli. Se a un ladro o un corrotto si condonano gli sbagli, questi possono tornare a rubare facendo danni al loro paese. Dunque, non credo che il condono sia la scelta migliore. Si potrebbe pensare a dei garanti che obblighino a utilizzare i soldi risparmiati in progetti prioritari, per esempio nei campi dell’educazione e della salute».
Nelle chiese e sui giornali, in televisione e negli incontri pubblici, in ogni occasione lei diventa un fustigatore veemente dei comportamenti individuali, in particolare di quelli sessuali… Come mai insiste molto su queste tematiche?
«Se all’uomo e alla donna è tolta la condizione del rispetto reciproco, allora il sesso si trasforma in una merce da sfruttare. In questo paese c’è una infinita mancanza di rispetto per la donna, che è la più maltrattata. Occorrerebbe investire più denaro nell’educazione familiare e meno per chiusure di tube, aborti e ogni tipo di succedaneo. Io continuamente too a ripetere: vogliamo un bordello ben organizzato o una società di persone responsabili?».
Sulla questione del controllo delle nascite c’è stata un’aspra contrapposizione tra governo e chiesa peruviana. Che può dire al riguardo?
«Prima di tutto nessuno ha ancora dimostrato che la terra non ha sufficienti risorse per sfamare l’umanità e sufficiente spazio per ospitarla. A parte questo, io mi chiedo: il maschio è un essere umano o un animale? La politica del controllo delle nascite dimostra che non abbiamo forza di volontà, non crediamo nei sacramenti, non rispettiamo le nostre spose, non crediamo nei valori. Le metodologie per il controllo delle nascite, indicate dalla chiesa, sono molto difficili perché sono uno stile di vita matrimoniale e familiare. Non sono semplicemente un metodo che si limita a dire “oggi sì, domani no”, capisce?».
A volte la gente si lamenta per il suo linguaggio…
«Io mi sforzo e mi sforzerò di essere più moderato e blando nel mio modo di esprimermi. Il fatto è che sento di scontrarmi con un nemico, in parte col demonio. Sento che la coscienza si sveglia soltanto quando ascolta una parola ferma e forte.

Le posso comunque assicurare che l’affetto della gente nei miei confronti è grande. Lo vedo quando ogni settimana visito le parrocchie. Le persone si avvicinano perché io le tocchi e dicono: “Sarà duro, ma questa persona ci difende e dice la verità”. Per questo mi apprezzano. Il loro è un affetto che ogni volta mi sorprende».

FUJIMORI? UN GRANDE LAVORATORE
Nonostante i contrasti sulle tematiche della pianificazione familiare, si dice che lei sia molto amico di Fujimori…
«Evidentemente lo conosco dai tempi di Ayacucho. Allora ci trovammo d’accordo sul problema del terrorismo. Fujimori considerava la pace il primo obbligo dello stato. E anch’io, da arcivescovo, vedevo la pace come un valore essenziale per poter evangelizzare. Fujimori ha avuto, per lo meno con me, la capacità di dialogare, anche se abbiamo avuto serie divergenze, ad esempio sulla politica demografica».
Qual è la sua opinione sui 10 anni di governo fujimorista?
«Fujimori è un uomo che ha lavorato moltissimo. In Perù si è ottenuto un maggior clima di pace e una gestione più onesta dell’economia. Il costo è stato altissimo, ma chi aveva un’altra formula? Non tocca a me giudicare il suo governo. A conti fatti, però, io credo che il saldo sia positivo. Questo era un inferno».

DIRITTI UMANI. E L’ABORTO?
Lei ha avuto una forte polemica con le organizzazioni per i diritti umani. Sinceramente, secondo lei, questi sono rispettati in Perù?
«Quando io parlo di diritti umani, intendo i diritti di una persona che è stata creata a immagine e somiglianza di Dio e che, pertanto, merita tutto il rispetto riservato a ognuno di noi. I diritti umani sono un problema attuale, ma sono stati ridotti a diritti politici, normalmente con riferimento ai terroristi. Che dire del diritto all’educazione religiosa, a un vincolo stabile nel matrimonio, al lavoro, alla libertà d’espressione, alla sicurezza cittadina, all’intimità, alla dignità? Questi diritti non li difende nessuno. Quando lei parla di diritti umani, si riferisce soltanto a diritti politici?».
Nel termine diritti umani io includo, come lei giustamente ha sottolineato, una serie di diritti: al lavoro, alla libertà di espressione, a muoversi, a credere. Sì, intendo questo: una serie di diritti inglobati nell’essere persona…
«Ebbene, in questa visione ampia dei diritti umani, io direi che nel Perù c’è, ragionevolmente, una politica di diritti umani che permette di abitare il paese. Sono un po’ stanco di coloro che ci chiedono di parlare di diritti umani semplicemente per fare danno a un paese che cerca di alzare la testa».
Come il Perù?
«Certo, come il Perù».
Dunque, i diritti umani sono legati anche a questioni inteazionali….
«Chi difende i diritti umani, quando i paesi più potenti (come possono essere gli Stati Uniti) pretendono di interferire con la loro presenza nei paesi più poveri, per i propri interessi e usando una pressione economica e militare? Chi difende i diritti umani, quando un paese come l’Iraq è devastato da cima a fondo? Chi difende i diritti umani dalle multinazionali? E non è tutto qui. C’è una condanna forte e definitiva dell’aborto da parte di istituzioni mondiali come le Nazioni Unite, Amnesty Inteational o la Commissione interamericana per i diritti umani? Io non l’ho sentita».
Contro l’aborto?
«Si stupisce? Io non vedo peggior assassinio di una creatura non nata. Si tratta di milioni di assassinati. Chi li difende?».

ROMA… PUO’ ATTENDERE
Lei pensa che un giorno o l’altro andrà a Roma? Al Vaticano, intendo…
«Credo con franchezza che mi piacerebbe restare in Perù per tutta la vita. Ho un enorme amore per il papa e la Santa Sede, ma credo che il mio paese abbia bisogno di me qui. Spero che sia così».

Paolo Moiola




Per una società senza strozzini

INTRODUZIONE

Se, qualche anno fa, avessimo dovuto rispondere a bruciapelo alle domande «chi è Muhammad Yunus?» e «dove si trova il Bangladesh?», forse saremmo stati in difficoltà.
Oggi, grazie a giornali e tivù, un discreto numero di persone conosce il professor Yunus per aver letto il libro dal titolo provocatorio «Il banchiere dei poveri», Feltrinelli, Milano 1998; di conseguenza ha appreso pure che il Bangladesh è una repubblica indipendente, nata nel 1971 dalla secessione del Pakistan orientale.
Yunus, nato e cresciuto a Chittagong, in Bangladesh, ha insegnato economia in università americane e nel suo paese. Però la notorietà del professore si deve alla «Banca Grameen», da lui fondata, che intende finanziare i bisognosi.
Il Bangladesh è tra i paesi più poveri del continente asiatico e del mondo: vive prevalentemente di agricoltura, producendo riso, grano, legumi, oppio, tè, spezie e iuta. La classe dirigente, che dominava il paese all’epoca dell’indipendenza, era mediocre, corrotta, interessata alla scalata al potere, composta prevalentemente di proprietari terrieri, commercianti, piccoli industriali e usurai.
Con la politica del microcredito a tassi ridotti, si è attuata in Bangladesh una rivoluzione pacifica, che ha permesso al 10% della popolazione (12 milioni su 120 milioni) di affrancarsi dalla piaga dell’usura.

In questo «dossier drammatizzato» raccontiamo, dando voce ai protagonisti del libro, la storia della banca «Grameen». Sembrava un’utopia; invece è diventata una realtà che scavalca i confini del Bangladesh e si sta diffondendo in ogni parte del mondo.

Antonio Rossi




Prima scena – Facevo lo scout

Un professore
di economia
all’università
entra in crisi.

Una giornalista della televisione del Bangladesh intervista il professor Muhammad Yunus.

Gioalista.
Questa sera, signore e signori, intervisteremo una personalità del mondo della cultura, un professore universitario, che è diventato famoso per aver fondato «la banca dei poveri»: Muhammad Yunus… Professore, dove è nato e qual è la sua professione?
Yunus.
Sono nato in Bangladesh, (ex Pakistan orientale), vicino a Chittagong, principale porto mercantile del Bengala. Ho 59 anni, sono di religione musulmana e mi sono laureato in economia. Dopo aver insegnato negli Stati Uniti (nelle università di Boulder nel Colorado e di Vanderbilt nel Tennessee), ho diretto il dipartimento di Scienze economiche a Chittagong.
Gioalista.
I suoi genitori hanno influito sulle sue scelte di vita?
Yunus. Mio padre era orafo: è stato un esempio di uomo forte, amorevole e fedele. Mia madre, casalinga, figlia di mercanti, ha cresciuto ed educato otto figli. Proprio grazie a mia madre, al suo amore per i poveri e diseredati, ho scoperto la mia vocazione. Da giovane ho frequentato gli scout e dallo scoutismo ho imparato molte cose: ad elevare la mente; ad essere caritatevole; a coltivare intimamente la religiosità più che a fermarmi agli aspetti esteriori del rito; ad amare e assistere gli altri esseri umani.
Gioalista.
Parliamo ora un po’ della banca «Grameen».
Yunus.
Nel 1977 ho fondato la «Grameen Bank», la «banca del villaggio», poiché «grameen» deriva da «gram», che significa villaggio. La «Grameen» è un istituto di credito indipendente che pratica microcredito ai poveri senza richiedere garanzie.
Gioalista.
Ma come è nata l’idea di dar vita ad una «banca dei poveri»?
Ho avuto, tornando dagli Usa, una forte crisi di identità: ho provato un senso di vuoto quando mi sono chiesto a che cosa potessero servire le belle teorie economiche che insegnavo. Esse avevano una risposta per tutti i problemi, mentre la gente del Bangladesh, del villaggio di Jobra, vicino all’università, continuava a morire di fame all’aperto. L’idea forte divenne questa: devo dare ad un altro essere vivente, specie se tra i più poveri dei poveri, non una teoria bensì un aiuto, anche modesto, ma reale.

Seconda scena
cinque lire al giorno

Sufia ha 21 anni,
tre figli
e costruisce sgabelli
di bambù.

Villaggio di Jobra, vicino al campus universitario di Chittagong. Il villaggio è diviso in tre parti con gente appartenente a religioni diverse: hindù, buddista e musulmana.
Questa è la storia di Sufia, una giovane donna, che sta fabbricando uno sgabello di bambù davanti alla sua casa diroccata. La lavoratrice è accovacciata per terra. Il professor Yunus la incontra con un collega nel 1976.

Yunus. C’è qualcuno in casa?
Sufia. Non c’è nessuno.
Yunus. Non si spaventi, non siamo estranei: siamo vostri vicini, insegniamo qui all’università e desideriamo soltanto rivolgerle qualche domanda.
Quanti figli ha?
Sufia. Tre figli.
Yunus. Questo che ha in braccio è davvero un bel bambino! Lei come si chiama?
Sufia. Il mio nome è Sufia Begum.
Yunus. Quanti anni ha?
Sufia. 21 anni.
Yunus. È suo il bambù che usa per lavorare?
Sufia. Sì.
Yunus. Dove lo prende?
Sufia. Lo compro.
Yunus. E quanto lo paga?
Sufia. Circa 500 lire.
Yunus. Usa i suoi soldi per pagare?
Sufia. No, me li faccio prestare dal rivenditore, il paikar.
Yunus. Dal rivenditore? E quali sono i vostri accordi?
Sufia. Io gli rivendo gli sgabelli confezionati alla fine della giornata; così ripago il debito. Quello che rimane è il mio guadagno.
Yunus. A quanto rivende uno sgabello?
Sufia. A 505 lire.
Yunus. Così il suo guadagno è di appena 5 lire!
Sufia. Sì.
Yunus. E non potrebbe farsi prestare il denaro da altri e comprare lei stessa il bambù?
Sufia. Sì, ma quelli che lo prestano sono commercianti e vogliono molti, molti interessi. Quando ci si lega con quelli, si diventa solo più poveri.
Yunus. Quanto vogliono, in generale, questi individui?
Sufia. Dipende… Talora il 10% a settimana. Ma io conosco un vicino che paga persino il 10% al giorno!

Sufia torna a lavorare; non può permettersi il lusso di perdere altro tempo a parlare. La sua storia dimostra che in tutte le società esistono usurai.
In Bangladesh, nel 1977, gli usurai si erano sostituiti al mercato ufficiale del credito. I poveri (non per loro colpa, ma per carenza di strutture finanziarie e istituzionali) erano inevitabilmente costretti a subire un processo di alienazione che li annullava, sino a spingerli verso il suicidio. Chi riceve a prestito somme da usurai, per rimborsarle dovrà ottenere un altro prestito e poi un altro: la spirale perversa si affranca solo con la morte.
Se la terra è offerta in garanzia agli usurai, questi ne godranno i frutti sino al rimborso totale del debito. Decorso un certo periodo, se il debito non viene estinto, il creditore-usuraio ha il diritto di comprare il terreno ad un prezzo prestabilito.

Terza scena

Un povero
idealista

Tale appare Yunus
al direttore
di una banca
governativa. Poi…

Nel 1976 Muhammad Yunus incontrò a Jobra il direttore della agenzia della banca governativa «Janata». Il professore aveva pensato di rivolgersi al sistema creditizio ufficiale per ottenere prestiti ai poveri.

Direttore di banca. Buon giorno, professore. Cosa posso fare per lei?
Yunus. Ho una proposta nuova da sottoporvi. Vorrei che effettuaste dei prestiti ai poveri di Jobra. La somma che richiedo è irrisoria. Ho già fatto io un prestito di 27 dollari a 42 persone. C’è molta gente che ha bisogno di denaro per poter lavorare: denaro per materie prime…
Direttore. Quali materie prime?
Yunus. Le rispondo: alcuni fabbricano sgabelli di bambù, altri intrecciano stuoie, altri sono conducenti di risciò. Se potessero avere prestiti da una banca a tassi commerciali, riuscirebbero a vendere liberamente le loro merci sul mercato e a trae un profitto sufficiente per vivere in modo dignitoso.
Direttore. È probabile.
Yunus. Oggi sono costretti a lavorare per tutta la vita come schiavi, senza riuscire a sottrarsi al giogo dei grossisti che prestano loro denaro a tassi di strozzinaggio.
Direttore. Sì, conosco l’usura.
Yunus. Ecco perché sono venuto da lei, per chiederle di concedere prestiti a queste persone.
Direttore. Questa è una cosa che non posso fare.
Yunus. E perché?
Direttore. Quella somma iniziale, di cui lei dice che avrebbero bisogno i poveri, non coprirebbe neppure i costi di tutta la pratica. La banca non sta certo a perdere tempo con queste inezie.
Yunus. Inezie? Per i poveri sono somme importanti.
Direttore. Aggiungo poi che tutta quella gente è analfabeta. Non sarebbe neanche capace di riempire i formulari.
Yunus. In un paese, dove il 75% delle persone non sa né leggere né scrivere, l’obbligo di compilare i moduli è ridicolo.
Direttore. Tutte le banche del nostro paese adottano queste regole.
Yunus. Certo. E questo è molto significativo, non le pare?
Direttore. Anche quando una persona versa del denaro, le chiediamo di segnare la cifra su di un modulo.
Yunus. E perché?
Direttore. Come, perché?
Yunus. Perché la banca non può prendere il denaro ed emettere una ricevuta che dice «ricevo la somma tale dal signor tale»? Perché deve essere il cliente a scrivere, e non può farlo la banca?
Direttore. Ma come si può mandare avanti una banca avendo a che fare con gente analfabeta?
Yunus. È semplice. In cambio dei contanti, la banca emette una ricevuta.
Direttore. E che cosa capita quando uno vuole prelevare?
Yunus. Non so. Un modo semplice deve esserci. Per esempio: la persona potrebbe presentare la ricevuta di versamento al cassiere e questi restituirle il denaro. I problemi contabili sono della banca.
Direttore. Non sono d’accordo.
Yunus. Mi sembra che il vostro sistema bancario sia fatto apposta per escludere gli illetterati.
Direttore. Professore, far funzionare una banca non è semplice come lei crede.
Yunus. Può darsi; però sono sicuro che non è neanche così complicato come lei vuol far credere.
Direttore. Guardi che in qualsiasi banca del mondo chi vuole un prestito deve riempire delle carte.
Yunus. Va bene. Allora posso incaricare qualcuno dei miei studenti di riempire i moduli al posto degli analfabeti. Ciò non dovrebbe creare dei problemi.
Direttore. Lei non capisce, professore, che non possiamo assolutamente concedere prestiti a persone che non possiedono nulla.
Yunus. Perché?
Direttore. Perché non offrono garanzie.
Yunus. Perché avete bisogno di una garanzia?
Direttore. È perché vogliamo che il denaro ci sia restituito che chiediamo una dimostrazione di solvibilità.
Yunus. È assurdo. I più poveri dei poveri lavorano 12 ore al giorno: per vivere devono vendere i loro prodotti. Non c’è ragione che non rimborsino, soprattutto se vogliono un altro prestito che consenta loro di resistere un giorno di più. È la miglior garanzia che possiate avere: la loro vita!
Direttore. Ma lei, caro professore, è un idealista, che passa troppi giorni sui libri.
Yunus. Se siete sicuri che il prestito sarà rimborsato, perché avete bisogno di garanzie?
Direttore. Perché questa è la regola.
Yunus. Allora solo chi dà garanzia può farsi prestare denaro?
Direttore. È così.
Yunus. È una regola stupida che fa sì che si presti denaro solo ai ricchi.
Direttore. Non sono io che faccio le regole: è la banca.
Yunus. Comunque io penso che le regole dovrebbero essere cambiate.
Direttore. In ogni caso noi, qui, non possiamo concedere prestiti.
Yunus. Davvero?
Direttore. Sì. L’agenzia riceve soltanto i depositi dell’università e dei docenti.
Yunus. Credevo che le banche funzionassero principalmente grazie ad attività creditizie.
Direttore. I prestiti possono essere concessi solo dalla sede centrale.
Yunus. Intende dire che se io (non i poveri) venissi a chiederle un prestito, lei non potrebbe dar corso alla mia domanda?
Direttore. Esattamente.
Yunus. Così, quando noi nelle aule insegniamo che le banche prestano denaro, diciamo una bugia?
Direttore. Ho solo detto che, per un prestito, lei deve rivolgersi alla sede centrale. Sta a loro decidere in un senso o in un altro.
Yunus. Se ho ben capito, è meglio che parli con i suoi superiori.
Direttore. È una buona idea.

Qualche giorno dopo, Muhammad Yunus si reca alla sede centrale della banca governativa Janata e incontra il direttore.

Direttore della sede centrale. I governi sono fatti per aiutare i più poveri. Ora, se lei trova nel villaggio di Jobra una persona benestante e disposta a farsi garante per il beneficiario del prestito, io penso che in questo caso la banca potrebbe rinunciare a chiedere una garanzia.
Yunus. Anche se ho dei dubbi che sia la soluzione migliore (perché il garante potrebbe approfittarsi della persona a cui offre la copertura), potrei propormi io come garante.
Direttore. Lei in prima persona?
Yunus. Sì. Accettereste che sia io a garantire tutti i prestiti?
Direttore. A quanto ammonterebbe la somma complessiva richiesta?
Yunus. Non oltre 10 mila taka (1 milione di lire).
Direttore. D’accordo. Accettiamo che lei faccia da garante per 10 mila taka. L’avverto che non potrà andare oltre.
Yunus. Però le dico che, se un beneficiario non rimborsasse, io non coprirò il debito!
Direttore. Essendo lei il garante, potremmo obbligarla a pagare.
Yunus. E come mi obblighereste?
Direttore. Potremmo intentare… una causa legale.
Yunus. Sarei curioso di vedere.
Direttore. Professor Yunus, lei sa benissimo che non porteremo mai in tribunale il capo di un dipartimento universitario, che si rende personalmente garante per un poveraccio. I soldi che potremmo ricuperare non compenserebbero la cattiva pubblicità. In ogni caso, il prestito richiesto è una tale miseria che non vale la pena di affrontare tutte le spese di un processo.
Yunus. Beh, la banca siete voi e sta a voi valutare costi e benefici… Sappiate, però, che se c’è una insolvenza io non pagherò.
Direttore. Lei mi rende le cose difficili, professor Yunus!
Yunus. Ne sono desolato, ma anche la banca rende le cose difficili a un sacco di persone, specialmente a quelle che non possiedono nulla.
Direttore. Io sto cercando di aiutarla.
Yunus. La capisco e non la biasimo: il mio contenzioso è con le regole della banca.
Direttore. A questo punto… non posso che caldeggiare la sua proposta presso i superiori della sede della capitale Dhaka. Staremo a vedere che cosa decideranno.
Yunus. Ma lei, direttore regionale, non è abilitato a prendere la decisione?
Direttore. Certamente. Ma il suo caso è troppo poco ortodosso perché lo tratti da solo. Devo chiedere l’autorizzazione dall’alto.

Dopo 6 mesi (dicembre 1976), Yunus ottiene a favore dei poveri l’apertura di credito che ha richiesto. Inizia l’avventura della banca «Grameen».

Quarta scena

Andrete all’inferno

L’opposizione
alla «Grameen»
dei capi musulmani.
Povere donne!

A ll’inizio l’attività dei funzionari della «Grameen» è stata molto difficile, anche per l’ostilità dei capi religiosi (mullah) nelle zone più tradizionaliste del paese… Un funzionario si reca in un villaggio per illustrare alle donne il finanziamento. Ma incontra il mullah.

Mullah. Signor funzionario della banca, se resta nel villaggio, lo fa a suo rischio e pericolo. Noi non possiamo rispondere della sua incolumità.
Donna. Signor mullah, perché ha minacciato il funzionario?
Mullah. Ditemi, donne, volete andare tutte all’inferno?
Donna. Perché all’inferno? «Grameen» non fa altro che del bene.
Mullah. Disgraziate! Non sapete che è una organizzazione cristiana?
Donna. Il direttore di «Grameen» è musulmano e conosce il corano meglio di lei.
Mullah. Lo scopo di quella gente è distruggere il velo: è per questo che sono venuti.
Donna. Non è vero! Sono venuti per darci la possibilità di fare il lavoro che pensiamo: fabbricare sgabelli, intrecciare stuoie, decorticare il riso, ingrassare una vacca, tirare su i figli… Non c’è nemmeno bisogno di uscire di casa: gli impiegati della banca vengono direttamente da noi. Cosa c’è di contrario al velo? L’unico che va contro il velo è proprio lei, che ci obbliga a fare chilometri per andare a cercare aiuto da un’altra parte.
Mullah. Andate alla bottega dei prestiti. Il padrone è un buon musulmano.
Donna. Ma vuole il 10% alla settimana.
Mullah. Ah, sentite, le vostre anime marciranno all’inferno!
Donna. Perché non ce li porta lei i soldi, se non vuole che andiamo dalla «Grameen»?
Mullah. Mi avete seccato troppo. Andatevene! Sono stanco di essere importunato giorno e notte da questa storia.
Donna. È lei che ci ha importunato, scacciando la «Grameen» dal villaggio. Non ce ne andiamo sino a quando non autorizzerà la banca a tornare!
Mullah. Andate tutte al diavolo! Se volete essere dannate, fate pure, accomodatevi. Io ho fatto il possibile per avvisarvi.

Visti i risultati raggiunti dalla «Grameen», sembra proprio che quelle donne abbiano preferito andare… all’«inferno»!

Quinta scena

A servizio
dei poveri

Regole diverse.
Oltre il 90% dei clienti della «Grameen»
sono donne.

A l termine di una conferenza, il professor Yunus apre un dibattito con il pubblico sul tema della concessione del prestito.

Domanda. A chi viene concesso il prestito?
Yunus. Il prestito è fatto al singolo, in quanto fa parte di un gruppo di persone legate da aspirazioni, condizioni economiche e sociali affini. Il beneficiario del credito appartiene alla vasta categoria dei poveri; è sottoposto dai funzionari della banca ad un approfondito esame verbale. La clientela è prevalentemente femminile: una clientela particolare, storicamente esclusa dal credito.
Domanda. Quali sono le principali caratteristiche del prestito?
Yunus. Il prestito non è elevato e a tasso d’interesse inferiore a quello delle banche; ha durata annuale, con rimborso settimanale a decorrere dalla settimana successiva a quella dell’erogazione del prestito. Le insolvenze sono limitate all’1-2% dei clienti.
Domanda. Ci può parlare del funzionamento della «Grameen»?
Yunus. Il funzionamento è molto diverso dalle regole delle banche tradizionali, anche quelle del Bangladesh.
– I clienti devono dimostrare di essere poveri: essendo anche azionisti della banca, il profitto atteso è l’uscita dal bisogno. La banca ha assolto il suo compito quando le vite dei clienti siano diventate meno difficili e meno sventurate.
– I prestiti erogati per finalità diverse devono produrre una redditività tale per i beneficiari da poter permettere di rimborsare le rate e di vivere una vita dignitosa.
– La banca deve favorire cambiamenti, non solo economici, ma anche sociali.
Domanda. Qual è stata l’espansione della banca in Bangladesh?
Yunus. La banca oggi ha 13 mila dipendenti e 1.086 agenzie; è diffusa in 30 mila villaggi del paese; visita 2.400.000 clienti a domicilio, di cui oltre il 90% sono donne.
Domanda. Che importanza ha la garanzia?
Yunus. Secondo i banchieri tradizionali, la garanzia è indispensabile. In realtà essa non serve a tutelare gli interessi della banca, ma a tenervi lontana la povera gente.
L’obiettivo della «Grameen» è di far sì che i clienti possano intraprendere, cioè possano utilizzare le proprie risorse di disperazione e coraggio per dare un nuovo corso alle cose.
La «Grameen» ha capovolto le due regole tradizionali del sistema creditizio. Prima regola: più si ha, più è facile avere; seconda: se non si ha niente, non si ricava niente.
I clienti, in quanto poveri, vogliono comportarsi bene, perché sanno che il prestito è la loro unica chance.
Domanda. Il modello della «Grameen» è esportabile in altri paesi?
Yunus. Sì lo è, ma non in modo integrale. Vi sono, però, caratteristiche applicabili dovunque:
– il tasso di recupero dei crediti erogati deve avvicinarsi al 100%;
– è indispensabile la giusta individuazione degli interlocutori.
Attualmente esistono banche che si rifanno alla «Grameen» in 58 paesi di ogni continente. I problemi dei poveri sono fondamentalmente gli stessi in tutte le parti del mondo. La cultura della povertà trascende le differenze di razza, lingua, costumi. Il credito è uno strumento universale per liberare le potenzialità delle persone.

Sesta scena

Anche con bill

Cercansi clienti
nell’Arkansas.
Donne, indios
e ghetti di Chicago.

Muhammad Yunus, fondatore della «Grameen», ricerca nuovi clienti nell’Arkansas (Usa), appoggiandosi ad un ufficio che concede sussidi statali e mette a disposizione i tabulati degli iscritti. Si organizza un incontro con alcune persone bisognose. È il 1986. Il governatore dell’Arkansas è un certo Bill Clinton.

Yunus. Supponiamo che la vostra banca vi presti del denaro per iniziare un’attività. Quale somma chiedereste?
Una voce. Ma noi non abbiamo un conto in banca.
Yunus. Ma se l’aveste e la banca vi prestasse del denaro, che cosa ne fareste? Vi è qualcuno tra voi che ha una idea? Magari avete pensato: «Se avessi dei soldi, potrei comperarmi quella data cosa…».
Sentite, io vengo dal Bangladesh, dove gestisco una banca speciale che presta denaro a persone bisognose. La settimana scorsa, in un incontro con il vostro governatore Clinton, mi è stato chiesto di portare la mia banca nella vostra comunità. Io sto valutando se aprire una banca proprio qui; ma prima sono venuto per capire se qualcuno è interessato a farsi prestare del denaro. La mia banca non chiede garanzie: l’unica cosa che occorre è che le persone abbiano un’idea di cosa fare con i soldi del prestito.
Donna A. Io vorrei chiedere un prestito alla sua banca.
Yunus. Benissimo. Di che cifra abbisogna?
Donna A. Mi servono 375 dollari. Faccio l’estetista, ma non posso lavorare come vorrei perché non ho l’attrezzatura necessaria. Se potessi comprarmi una valigetta per manicure, che costa appunto 375 dollari, sono sicura che potrei rimborsare il credito con i soldi in più che guadagnerei.
Donna B. Io sono disoccupata, in quanto la fabbrica di indumenti dove lavoravo ha chiuso per trasferirsi a Taiwan. Con qualche centinaio di dollari potrei acquistare una macchina per cucire, di seconda mano, e quindi confezionare degli abiti da vendere ai vicini.

L a «Grameen» negli Stati Uniti, oltre che nell’Arkansas, si è arricchita di altri numerosi progetti, fra cui: uno presso i sioux nel sud Dakota, un secondo fra i cherokee dell’Oklahoma e un terzo nei ghetti di Chicago.

Conclusione

Saranno famosi?

L’ultima parola
al fondatore
della Grameen Bank,
Muhammad Yunus.

La «Grameen Bank» si incentra sul microcredito, che va contro la cultura dominante. Con esso si favorisce lo sviluppo economico e sociale delle persone; si vince la povertà, che è la più grave tra le ingiustizie.

Da una conferenza
sul microcredito, Usa 1994
Il microcredito offre un’opportunità unica ai poveri: permette loro di affrancarsi dalla schiavitù del denaro offerto dagli usurai e di non mendicare più. Le donne, che prima vivevano recluse, oggi possono parlare, muoversi, scoprirsi la faccia dal velo e contrarre coscientemente un equo debito in denaro.
Il microcredito non va confuso con l’elemosina fatta ai poveri. L’elemosina non è risolutiva, perché ignora i problemi o li lascia incancrenire, toglie lo spirito di iniziativa, elimina il senso di rispetto che ognuno ha verso se stesso.
Il «libero mercato» libera l’individuo, gli dischiude un ampio ventaglio di opzioni, ma non è la panacea di tutti i mali sociali: occorre che il motore della libera impresa non miri soltanto al profitto e guadagno, ma sappia coniugare entrambi con le finalità sociali. Nella nostra società bisognerebbe avere il coraggio di valutare la qualità della vita non dallo stile di vita dei ceti più abbienti, ma da quello di coloro che sono situati nei gradini più bassi della scala sociale.
È stata mossa una forte critica nei confronti del microcredito, dicendo che non favorisce lo sviluppo economico del paese. Se per sviluppo si intende il reddito «pro capite», i consumi «pro capite» o qualche altra cosa «pro capite», la risposta è affermativa. Ma se per sviluppo si intende il miglioramento del tenore di vita della metà più povera della popolazione del Bangladesh, allora è vero il contrario: il microcredito favorisce lo sviluppo economico del paese.

Dal vertice mondiale
del microcredito, 1997
Come direttore di banca, il mio lavoro è quello di prestare denaro. Ma, paradossalmente, tutta l’impresa del microcredito, costruita per e con il denaro, ha nulla a che fare con esso. Il fine più alto della «Grameen» è quello di aiutare le persone a sviluppare il proprio potenziale: quindi non il capitale monetario, bensì quello umano. Il microcredito è solo uno strumento che permette alla gente di liberare i propri sogni, e aiuta anche i più poveri e sfortunati a infondere nella propria vita dignità, rispetto e significato.
Noi ci accontentiamo di rimuovere le barriere strutturali, che per tanto tempo hanno escluso una fascia di persone dal consesso umano. Se queste riusciranno a realizzare appieno il proprio potenziale, il mondo verrà completamente trasformato non solo dall’assenza di povertà, ma dall’impulso economico e sociale di coloro che fino a ieri dormivano ai bordi della strada, vagabondi e mendicanti, non sapendo se quel giorno o quello dopo sarebbero riusciti a mangiare.
Questo vertice sul microcredito è un evento grandioso nel quale celebriamo la liberazione del credito dal giogo della garanzia e salutiamo con gioia la fine dell’apartheid finanziaria. Affermiamo che il credito è più di una transazione commerciale: il credito è un diritto dell’uomo al pari del cibo. Il vertice festeggia il successo di milioni di donne decise, che si sono sollevate dalla povertà estrema a una dignitosa autosufficienza. Riteniamo che in una società umana e civile non vi sia posto per la povertà. Con questo vertice intendiamo relegare la povertà nei musei.

Da una conferenza all’Unesco,
1994
Noi vogliamo che la «Grameen», oggi conosciuta come la banca dei poveri, acquisti dopo il 2000 una nuova identità e diventi famosa come la banca degli ex-poveri.

Antonio Rossi




La devastante scommessa del Cremlino – CECENIA DOSSIER

Dopo lo zar e Stalin, è toccato a Boris Eltsin e al suo successore, Vladimir Putin, affrontare la «questione cecena». Ufficialmente non si tratta di una guerra, ma di una «operazione antiterrorismo» contro fondamentalisti islamici e malavita organizzata. Tanto che in Russia, dall’uomo della strada a politici, giornalisti, preti ortodossi, tutti si dichiarano a favore di una soluzione drastica. Così, sull’onda di un malinteso orgoglio nazionalistico, si sta consumando una tragedia umana di enormi proporzioni. E una vittoria del potere (e della malavita) sulla democrazia. Perché, con la guerra in Cecenia, Putin e il Cremlino sono riusciti a distrarre i russi e la comunità internazionale dai veri problemi dell’ex superpotenza: difficoltà economiche, corruzione, scandali, strapotere della mafia. Ma, come insegna la storia, passata e recente, i conti veri si faranno soltanto alla fine.

I rapporti tra Russia e Cecenia sono stati nei secoli oltremodo tormentati. Anche dopo la «pacificazione» del Caucaso ad opera dell’esercito zarista, conclusasi nella seconda metà del secolo scorso, i ceceni sono sempre stati per la Russia sudditi alquanto irrequieti e hanno approfittato di ogni difficoltà del potere centrale per rivendicare la propria indipendenza. Nel nostro secolo si contano diversi tentativi di secessione, a cominciare da quello messo in atto subito dopo la rivoluzione di febbraio del 1917, fino alla dichiarazione d’indipendenza pronunciata da Zhochar Dudaev nell’ottobre del 1991.
Nel 1991 le 15 repubbliche dell’Unione hanno avuto la possibilità di diventare stati indipendenti, diritto che la costituzione sovietica riconosceva loro. Questa trasformazione ha interessato anche le tre repubbliche nazionali del Caucaso meridionale o Transcaucasia: Armenia, Georgia e Azerbaigian. Il Caucaso settentrionale o Ciscaucasia, che apparteneva amministrativamente alla «Repubblica socialista federale sovietica della Russia» ha continuato a fae parte quando nel 1991, con lo scioglimento dell’URSS, la repubblica è divenuta a sua volta stato indipendente col nome di «Federazione Russa».
Di conseguenza, ogni tentativo della Cecenia di rendersi indipendente va a ledere il principio della intangibilità dei confini della «Federazione, sul cui territorio vivono molti popoli diversi per origini etniche, lingua, religione. È comprensibile, quindi, che Mosca tema il nascere di movimenti secessionisti entro i propri confini e sospetti che la Cecenia possa costituire un esempio contagioso. Inoltre, il controllo della Ciscaucasia ha anche importanza economica per la presenza del petrolio e per gli oleodotti e i gasdotti che la attraversano per raggiungere i porti del Mar Nero.
La Russia ritiene, dunque, che, volenti o nolenti, i ceceni debbano rassegnarsi a restare nel suo abbraccio. Per domare le loro resistenze e il desiderio di libertà, dapprima l’Impero russo, poi l’URSS e, infine, la Federazione russa non hanno risparmiato energie e hanno adottato le misure più drastiche e terribili: terra bruciata, deportazioni di massa, bombardamenti.
Visto in questa prospettiva ciò che sta accadendo oggi in Cecenia non ha niente di straordinario e imprevedibile.
Sul modo in cui risolvere l’annosa «questione cecena» oggi concordano perfettamente le opinioni delle massime autorità dello stato e dell’ultimo dei cittadini russi, a ulteriore conferma del fatto che, per quanto la gente ami sparlare dei propri governanti e addossare loro le colpe di tutti i mali, essi sono pur sempre il riflesso della base che li ha espressi. Il primo ministro Vladimir Putin ha riassunto la posizione del governo con una frase divenuta ormai proverbiale: ha giurato che i terroristi ceceni sarebbero stati «raggiunti e accoppati fin nei cessi».
Simile popolana eloquenza ho ritrovato nelle parole di un taxista (i taxisti sono notoriamente la più schietta ed indicativa vox populi), il quale mi spiegava cosa bisogna fare in Cecenia: «Non c’è da starci tanto a pensare. Prima tiriamo giù tutto e poi ricostruiremo di nuovo».
In modo più o meno sfumato questa posizione viene di fatto sostenuta anche dall’intelligencija, la parte più consapevole e responsabile della società russa. Con amarezza e con rassegnazione, senza la tronfia bellicosità del taxista, uomini di cultura e di chiesa accettano i bombardamenti delle città e dei villaggi ceceni come l’unica soluzione rimasta. La formula che viene usata per giustificare l’uso di misure così drastiche è: «A mali estremi, estremi rimedi».
UN’INQUIETANTE
UNANIMITÀ
Le ultime elezioni politiche in Russia si sono avute il 19 dicembre 1999. Durante la campagna elettorale nessuna delle forze politiche, neppure quelle più liberali, si è schierata contro l’operato del governo in Cecenia, sapendo che su questo punto esso godeva di un ampio consenso tra l’elettorato.
La precedente guerra cecena del 1994-’96 era stata accolta in tutt’altro modo: contro di essa si erano subito levate voci di dissenso, diventate sempre più numerose, tanto da dare vita a un movimento trasversale di opposizione, appoggiato dagli organi d’informazione indipendenti.
Gioali e televisioni cercavano di informare il pubblico su quello che stava realmente accadendo nelle zone del conflitto, denunciavano i tentativi di disinformazione degli organi governativi e cercavano di fornire le cifre reali del disastro umanitario. Allora c’erano state perfino dimostrazioni pubbliche contro la guerra, guidate da alcuni politici progressisti, come Egor Gajdar.
Oggi, invece, tranne alcune eccezioni, tutti approvano. Stampa e televisioni (a parte poche testate e il canale NTV) ripetono gli asettici comunicati ufficiali. Il pubblico vede solamente le immagini girate tra le linee russe, sente solo i commenti dei generali e soldati dell’esercito federale. Lo stesso Gajdar non nasconde la propria soddisfazione nel ritrovare tra la gente un atteggiamento diametralmente opposto a quello di alcuni anni fa: «È il segno di una società matura, che comprende la differenza tra le ragioni della guerra del 1994-1996 e quella del 1999», ha detto in una recente intervista.
DAGLI ATTENTATI
AL TRIONFO DI PUTIN
In che cosa consiste questa differenza? Innanzitutto, nel fatto che l’attuale conflitto non viene presentato come una guerra contro un piccolo popolo secessionista, ma una lotta senza quartiere contro il terrorismo islamico e la malavita organizzata.
Ufficialmente non si è mai parlato di guerra, ma di «operazione antiterrorismo». E che i terroristi ci siano è stato tragicamente dimostrato dalle bombe contro abitazioni che, in settembre, hanno fatto centinaia di vittime a Mosca e in altre città della Federazione russa. Sull’onda dell’indignazione e della rabbia suscitate in tutta la Russia da quegli odiosi attentati, si è deciso subito di lanciare una grossa offensiva contro le bande armate che da tempo terrorizzavano la popolazione dentro e fuori i confini della Cecenia. In agosto uno di questi gruppi, che fa capo all’ormai leggendario Shamil Basaev, era riuscito a sconfinare nel vicino Dagestan, impegnando le truppe russe con vere e proprie azioni di guerriglia.
Fin qui il quadro sembra abbastanza chiaro. Ma ci sono alcuni elementi che lo complicano. Per cominciare, la matrice cecena degli attentati terroristici non è stata ancora dimostrata, tanto che qualcuno ha paragonato le bombe di Mosca all’incendio del Reichstag a Berlino, appiccato dalle camicie brune, ma attribuito da Hitler agli oppositori politici.
Fa pensare anche il modo inconsueto con cui gli attentati sono stati messi a segno. Come obiettivi non sono stati scelti i classici simboli del potere, né edifici governativi o personaggi politici in vista, né luoghi pubblici nevralgici o mezzi di trasporto, ma, per la prima volta, sono state colpite case private in quartieri decentrati, e proprio mentre la gente era nel sonno. Un atto che sembra pensato apposta per scatenare reazioni inconsulte e suscitare, più che disorientamento e panico indefinito, odio e aggressività. Questi attentati hanno convinto i russi che c’è bisogno di una «soluzione finale» per la Cecenia.
A settembre l’uomo in grado di affrontare l’emergenza con decisione c’era. I russi se lo erano improvvisamente trovato di fronte il 9 agosto 1999, quando Eltsin lo aveva posto a capo del governo.
Vladimir Putin era un volto nuovo per il grande pubblico, che quasi nulla sapeva di lui, dei suoi meriti e delle sue qualità. In poco tempo, però, egli ha visto crescere il proprio indice di popolarità da un iniziale 5% al 50% circa di dicembre, fino al 65% di gennaio. In così pochi mesi un uomo politico, pur abile e intelligente, può difficilmente dare prova sostanziale delle proprie capacità e dell’efficacia della propria linea soprattutto in materia di economia, che per i russi è oggi il problema più urgente e quotidiano. Eppure, nonostante la vaghezza del proprio programma, il neonato partito «Unità» (è stato costituito lo scorso autunno), da lui sostenuto, alle elezioni di dicembre ha ottenuto il 23,3%, superando d’un balzo gli altri partiti e piazzandosi a ridosso dei comunisti di Gennodij Zjuganov (24,2%).
Alla popolarità di Putin non ha neppure nociuto il fatto che egli si presenti come il continuatore della linea politica di Eltsin e del suo entourage, entrambi ampiamente discreditati nel paese per le grosse difficoltà economiche in cui versa la Russia, per la dilagante corruzione e per gli scandali che li hanno coinvolti.
Il 31 dicembre 1999 il quadro elettorale ha trovato un inaspettato, ma, a ben vedere, logico completamento nelle dimissioni anticipate del presidente Eltsin, mossa che assicura a Putin, nei confronti degli altri candidati alla presidenza, un vantaggio giudicato ormai incolmabile. Difatti, già ai primi di gennaio molti (politici, governatori, sindaci) si sono affrettati a mettersi dalla sua parte.
Cosicché, a conti fatti, se la guerra in Cecenia non ci fosse stata, si sarebbe dovuta inventare.
COLPI DI PRECISIONE?
Nel frattempo, cosa stava accadendo nel Caucaso? Nell’iniziare il 22 settembre l’«operazione antiterrorismo», le autorità civili e militari russe hanno tranquillizzato il paese sulle possibilità che essa si trasformasse, come la guerra precedente, in una campagna estenuante e rovinosa, sia per l’esercito federale che per la popolazione civile. Tutti assicuravano che non si sarebbero ripetuti gli errori della volta prima, che le operazioni si sarebbero concluse in brevissimo tempo e, soprattutto, che si sarebbe fatto di tutto per risparmiare la vita di soldati e civili, utilizzando armi di alta precisione e colpendo esclusivamente le basi dei terroristi. Il riferimento alla strategia della Nato in Kosovo era evidente.
Già il 31 ottobre, però, «Memorial», associazione russa per la difesa dei diritti civili, pubblicava un documento dal titolo: Colpi di precisione. Violazione dei diritti civili e delle norme del diritto umanitario durante il conflitto armato in Cecenia, in cui venivano denunciati una serie di attacchi dell’aviazione e dell’artiglieria a centri abitati e luoghi pubblici.
I fatti, documentati dagli osservatori in Cecenia e Inguscezia, dimostravano il contrario di quanto si andava dichiarando: dimostravano che città, villaggi, vie di comunicazione venivano bombardate in modo indiscriminato seminando terrore e morte tra i civili. Quanto, d’altronde, la «strategia dei colpi di precisione» potesse essere effettivamente applicata dall’esercito federale lo si poteva immaginare dalle premesse.
Difatti, come ricorda il documento di Memorial, già all’inizio di settembre, si erano verificati problemi. Durante le operazioni contro i guerriglieri di Basaev in Dagestan, che avevano un raggio molto più circoscritto di quelle in Cecenia e si svolgevano in un territorio meglio controllato dai russi, l’aviazione e l’artiglieria federali erano riuscite in diverse occasioni ad aprire il fuoco sui loro stessi reparti, lasciando sul terreno parecchi uomini.
MASCHADOV,
PRESIDENTE DI CARTA
Al termine della guerra del 1994-’96, la Cecenia era un paese in rovina, in profonda crisi economica o morale, con un potere centrale troppo debole per far fronte all’emergenza di una sempre maggiore criminalizzazione della vita pubblica. L’abitudine a combattere, l’alto numero di armi presenti nel paese, l’impossibilità di trovare un lavoro favorirono il moltiplicarsi nel paese di bande armate, che avevano recentemente scoperto un modo comodo per rifoirsi di denaro: i sequestri di persona.
Aslan Maskhadov, il presidente eletto nel 1997, non aveva la forza e la volontà sufficienti per opporsi alle bande che ormai si erano spartite il territorio della repubblica. Le autorità russe, a loro volta, non avevano nessun interesse a collaborare con quelle cecene per riportare l’ordine pubblico e far ripartire l’economia di una repubblica che aveva dichiarato la propria indipendenza, retta da un governo secessionista che Mosca non riconosceva. Al contrario, per Mosca, valeva la regola del tanto peggio tanto meglio.
Tuttavia, se a livello operativo i russi preferivano non collaborare con le autorità della repubblica, intorno alla Cecenia giravano ingenti somme stanziate da Mosca per la sua ricostruzione, di cui solo in parte molto minima hanno beneficiato i comuni cittadini. Si aggiunga che, da tempo, sono noti i legami della criminalità russa con quella cecena, che opera su tutto il territorio della federazione e soprattutto a Mosca. Nella capitale russa fanno i propri affari potenti banditi ceceni, non estranei, tra l’altro, al business dei sequestri di persona.
Ci sono poi altre circostanze che complicano il quadro dei rapporti tra Russia e Cecenia.
L’AMBIGUITÀ DI BASAEV
Shamil Basaev, considerato uno dei più temibili capibanda ceceni, il nemico pubblico numero uno, ha iniziato la propria carriera combattendo nel 1993, a fianco dei secessionisti abkhazi nella guerra che li contrapponeva alla Georgia, di cui l’Abkhazia era parte integrante.
In quell’occasione Mosca aveva appoggiato di fatto, anche se non ufficialmente, il movimento secessionista con l’intento di indebolire una Georgia troppo indipendente e di assicurarsi un maggior controllo sulla regione del Mar Nero. In Abkhazia vivevano 250 mila georgiani e 90 mila abkhazi. È evidente che da sola la minoranza non avrebbe potuto sfrattare dalla regione la maggioranza, come fece, in un conflitto che, secondo le stime, costò la vita a 25 mila persone.
Nel giugno del 1995 Basaev divenne improvvisamente noto alle cronache di tutto il mondo per aver guidato un commando di un centinaio di guerriglieri fino a Budjonnovsk, un centro nella provincia russa di Stavropol, dopo aver percorso indisturbato i 120 chilometri che separano quella città dal confine ceceno.
Si è cercata una spiegazione a questo incredibile episodio nella corruzione che dilaga tra l’esercito. Ciò non fa che confermare gli intrecci di interessi che esistono, a tutti i livelli, tra russi e ceceni e la grossolanità dello stile con cui Mosca si muove. Tanto più che il fatto è accaduto non in tempo di pace, ma mentre era in corso un conflitto armato nella regione. Prima si permette a un convoglio di guerriglieri di arrivare fin nel cuore della provincia russa e prendere in ostaggio un intero ospedale; poi si tenta di liberare gli ostaggi con l’intervento dei corpi speciali, provocando la morte di un centinaio di persone; infine si lasciano andare ostaggi e guerriglieri in Cecenia, dove, i primi vengono liberati e i secondi si involano tra le montagne.
Oggi le cose non sono molto diverse. Ci si chiede, ad esempio, come abbia fatto lo stesso Basaev a spostare munizioni e uomini – e questa volta si parla di 2 mila guerriglieri – da una parte all’altra del confine tra Cecenia e Dagestan. Nel tentativo mal riuscito di ricacciarli indietro, l’esercito russo ha bombardato le abitazioni di civili. Come si lamenta un abitante del posto in un’intervista al giornale «Novaja Gazeta»: «Prima i soldati russi hanno lasciato uscire Basaev, e poi hanno distrutto la nostra casa».
È vero che non sempre è facile sorvegliare un confine che passa per impervie zone montane. Sappiamo, però, che l’ex-Unione Sovietica ha avuto in materia di sorveglianza delle proprie frontiere una lunga e gloriosa tradizione. E se adesso si parla apertamente di corruzione a tutti i livelli dell’amministrazione civile e dell’esercito, vuol dire che il paese dovrebbe sanare le proprie piaghe intee prima di affrontare, in maniera più limpida e coerente, il problema dei propri rapporti con un Caucaso da sempre insofferente del suo giogo.
Invece la politica della Russia nel Caucaso continua ad essere contraddittoria e ambigua; un’ambiguità che contraddistingue anche la conduzione di questa seconda campagna cecena.
Si pubblicizza molto la presenza, a fianco delle truppe federali, di un distaccamento di ceceni, anch’essi desiderosi di liberare la propria terra dai banditi. Sono guidati da Beslan Gantamirov, ex-sindaco di Grozny, condannato in Russia a una lunga pena detentiva per peculato. All’inizio di novembre i russi lo hanno liberato di prigione con l’intento di creare un docile leader ceceno da opporre all’attuale presidente Maskhadov.
La pratica di servirsi di «alleati» ceceni, evidentemente infidi e temporanei, viene correntemente usata. In novembre l’esercito è entrato senza colpo ferire a Cadermes, seconda città della Cecenia, perché il capobanda Sulim Jamadaev, che ne controllava il territorio, ha deciso di non opporre resistenza. Anziché «sterminare i banditi», lo slogan con cui si giustifica la carneficina in atto in Cecenia, il comando russo ha pensato di conquistarli alla propria causa e ha fatto di Jamadaev, noto criminale, sequestratore di persone, il vice-comandante della città, e dei suoi uomini una specie di poliziotti. Cosicché, invece di deporre le armi, ora essi le portano con l’autorità dei custodi dell’ordine.
Se non si capisce bene da che parte stiano i terroristi, i banditi e i mafiosi in questa guerra feroce, una cosa appare, invece, certa: essa sta facendo migliaia di vittime innocenti tra la popolazione civile. Di questi morti in Russia non si sa niente. Gli organi di informazione non ne parlano e i comunicati di Putin e dei generali si limitano alla formula: «Tutto procede secondo i piani».
Eppure si teme che questa guerra si rivelerà ancora più spaventosa di quella precedente.
L’ALTRA INFORMAZIONE
Le autorità russe cercano in tutti i modi di limitare l’attività dei giornalisti nella regione. Con la chiusura a fine ottobre dei confini con l’Inguscezia, chi voglia informare su quello che succede dall’altra parte del fronte può farlo solamente, come il corrispondente di «Radio Libertà», Andrej Babickij, penetrando illegalmente attraverso le linee russe. Oramai la principale fonte di informazioni sono i profughi che giungono di continuo in Inguscezia.
Le organizzazioni umanitarie che operano nella regione (Memorial, Human Rights Watch, Amnesty Inteational, Grazhdanskoe sodejstvie) cercano di fornire un quadro, sebbene parziale, della situazione interrogando i profughi, effettuando sopralluoghi nei campi dove essi sono raccolti, utilizzando i dati foiti da ospedali e amministrazioni locali in Inguscezia.
Particolarmente attiva in quest’opera si sta dimostrando l’associazione «Memorial», che redige una Breve cronaca dei bombardamenti, in cui giorno per giorno elenca gli episodi di cui i suoi osservatori sono venuti a conoscenza. A seguito delle indagini effettuate Memorial scrive: «La propaganda federale continua a parlare di “colpi di precisione” e smentisce le notizie sulla morte di civili sotto i bombardamenti e il fuoco dell’artiglieria. Tuttavia, anche solo sulla base di questa breve cronaca, possiamo concludere che l’artiglieria e l’aviazione federali colpiscono i centri abitati e le strade della Cecenia; non si tratta di “colpi di precisione”, ma di attacchi indiscriminati; i comunicati sui “corridoi umanitari” per l’uscita della popolazione dalle zone del fuoco sono inattendibili: questi percorsi non sono sicuri».
Dai racconti registrati risulta che ogni veicolo in movimento sulle strade può costituire un bersaglio per l’aviazione o l’artiglieria. Molti civili muoiono proprio mentre sono in viaggio con la propria auto o altri mezzi di trasporto; intere famiglie sono state distrutte in questo modo. In montagna il bombardamento di strade e ponti rende molto difficile ai civili l’uscita dai propri villaggi. Un lungo viaggio a piedi sarebbe più rischioso e, comunque, impensabile per le persone anziane e i malati. Così essi rimangono intrappolati nelle proprie case soggetti ai continui attacchi dell’esercito. I villaggi di montagna ospitano anche numerosi profughi scappati dalle città e dai paesi della pianura. Esemplare è il caso di Elistanzhi, di cui parla la cronaca di Memorial.
«Dopo il bombardamento del 7 ottobre (44 morti, contando coloro che sono deceduti successivamente per le ferite), il villaggio di Elistanzhi è stato colpito altre volte. In seguito a incursioni aeree in ottobre sono morti 20 abitanti, all’inizio di novembre altri 7 (…). Il 14 novembre nel cimitero del villaggio sono state seppellite 75 persone morte in seguito ad attacchi aerei. Contrariamente alla tradizione locale, si è smesso di seppellire i morti nei villaggi natali, poiché un veicolo che esce dai confini del villaggio è oggetto di attacco dall’aria. I morti vengono sepolti di notte, in quanto di giorno gli aerei bombardano qualsiasi assembramento di gente».
Il documento di Memorial riporta decine di questi fatti; e sono soltanto quelli di cui si è potuto raccogliere testimonianza da chi, ha visto e vissuto. È una cronaca scaa. Con impersonale laconicità vengono elencati i luoghi, il numero e i nomi di morti e feriti, i nomi di chi ha raccontato e registrato il fatto. Ecco alcuni racconti tipici.
6 o 7 novembre – Un aereo dell’aviazione federale ha lanciato un razzo contro il tratto di strada che va dal paese di Cheorach’e, nei sobborghi di Grozny o il villaggio di Aldy, è morta la famiglia Baladovvj (padre, figlio e figlia), che stavano viaggiando in macchina.
11 novembre – Alle 13 l’artiglieria ha aperto il fuoco su Argun. Uno degli ordigni è finito su una casa. Jasonva ChadizXat (nipote del narratore), 14 anni, per lo spavento è scappata in strada. È stata uccisa dalle schegge dell’ordigno successivo.
23 novembre – Un missile sganciato da un aereo è caduto a Itum-Kale in una casa privata. Sono morti Ajzan Muchanova e i due figli.
Gioo dopo giorno uno stillicidio di morti insensate: l’uomo che esce per dar da mangiare alla mucca, la coppia di anziani coniugi russi che sta spaccando la legna, il bambino che gioca nel cortile di casa.
STERMINARE I CECENI?
Secondo il censimento del 1989, nell’allora repubblica autonoma di Cecenia-Inguscezia vivevano 1 milione e 300 mila abitanti, tra ceceni, ingusci e russi.
Poi ci sono state: la scissione tra Cecenia e Inguscezia; una guerra che ha fatto, secondo le stime, 80 mila morti; l’emigrazione verso altre regioni della Federazione di buona parte dei russi. La Cecenia si è lentamente svuotata. Si calcola che, prima dello scorso settembre, vi abitassero dalle 600 alle 700 mila persone. Secondo l’ufficio immigrazione dell’Inguscezia, fino al 16 dicembre nella repubblica sono arrivati 249.307 rifugiati dalla Cecenia. Altri 25 mila si trovano in campi allestiti nel territorio ceceno occupato dai russi. Queste cifre danno l’idea della tragedia in atto.
«È da tempo che i ceceni sono stufi di guerre, banditi e sequestratori. Essi vogliono stabilità per tornare a fare una vita normale e rimettere in piedi la loro disastrata economia. Sono sicuro che, se Mosca avesse risposto realmente a questo bisogno, avrebbe avuto l’appoggio della popolazione. C’era spazio per lavorare e collaborare. Aggredendo tutto il popolo, invece, essa si è fatta potenzialmente tanti nemici quanti sono i ceceni. Un ceceno cui si distrugge la casa e si ammazza la famiglia non starà certo a guardare. Imbraccerà il fucile e si unirà agli altri combattenti per difendere la propria gente e vendicarla».
Chi parla è Viktor Popkov, cornordinatore di un comitato, sorto nel giugno del 1996 con lo scopo di verificare che Russia e Cecenia rispettassero gli impegni assunti durante i colloqui di pace. Popkov crede che, volendo, ci sarebbero le basi per una soluzione diversa del problema. Dopo anni di impegno nella regione e di contatti con i ceceni egli ha maturato precise convinzioni a proposito.
Egli fa osservare che la Cecenia è integrata con le strutture russe. Tutte le famiglie cecene hanno membri che abitano in altre parti della Federazione. Molti di loro vivono e hanno la propria attività in Russia. La presenza di numerose comunità di ceceni su tutto il territorio federale è anche, secondo Popkov, un grosso deterrente al diffondersi del terrorismo. Insomma, i ceceni avrebbero tutto l’interesse a intrattenere buoni rapporti con la Russia, da cui, in sostanza, economicamente dipendono. La Russia, però, li tratta come cittadini di seconda categoria. Essi sono discriminati, disprezzati.
Effettivamente, fa impressione la violenza verbale, la spietatezza con cui molti oggi in Russia parlano dei ceceni. Non solo l’uomo della strada, ma politici, giornalisti e perfino il patriarca Alessio II, nei confronti di guerriglieri e di presunti terroristi, non usano altro termine che sterminare. Non catturare, fermare, disarmare, ma proprio sterminare. Ed ogni ceceno è sospettato di appartenere a questa categoria.
PER UN FUTURO DIVERSO
Nel Caucaso non si giocano solo le sorti dei ceceni, ma anche quelle dei russi, intesi non come i cittadini della grande Russia o dell’Impero o della superpotenza, ma come uomini e donne che desiderano creare veramente le condizioni perché la loro casa sia prospera, i loro figli sereni.
Finora in Russia stenta a formarsi una società civile che rivendichi una partecipazione nella gestione della cosa pubblica e ponga dei limiti all’arroganza del potere. Perché ciò avvenga occorre tempo, occorrono enormi energie, occorre rinunciare alla facile tentazione di credere che il male, l’ostacolo alla propria felicità, sia in qualche luogo o in qualcuno fuori di noi: un tempo il nemico del popolo, adesso i ceceni o chi per loro.
Non è una Cecenia ridotta a un fumante ammasso di rovine, ma trattenuta all’interno dei confini federali, che renderà la Russia più potente. Alla fine di questa guerra il paese si ritroverà più povero e disperato di prima. Le uniche ad accorgersene sembrano solo le madri dei soldati, che, unitesi in un comitato, fanno di tutto per difendere la vita dei propri figli e denunciare come essi vengano mandati allo sbaraglio da politici e generali irresponsabili.
I russi che pensano di guadagnarsi a poco prezzo un futuro migliore, risolvendo con le bombe il problema del Caucaso, non si rendono conto che è la loro casa a crollare insieme alle abitazioni cecene.

Biancamaria Balestra