IL BUON SAMARITANO… COMUNISTA

Ho letto «la parabola di Luca».
Pensate che il vostro mensile
sia letto da imbecilli? No. La parabola
del buon samaritano è stata
stravolta da GIANCARLO TELLOLI, proponendo
come esempio un comunista.
L’autore della lettera conosce forse
molto poco di quanto è successo
in Russia dal 1917; non conosce o fa
finta di dimenticare cosa sta facendo
oggi la Russia, zitta zitta, in Cecenia,
massacrando un popolo che
chiede solo l’indipendenza. Peccato
che Missioni Consolata non scriva un
articolo (naturalmente onesto) sulla
situazione cecena!
Caro Giancarlo, senza guerra, sotto
il comunista Stalin furono uccisi
e torturati milioni di persone: legga
il libro da poco pubblicato sul «comunismo».
Mi stupisco che Missioni
Consolata pubblichi lettere come la
sua, che io definisco demente, e non
quelle che dicono la verità.

Quante lettere sono state cestinate
da Missioni Consolata? In che cosa consisteva
la loro verità?… Alla Cecenia la
nostra rivista ha dedicato ben due dossiers,
scritti da B. BALESTRA, esperta di
problemi russi: documentano una tragedia
di enormi proporzioni, con atrocità
commesse dai soldati russi e dai
guerriglieri ceceni (Missioni Consolata,
marzo 2000 e marzo 2001)… Abbiamo
pure denunciato l’invasione sovietica
dell’Afghanistan (Ivi, dicembre 1989).
«Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gerico»
(Lc 10, 30). Ma a Kabul…

GIOVANNI VIOTTO




DA PORTO ALEGRE, L’UTOPIA POSSIBILE

«Ritorniamo davvero a sognare. Il potere ha paura
di chi sogna. Sogniamo un mondo alternativo.
Il nostro è un mondo assurdo che deve crollare.
Non è possibile rattoppare, mettere delle pezze
su un sistema che è morto e che ci dà la morte.
Sogniamo una cosa nuova». (padre Alex Zanotelli)

«Un mondo ingiusto
non è un mondo sicuro»

È sotto gli occhi di tutti che il tanto decantato sviluppo ha riguardato soltanto
una piccola parte del mondo. Eppure, la potente «Organizzazione mondiale
del commercio» continua ad attribuire poteri salvifici al libero mercato,
che però è un rapporto sociale fondato sulla disuguaglianza. Nel frattempo
anche il finanziere-speculatore George Soros comincia a nutrire dei dubbi…

L’obiettivo fondamentale
dell’«Organizzazione mondiale
del commercio»
(Wto) è quello di liberalizzare il
commercio e la giustificazione è il
benessere dell’umanità. Qualche
anno fa, Renato Ruggiero (il ministro
degli esteri licenziato da Berlusconi,
ndr), allora direttore del Wto,
disse che l’umanità raggiungerà la
felicità nel primo quarto del ventunesimo
secolo, se ci sarà una liberalizzazione
totale del mercato.
Oggi noi constatiamo che, per
ora, la realtà ha mostrato esattamente
l’opposto: 20 anni di storia
neoliberale hanno portato esattamente
all’opposto, cioè ad una riduzione
dello sviluppo da parte
del mondo. A questo punto dobbiamo
chiederci perché questo è
accaduto.

IL MERCATO
È UN RAPPORTO SOCIALE

Qual è la filosofia dell’Omc e
quali sono le sue contraddizioni?
Secondo la teoria neoliberista, il
mercato è un regolatore universale.
Questo significa che, se noi lasciamo
piena libertà ad esso, tutti i problemi
trovano una soluzione, perché
c’è sempre un equilibrio che si
forma tra domanda e offerta. Inoltre,
secondo questa filosofia, il
commercio è il motore dello sviluppo.
Dal punto di vista pratico, questa
teoria è funzionale ad un preciso
obiettivo: l’accumulazione del capitale.
E, di conseguenza, non produce
una regolazione generale, ma
un vantaggio privato.
Ci possiamo domandare: cosa
manca a questa teoria? Qual è l’errore
ideologico alla base? Per essere
semplici, diciamo che l’errore sta
nel fatto che non si riconosce che il
mercato non è un regolatore, bensì
un rapporto sociale.
Sul mercato agiscono due soggetti,
l’offerta e la domanda, che
teoricamente sono uguali, ma nella
realtà non lo sono. E nel rapporto
sociale del capitalismo non possono
essere uguali perché, in base alla
logica della concorrenza, c’è
sempre una parte più forte o più
corrotta che prevale sull’altra. L’accumulazione
capitalistica è possibile
solo se c’è una differenza. In altri
termini, il capitalismo non può
che riprodursi nella disuguaglianza.
Riassumendo: il mercato è un
rapporto sociale e il rapporto sociale
è ineguale.
Due anni fa, a Washington, incontrai
Michel Camdessous, l’ex
direttore generale del «Fondo monetario
internazionale» (Fmi), e discutemmo
sugli effetti delle politiche
dell’organizzazione. Io gli chiesi
se ciò non derivava dal fatto che
il mercato è un rapporto sociale.
Egli mi rispose in modo netto: no.
Pertanto, se il mercato non è un
rapporto sociale, allora è un fatto
naturale, una volontà di Dio. Se accettiamo
questa definizione, non si
può mettere in dubbio nulla: le differenze
tra offerta e domanda, tra
acquirente e venditore, eccetera.
Il mercato non è nato con il capitalismo,
ma molto prima. Ciò che
lo ha trasformato è il rapporto ineguale,
necessario per poter generare
accumulazione. Inoltre, quando
si dice che il mercato è il regolatore
tra offerta e domanda, in realtà
bisognerebbe precisare che esso è
il regolatore della domanda cosiddetta
solvibile. Soltanto una domanda
di questo tipo può entrare
nel mercato. Per intendere questo
punto faccio un esempio.
L’India è l’ottava potenza mondiale.
Ha uno sviluppo industriale
importante e, contemporaneamente,
ha più del 50% della sua popolazione
che vive al di sotto della soglia
di povertà. C’è uno sviluppo
economico spettacolare che riguarda
solo il 20% della popolazione.
Perché? Perché, nella logica capitalistica,
è meglio produrre beni sofisticati
per il 20% della popolazione
che produrre beni di massa
per quel 50% che è sotto la soglia
della povertà. Perché il livello di accumulazione
è maggiore nel primo
caso che nel secondo.
È per questo che, a livello mondiale,
abbiamo una situazione in
cui il 20% della popolazione raccoglie
più dell’80% dei redditi,
mentre il 20% più povero raccoglie
solo l’1,4% della ricchezza totale.
Secondo la filosofia capitalistica,
nel mercato vince il migliore. In
realtà, noi sappiamo che vince soltanto
il più forte. Prendiamo i rapporti
Nord-Sud. Negli ultimi 25
anni le ricchezze del Sud del mondo
sono state succhiate dal Nord.
E questo attraverso tutta una serie
di meccanismi, la maggior parte dei
quali non viene minimamente considerata
nelle discussioni del Wto.
Prendiamo, per esempio, la fissazione
dei prezzi delle materie prime
agricole. Ebbene, questi prezzi
sono considerevolmente diminuiti
negli ultimi 25 anni. Pensiamo al
debito estero che, a causa dei meccanismi
dei tassi d’interesse, si riproduce
costantemente, anche se
negli ultimi 10-15 anni i paesi del
Terzo mondo hanno pagato 4 volte
il loro debito. Eppure oggi molti
di essi sono fino a 6 volte più indebitati
di quanto lo fossero 10-15
anni fa. Il debito del Terzo mondo
assorbe più risorse di quante
vengano restituite attraverso gli
aiuti e l’investimento esteri.
Né va dimenticata la possibilità
dei ricchi del Sud di
espatriare gli utili nei paradisi
fiscali del Nord. È l’insieme
di tutti questi meccanismi
che permette di
realizzare l’accumulazione
necessaria al sistema vigente.
Recentemente sono stato
in Vietnam dove anche la
Coca Cola ha investito. È
stata costruita una società
al 50% dallo stato vietnamita
e 50% dalla multinazionale
statunitense. Dopo
soli tre anni la Coca Cola-
Vietnam ha dichiarato fallimento.
Che cosa è successo?
Hanno speso somme enormi in
pubblicità per arrivare fino al più
piccolo dei villaggi del Vietnam;
a sua volta, la casa madre ha superfatturato
la filiale vietnamita
e questo ha provocato
il crollo. La Coca Cola
madre ha allora
chiesto al governo del
Vietnam di immettere
nuovi capitali all’interno
dell’impresa;
naturalmente il governo
ha risposto
che quella non era
una sua priorità. A
quel punto, i soci
nordamericani
hanno chiesto e ottenuto di avere il
100% della società. Così avviene
che le multinazionali costruiscono
i loro monopoli.

SE ANCHE
SOROS HA DEI DUBBI…

Anche in economia ci sono dei
periodi storici. Ora stiamo passando
da un periodo neoliberale a un
periodo neoclassico.
Persino gente come George Soros,
il più noto finanziere-speculatore
del mondo, è a favore di una
regolazione del capitale finanziario.
Ci si è resi conto dell’insostenibilità
delle continue crisi finanziarie nell’Asia
del sud-est, in America Latina
(ultima in ordine di tempo, l’Argentina),
in Russia; si è visto che in
ogni parte del mondo la povertà
aumenta così come le distanze sociali.
Tutto ciò è pericoloso per il sistema.
A Doha (novembre 2001), in Qatar,
i paesi poveri del Sud si sono
coalizzati; c’è stata anche una convergenza
dei movimenti sociali, da
Seattle a Genova. Si cominciano a
fare delle concessioni, ma non tanto
per risolvere i problemi, quanto
per salvare il capitalismo.

DAL GATT ALL’OMC
Il Gatt (in italiano, «Accordo generale
sulle tariffe e il commercio»)
era l’organizzazione fondata dopo
la seconda guerra mondiale (1947),
accanto alla Banca mondiale e al
Fondo monetario internazionale,
nell’ambito degli accordi di Bretton
Woods, dal nome della piccola
città degli Stati Uniti dove furono
prese tutte queste decisioni.
Il Fondo monetario nacque per
regolare gli scambi fra paesi, rispettando
gli equilibri della bilancia
dei pagamenti; la Banca mondiale
per finanziare, in un primo
tempo, la ricostruzione dei paesi
europei dopo la guerra e, poi, lo
sviluppo nei paesi poveri; il Gatt
per liberalizzare il commercio. Ma
tutto questo accadde in una determinata
situazione economica.
Tra il 1970 e ’75 abbiamo ciò che
viene chiamato il «Consenso di
Washington», che è un accordo tra
multinazionali, la Banca centrale
americana, il Fondo monetario e
Banca mondiale per orientare l’economia
mondiale in un senso neoliberista.
Questo ci porta ad un altro
passaggio storico, che è il passaggio
dal Gatt all’Organizzazione
mondiale del commercio (nata il 1°
gennaio 1995, ma dopo anni di discussioni).
I principi centrali del Gatt erano
tre: primo, che ci fosse lo stesso
trattamento per ogni paese; secondo,
che non esistessero discriminazioni
nelle tariffe; terzo, che tutti i
beni provenienti da un altro paese
avessero gli stessi diritti delle produzioni
intee, compresi gli investimenti.
Come si vede, era l’applicazione
della teoria neoliberale, dove
il mercato diventa il regolatore
e il motore di tutte le attività economiche.
Una simile teoria non ha alcuna
verifica scientifica. In effetti, se noi
prendiamo semplicemente il periodo
del secondo dopoguerra, vediamo
che le economie più sviluppate
sono quelle che hanno protetto la
loro economia e non quelle che si
sono aperte, anche se quello era
uno stato provvisorio. L’espansione
del commercio non è una causa
del progresso e dello sviluppo economico,
ma una conseguenza.
Dunque, siamo partiti da una definizione
che non corrisponde alla
realtà.
Ci sono state molte discussioni
durante i differenti rounds (i momenti
di negoziazione all’interno
dell’organizzazione, ndr) del Gatt.
In realtà, i paesi più ricchi evadevano
in maniera considerevole gli
accordi firmati, ma poi le uniche
sanzioni venivano date proprio dai
paesi ricchi, in particolare dagli Stati
Uniti, in funzione della loro definizione,
per esempio, dei diritti
umani.
Negli ultimi 10 anni ci sono stati
dei cambiamenti profondi. C’è stato
un declino dei paesi in via di sviluppo
a causa della crisi del debito;
c’è stata la caduta del socialismo
reale; ci sono stati alcuni paesi del
Terzo mondo che sono entrati nel
gioco del neo-liberalismo, indebolendo
la posizione collettiva dei
paesi del Sud.
Da qui tutta una serie di diseguaglianze
che si sono ricostruite e una
limitazione progressiva delle protezioni
dei paesi più deboli. Il Wto
è andato molto più in là del Gatt,
entrando in nuovi settori come
quelli della proprietà intellettuale.
Oggi c’è la possibilità, per le economie
più potenti, di dichiarare la
proprietà intellettuale nei confronti
delle scoperte scientifiche che viceversa
dovrebbero essere un bene
comune dell’umanità.

FARMACI
E PRODOTTI AGRICOLI

Tutti conoscono il caso del Sudafrica,
dove 32 imprese farmaceutiche
mondiali denunciarono il
governo locale perché voleva comprare
o produrre farmaci generici
contro l’Aids.
Meno noto è il caso del Vietnam
dove, fino a pochi anni fa, la maggioranza
della domanda di farmaci
era soddisfatta attraverso la piccola
industria locale. Con l’apertura
del mercato sono arrivate le multinazionali
farmaceutiche. Queste
potevano fare tutta una serie di offerte
che non potevano fare le industrie
locali. Il risultato è che oggi
il 60% delle medicine vendute
nelle farmacie del paese sono di
provenienza estera, sono molto più
costose e, quindi, i poveri non le
possono più acquistare.
Il Wto ha creato una propria
struttura giuridica ed è la sola istituzione
internazionale che può imporre
delle sanzioni. Nella realtà
questo è diventato un segno di discriminazione
tra i paesi ricchi e i
paesi poveri, perché la procedura
giuridica è talmente costosa e complicata
che i paesi poveri non se la
possono permettere. Abbiamo visto,
per esempio, il Burkina Faso
chiedere delle sanzioni, perché negli
Stati Uniti vige la pena di morte?
Questa impotenza ha provocato
naturalmente un sentimento di
insofferenza nei paesi più poveri.
È dall’Uruguay Round in poi che
i paesi del Sud hanno accettato le
decisioni del Wto. Perché l’hanno
fatto? Perché le pressioni (o minacce)
del Nord sul Sud sono state
gigantesche. Le pressioni (o minacce)
sono avvenute attraverso la
Banca mondiale e soprattutto il
Fondo monetario: «Se non accettate
le decisioni non avrete più alcun
credito». Io stesso ho sentito il
responsabile per la negoziazione
dell’Egitto che diceva
che non avevamo
idea delle pressioni
che subiva un paese
come il suo per accettare
il documento del
Wto.
Bisogna dire che le
misure protezionistiche
dei paesi più ricchi, in particolare
degli Stati Uniti, sono ancora
molto forti e sono in evidente contraddizione
con la stessa filosofia
del Wto. Solamente i sussidi dei
prodotti agricoli sono pari a 406 miliardi
di dollari all’anno, mentre l’esportazione
dal Sud verso il Nord è
pari a 170 miliardi di dollari.
La diseguaglianza è evidente.
Poiché la cosa essenziale per i paesi
ricchi è di mantenere l’egemonia
economica, ogni tanto bisogna fare
delle concessioni. Quelle fatte in
campo farmaceutico nel summit di
Doha avevano due cause: lo scandalo
del processo contro il governo
del Sudafrica (molto malvisto
dall’opinione pubblica mondiale)
e il problema dell’antrace negli Stati
Uniti. Il governo di Washington
ha preteso (e ottenuto) dalla Bayer
di ridurre drasticamente il prezzo
dell’antibiotico contro l’infezione.
E dunque, dopo un simile episodio,
non poteva più difendere solo
il punto di vista delle multinazionali
farmaceutiche.

L’OSCURO LAVORO
DELLE «LOBBIES»

Ritorniamo al metodo di lavoro.
Prima della conferenza di Doha,
c’è stato un lungo lavoro di
lobbying (pressioni, manovre di
corridoio, ndr) da parte delle multinazionali.
Una organizzazione di nome
«Lotis» (per la liberalizzazione del
commercio e dei servizi), che comprende
le più grandi multinazionali
degli ambienti d’affari americani
ed europei, ha organizzato 14 incontri
segreti (tra l’aprile
1999 e febbraio
2001, insieme ai responsabili
delle negoziazioni
al Wto)
per preparare il documento
da mettere sul tavolo del
negoziato. L’obiettivo era di arrivare
alla maggiore liberalizzazione
possibile in tema di servizi, in particolare
di servizi pubblici (educazione,
sanità, energia, acqua, trasporti,
ecc.).
Vale la pena di ricordare che i
gruppi rappresentati all’interno
della Lotis insieme avevano un giro
d’affari che superava i 100 miliardi
di dollari annui. Una potenza
economica straordinaria a confronto
di paesi come Camerun,
Senegal, Paraguay…
Il documento da discutere è stato
preparato con riunioni informali
con il pretesto dell’insuccesso di
Seattle. Ora, l’Organizzazione
mondiale del commercio è l’unica
istituzione internazionale che funziona
con il sistema «un paese, un
voto». Apparentemente un sistema
democratico, soprattutto se paragonato
ad altre realtà come la Banca
mondiale e al Fondo monetario
in cui ogni voto corrisponde ad una
quota di capitale investito nella
Banca e nel Fondo. C’è però un
dettaglio: non c’è mai stato un voto
all’interno del Wto.
Se non c’è voto, allora come si arriva
ad un consenso? Ecco come.
C’è una divisione in gruppi di lavoro
sui temi principali di discussione:
agricoltura, ambiente, aspetti
sociali, investimenti, sviluppo…
Ogni gruppo è diretto da una persona
scelta dal presidente o segretario
del Wto. Dopo lunghe discussioni
si arriva a un documento
finale, nonostante le critiche al metodo
di lavoro.
La novità di Doha rispetto a Seattle
è che c’è stata una resistenza più
organizzata da parte del Sud del
mondo. C’è stato un risultato positivo
in tema di medicine. Per quanto
riguarda l’agricoltura, si è riusciti
a far passare l’idea dell’eliminazione
dei sussidi, senza fissare però alcuna
data. Mentre, in tema ambientale,
l’Europa voleva ottenere
qualcosa, ma si è dovuta fermare
per il parere contrario degli Stati
Uniti.
Sulle tematiche sociali (introduzione
di tutele dei lavoratori e dell’ambiente)
c’è stata l’opposizione
dei paesi del Sud del mondo, perché
vedono in questi temi una maniera
di proteggere i mercati del
Nord; sul piano delle differenze di
sviluppo tra paesi diversi si sta facendo
strada il principio in base al
quale alcune economie si possono
proteggere, ma solo provvisoriamente.
Insomma, c’è stato un grande
mercanteggiamento su tutto, ma
nessun passo in una direzione positiva.
Cosa si può fare davanti a scenari
tanto negativi? Ci sono delle alternative
fattibili?

RIFORMA O
ABOLIZIONE DEL WTO?

Ci sono differenti tipi di alternative.
Il documento dell’Egitto, per
esempio, chiede che si riconoscano
le differenze tra i diversi partners;
un trattamento uguale è praticamente
un’ingiustizia. Secondo, bisognerebbe
riconoscere il diritto
dei paesi più deboli a difendere le
loro economie e che c’è un rapporto
tra debito e mancato sviluppo di
alcune economie. Terzo, il Wto si
prenda l’impegno di osservare e
criticare quelle pratiche dei paesi
più sviluppati che impediscono lo
sviluppo dell’economia dei paesi
poveri.
Un’altra corrente di pensiero arriva
a dire: bisogna abolire il Wto,
perché non può essere riformato.
Poiché la filosofia stessa del Wto è
la causa dei problemi, non si può
risolvere questo problema mantenendo
l’organismo in vita. Tuttavia,
io credo che occorra essere realisti:
è evidente che non riusciremo
domani a cancellare o sconfiggere
il Wto.
Occorre disegnare un avvenire
più credibile…

UN ALTRO MONDO
È POSSIBILE!

Bisogna avere il coraggio di usare
le utopie di fronte a realtà ingiuste.
L’utopia non è sinonimo di illusione,
ma al contrario rappresenta
la base di qualunque alternativa.
È una spinta all’innovazione, a
cercare, a fare e a gridare che, come
abbiamo detto qui a Porto Alegre,
«un altro mondo è possibile». Proprio
il contrario delle parole della
signora Thatcher: non c’è alternativa
(secondo il famoso acronimo
Tina: «There is no alternative»).
L’utopia è dire: c’è un’altra logica,
diversa da quella capitalista per
costruire l’economia; c’è un’altra
logica, rispetto a quella del mercato,
per fare l’educazione; c’è un altro
modo di fare comunicazione
che non il mercato, altrimenti finiremo
tutti sotto l’egida mondiale di
personaggi come Berlusconi… Sono
possibili molti obiettivi. Per
questo vale la pena di lottare, anche
se sappiamo che sarà un processo
lungo.
A parte il livello più alto dell’utopia,
abbiamo anche vari livelli a
medio e breve termine. Per esempio,
il grande obiettivo politico,
economico, ecologico di dichiarare
l’acqua patrimonio dell’umanità
e non un mercato. E ancora, l’obiettivo
di difendere i servizi pubblici,
che sono privatizzati a tutta
velocità e in tutto il mondo, facendo
dimenticare l’idea stessa di servizio
pubblico.
Un altro obiettivo è quello di
cambiare rotta all’agricoltura, oggi
indirizzata verso l’agro-business
dagli appetiti delle multinazionali.
Per fortuna, i movimenti più organizzati
sono proprio quelli contadini.
Possiamo chiedere, a medio
termine, anche le riforme delle organizzazioni
inteazionali a cominciare
dalle Nazioni Unite e alcune
loro costole come la Fao, come
l’Ondp, che sono oggi in
pericolo.
A breve termine, c’è la regolazione
dei movimenti di capitali attraverso,
ad esempio, l’introduzione
della Tobin tax. Non è sicuramente
questa che sconfiggerà il capitalismo,
ma è un passo in avanti per
arrivare ad una trasformazione del
sistema.

(*) Sacerdote e sociologo, François
Houtart ha insegnato per anni
all’Università cattolica di Lovanio, in
Belgio, una delle più vecchie università
del mondo. Attualmente è segretario
del «Forum mondiale delle alternative
» e direttore del «Centro
Tricontinentale»:
Centre Tricontinental (CETRI)
Avenue Sainte Gertrude, 5
B-1348 Ottignies
Lauvain-La-Neufe (Belgio)
Per altre informazioni biografiche si
veda l’intervista pubblicata in questo
stesso dossier.

I protagonisti

Gatt / Wto – Il Gatt ha regolato le negoziazioni
commerciali tra i paesi
aderenti dal 1947 al 1994. Dal 1995
è stato sostituito dalla più potente
«Organizzazione mondiale del commercio» (Omc in italiano, Wto in inglese).

Tina – Acronimo di «There is no alternative», non c’è alternativa (al
mercato, alla supremazia del privato
sul pubblico). È il credo introdotto
dal primo ministro inglese Margaret
Thatcher, capostipite dei politici convertiti
al neo-liberismo.

Davos / Porto Alegre – Indica la contrapposizione,
anche geografica, tra
il «World Economic Forum» delle multinazionali
e il «World Social Forum»
dei movimenti popolari.

George Soros – Finanziere statunitense
divenuto multimiliardario attraverso
speculazioni inteazionali.
Dopo essersi arricchito, ha cercato di
trasformarsi in filantropo e critico del
sistema capitalistico.

François Houtart




DA PORTO ALEGRE, L’UTOPIA POSSIBILE

«Lasciamo il pessimismo
per tempi migliori»

Se questo mondo non può andare avanti così, esiste un’alternativa credibile?
Sono seri i movimenti di contestazione che si stanno diffondendo a Nord
come a Sud? Meglio continuare sulla strada segnata dai leaders dell’economia
mondiale riuniti nel «World Economic Forum» di Davos? O raccogliere le sfide
e le alternative proposte dai rappresentanti della società civile raccolta
nel «World Social Forum» di Porto Alegre?
Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Houtart, sacerdote, già «collega» di Carol Wojtyla e amico di Helder Camara.

Porto Alegre. Belga, classe
1925, primo di 14 figli,
François Houtart è direttore
del «Centro Tricontinentale» di
Lauvain (Lovanio), in Belgio. Il
centro accoglie ricercatori provenienti
da tre continenti: America
Latina, Africa ed Asia. Si fanno ricerche
nei campi della sociologia,
della cultura e della religione.
Quella delle grandi collaborazioni
inteazionali è una caratteristica
di Houtart, che è anche segretario
del «Forum mondiale delle alternative» e membro del comitato
organizzatore del Forum di Porto
Alegre.
Lo incontriamo in una delle
grandi sale della «Pontificia università
cattolica» (Puc), mentre, seduto
in prima fila, è in attesa dell’inizio
di una conferenza.
Professor Houtart, siamo venuti
da tutto il mondo per capire
se «un altro mondo è possibile».
Ma, sia sincero, in questi tempi
parlare di alternative è realistico?
«L’alternativa esiste ed è concreta.
Il problema è che, oggi come oggi,
non c’è la volontà politica per attuarla.
D’altra parte, le 60.000 persone
giunte da tutto il mondo per
questo secondo Forum di Porto
Alegre sono a dimostrare che la voglia
di cambiamento c’è ed è forte».
Nella coloratissima e festosa sfilata
per le vie di Porto Alegre i manifestanti
scandivano slogan contro
le istituzioni inteazionali:
Fondo monetario (Fmi), Banca
mondiale, Area di libero commercio
delle Americhe (Alca), Organizzazione
mondiale del commercio
(Wto). Anche alla luce della
recente riunione di Doha, quale
aspetto di quest’ultima le sembra
più deplorevole?
«Penso alla proprietà intellettuale,
difesa con i denti dalle industrie
farmaceutiche. Un mio fratello lavora
nel campo farmaceutico. È un
esperto internazionale di processi
di fabbricazione. Non ha idee socialiste,
tutt’altro. Alcune volte è
stato mandato a Cuba e mi ha detto:
“Cuba è molto più efficiente
nella ricerca scientifica di un paese
capitalista. Hanno 40 laboratori e,
quando uno di essi scopre una cosa
nuova, immediatamente lo comunica
agli altri. Allora si fa una
riunione per capire quale laboratorio
è più efficiente per continuare
l’investigazione. Nel mondo capitalista
la prima cosa che si fa è
chiedere il brevetto per fare denaro.
La privatizzazione della ricerca
scientifica serve a giustificare il
profitto di pochi. L’alternativa è
che la ricerca scientifica sia un settore
di competenza pubblica, sostenuto
con soldi pubblici. Per il
vantaggio della collettività e non a
servizio delle multinazionali…».
Ma le industrie si giustificano dicendo
che se non c’è la proprietà
dei brevetti, si frena la ricerca…
«Mi viene in mente l’inventore
dei “raggi X” (Wilhelm Conrad
Röntgen, 1845-1923, premio Nobel
per la fisica nel 1901, ndr), che
si rifiutò di brevettare la sua scoperta perché la considerava un bene
comune da dividere tra tutti».
Professore, qualcuno sostiene
che con il vertice di Genova (luglio
2001) e di Doha (novembre 2001)
si sono fatti passi in avanti nel
campo delle politiche sanitarie. È
vero?
«Affatto. Gli unici progressi sono
avvenuti per puro caso. Dapprima,
per lo scandalo del Sudafrica,
poi a seguito della vicenda dell’antrace,
quando il governo degli
Stati Uniti è intervenuto sulla Bayer
per costringerla a vendere l’antibiotico
a metà del suo prezzo».
Io continuo a chiamarla professore,
ma lei è anche un sacerdote…
«Non c’è dubbio al riguardo. Sono
– risponde con un sorriso – amico
di papa Wojtyla da oltre 30 anni.
L’ho conosciuto da giovane,
quando studiavo in seminario a Roma.
Egli veniva a trascorrere le sue
vacanze di natale e pasqua in Belgio,
mentre io lo visitavo spesso in
Polonia, a Cracovia soprattutto. In
seguito, ci ritrovammo al Concilio
Vaticano II in una commissione
preparatoria per la “Gaudium et
Spes”, della quale io ero il segretario.
Dopo la sua elezione a papa, io
non l’ho più visto…».
Le sue idee, i suoi studi le hanno
creato qualche problema con i vertici
ecclesiastici?
«Sì, ma il fatto di essere sociologo
mi ha aiutato a non rompere.
Comunque, i miei problemi non
sono iniziati con il pontificato di
Giovanni Paolo II. Già durante la
conferenza di Medellin, dove ero
stato invitato dalla Conferenza latinoamericana,
sono stato fatto oggetto
di veto da parte della Santa
Sede. Identicamente c’è stato un
veto per la mia nomina alla testa
dell’“Istituto missiologico” dell’Università
di Münster, in Germania».
D’altra parte, lei ha insegnato
lungamente presso l’Università di
Lovanio, una delle più antiche e
prestigiose università cattoliche
del mondo…
«Verissimo. Ho insegnato a Lovanio
per oltre 30 anni, dal 1958 al
1990. Ad onor del vero, anche lì ho
avuto un paio di richiami…
Tutto ciò non mi ha impedito di
avere rapporti normali con l’episcopato
belga e gli organi centrali
della chiesa. Io affermo la mia appartenenza
alla chiesa cattolica».
Da dove nasce il suo amore per
l’America Latina?
«Da 15 anni di lavoro con quei
paesi e poi dalla stretta amicizia che
mi ha legato a monsignor Helder
Camara. Comunque, non mi sono
interessato soltanto di America Latina.
Ho lavorato anche in Asia, soprattutto
in Sri Lanka e Vietnam».
Lei è uno dei principali organizzatori
del «Forum sociale mondiale
» di Porto Alegre. Rispetto ad esso
le opinioni sono discordanti.
Qualcuno lo disprezza, altri sorridono
con sufficienza, altri ancora
sparano insulti contro i partecipanti,
definendoli illusi o addirittura
pericolosi, nemici dei poveri
e del progresso…
«A me pare che Porto Alegre abbia
prodotto un effetto fondamentale
sul piano internazionale. Vale
a dire un cambiamento di prospettiva,
in base al quale all’idea dominante
che non ci sono alternative al
cammino del capitalismo oggi si
contrappone l’idea che “un altro
mondo è possibile”, perché esistono
delle alternative credibili.
Per sintetizzare, possiamo dire
che il “Forum Social Mundial” di
Porto Alegre rappresenta il punto
di vista della società civile dal basso,
mentre il “World Economic
Forum” di Davos (quest’anno spostato
a New York) porta avanti le
istanze dall’alto.
Attualmente la responsabilità
principale del Forum di Porto Alegre
è sulle spalle di movimenti latinoamericani
ed europei. Ma stiamo
lavorando per coinvolgere di
più il mondo africano, asiatico ed
arabo. Per questo è probabile che,
dopo la prossima edizione (ancora
a Porto Alegre), il Forum sarà ospitato
altrove, forse in India».
Gli obiettori (anche tra i lettori
che scrivono alla nostra rivista) affermano
che tutti questi movimenti
contrari alla globalizzazione
sono, per la loro stessa natura,
contro la società nella quale vivono.
Per dirla in maniera popolare,
sarebbero «persone che sputano
nel piatto nel quale mangiano».
Che rispondere, professor Houtart?
«Il grande vantaggio di Porto
Alegre è di riunire movimenti e organizzazioni,
che non hanno l’obbligo
di essere d’accordo su un testo
unico. D’altra parte, è vero che
a Porto Alegre si riuniscono tutti i
soggetti che hanno preso posizione
contro il neo-liberismo e il capitalismo,
e a favore di una ricerca di
alternative.
Accanto a tutto ciò ci sono anche
molti pericoli: una certa dominazione
delle Organizzazioni non governative
(Ong) sui movimenti sociali,
una folklorizzazione dei movimenti
di resistenza contro la
mondializzazione della filosofia capitalista,
una repressione sempre
più forte (soprattutto dopo l’11
settembre) da parte dei poteri dominanti,
con una criminalizzazione
delle resistenze e delle lotte sociali,
e una militarizzazione delle società».
Professore, a sentire queste sue
considerazioni, non mi pare si possa
essere molto ottimisti per il futuro…
«Guardi, voglio risponderle con
le parole di Edoardo Galeano: “Lasciamo
il pessimismo per tempi migliori”».

Per un’«ecologia
dell’informazione»

Oggi anche l’informazione è una merce. Spesso distribuita in un regime
di monopolio e priva di una qualità essenziale: la veridicità. Ecco cosa propongono
Ignacio Ramonet, direttore de «Le Monde Diplomatique», Roberto Savio, presidente
dell’agenzia giornalistica internazionale IPS, e lo scrittore spagnolo Manuel Vasquez
Montalban. Che concordano su un punto fondamentale: un altro mondo
sarà possibile solo con un’altra informazione. A meno che non si considerino
le notizie della CNN come l’esempio da imitare.

Porto Alegre. Le borse danzano
pericolosamente su teste e
tastiere. Le pance provano a
ritrarsi per tentare di passare nei
pochi centimetri che separano una
postazione di computer dall’altra.
Ci si muove a fatica nella sala stampa
del Forum. L’hanno sistemata in
posizione strategica (ovvero di
fronte ai grandi saloni delle conferenze),
l’hanno attrezzata con computer
nuovi fiammanti, ma hanno
esagerato a comprimere gli spazi.
O, forse, non hanno previsto che al
secondo appuntamento di Porto
Alegre si sarebbero presentati
3.000 giornalisti da 50 paesi.
Già, l’informazione. Una delle tematiche
a cui gli organizzatori del
Forum hanno lasciato più spazio,
per cercare di rispondere a una serie
di difficili quesiti.
Negli spazi dello splendido campus
della Pontificia università cattolica
(la Puc, sede principale del
Forum) sull’argomento si sono susseguite
conferenze, dibattiti, seminari.
Proviamo allora a riassumere
i termini della discussione attraverso
le tesi sostenute da alcuni dei
principali relatori.

LE NOTIZIE?
BREVI, SEMPLICI, LEGGERE

Si dice: nell’era della globalizzazione,
l’informazione è una merce
come un’altra. Una simile affermazione
corrisponde al vero?
Tutti i relatori hanno concordato
che (purtroppo) questa è una
tendenza ormai consolidata. In un
processo di globalizzazione di tutto
e tutti, anche l’informazione è diventata
una merce che circola secondo
le leggi del mercato: domanda
e offerta.
Le multinazionali della comunicazione
hanno fissato le caratteristiche
del prodotto-informazione.
Come debbono essere, allora, le
notizie? «Brevi, semplici, leggere»
ha spiegato Ignacio Ramonet.
Ciò produce conseguenze rilevanti.
Secondo il giornalista francese,
tutto è ridotto a schemi elementari.
Come si nota nell’informazione
che riguarda il Sud del
mondo. I paesi del Sud sono rappresentati
soltanto a tinte forti. Come
un paradiso quando si parla dei
loro prodotti (il caffè, le banane
ecc.) o delle loro attrattive turistiche.
Come un inferno nelle uniche
occasioni in cui la televisione si occupa
di loro e cioè in concomitanza
con tragedie naturali, guerre civili,
genocidi, colpi di stato.
Questa descrizione caricaturale
confonde le idee, crea stereotipi e,
in ultima analisi, disinforma.
Ma – si obietta – ci sono così tanti
mezzi d’informazione che chiunque
ha la possibilità di scegliere tra
una pluralità di fonti alternative…
Oggi l’informazione si è moltiplicata
(soprattutto grazie alle nuove
tecnologie), ma il fenomeno della
concentrazione proprietaria si è
accentuato.
«La globalizzazione – ha spiegato
Manuel Vasquez Montalban –
non è soltanto economica, ma anche
ideologica. L’idea di base (“ha
valore ciò che produce lucro”) deve
essere diffusa. Ecco, dunque, il
motivo della crescente concentrazione
dei mezzi di comunicazione:
la propagazione del pensiero unico
neoliberale».
Il calcolo è presto fatto: tanti media
in poche mani significano meno
pluralismo e quindi meno diversificazione.
Negli Stati Uniti,
per esempio, 5 grandi consorzi detengono
il controllo dell’informazione.
Non c’è quindi da stupirsi se
i contenuti (e i messaggi) si assomigliano
tutti, proprio come una
qualsiasi merce.

NESSUN MESSAGGIO
È INNOCENTE

«Il problema con i grandi media
– ha precisato Montalban – è “saper
leggere”. In primo luogo, dobbiamo
chiederci chi è il padrone
del mezzo e cosa questi vuole proporci.
Nessun messaggio è innocente!».
La qualità della notizia è diventata
così poco rilevante che le imprese
produttrici tendono a offrire
l’informazione gratuitamente. Ma
dove sta allora il business? «Le imprese
in realtà – ha spiegato Ignacio
Ramonet – non vendono informazioni
ai cittadini, ma questi ultimi
agli inserzionisti».
E la veridicità è ancora ingrediente
fondamentale?
Secondo Ramonet, oggi esiste
una diffusa contaminazione dell’informazione,
tanto grave da riuscire
a trasformare la menzogna in
verità e la verità in menzogna. Per
questa ragione il direttore de Le
Monde Diplomatique propone di
praticare una nuova forma di ecologia:
«l’ecologia dell’informazione
», attuata attraverso appositi osservatori
istituiti in ogni paese.
Esiste la possibilità di avere una
contro-informazione? Per Roberto
Savio, fondatore e presidente
emerito dell’agenzia giornalistica
internazionale IPS, a un’informazione
fondata sulle regole della globalizzazione
(come il profitto e l’efficienza)
è necessario opporre una
informazione basata sui valori dei
cittadini: solidarietà, giustizia,
equità e partecipazione.
È vero che stanno apparendo
mezzi di comunicazione alternativi,
«però – ha confessato Montalban
– è difficile resistere».
Inteet è, oggi, uno strumento
fondamentale per mettere in comunicazione
la società civile, ma va
utilizzato bene.
Perché, dopo aver imparato a difenderci
dall’informazione del sistema,
occorre non cadere nello
stesso errore. «La controinformazione
– ha sottolineato Ignacio Ramonet
– deve essere rigorosa. Altrimenti
non serve alla causa».

ALTRO MONDO,
ALTRA INFORMAZIONE

È stato detto: un altro mondo
sarà possibile solo con un’altra
informazione. Difficile non concordare
con questa affermazione.
Manuel Vasquez Montalban ha
portato l’esempio della CNN in
lingua spagnola (la famosa televisione
statunitense ha anche un canale
in questo idioma). «Il canale
nordamericano – ha avvertito lo
scrittore spagnolo – sta seguendo
sia il Forum di New York che quello
di Porto Alegre. Ma ha un approccio
completamente diverso nei
confronti dei due avvenimenti. Serio
per l’evento statunitense, folcloristico
per quello brasiliano».
Capito come funziona il meccanismo?

Sfogliando s’impara…
A NEW YORK, I SIGNORI DEL NEOLIBERISMO
«Il Forum economico (…) ha riunito nel Waldorf
Astoria di New York capi di governo, industriali,
banchieri e scienziati, in breve, i signori e i cervelli
del neoliberismo, quelli che orientano e dirigono la
finanza e l’economia del nostro mondo globalizzato.
(…) Quest’anno non si sono celebrati i trionfi del
cosiddetto “pensiero unico”, della filosofia e dell’economia
occidentale e liberista. Il capitalismo
non se la passa troppo bene in questo tempo».
Gabriele Ferrari sul quindicinale cattolico
«Testimoni», Bologna, 28 febbraio 2002

MA NON ERANO FINITI?
«Chi sperava in una fine imminente del “popolo di
Seattle”, dopo il disgraziato capitolo di Genova, dovrà
per il momento riporre i suoi sogni nel cassetto.
La lunga kermesse di Porto Alegre (…) ha rassicurato
il movimento sulla sua capacità di superare
le avversità».
Maurizio Salvi su «Rocca», quindicinale edito
da Pro Civitate Christiana (Assisi),
15 febbraio 2002

«QUELLI DI PORTO ALEGRE»
«Come chiamarli? Diciamo che sono quelli di Porto
Alegre, perché è ormai questo il simbolo. Globale,
mondiale. Certo sono molto più “global” di un sacco
di gente che li ha definiti sbrigativamente “noglobal”.
(…) Oggi, in tutto l’Occidente
ricco, non c’è paese che
possa vantare una vitalità critica,
democratica, così intensa come
questa Italia, dove c’è un’altra
Italia così poco “global” che fa fatica
persino a stare in Europa. (…)
E infine c’è la sterminata galassia
cattolica, che vedo emergere con
una vitalità strabiliante. Un segmento
di società italiana vasto,
dinamico, carico di idealità. Anche
loro in libera uscita, forse definitiva,
rispetto alle rappresentanze
cattoliche istituzionali. (…)
Fino a luglio del 2001 si diceva
che il movimento era incoerente, contraddittorio,
che non aveva soluzioni da proporre. Adesso che la
globalizzazione è in crisi, l’America è ferma, diventa
chiaro che le soluzioni non le ha nessuno».
Giulietto Chiesa sul quotidiano «La Stampa»,
18 gennaio 2002

ECONOMIA DI RAPINA
«Siamo sicuri, signor ministro, che abbiamo il diritto
di difendere un’economia che non si regge se non
sul furto? (Risponde il) ministro Martino: “(…) Noi
non abbiamo il diritto di difendere le nostre conquiste
economiche e sociali, noi abbiamo il dovere
di farlo (…). I paesi non nascono ricchi, diventano
ricchi. (…) C’è un solo modo per diventare ricchi,
ed è lo sviluppo. È soltanto lo sviluppo che rende
ricchi i paesi. (…) Coloro i quali si oppongono allo
sviluppo, all’apertura dei mercati che sono l’unica
ricetta che conosciamo per produrre ricchezza, colpiscono
soprattutto i poveri, e l’assurdo è che hanno
persino la pretesa di farlo in nome della difesa
dei poveri. (…)”. Un commento? Non è superfluo segnalare
il cinismo delle argomentazioni di questo
discorso (e Martino non è certo il peggiore dei ministri
di questo pericolosissimo governo). La sostanza
del nostro quesito è stata del tutto elusa, ma
indirettamente confermata: abbiamo il diritto di difendere
la nostra economia di rapina? Il governo dice
SÌ, e non smentisce che si tratti di un’economia
di rapina. (…) Lo sviluppo economico è indipendente
dalle scelte dell’etica politica? Questa sarebbe
la questione morale, di cui non si vuole più parlare
(…)».
Da «Tempi di frateità», periodico cattolico
di Grugliasco (Torino), gennaio 2002

«È IL MERCATO, BELLEZZE»
«Fra le tante novità del nostro tempo, anche in Italia,
c’è l’assoluta fiducia nell’economia di mercato.
Quando questa colpisce duro, si ricorda sempre che
lo fa per il nostro bene futuro, avendo essa per scopo
unico, assoluto e indiscutibile lo sviluppo, che a
sua volta non tollera lacci e lacciuoli, di nessun genere.
(…) I lavoratori vogliono conservare le loro
pensioni? Sì, gli dicono Maroni e Tremonti, a patto
che i vostri risparmi contributivi finiscano
nei ‘fondi pensione’ (…). E
se i fondi pensione investono male,
o sono sfortunati, e perdono i vostri
soldi? “È il mercato, bellezze”».
Da «Il nostro tempo»,
settimanale cattolico
di Torino, 20 gennaio 2002

LA GALLINA DALLE UOVA D’ORO
«I contestatori che vogliono limitare
i poteri del Wto o mandarlo a picco
(…) distruggerebbero la gallina dalle
uova d’oro. Dobbiamo respingere
con decisione queste istanze, ma
anche tenere in considerazione le
preoccupazioni legittime e sincere di chi critica il
modo in cui queste uova vengono utilizzate e distribuite».
George Soros sul quotidiano «La Repubblica»,
9 novembre 2001

«DALLA CONTESTAZIONE ALLA PROPOSTA»
«Sono sempre di più i movimenti e le azioni civili di
cooperazione e solidarietà; i vari forum liberi e alternativi
all’economia, al pensiero e alla politica
neoliberisti, che sono passati dalla semplice contestazione
alla proposta, dall’impotenza alla convocazione
efficace».
Pedro Casaldaliga, vescovo di São Felix
do Araguaia (Brasile), sul quindicinale
«Adista», 14 gennaio 2002

…il Forum visto dagli altri
«CHE PENA GLI APOSTOLI TERZOMONDISTI»
«Tutti i mezzi d’informazione contrappongono simbolicamente
– anche per la non casuale contemporaneità
– il Forum economico di Manhattan al Forum
“no global” di Porto Alegre. In maniera esplicita
o suggerita o sottintesa le simpatie vanno in
larga prevalenza a Porto Alegre.
Il buonismo – che non costa nulla e piace molto – induce
a parteggiare per gli apostoli terzomondisti
vocianti nelle piazze o in assemblee confusionarie,
anziché per governanti, banchieri e miliardari rinchiusi
nei loro santuari ovattati. (…) I capitalisti e il
capitalismo hanno trovato (…) un sostegno nelle
manifestazioni dei “no global”: così parolaie, inconcludenti
e truffaldine, nonostante la loro ostentata
nobiltà d’intenti, da riabilitare ogni cinismo
dei possidenti. Il disagio ispirato da questa retorica
saltellante della povertà diventa disgusto se ci
si riferisce alla marea di
politici che (…) sanno
quanto squinteate e
fanfarone siano le parole
d’ordine dei “no
global”. (…) Che pena,
per usare un eufemismo
pietoso».
Mario Cervi
sul quotidiano
«Il Gioale»,
2 febbraio 2002

«UN CAPITALE
E UNA SPERANZA»
«Che “senso” ha, in questo
tempo convulso (…),
il movimento mondiale
che ha tenuto l’ultima sua grande convocazione a
Porto Alegre all’inizio del 2002? Chi voglia guardarlo
con oggettività deve, intanto, prendere atto
di alcuni dati dei quali non è più possibile, dopo tanti
eventi e tante notizie, continuare a dubitare o,
peggio, a negarli. Uno di essi è la ormai assodata
profondità storica del movimento. (…) Un altro elemento
assolutamente caratterizzante è che non siamo
davanti a un movimento soltanto critico (né men
che meno unicamente protestatario) ma, non cessando
di essere tale, esso è anche intensamente
propositivo e costruttivo. (…) Altrettanto brutale,
fino ad essere falsificante, la semplificazione di chi
pretende ridurre tutto ad un insieme di manifestazioni
di strada in reazione ad iniziative ufficiali. (…)
Il senso vero del movimento è di mettere a tema i
problemi della società globale. Da quando (…) la
globalizzazione dell’economia, della politica, della
cultura (…) ha toccato una nuova misura (…), l’intreccio
dei problemi generati da questo nuovo modo
di essere (…) della condizione umana, si è fatto
più aspro e più difficili le condizioni di soddisfazione
degli elementari bisogni di sostentamento materiale,
di crescita umana, di pacifica convivenza.
(…) La riscossa della società (…) si va componendo
appunto attraverso il nuovo movimento globale.
(…) Altro che movimento “no-global”! (…)
Insomma, c’è in queste associazioni, gruppi, movimenti,
reti minori (…) una responsabilità per l’umanità
che spesso manca di essere altrettanto acuta
nelle organizzazioni politiche, nelle istituzioni e
nella cultura ufficiale. Un capitale e una speranza
per il mondo che occorre coltivare con delicatezza
e, vorrei dire, tenerezza».
Umberto Allegretti su «Rocca», quindicinale
edito da Pro Civitate Christiana (Assisi),
1 marzo 2002

«ANCHE PADRE PIO»
«Anche Padre Pio, che aveva il dono dell’ubiquità,
sarebbe entrato in crisi davanti al programma del
secondo Forum sociale mondiale di Porto Alegre
(…). D’altra parte, lo slogan scelto (“Un altro mondo
è in costruzione”)
non lascia dubbi: i noglobal
(…) vogliono rifare
tutto, ma proprio tutto.
(…) I temi messi in
discussione dagli antiliberisti
sono sterminati.
Si va dai “cavalli di battaglia”,
cioè commercio
mondiale, multinazionali
e debito estero, alla
“democratizzazione della
comunicazione”; dall’accesso
alla ricchezza
alla sostenibilità dello
sviluppo; dalla lotta
contro le discriminazioni
fino alla proprietà intellettuale,
etica e politica, diritto alla salute, questioni
ambientali, guerra e terrorismo internazionale.
(…)
I maestri del pensiero no-global tentano di articolare
un’intera visione del mondo anticapitalista. (…)
Ma nonostante la “svolta intellettuale” e le ripetute
assicurazioni di non volere un’altra Genova, resta
la minaccia dei Black Bloc (…) ».
Stefano Filippi sul quotidiano «Il Gioale»,
31 gennaio 2002

«SENI NUDI E BLACK BLOC»
«A guardarlo prevalentemente o esclusivamente dal
punto di vista dello spettacolo, l’“anticonclave” di
Porto Alegre batte largamente il “conclave” di New
York. Vi si incontrano spalla a spalla, o petto a petto,
pensosi uomini di Stato – soprattutto in pensione
– e lesbiche che inalberano il seno nudo come argomento
contro la “globalità”, dai sindacalisti brasiliani
agli anarchici greci, dagli “amici del
consumatore” americani di Ralph Nader ai Black
Bloc».
Alberto Pasolini Zanelli
da Washington per il quotidiano «Il Gioale»,
2 febbraio 2002

«Io e i compagni»
Ho seguito, a debita distanza, il convegno di Porto
Alegre. I temi trattati sono grosso modo lavoro
minorile, sfruttamento sessuale, assenza di tutele
sindacali, fame e denutrizione, istruzione/ignoranza,
insensibilità alla tutela ambientale, malattie endemiche,
assenza di protezione sanitaria e altri analoghi.
Qual è la differenza tra me e i compagni? Essi immaginano
per ognuno di questi problemi competenti
organismi inteazionali (dell’Onu, della Fao, dei
ministeri…), adeguati aiuti economici e ancora più
stringenti apparati normativi, a garanzia di adeguati
controlli in tutto il pianeta, affinché in ogni angolo
della terra si imponga il buon agire e il buon fare…
Io ragiono diversamente e parto da una domanda:
quanti di quei problemi allignano in Italia, in Europa
e in genere nei paesi ricchi d’Occidente? Qualcosa in
verità alligna anche da noi, ma si tratta di fenomeni
da decenni ridotti a percentuali lusinghiere. Allora
viene la seconda domanda: perché da noi tutto sommato
bene e nei paesi del Terzo mondo tutto sommato
male, anzi malissimo? È ovvia e facile la risposta:
da noi lo sviluppo e livelli capillari della libera
iniziativa economica, cioè del capitalismo, ha prodotto
benessere di massa. Altrove manca del tutto o
non riesce, per i più disparati motivi, ad impiantarsi
stabilmente e utilmente, con ciò favorendo il permanere
di ogni arbitrio ed abuso.
In definitiva penso che lo sforzo a favore dei popoli
del Terzo mondo (sforzo sia nostro che loro) sia quello
di rielaborare/inventare grosso modo gli stessi
meccanismi sociali (economici, politici, culturali) che
a noi hanno giovato molto. Altro che «fermare i motori
», come postula il confuso piagnisterno dei no global!
Si tratta, al contrario, di farli girare molto e nel
migliore dei modi. Lo sviluppo più equilibrato possibile
del capitalismo e del mercato porta in sé l’eliminazione
o, quanto meno, la drastica riduzione dei
problemi elencati all’inizio.
Non è una differenza da poco, cari compagni.
Spero di sbagliarmi, ma se davvero foste tornati dal
Brasile con l’idea di prendere a pretesto le sofferenze
del mondo per gonfiare le burocrazie inteazionali
(un posticino non si nega a nessun militante…),
sappiate che questa pretesa è più oscena del turismo
sessuale.
Luigi Fressoia

«Um outro mundo é possível!»
La Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb)
Èstato questo il tema della seconda edizione del
«Forum sociale mondiale» (FSM), svoltosi a Porto
Alegre (Rio Grande do Sul) dal 31 di gennaio al 5 febbraio
2002. Decine di migliaia di persone, venute da
131 paesi, 16 mila delegati, migliaia di Ong, entità,
movimenti sociali, associazioni, chiese, partiti: insomma
un’ampia rappresentazione
nazionale e internazionale
(…). Il FSM è più che
uno spazio aperto al dialogo
e al dibattito. Oltre ad essere
un incontro tra persone ed
idee, culture ed esperienze,
l’evento è un cammino per la
costruzione collettiva di un
modello alternativo di società.
I partecipanti all’unisono, attraverso
conferenze, dibattiti
e seminari, hanno sollevato
critiche contundenti alla globalizzazione
neoliberale, quale
modello accentratore ed
escludente. Nello stesso tempo,
hanno cercato di indicare
le vie per una nuova civiltà:
giusta, solidaria e fratea.
Una civiltà sociale ed ecologicamente sostenibile,
pluralistica, democratica e senza esclusione.
Se il «Forum economico mondiale», a New York, si
è concentrato sull’uso delle ricchezze accumulate,
delle risorse del pianeta e del lavoro umano, a Porto
Alegre il fulcro del dibattito è stata la globalizzazione
della giustizia, della solidarietà
e della pace, in un mondo
ricreato dall’intelligenza
umana. (…)
Seminari, conferenze, dibattiti
hanno fatto di Porto Alegre la
capitale del «pensiero politico
alternativo» contrapposto al
«pensiero unico».
Il FSM, sia nella prima che nella
seconda edizione, ha rappresentato
un vero segno dei tempi.
Segno del quale si può dire
a gran voce e non in termini interrogativi,
ma affermativi: um
outro mundo é possível! («un
altro mondo è possibile!»).
Conferenza episcopale
brasiliana
(Brasilia, 7 febbraio 2002)

«SIAMO
UN MOVIMENTO
DI SOLIDARIETÀ
GLOBALE»

Di fronte al continuo deterioramento delle
condizioni di vita dei popoli, noi, movimenti
sociali del mondo intero, ci siamo
incontrati in decine di migliaia nel secondo
Forum sociale mondiale di Porto Alegre. Siamo
qui in gran numero a dispetto dei tentativi di
spezzare la nostra solidarietà. (…)
Siamo diversi (…). L’espressione di questa diversità
è la nostra forza e la base della nostra
unità. Siamo un movimento di solidarietà globale,
unito nella determinazione di lottare contro
la concentrazione della ricchezza, la proliferazione
della povertà e delle ineguaglianze e
la distruzione del pianeta. Stiamo costruendo
alternative, utilizzando modi creativi per promuoverle.
(…)
Noi vogliamo rafforzare il nostro movimento attraverso
azioni e mobilitazioni comuni per la
giustizia sociale, il rispetto dei diritti e delle libertà;
per la qualità della vita, l’uguaglianza, la
dignità e la pace. Lottiamo:
– per la democrazia: i popoli hanno il diritto di
conoscere e criticare le decisioni dei loro governi,
specialmente quando riguardano istituzioni
inteazionali (…);
– per l’abolizione del debito estero e la sua riparazione;
– contro le attività speculative, chiedendo l’introduzione
di tasse specifiche, come la Tobin
tax, e l’abolizione dei paradisi fiscali;
– per il diritto all’informazione;
– contro la violenza, la povertà e lo sfruttamento
delle donne;
– contro la guerra e il militarismo, contro le basi
e gli interventi militari stranieri, e la sistematica
escalation di violenza, noi scegliamo di privilegiare
il negoziato e la soluzione non violenta
dei conflitti;
– per una Unione europea democratica e sociale,
basata sui bisogni dei lavoratori e dei popoli,
che includa la necessità della collaborazione
e della solidarietà con i popoli dell’Est e del Sud;
– per i diritti dei giovani, il loro accesso a una
istruzione pubblica, gratuita e socialmente autonoma,
e l’abolizione del servizio militare obbligatorio;
– per l’autodeterminazione dei popoli, soprattutto
dei popoli indigeni. (*)

(*) Stralcio del documento dei movimenti sociali presenti
al Forum di Porto Alegre. Per scelta del Comitato
organizzatore, il Forum non produce un proprio documento
finale.

«INSIEME, PER UN CAMBIAMENTO POSSIBILE»
Proprio qui, nella nostra Europa dei potenti,
possiamo trovare le chiavi per disinnescare i
meccanismi dell’economia neoliberista che,
nel Sud come nel Nord del mondo, opprimono e
uccidono donne, uomini e bambini, ampliando il divario
tra poveri e ricchi, minando alla base le garanzie
dei diritti umani universalmente riconosciuti,
distruggendo l’ambiente con consumi e produzioni
insostenibili, minacciando la stessa
democrazia. Le colpe dei nostri governi sono evidenti.
Di questo ci sentiamo responsabili. Per questo,
a Genova come a Porto Alegre, ci siamo impegnati.
Per un cambiamento possibile, come ci
hanno insegnato le lotte e le resistenze di tanti movimenti
di base del Sud del mondo. Qui e ora. Ma,
dopo Genova, tanti compagni di strada si sono allontanati.
Spaventati dalla violenza
della repressione, ma anche diffidenti
rispetto a meccanismi di rappresentanza
del movimento e di scelta
dei contenuti e delle azioni (…).
(…) saremo insieme, ma solo se saremo
davvero tutti, condividendo uno
stile nonviolento della nostra iniziativa
politica dal quale non vogliamo
prescindere.
Una partecipazione orizzontale,
senza relatori o portavoce non scelti
da tutti, in un confronto aperto (…)
tra tutte le realtà presenti, impegnandoci
ad allargare, a tornare a
quella pluralità che aveva dato forza
e spessore al Genoa social forum.
Insieme con le nostre storie, politiche,
valori, fedi, convinzioni tutte
sullo stesso piano, compagni, compagne,
fratelli e sorelle. Tutti dentro al Forum,
con regole certe e condivise da tutti, perché il vero
Forum resta fuori, nelle strade e nelle piazze,
nelle periferie e nelle stanze del potere, nei campi,
in fabbrica, nelle case e sotto i cartoni, nei luoghi
della preghiera e della disperazione. Ma solo
insieme. (*)
(*) Stralcio dell’appello all’unità del 26 febbraio già sottoscritto,
tra gli altri, da: don Vinicio Albanesi, don Luigi
Ciotti, don Alessandro Santoro, don Tonio Dell’Olio,
don Paolo Tofani, don Beppe Stoppiglia, Rita Borsellino
(Libera), Sabina Siniscalchi (Mani Tese), Marina Ponti
(Tavola della pace), Gianfranco Bologna (WWF), Nicoletta
Dentico (MSF), Michele Sorice (Università La Sapienza),
ecc.ecc.

Paolo Moiola




i loro nomi sono scritti in cielo

1. Ivone Faustino – Aveva 5 anni, ma era già una bambina molto vivace e giudiziosa: aiutava la madre nei piccoli lavori di casa, come attingere acqua, raccogliere legna, tenere pulita la casa. Tre fratelli maggiori furono rapiti dagli assalitori: due riuscirono a fuggire; l’altro fu costretto a seguire i rapitori alla loro base e non toò più. Fu trafitta da una baionetta, in braccio alla mamma.
2. Cecilia Jamisse – Aveva 41 anni e quattro figli. A 18 anni fu battezzata e lo stesso giorno sposò il catechista Faustino Cuamba. Moglie esemplare, accompagnò il marito
nell’attività apostolica della comunità fino alla morte.
Il giorno prima di arrivare al Centro, era ancora all’ospedale.
Giunsero a Guiúa la sera del 22 marzo; poche
ore dopo, fu uccisa da un colpo di baionetta,
mentre cercava di difendere la figlia Ivone.
3. Faustino Cuamba – Marito di Cecilia Jamisse, aveva
44 anni. Era catechista e cornordinatore zonale nella
parrocchia di Inhambane:
educato dai genitori alla
vita tenace del pescatore
per diventare anche, mediante
il servizio alla comunità,
«pescatore di
uomini». Fu il primo a
morire nell’attacco al
Centro catechetico. Mentre usciva di
casa, venne falciato da una raffica di mitraglia. Fu
trovato agonizzante, accasciato ai piedi di un albero
di cajú, con le mani sul ventre, squarciato dalle
pallottole.
4. Albino Tepo – Era nato nel 1948 a Mocumbi, cugino
di suor Lurdes, delle Francescane missionarie
di Maria. Grande lavoratore, nei giorni di permanenza
alla missione occupò il tempo intessendo cesti,
che poi vendeva. Stava per ritornare a Mocumbi,
quando fu sorpreso dall’attacco dei guerriglieri.
Ucciso a colpi di baionetta.
5. Catarina Sambula – Nata il 2 marzo 1965 a Machukele,
Mapinhane (Vilankulo), da genitori metodisti.
Nel 1987 sposò Armando Duzenta, responsabile
parrocchiale della commissione dei laici e famiglie.
Donna molto attiva in famiglia e nella
comunità, era insegnante di cucito, responsabile dei
giovani e assistente dei gruppi per la promozione
della donna. Aveva due figli: Azarias (5 anni) e Candida
(6 mesi). Gli assalitori la obbligarono a seguirli
ed abbandonare a terra la figlia più piccola, che fu
trovata ancora viva dalle suore e si salvò. Azarias fu
salvato dal padre, che riuscì a sfuggire agli assalitori.
Catarina, invece, fu trovata nel bosco martoriata
in tutto il corpo.
6. Isabel Foloco – Aveva 45 anni. Proveniva da Morrumbene.
Sposata con il catechista Benedito Penicela,
aveva cinque figli. Generosa nel collaborare ad ogni
iniziativa comunitaria, i poveri e bisognosi trovavano in lei
un aiuto sicuro e discreto. Fu accoltellata, sotto gli occhi
dei figli.
7. Benedito Penicela – Marito di Isabel e catechista di Morrumbene,
era nato nel 1944. Uomo alto e forte, si distingueva
per zelo e dinamismo nell’animare la sua comunità.
Insegnava xitshuaa suor Teresa. Anche lui, come la
sposa, fu ucciso a coltellate alla gola e al ventre.
8. Joaquim Marumula – Era nato a Massinga nel 1939.
Fu battezzato a 17 anni; sposò Palmira Kezane
Mapuiane, che gli diede 10 figli. Per sostenere
la famiglia, emigrò in cerca di lavoro. Aveva
iniziato l’attività di catechista nel 1967, facendosi
apprezzare per la generosità e la bella
voce, con cui guidava i canti della liturgia. Fu
ucciso a colpi di baionetta. Tre dei suoi figli furono
rapiti, ma tornarono a casa dopo sei mesi.
La moglie riuscì a salvarsi con la fuga.
9. Veronica Sambula – Era nata a Mavume
(Massinga) nel 1960. A 13
anni andò a lavorare a
Maxixe, dove conobbe
il futuro marito, Paolo
Saieta Kuniane, che lavorava
a Inhambane.
Ad entrambi furono affidati
compiti di responsabilità:
Veronica fu eletta anziana della comunità
e il marito fu scelto come catechista e anziano
della zona di Murure. Nel 1987 fu affidato loro
il compito della formazione dei giovani della
stessa zona pastorale. Morì accoltellata in varie
parti del corpo.
10. Madalena Beme – Originaria di Guiúa, aveva
una cinquantina d’anni. Donna semplice e
laboriosa, viveva in un villaggio vicino a Guiúa.
Frequentava il secondo anno di catecumenato.
Al momento del massacro si era rifugiata nel
Centro. Fu uccisa a colpi di baionetta.
11. Deolinda Gungave Sevene – Aveva 50 anni.
Fu battezzata nel dicembre 1962. Sposa di
Feando Sevene, catechista di Mocodoene,
era una madre esemplare e laboriosa. Nella comunità
era stimata per la profonda vita di preghiera
e la generosità nell’aiutare gli altri. Uccisa
a colpi di baionetta.
12. Gina Feando – Figlia di Deolinda, aveva
13 anni. Era ancora catecumena. Nutriva grande
amore per i genitori, che aiutava nei lavori
di casa e dei campi. Non si separava mai dalla
madre, alla quale confidava i suoi problemi
e dalla quale attingeva forza e coraggio. Fu trovata accanto
a lei, sul luogo del martirio, trafitta da baionetta.
13. Manuel Peres – Quarant’ anni. Originario di Beira. Fu
ucciso nell’assalto al Centro il 13 settembre 1987. Cadde
vittima di pallottole sparate a bruciapelo mentre difendeva
la moglie e i figli.
14. Maria Titosse – Era nata nel territorio di Guiúa nel
1960 ed era stata battezzata nella chiesa metodista. Piccola,
magra e timida, aveva sposato Leonardo Joel Maniane,
da cui ebbe tre figli. Volendo entrare nella chiesa
cattolica, frequentava il secondo anno di catecumenato.
Fu uccisa a colpi di baionetta, insieme al marito e i figli
Rita e Arlindo.
15. Arlindo Leonardo Maniane – Figlio di Maria Titosse e
Leonardo Joel, aveva solo un anno di età. Fu trovato sul
luogo del massacro con due ferite all’addome: morì durante
il trasporto all’ospedale di Inhambane.
16. Rita Leonardo Maniane – Figlia di Maria Titosse e Leonardo
Joel, aveva 8 anni. Frequentava la scuola elementare
di Guiúa. Allegra e laboriosa, aiutava i genitori nei lavori
di casa e dei campi. Trafitta da colpi di baionetta, morì
insieme ai genitori.
17. Leonardo Joel Maniane – Nato nel territorio di Guiúa,
aveva 47 anni. Grande lavoratore, era stato per molti anni
cuoco della missione. Sposato con Maria Titosse, aveva
tre figli. Era entrato solennemente nel catecumenato nel
1987 e stava per essere battezzato. Fu trovato morto, insieme
alla sposa e ai figli Rita e Arlindo.
18. Aaldo Adolfo Nombora – Nato a Massinga nel 1976
da Adolfo Nombora e Luisa Mabalane, genitori profondamente
cristiani, fu battezzato a un anno
di età. Frequentava la settima classe
elementare e faceva parte del gruppo
giovanile. Scomparso il padre nel
trambusto causato dall’attacco, rimase
con la madre e insieme a lei fu
ucciso.
19. Zito Adolfo Nombora – Fu tra i più
giovani martiri: aveva 4 anni. Era figlio
di Vitoria Adolfo. Al momento del
massacro era insieme ai nonni,
Adolfo Nombora e Luisa Mabalane.
20. Luisa Mafo – Nata nel 1943 a
Moduça, missione di Massinga, venne
battezzata a 14 anni. A 17 sposò
Adolfo Raul Nomera: ebbero 10 figli. Nel 1977 frequentò
con il marito il primo corso per catechisti nel Centro catechetico
di Mangonha (Massinga); entrambi esercitarono
il loro apostolato nella comunità di Kofi. Uccisa a colpi di
baionetta, insieme al figlio Aaldo e al nipote Zito.
21. Juvencio Carlos Mukwanane – È il più piccolo dei martiri:
era nato a Funhalouro il 2 marzo 1991. Figlio di Carlos
Mukwanane e Fatima Valente, fu trovato agonizzante
con ferite all’addome e al petto, mentre succhiava dal seno
della mamma morta.
22. Fatima Valente – Nacque a Makwene (Funhalouro)
nel 1970. Si sposò con Carlos Mukwanane nel 1989, dal
quale ebbe il figlio Juvencio. Donna molto sensibile e di
debole costituzione, era tuttavia molto impegnata come
madre e catechista, aiutando il marito nell’attività apostolica.
Morì con il piccolo Juvencio tre le braccia.
23. Carlos Mukwanane – Nato nel 1960 a Mukamba (Fugnaloro),
aveva frequentato la sesta classe elementare. Alto
e magro, era un bravo agricoltore. Nel 1991 aveva frequentato
con la moglie un corso di formazione nella missione
di Massinga, per diventare entrambi responsabili
della missione di Fugnaloro, rimasta senza missionari a
causa della guerra. La comunità li aveva scelti e mandati
a Guiúa per completare la loro formazione. Fu uno dei primi
martiri di Guiúa: gli assalitori gli spararono, appena lo
videro uscire dalla sua casa.
24. Susanna Carlos Mukwanane – Figlia di Carlos e della
sua precedente moglie, era nata a Mukamba (Fugnaloro)
nel 1979. A 13 anni si comportava come una «donna di
casa», aiutando i genitori in tutti i lavori domestici e accudendo
gli altri fratellini. Fu uccisa nel luogo del martirio,insieme
alla seconda madre, a colpi di coltello.

Giacomo Mazzotti




AFGHANISTAN: Dopo la guerra e le bombe, verrà il tempo della pace?

A KABUL NON BASTANO GLI AQUILONI


«Il risultato è che i sovietici se ne sono andati,
mentre  i vincitori – i mujaheddin –   la guerra non l’hanno ancora
smessa, 12 anni dopo la ritirata sovietica. Anzi, molti di loro  l’hanno
anche importata,   al loro rientro, nei Paesi d’origine. (…) E quel tale
Osama,   prima in buoni rapporti con la CIA, ha finito col
dichiarare  apertamente guerra…  agli Stati Uniti! E l’Afghanistan,   
in tutto questo? 1.500.000 morti, 1.000.000 di mutilati, 4.000.000  di
profughi».

(Gino
Strada, medico e fondatore  di «Emergency»)



Kabul è
caduta !

L’attesa in
una Peshawar invasa dai profughi e poi l’arrivo dell’agognata notizia: i
talebani hanno lasciato Kabul. Siamo entrati in un paese devastato da
trent’anni di guerre. A Kabul abbiamo trovato miseria, macerie e
confusione, ma anche degli italiani che da anni si fanno onore. Come
Alberto Cairo, che riassume così la situazione: anche dopo le bombe e la
caduta dei talebani, per gli afghani la parola chiave è sempre e soltanto
una, «sopravvivenza».

Appena
rientrati nella «guest house» che ci ospita, dalla televisione via cavo
arriva la notizia: Kabul è caduta!

Il giorno
seguente ci rechiamo in vari uffici governativi, dove tentiamo (invano) di
ottenere il permesso per transitare nelle «aree tribali». Ovvero in quelle
zone del Pakistan, che da Peshawar arrivano sino alla frontiera con
l’Afghanistan, in mano a tribù locali. Potremmo quasi definirle zone
franche, perché qui il governo pakistano non ha alcuna autorità. Si limita
solamente al controllo della strada che, attraverso il Kyber Pass, porta
sino alla città di confine di Thorkam.

Il giorno
precedente un convoglio di giornalisti, con l’appoggio di un capo tribù, 
ha «forzato»  il posto di blocco della polizia pakistana, che oggi quindi
non sembra disposta ad accontentare fotografi, giornalisti e cameramen
occidentali che premono per entrare in Afghanistan.

Per
fortuna, arriva una telefonata di un amico del Gr Rai, il quale ci informa
che i pakistani  hanno finalmente deciso di accordare il permesso di
transito attraverso le zone tribali.

Il 17
novembre finalmente riusciamo a partire, con un centinaio di altri
rappresentanti dei media  di tutto il mondo. Arriviamo a Thorkam, dove le
operazioni di controllo dei passaporti  sono estenuanti, un po’ per il
numero di persone da controllare, un po’ per l’estrema meticolosità dei
pakistani.

Alle 19.00
riusciamo ad entrare in Afghanistan.


SULLA STRADA
PER KABUL

«Welcome
to Afghanistan» sorride il mujaheddin, appoggiato al pick-up che ci sbarra
la strada. Alcuni come lui formeranno la nostra scorta sino a Jalalabad.

Al mattino
presto ci sveglia la guida, informandoci che il giorno precedente molte
macchine di giornalisti  avevano percorso la dissestata via del
contrabbando che porta a Kabul e che, anche in quel momento, molti si
stavano mettendo in viaggio.

Lungo la
strada attraversiamo zone desertiche e oasi coltivate (prevalentemente a
cavolfiori), che costeggiano il fiume Kabul. Dopo circa tre ore,
nonostante il ramadan, la nostra guida si ferma per offrirci un tè nel
piccolo ospedale gestito da afghani con fondi di una Ong francese. «Qui i
talebani praticamente non si sono mai visti. Solo qualche ferito in
scontri nelle vicinanze» ci dice un infermiere.

La strada
è ormai una pista. Di tanto in tanto, si incontra qualche nomade con le
sue greggi o bambini, che cercano di racimolare qualcosa tappando le buche
lungo il percorso e chiedendo qualche spicciolo alle vetture che
transitano.

A
ricordarci di essere in un paese in guerra da ormai trent’anni, ci sono
carcasse di carri armati sovietici, arrugginite dal tempo e depredate di
tutto ciò che poteva essere utile.

Eccoci a
Sourubi. Ci sono una grande diga e la centrale elettrica che fornisce la
corrente a Kabul. Qui incontriamo il primo posto di blocco dell’Alleanza
del nord.

I
militari non fanno alcun tipo di problema, sorridono e parlottano con
l’autista.


Arriviamo a Kabul, dopo aver tirato un sospiro di sollievo, per aver
superato senza problemi il canyon che ci separava dalla capitale.

È
evidente la presenza dei mujaheddin, soprattutto nelle zone strategiche
della città. Ci stupisce  il fatto che in soli 2 giorni l’Alleanza del
nord abbia già occupato tutti i posti di controllo e stia organizzando
l’amministrazione, mentre al nord del paese la guerra prosegue. Gli
americani continuano a bombardare perché i talebani dicono di non volersi
arrendere se non a una forza dell’Onu.

Kabul,
comunque, sembra sicura. I mujaheddin ci rassicurano e ci dicono che
problemi potrebbero esserci solo con alcuni gruppi di arabi e pakistani
che si sono rifugiati sulle montagne. «Di tanto in tanto ne viene
catturato qualcuno, oppure scende dalle montagne per la fame», ci dice
Abdullah, venticinquenne comandante di un piccolo gruppo di uomini che
arriva dal Panshir.

Ci
raccontano che nei giorni precedenti ci sarebbero stati diversi linciaggi,
ma che ora si sono spostati soprattutto fuori città. La gente sembra
cordiale e tutto sommato felice di aver recuperato un po’ delle libertà
perse nel 1994. Molti ragazzi che parlano un po’ di inglese si offrono
come guide ai giornalisti. Per loro significa guadagnare in pochi giorni
quello che di solito racimolano in un anno o più.



LO STADIO DEGLI IMPICCATI

Le
macchine dei mujaheddin sono tappezzate di manifesti del comandante Massud,
«il leone del Panshir», ucciso il 9 settembre. In soli 3/4 giorni sono
spuntati, qua e là, negozi di radio e televisioni, libri e musicassette.
In un piccolo supermercato troviamo persino alcuni prodotti italiani
(Barilla, Nutella), co-flakes, tonno, olio d’oliva, sigarette americane.
«Arriva quasi tutto da Dubai (Emirati Arabi)» ci spiega il proprietario. 

Andiamo
allo stadio. All’ingresso incontriamo il custode.  Abdarsak  ha 48 anni e
lavora qui da parecchio tempo. Ricorda che, in 5 anni di regime, su quel
campo sono state impiccate non meno di 50 persone e almeno altre 500 hanno
subìto il taglio di una mano. «Nell’intervallo allo stadio di Kabul c’era
quasi sempre qualche “fuori programma”».  Racconta di quel sabato 11
agosto 2001: «Sono le due di pomeriggio. I tagiki del Pamir, in maglia
rossa e pantaloni lunghi, e gli azarà di Maivan, in completo verde e
pantaloni lunghi, stanno per affrontarsi. Non è una partita ufficiale
eppure lo stadio è gremito, ci saranno 30 mila persone. Sono così rare le
occasione per divertirsi che una qualsiasi partita di calcio diventa un
evento. L’arbitro dà il fischio di inizio. Si gioca. Mancano 10 minuti
alla fine del primo tempo, quando dall’altoparlante si chiede di fare
silenzio e di sospendere la partita. Eccolo il “fuori programma”!

La voce
dura di Abdrakam Arrà, il temuto capo della polizia religiosa talebana,
annuncia che da lì a pochi minuti verranno puniti, in nome di Allah, 4
uomini macchiatisi di crimini gravissimi. Calciatori, arbitro e
guardalinee hanno già raggiunto le linee laterali per non perdersi lo
spettacolo. L’altoparlante torna a dire qualcosa e i colpevoli, due ladri
e altrettanti assassini,  vengono spinti, ammanettati, a centro campo,
dove sono attesi da una dozzina di boia incappucciati».


Prosegue Abdarsak: «Il rituale era sempre lo stesso: gli assassini
venivano impiccati alle traverse e poi finiti a fucilate; i ladri subivano
il taglio di una mano».  Le esecuzioni non avvenivano solo allo stadio, ma
anche in una piazza, alla periferia residenziale di Kabul, chiamata Charai
Aiana, ma tristemente nota con il soprannome di piazza della morte. Al
centro di quello slargo a luglio hanno penzolato, da una gru, quattro
uomini accusati di aver minato l’Hotel Kabul,  quartier generale dei
talebani; ma era solo un pretesto per liberarsi di quattro scomodi
oppositori. 


IL
DOTTOR CAIRO,

L’«ANGELO
ITALIANO»

Kabul
di notte è una città fantasma. Non vige un vero e proprio coprifuoco, ma
di fatto è come se ci fosse. Solo alcuni giornalisti si muovono (ma
rapidamente) da un albergo all’altro. Mentre mangiamo un piatto di riso
con pollo, un ragazzo ci raccomanda di ricordare che le croci bianche
sulle case segnalano che sono state sminate, mentre quelle con la croce
rossa non lo sono. Ci ricorda anche che nel paese rimangono circa 11
milioni di mine.

Poiché
le stime parlano di circa 8/9 milioni di abitanti, questo significa più di
una mina per afghano! Ecco perché, per strada, è normale vedere persone
con una sola gamba.


Incontriamo il dottor Alberto Cairo (laureato in legge, ma convertitosi
alla fisioterapia) nel suo centro ortopedico, ospitato presso l’ospedale
Wasir Abkhar Khan.

«Sono
appena rientrato dopo 57 giorni, non ce la facevo più a stare lontano da
qui. Non sapevo cosa avrei trovato, ma vedo ottimismo e fiducia. Molti
sperano in qualcosa di nuovo e di buono, specie adesso che tutto il mondo
guarda all’Afghanistan. Tutti sono contenti della fine dei bombardamenti,
ma tutti sono preoccupati per il futuro: la fine degli attacchi e il
cambio di regime non significano, automaticamente, pane, case, caldo,
sicurezza o un governo stabile». Il dottor Cairo vive a Kabul da 12 anni,
il suo centro ortopedico sfoa protesi a getto continuo, avvalendosi a
volte di materiali di recupero, come ad esempio copertoni.

Nel
centro ci sono una sala ed un percorso all’aperto per la riabilitazione.
Il personale dell’ospedale è tutto afghano, formatosi nel medesimo centro,
e la maggior parte di esso è composto di ex pazienti. Continua il dottor
Cairo: «La parola chiave in Afghanistan è sopravvivenza. Gli abitanti
hanno dei meccanismi che io non riesco a comprendere: in qualche modo ce
la fanno sempre, ma pur sempre sopravvivenza è. So che gli afghani hanno
grandi capacità lavorative, ma non mi aspettavo che potessero portare
avanti da soli tutte le nostre attività, pur avendo così tanta pressione
sulle spalle. I laboratori ortopedici hanno fabbricato gambe, braccia,
stampelle; le distribuzioni di cibo sono andate avanti. Il centro è in
perfetto ordine. Ci sono persino i fiori. Temevo che i colleghi afghani mi
avessero mentito, per farmi stare tranquillo. Invece no, è tutto a posto».


Salutiamo il dottor Cairo e continuiamo i nostri giri per Kabul.


A
SPASSO TRA LE MACERIE

DELLA
CAPITALE

Alcune
zone della città sono completamente distrutte. Ci sono milioni di fori di
proiettile, come se un pazzo fosse entrato, casa per casa, sparando
centinaia di colpi in ogni stanza.

Il
museo è devastato; l’università, per il momento, resta chiusa.  L’ex
palazzo reale, alla periferia di Kabul, è uno scheletro di travi e
calcinacci. Peccato, doveva  essere bello. La Tomba del Padre (un anonimo
mausoleo) è stata bombardata. Lo zoo, nonostante tutto, resiste ed ospita
un orso spelacchiato, qualche scimmia ed un leone entrato nella leggenda,
perché è sopravvissuto allo scoppio di una granata lanciatagli da un
mujaheddin per vendicare la morte del fratello, sbranato  dall’animale.
Quella che era l’ambasciata russa è ormai occupata da circa 20 mila
profughi.


Incontriamo due donne, rigorosamente con il burqa, che pare abbiano voglia
di chiacchierare. Anche loro sono sfollate e si sono rifugiate qui per
sfuggire ai combattimenti che per anni hanno bersagliato le zone a nord
della capitale. Si ritengono fortunate, perché anche con i talebani hanno
potuto continuare a lavorare.

Da due
anni lavorano come assistenti sanitarie ed educatrici presso il campo
profughi. Si tratta di un progetto organizzato da «Save the children». Pur
sembrando molto giovani, sono entrambe sposate. Una di loro però non pare
soddisfatta, ed il fatto che ne parli con due stranieri è sorprendente. Si
è sposata da 7 mesi e, dopo appena uno, il marito è partito per l’Iran in
cerca di lavoro. E oggi lei è costretta a vivere con la famiglia di lui.
Gli uomini di casa si affacciano alla finestra, un po’ curiosi e un po’
minacciosi; ma lei non pare scossa e continua a camminare disinvolta fra
la polvere con le sue scarpe bianche, unica parte visibile sotto il  burqa.



LE BOMBE «INTELLIGENTI»

I
soldati dell’Alleanza del nord cominciano a farsi più rigidi con i
giornalisti occidentali. Ci negano il permesso di fotografare alcuni carri
armati talebani bombardati dagli americani, ci impediscono di vedere
alcuni prigionieri arabi e pakistani, rinchiusi in un container, nel mezzo
di una delle basi.

Dietro
la vittoria dell’Alleanza ci sono i bombardamenti anglo-americani, che
hanno lasciato il segno, e non solo sulle basi militari. Nei paraggi di
questi obiettivi molte case civili sono state distrutte. Errori? C’è chi
li ammette e chi no.

 «Non
posso giustificare un errore che ha ucciso tutta la famiglia di mio
fratello» ci dice Abdul. «La casa è stata colpita durante i primi
bombardamenti – spiegano alcuni vicini -. Erano da poco passate le otto
quando, all’improvviso, l’esplosione: 9 morti e 12 feriti». «Mio fratello
non ha mai avuto nulla a che fare con i talebani era un semplice maestro»
racconta Abdul. Ma le bombe, si sa, non guardano in faccia nessuno.

Molte
sono le zone di Kabul colpite dai bombardamenti. Vicino all’Hotel
Continental, dove alloggiano la maggior parte dei giornalisti, nella zona
di Karte Parvan, si trova una villa che era stata donata dal re ad uno dei
suoi consiglieri più fidati. Negli ultimi anni la villa era diventata la
base di alcuni arabi e per questo sarebbe stata bombardata. Sotto il buco
nel tetto ci sono ancora i resti del missile «intelligente» lanciato dagli
americani.

Alcuni
mujaheddin stanno ripulendo lo stabile. Ci dicono che intendono farvi una
guest house per il ministero della Difesa. Ma il fatto di essere tornati
grazie alle bombe americane non vi reca qualche imbarazzo? Ci risponde
Quasim, ventiduenne capo militare dell’Amirat del Panshir, evidentemente
soddisfatto di essere tornato a Kabul: «Certo, le bombe americane ci hanno
aiutato. Hanno colpito i terroristi, nemici dei musulmani, del nostro
paese nonché dell’umanità intera». Invece sulla sorte di possibili
prigionieri preferisce lasciare la risposta ai suoi superiori.

Da ieri
mattina è cominciato l’attacco a un migliaio fra talebani e arabi che si
sono raggruppati a Maidan Shar, una quarantina di chilometri a sud-est di
Kabul. Un punto strategico per entrambi i contendenti, poiché qui passa la
strada che porta ad Herat e Kandahar. Il comandante Haji Shirihalam, in un
improvvisato incontro con i giornalisti, dichiara: «Abbiamo negoziato per
10 giorni. Alla fine, lunedì scorso, i talebani sono venuti a dirci che si
sarebbero arresi e che avrebbero consegnato le armi. Ma così non è stato e
noi questa mattina abbiamo attaccato».

Il
problema è che qui, come in altri posti del paese, i talebani sarebbero
anche disposti ad arrendersi, ma gli arabi e i pakistani che sono con loro
si oppongono, ben sapendo che a loro spetta la sorte peggiore. Fra i
talebani afghani è quasi subentrato un sentimento nazionalista, essendo
consapevoli del fatto che per loro le pene saranno miti, sempre che siano
puniti.

Guljan,
trentaduenne studente di teologia, come ama definirsi, ci dice: «Per il
mio paese io voglio solo la pace». Discute tranquillamente con alcuni
soldati dell’Alleanza, tra sorrisi ed abbracci da vecchi amici ritrovati.
«Era nostra intenzione arrenderci, ma gli stranieri ce l’hanno impedito».
Sanno di non avere via di scampo, che non possono certo tornare a casa. I
combattenti stranieri sono stati i primi ad essere passati per le armi dai
mujaheddin, quando sono stati intercettati, mentre sembra che in alcuni
casi, come a Kunduz, siano stati gli stessi stranieri ad uccidere i
talebani che volevano arrendersi.


Toiamo verso Kabul, lungo la strada che è un continuo sali e scendi. Ai
lati viene continuamente segnalata la presenza di mine. Appostati nei
luoghi strategici, i mujaheddin scrutano l’orizzonte o formano i posti di
blocco, che qui sono più numerosi che altrove.

 L’impatto
con l’entrata sud della capitale è assolutamente impressionante: una città
completamente devastata,  macerie su macerie. Superata la parte distrutta
durante i 20 anni di guerra civile, l’altra, quella sopravvissuta, sta
chiudendo i battenti.

In
tempo di ramadan, al calar della sera comincia la corsa verso casa per
l’agognato pasto dopo il lungo digiuno. Cosa troveranno sulla tavola i
milioni di afghani che vivono solo degli aiuti umanitari? Intanto, al
mercato di Kabul, i prezzi dei beni alimentari sono in costante aumento.
Succede sempre durante il mese di ramadan, ma oggi, in più, ci sono la
guerra e gli stranieri.

 

 



Afghanistan una storia tormentata

Dal
XIII al XVI secolo


L’Afghanistan è governato prima da Gengis Khan, poi da Tamerlano e dai
suoi discendenti.


 1839-1919: le guerre con gli inglesi

Persa
la prima guerra anglo-afghana (1839-1842), gli inglesi si rifanno nella
seconda (1878-1880) e stabiliscono sull’Afghanistan un protettorato. Nella
terza ed ultima guerra (1919), gli afghani si liberano degli inglesi. 

 Dal
1933 al 1963


L’Afghanistan è governato dal re Zahir Shah. Durante la seconda guerra
mondiale, il paese riesce a mantenere l’integrità nazionale e una
difficile neutralità. A partire dagli anni Cinquanta diventa un
protettorato di fatto dell’Unione Sovietica.

 1964:
riforme democratiche

Zahir
Shah approva una nuova costituzione trasformando il regno in una
democrazia con libere elezioni e diritti civili.

 1973:
il re viene detronizzato

Luglio
– Il re Zahir Shah viene detronizzato da un colpo di stato organizzato dal
principe Mohammed Daud. L’Afghanistan viene proclamato repubblica e Daud
ne diventa il presidente.

 1978:
nascono i «mujaheddin»

Aprile
– Daud viene ucciso. Il Partito democratico del popolo afghano (PDPA),
filo-sovietico, dà il via alla «Rivoluzione d’aprile», che porta alla
nascita della Repubblica democratica dell’Afghanistan. Al potere sale
Mohammed Taraki, con Babrak Karmal primo vice premier.

Agosto/dicembre
– Le riforme del nuovo regime, volte alla sovietizzazione e alla
laicizzazione del paese, alimentano il malcontento di larghi strati della
popolazione. Comincia a organizzarsi la resistenza islamica armata (mujaheddin)
con l’appoggio degli USA.

 1979:
l’invasione sovietica

16
settembre – Il presidente della repubblica Taraki viene ucciso e il potere
passa nelle mani di Afizullah Amin. Il PDPA si spacca. L’URSS, che non
gradisce l’ascesa di Amin e teme un’estensione della ribellione islamica
alle vicine repubbliche di Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, decide
di invadere l’Afghanistan.

27/28
dicembre – Truppe dell’Armata Rossa entrano nel paese. Amin viene
assassinato dai servizi segreti di Mosca e i sovietici installano al
potere Babrak Karmal.

 1980:
interessi vitali

In
occasione del tradizionale discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente
USA Jimmy Carter dichiara che «il tentativo da parte di una potenza
straniera di conquistare il controllo della regione del Golfo Persico sarà
considerato come un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti e sarà
respinto con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare». Gli USA
offrono al Pakistan un piano di aiuti economici e militari (missili
Sidewinder e Stinger) per arrestare l’avanzata dell’URSS in Afghanistan.

1983:
profughi

Il
numero dei profughi afghani raggiunge livelli altissimi: circa 3 milioni e
mezzo di persone sono rifugiate in Pakistan, 2 milioni in Iran e diverse
migliaia in India, in Europa e negli Stati Uniti.

Le
truppe sovietiche in Afghanistan ammontano ormai a più di 100 mila unità.

 1986:
arriva Najibullah

Maggio
– Babrak Karmal perde l’appoggio dell’URSS e viene costretto a dimettersi.
Lo rimpiazza il medico, ex capo della polizia segreta e segretario del
PDPA, Mohammed Najibullah.

 1988:
accordi di Ginevra

Aprile
– Dopo anni di incontri tra il governo afghano, i gruppi ribelli e i
rappresentanti di USA e URSS, sotto l’egida dell’O.N.U., a Ginevra si
firmano gli accordi per il definitivo ritiro sovietico.

Maggio
– L’URSS rivela che 13.310 soldati sovietici sono morti e 35.478 sono
rimasti feriti nel corso degli 8 anni di guerra in Afghanistan. Il 25
maggio inizia ufficialmente il ritiro dell’Armata Rossa. Ad agosto il
contingente sovietico nel paese è già dimezzato.

Luglio
– A Kabul Najibullah forma un governo di coalizione, nella sostanza
filosovietico, nonostante la presenza di alcuni ministri non comunisti.

 1989:
i sovietici si ritirano

15
febbraio – Ritiro definitivo delle truppe sovietiche.

Aprile
– I guerriglieri musulmani mujaheddin, si trasformano progressivamente in
un esercito regolare, organizzato e ben equipaggiato, con il sostegno
della C.l.A. e del Pakistan. Continuano a combattere contro il governo
moderato di Najibullah, ma per il momento controllano solo alcune aree
rurali.

 1991:
crolla l’Unione Sovietica


Novembre – Burhanuddin Rabbani guida una delegazione mujaheddin a Mosca
per discutere di un possibile cessate il fuoco. Le parti si accordano per
il trasferimento del potere a un governo islamico ad interim e per lo
svolgimento di libere elezioni entro 2 anni.

8
dicembre – L’URSS cessa di esistere. Al suo posto nasce la Comunità di
Stati Indipendenti (CIS).

 1992:
l’ora di Rabbani e Massud

Aprile/giugno
– Kabul è presa dai mujaheddin. Dopo giorni confusi e sanguinosi scontri
intestini tra le forze ribelli, si costituisce un governo di coalizione
sotto la guida di Burhanuddin Rabbani.

Vi
entrano rappresentanti dei 7 partiti della guerriglia. Il comandante Ahmad
Shah Massud viene nominato ministro della difesa.

 1994:
arrivano i talebani


Novembre – I componenti della fazione più fondamentalista, quella degli
studenti sunniti di teologia coranica, i talebani, compaiono per la prima
volta sulla scena come gruppo armato. Da questo momento i combattimenti
subiscono un’escalation.


Novembre – Kandahar viene presa dai talebani, che assumono anche il
controllo di due province del sud, Lashkargarh e Helmand.

1995: i
talebani avanzano ovunque

5
settembre – Dopo mesi di combattimenti Herat cade nelle mani dei talebani.
ll leader sciita Ismail Khan, luogotenente di Rabbani nella città, fugge
in Iran. All’O.N.U. il ministero degli esteri di Rabbani accusa il governo
pakistano di «aggressione diretta» per il sostegno fornito ai talebani
nella presa di Herat.


Novembre – Le milizie talebane attaccano Kabul. Le truppe governative
riescono tuttavia a respingere l’offensiva.

 1996:
la caduta di Kabul

20
marzo – La shura dei talebani invita il popolo afghano alla jihad (guerra
santa) contro il presidente Rabbani. Il maulvi Mohammed Omar è proclamato
condottiero dei talebani.

26
settembre – I talebani muovono verso Kabul e la conquistano nella notte.
ll presidente Rabbani e il primo ministro Hekmatjar fuggono. L’ex
presidente Najibullah viene impiccato a un lampione. Mohammed Omar è
nominato capo di un consiglio provvisorio formato da 6 membri. ll Pakistan
invia una delegazione a Kabul.

28
settembre – L’amministrazione americana esprime «rammarico» per
l’esecuzione di Najibullah, ma si dichiara disposta a stabilire relazioni
con il nuovo regime. I talebani intanto avanzano verso il nord del paese.

2
novembre – L’Organizzazione della conferenza islamica decide di lasciare
vacante il seggio dell’Afghanistan.

 1997:
il Pakistan riconosce il governo talebano

La
resistenza moderata antitalebana si concentra nella parte nord del paese,
dove varie fazioni danno vita all’«Alleanza del Nord», appoggiata dalla
Russia che non vuole perdere totalmente il controllo della regione. ll
generale tagiko Massud guida l’Alleanza. La guerra prosegue durissima e a
fasi altee nelle province settentrionali.

24
maggio – I talebani entrano a Mazar-i-Sharif, impongono la sharia (la
legge islamica) e chiudono le scuole femminili.

26
maggio – Il Pakistan riconosce il governo dei talebani.

4
settembre – Uno dei massimi dirigenti talebani si reca in Arabia Saudita,
dove a Jeddah riceve promesse di aiuti da re Fahd. Accusa inoltre Iran,
Russia e Francia di aiutare Massud.

17
dicembre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. condanna i rifoimenti
di armi da parte di eserciti stranieri alle fazioni afghane e invita le
parti al cessate il fuoco.

 1998:
Omar e Osama

9
luglio – Un aereo dell’O.N.U. viene colpito da un razzo a Kabul. Il maulvi
Omar mette al bando la televisione e annuncia la deportazione dei
cristiani e punizioni per i comunisti.

18
luglio – L’Unione europea sospende tutti gli aiuti umanitari a Kabul per
le inaccettabili restrizioni cui è sottoposto il suo personale.

7
agosto – Le ambasciate USA in Kenya e Tanzania saltano in aria: i morti
sono centinaia. Gli americani ritengono che il responsabile degli
attentati sia Osama bin-Laden, un miliardario saudita che sostiene anche
finanziariamente i talebani.

8
agosto – I talebani riconquistano Mazar-i-Sharif uccidendo 11 diplomatici
iraniani e un giornalista. Massacro di migliaia di hazara.

18
agosto – L’ayatollah Ali Khamenei accusa Stati Uniti e Pakistan di usare i
talebani come strumento antiiraniano. Il leader talebano Omar dichiara che
il suo governo darà asilo a Osama bin-Laden.

20
agosto – Gli Stati Uniti lanciano 75 missili Cruise sui campi di Jalalabad
e di Khost, che sarebbero al comando di Osama bin-Laden: 21 morti e 30
feriti.

29
dicembre – L’UNICEF denuncia il totale collasso del sistema educativo
afghano.

 1999:
gasdotti, sanzioni O.N.U. e oppio

9
febbraio – Il governo di Kabul respinge una lettera formale degli Stati
Uniti in cui si richiede di consegnare Osama bin-Laden.

29
aprile – Talebani, Turkmenistan e Pakistan firmano un nuovo accordo per la
costruzione di un gasdotto attraverso l’Afghanistan.

14
maggio – Gli Stati Uniti diffidano ufficialmente il Pakistan dal dare
aiuto ai talebani. Washington dichiara nuovamente il suo favore per un
ritorno a Kabul del re Zahir Shah, che si trova in esilio a Roma.

22
maggio – I talebani individuano una potenziale rivolta a Herat. Otto
congiurati vengono giustiziati in pubblico. Un altro centinaio di nemici
sono uccisi.

26
giugno – Zahir Shah convoca a Roma 70 delegati afghani per organizzare una
Conferenza degli Anziani (la «Loya Jirga», tradizionale strumento
istituzionale per risolvere i conflitti interni), ma i talebani rifiutano
la sua mediazione.

6
luglio – Gli USA impongono sanzioni economiche e commerciali al governo
dei talebani e congelano i loro patrimoni finanziari. I talebani si
preparano intanto a un’offensiva estiva contro le truppe di Massud.
Migliaia di giovani arabi e pakistani si uniscono a loro.

10
settembre – Le Nazioni Unite calcolano che la produzione di oppio in
territorio afghano sia raddoppiata, raggiungendo le 4.600 tonnellate. Il
97% delle coltivazioni è sotto controllo talebano.

12
ottobre – In Pakistan, un colpo di stato militare rovescia il governo di
Nawaz Sharif. Sale al potere il generale Musharraf.

15
ottobre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. vota a favore
dell’imposizione di sanzioni contro il regime di Kabul se, entro 30 giorni,
i talebani non consegneranno Osama bin-Laden agli Stati Uniti.

11
novembre – Centinaia di persone scendono in piazza nelle maggiori città
afghane per protestare contro le sanzioni dell’O.N.U. e chiedere il
sostegno dei paesi islamici. Contemporaneamente esplode in Pakistan la
protesta anti-occidentale degli integralisti islamici, che sfocia in una
serie di gravi attentati.

14
novembre – Le sanzioni delI’O.N.U. diventano operative.

2000:
tentativi di colloquio

Maggio
– Secondo i dati O.N.U. la produzione di oppio in Afghanistan ha raggiunto
cifre record, superiori alle 4.800 tonnellate. La superficie coltivata è
cresciuta del 23%.

13
luglio – Il generale Massud lancia una controffensiva militare, ma la
reazione dei talebani si dimostra più efficace del previsto. L’ex
presidente Rabbani lamenta lo scarso sostegno all’Alleanza antitalebani da
parte della comunità internazionale.

Ottobre
– Una delegazione dei talebani è ricevuta a Washington al Dipartimento di
Stato.


Novembre – Dopo una lunga opera di mediazione compiuta dall’inviato
speciale dell’O.N.U. in Afghanistan Francisc Vendrell, i talebani e
l’opposizione dell’Alleanza del Nord firmano un impegno a partecipare
entro dicembre a una serie di colloqui di pace indiretti. Il 21 novembre,
tuttavia, Stati Uniti e Russia chiedono l’inasprimento delle sanzioni
contro i talebani.

Le
organizzazioni umanitarie mettono in guardia le Nazioni Unite dai rischi
dell’imposizione di ulteriori sanzioni, che causerebbero soltanto maggiori
sofferenze alla popolazione civile già duramente provata.

10
dicembre – I talebani minacciano di boicottare i previsti colloqui di
pace.

19
dicembre – Il Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. adotta una risoluzione (sostenuta
principalmente da Stati Uniti, Russia e India), per l’inasprimento delle
sanzioni contro l’Afghanistan, se i talebani non consegneranno entro 30
giorni Osama bin-Laden, non smobiliteranno i campi di addestramento per i
terroristi islamici e non cesseranno ogni commercio illegale di sostanze
stupefacenti.

 2001:
la situazione precipita

19
gennaio – Entrano in vigore le nuove sanzioni dell’O.N.U. contro il regime
dei talebani.

28
febbraio – L’ambasciatore di Kabul in Pakistan, Abdul Salam Zaeef,
conferma che il suo governo ha deciso la distruzione dei Buddha di Bamiyan,
capolavori dell’arte ellenistico-orientale fiorita nel paese prima
dell’islamismo.

27
marzo – Un gruppo di giornalisti occidentali è ammesso nella valle di
Bamiyan per certificare l’avvenuta demolizione delle statue.

5
aprile – Massud viene ricevuto a Strasburgo.

19
maggio – La polizia religiosa chiude a Kabul le panetterie del PAM (Programma
alimentare mondiale) dove lavorano donne. La polizia religiosa irrompe
nell’ospedale di Emergency a Kabul.

23
maggio – Diventa legge l’ordinanza che impone agli indù di portare sugli
abiti un segno distintivo.

9
settembre – Il generale Massud viene ucciso.

11
settembre – Attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York e al
Pentagono.

 DOPO
L’11 SETTEMBRE 2001

 7
ottobre – L’aviazione anglo-statunitense colpisce Kabul e Kandahar.

26
ottobre – Bush firma la legge antiterrorismo denominata «Usa Patriot Act»
(legge del patriottismo americano). Il provvedimento rafforza enormemente
i poteri della polizia e dell’Fbi.

7
novembre – Il Parlamento italiano approva l’intervento militare italiano
accanto agli USA. «Il nostro Parlamento ha scritto ieri una pagina
onorevole della sua storia» (Piero Ostellino, sul «Corriere della Sera»
dell’8 novembre).

13
novembre – Le truppe dei mujaheddin entrano a Kabul.

27
novembre – Scoppia un rivolta nel carcere-fortezza di Qala-e-Jhangi, a 10
chilometri da Mazar-e-Sharif, dove sono detenuti circa 600 talebani, in
gran parte pakistani. Oltre 450 rivoltosi vengono uccisi. Amnesty
Inteational chiede l’apertura di un’indagine. Tra i talebani feriti c’è
anche un cittadino statunitense di 20 anni, John Walker.

5
dicembre – I rappresentanti dei quattro maggiori gruppi etnici e politici
afghani riuniti a Petersberg, vicino a Bonn, sotto l’egida delle Nazioni
Unite, raggiungono un accordo sul futuro dell’Afghanistan.

22
dicembre – Si installa il governo provvisorio di Hamid Karzai, leader
pashtun di 44 anni. La nuova amministrazione è composta da 29 ministri,
tra cui 2 donne (Sima Samar vicepremier e Suhaila Seddiqi ministro della
sanità), che rappresentano tutte le etnie. Vi sono 11 pashtun, 8 tagiki, 5
hazara, 3 uzbeki e altri esponenti di etnie minori.

31
dicembre – Un bombardamento statunitense provoca più di 100 vittime tra i
civili. È il terzo «effetto collaterale» in 10 giorni. Il governo di
Karzai chiede la sospensione dei raids aerei.

12
gennaio 2002 – Bendati e

legati
arrivano nella base


statunitense di Guantanamo (Cuba) i primi prigionieri talebani.


(a cura di Paolo Moiola)

 


Il
commento



Caduta libera verso la barbarie

di Gino Strada (Emergency)

Il
secolo passato ha visto numerose catastrofi umanitarie. Io speravo, fino a
qualche tempo fa, di non vedee più. Sono state firmate ogni tipo di
carte dei diritti, una montagna di carte: per l’uomo, per la donna, per il
bambino, per il vecchio, per la mezza età. Nonostante questo, ciò che sta
accadendo in questo momento storico si può definire come una caduta libera
verso la barbarie. Vorrei raccontare cosa sta accadendo in due delle sette
corsie dell’ospedale di Emergency a Kabul.

Una è
la corsia pediatrica. Ogni giorno arriva qui un bambino mutilato, ferito,
tagliato in due pezzi dall’esplosione di una «cluster bomb» (1) americana.
Gli americani si sono rifiutati di indicare agli sminatori i luoghi
bombardati con quegli ordigni. Quando le cluster bombs non esplodono
nell’impatto con il suolo, la loro dispersione le trasforma in mine sparse
sul territorio per un ampio raggio. È stata fatta una grande propaganda
sul lancio degli aiuti, i famosi sacchetti gialli, che anch’io ho visto.
Ora quei pacchi lanciati dal cielo hanno lo stesso colore delle… cluster
bombs americane. Sono lì, sparse dentro e fuori ai villaggi, pronte per
essere raccolte dai bambini, bramosi di trovare i famosi aiuti. Bene, io
chiamo questo terrorismo!

Queste
lanciate dal cielo sono mine antiuomo, mine contro la giustizia, la pace,
la libertà, la verità! Io non ci sto. Non ci sto. Credo che Emergency
faccia bene a denunciare questo gioco al massacro.

 All’interno
del nostro ospedale di Kabul, c’è poi un’altra corsia: quella destinata ad
ospitare i pazienti che hanno preso parte alle ostilità.

Ci sono
combattenti talebani non afghani, pakistani, uomini di Al Qaeda. Con i
talebani hanno combattuto uomini di 22 diverse nazionalità.

Questi
pazienti non sono stati portati feriti in ospedale. Siamo andati a
prenderli nelle carceri di massima sicurezza, dove erano abbandonati a
morire. Siamo andati perché, altrimenti, sarebbero stati brutalmente
uccisi. E con loro sarebbero stati uccisi i più basilari diritti umani.
Diritti che valgono anche per i combattenti talebani. D’altronde, questa è
la politica degli Usa: non fare prigionieri. Una politica che pratica e
genera terrore. Per questo dobbiamo muoverci prima che sia troppo tardi,
prima che le retroazioni simmetriche giungano anche in Europa. Noi viviamo
in un’Europa meno sicura, perché gli Usa hanno deliberatamente scelto di
occupare tutti i luoghi sacri del Medio Oriente. Questa politica estera
americana è da fermare. È un dovere morale per tutti!

Alcuni
sostengono che quella statunitense sia «la verità della civiltà». In
realtà, si tratta solo dell’attuazione di una politica imperialista volta
a combattere i disastri di una recessione economica intea al paese.


Naturalmente, l’Italia si è schierata in prima linea.  Abbiamo un
parlamento che per il 95% ha votato a favore dell’ingresso in guerra
contro l’Afghanistan. Oppure è la guerra contro Osama bin-Laden, che forse
in questo momento si sta nascondendo in uno dei rifugi fatti costruire
dalla CIA vent’anni fa.


Purtroppo, in questo contesto storico io sono molto meravigliato della
mancanza di un serio movimento per la pace. Noi proponiamo il dialogo come
alternativa alla guerra. Dobbiamo fare cultura per opporci a questa
catastrofe. Un esempio concreto in questa direzione è proprio Emergency.

Io dico
questo e poco importa se dal parlamento italiano arrivano insulti
personali gratuiti (2). L’unica forma di resistenza in questo momento è
parlare di fratellanza per evitare che si cada in una spirale di
disperazione per tutti. Spero che questo non accada mai. Dipenderà tutto
da noi. Ma dobbiamo muoverci! (3)

 (1)  
Termine per indicare le «bombe a grappolo», tipo di ordigno che,
all’impatto con il suolo, libera circa 50 bombe di dimensioni ridotte che
si sparpagliano sul terreno circostante.

(2)  Il
dottor Strada si riferisce a Silvio Berlusconi, che lo ha definito «un
uomo confuso».

(3) 
Questo intervento è stato fatto lo scorso 15 dicembre 2001 presso la
Camera del lavoro di Milano in occasione della presentazione del libro
«Afghanistan anno zero». È opportuno ricordare che questo lavoro di
Giulietto Chiesa e Vauro è stato scritto PRIMA dell’11 settembre.

 

 


A Kabul, con i nuovi padroni e i problemi di sempre



 «Non vogliamo solo speranze»

 


Musica, televisione, cinema, aquiloni. Tutto sembra tornare,
a Kabul. Ma sono questi i veri problemi? Forse è meglio concentrarsi sui
diritti e sulla rappresentanza all’interno dei nuovi organismi statali,
dicono le donne afghane. Con o senza burqa.

 

Kabul.
Nella capitale afghana è tornata la musica; qua e là spuntano antenne
paraboliche; si vedono di nuovo i libri e i bambini possono giocare con
gli aquiloni senza rischiare una severa punizione. Tutto cambia, ma le
donne restano invisibili. Le strade sono affollate di uomini, mentre le
afghane continuano a camminare rasentando  i muri, nascoste sotto i loro
burqa, nonostante la vittoria dell’Alleanza del nord.

In un
negozio di televisioni, aperto a tempo di record, incontriamo Soraja: sta
scegliendo un videoregistratore. E il televisore? «L’abbiamo tenuto
nascosto durante tutti questi anni, ma adesso possiamo utilizzarlo senza
paura». E come mai un videoregistratore? «Un passatempo per noi donne, che
dobbiamo restare in casa».


SHAMSIA
E RAHIMA,

DONNE E
MEDICI

Negli
anni dei talebani (1996-2001) le donne hanno potuto lavorare solo in casi
eccezionali e solo a contatto con altre donne. Se le possibilità di lavoro
erano così strettamente limitate, il problema dell’educazione e della
formazione delle bambine era risolto con il divieto alle ragazze di
studiare. La sanità poi era un vero dramma. All’inizio tutti gli ospedali
furono interdetti alle donne, poi furono ricavati degli spazi a loro
dedicati.


Un’amica giornalista italiana, che per girare inosservata (per quanto sia
possibile a degli occidentali), ha scelto di muoversi sempre con un velo
sulla testa, ci racconta: «Tre anni fa avevo trovato a Kabul una
situazione disastrosa: nel reparto di ginecologia di un ospedale le donne
venivano dimesse circa un’ora dopo il parto (quasi certamente si trattava
di situazioni complicate, altrimenti non avrebbero fatto ricorso alla
clinica, ndr), per lasciare il posto ad altre donne in attesa (a volte già
con le doglie) sulle panche di legno nel cortile dell’ospedale».

La
strada che porta all’ospedale Rabia Balki è affollatissima, frotte di
donne, con il burqa alzato sulla fronte, si accalcano contro il portone di
ferro che separa la strada dal cortile dell’unico ospedale per donne di
Kabul. In realtà ce n’è un altro, ma solo per problemi ginecologici.
Questo, invece, tratta tutte le patologie e c’è anche un reparto
chirurgico. È un grande edificio (un po’ fatiscente, ma abbastanza pulito),
suddiviso in stanze con 6/8 letti ciascuna, sala operatoria, ambulatori,
65 medici (tra cui 5 maschi) per un totale di 250 degenti.

Shamsia,
camice rigorosamente bianco e velo trasparente viola, è una delle
chirurghe. È arrivata all’ospedale due anni fa, appena finiti gli studi.
Ha frequentato, all’università di Kabul, l’unica facoltà rimasta aperta
alle donne: quella di medicina, indispensabile visto che le pazienti
possono essere visitate solo ed esclusivamente da altre donne. Anche se
adesso in questo ospedale si fa un’eccezione per i 5 medici maschi.

Rahima
è invece la direttrice sanitaria e medico internista. Shamsia e Rahima
dicono di non aver mai avuto particolari problemi per il loro lavoro in
ospedale. I problemi con i talebani erano quelli di tutte  le donne
afghane. E ora? Per loro non è cambiato nulla con l’arrivo a Kabul degli
uomini dell’Alleanza del nord, ma sperano in un cambiamento. E sono in
spasmodica attesa dei risultati della conferenza di Bonn (conclusasi con
un accordo lo scorso 5 dicembre, ndr), anche se l’Onu ha già fallito molte
volte nel tentativo di trovare una soluzione per l’Afghanistan.

Che
cosa si aspettano? «Un governo rappresentativo di tutti, che possa portare
la pace» dice Rahima, mentre Shamsia concorda. Con la partecipazione dei
talebani?  «Devono partecipare tutti, tranne i gruppi armati che hanno
combattuto per 23 anni (sia talebani che  mujaheddin) distruggendo il
paese. Sono loro i responsabili di questa catastrofe, quindi devono
restare fuori dal governo».


Un’utopia, anche se, contrariamente ad altre donne, come quelle di Rawa («Associazione
rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan») che contestano tutti i
fondamentalismi, Shamsia e Rahima non pensano ad un governo laico, ma
islamico: «Siamo un paese musulmano e l’oppressione della donna non
dipende certo dal corano. Diversamente da quanto credete voi occidentali,
il corano non impone l’adozione del velo, ma si limita a raccomandare che
il corpo della donna non sia oltremodo scoperto. Soltanto in un versetto
si parla di velo come elemento di abbigliamento. Altrove il  libro fa
riferimento al velo in quanto indumento indossato per tutelare il pudore
femminile».

Sperano
invece che torni il re deposto ed in esilio a Roma, Zahir Shah. Ma non è
troppo anziano? «Non importa l’età, contano  l’esperienza e le capacità
intellettuali». E le donne? «Le donne sono oltre il 50 per cento della
popolazione e devono avere una partecipazione almeno al 25 per cento nei
luoghi di decisione». E Rahima, come molte altre afghane, contesta la
rappresentatività delle donne che partecipano alla conferenza di Bonn:
«Non sono presenti donne che hanno vissuto in Afghanistan in questi anni.
Quelle andate a Bonn hanno vissuto fuori dal paese».

E il
burqa? Per Shamsia e Rahima  non è la priorità, come lo sono invece
l’educazione e il lavoro. Rispondono con una certa insofferenza, stanche
che molti occidentali vedano nel burqa il simbolo dell’oppressione.
Naturalmente non lo portavano prima dell’avvento dei talebani, ma ora è
diventato un modo per garantirsi la sicurezza. E c’è da giurare che non
saranno di certo i mujaheddin dell’Alleanza a garantire alle donne la
libertà di decidere se portarlo o no.



DOPO IL BURQA, I DIRITTI

Molte
donne afghane non vog

Davide Casali




AFGHANISTAN: Dopo la guerra e le bombe, verrà il tempo della pace?


LO
SCANDALO CONTINUA


di Alberto Chiara (*)

 


L’Afghanistan è sì un paese affamato, assetato, povero; è sì uno stato
imbavagliato per colpa della crudele ottusità dei talebani; è sì rifugio
di Osama bin-Laden e di tanti altri terroristi, ma è anche e soprattutto
una nazione quotidianamente dilaniata dalle mine antiuomo e anticarro,
posate in 21 anni di guerra ininterrotta. (…)

Già le
mine. Non distinguono un soldato da una donna: colpiscono alla cieca
chiunque le calpesti. Non rispettano tregue o trattati di pace: esplodono
anche 30/40 anni dopo essere state sotterrate. Sono armi vigliacche, di
cui il mondo fatica a sbarazzarsi una volta per sempre.

Le mine
antiuomo hanno costi di produzione relativamente bassi, ma costi sociali
altissimi. «Il prezzo di un singolo ordigno varia da 3 a 30 dollari»,
osservava anni or sono il Comitato internazionale della Croce rossa (la
cifra non è variata di molto). «Per togliere una mina occorrono diverse
centinaia di dollari, mentre il costo di un arto artificiale, per chi
rimane mutilato, è di 125 dollari». Un bambino cui bisogna amputare la
gamba dilaniata dallo scoppio di un ordigno, deve cambiare 15 protesi nel
corso della vita.

Nel
dicembre 1997 il mondo sembrò mettere fine a un colpevole disinteresse. Ad
Ottawa, in Canada, fu messo a punto un Trattato internazionale che metteva
al bando queste armi vigliacche vietando l’uso, la produzione,
l’immagazzinamento e il commercio di tutte le mine antiuomo. (…)

Al 10
ottobre 2001, il Trattato di Ottawa risultava firmato da 142 paesi e
ratificato (ovvero recepito nelle rispettive legislazioni nazionali) da
122 stati. Tra chi non ha firmato figurano purtroppo grandi potenze (Stati
Uniti, Russia, Cina), nonché potenze regionali di rilievo, come India e
Pakistan; Siria, Libano, Egitto e Israele; Iran e Iraq. Le mine, intanto,
continuano a esplodere.

 (*)
Alberto Chiara è inviato del settimanale «Famiglia Cristiana». Questo
passo è tratto da «Italia Caritas» (novembre, 2001), il mensile della
Caritas italiana.

 

 


sfogliando s’impara

… i media tra guerra e pace

 


a cura di Paolo Moiola



«DALLA GUERRA NON NASCE GIUSTIZIA»

«Ogni
vittima è una parte di noi che muore. (…) La metà dei soldi usati per
questo primo mese di guerra sull’Afghanistan avrebbero consentito a 20
milioni di esseri umani di quel paese di vivere in prosperità e ricchezza
per tutto il resto della loro vita. Con il 3 per cento dei fondi destinati
alla militarizzazione dei soli e delle stelle, il cosiddetto scudo
spaziale, potremmo dare acqua potabile a chi oggi vede preclusa questa
vitale possibilità. La guerra non è solo ciò che distrugge o uccide con le
armi: è tanta intelligenza, tanta cultura scientifica, tante risorse
finanziarie bruciate per la morte anziché per la vita. Il terrorismo è
nostro nemico. Solo la pace può sconfiggerlo.

Il
terrorismo è nostro nemico. Esso si annida e si nutre nelle tante aree di
sofferenza prodotte da un sistema ingiusto. Esso è protetto nei paradisi
fiscali, nel riciclaggio di denaro sporco, dai trafficanti di armi, dai
rialzi e dai crolli delle borse».

Appello
pubblicato dal settimanale «Carta» del 6 dicembre 2001, firmato tra gli
altri da: mons. Luigi Bettazzi, don Luigi Ciotti, don Tonio dell’Olio (Pax
Christi), padre Alex Zanotelli



 SIAMO TUTTI AMERICANI?

«Era
dal 10 giugno 1940 che un governo non convocava una grande manifestazione
di piazza, nella quale poter dire con orgoglio “L’Italia è in guerra”.
Infatti l’Alleato, esaminata la pratica, ci ha concesso di schierare anche
le nostre navi e i nostri aerei. (…) Ma cosa vuol dire “siamo tutti
americani”? (…) Significa che anche noi ci sentiamo colpiti dall’attacco
al pentagono e alle due Torri e che anche noi siamo responsabili della
risposta che gli si dà; e infatti entriamo nella stessa guerra. Ciò però
ci legittima a parlare come se fossimo americani. La prima cosa che
pertanto possiamo dire è che siamo pessimamente governati. (…)

Elevare
al rango di nemico il terrorismo significa creare un nemico universale,
onnipresente (…). Universale il nemico, universale la guerra, universale
la militarizzazione, universale il passaggio dai codici di pace ai codici
di guerra. E così, col terrore, in nome del terrore e contro il terrore si
governa, e si trasforma la vita quotidiana in un inferno (…).

Di
questo ci potremmo lamentare, come americani. E anche di aver esibito
questa immagine di un’America puritana, farisea, che si ritiene la
migliore e più giusta, benefica per l’intera umanità, stupita di non
essere amata».

Raniero
La Valle, su «Rocca», quindicinale edito da Pro Civitate Christiana
(Assisi), 15 novembre 2001



 «O CON NOI O CONTRO DI NOI»

«Non
contano i pensieri e le opinioni: durante la guerra non è lecito avere
dubbi, porsi delle domande, esercitare il proprio spirito critico; ogni
forma di opposizione diventa un tradimento.

Lo
slogan "o con noi o contro di noi" è un esempio di questa deriva verso
l’intolleranza».

Gruppo
Pace Valsusa, su «Dialogo in Valle», periodico cattolico di Condove (Torino),
novembre 2001



 CENSURA E OMOLOGAZIONE

«Disarmante
è, poi, la rinuncia a capire e a spiegare cosa c’è dietro a quello che è
successo e sta succedendo, cosa ha fatto nascere un odio così feroce e
devastante, come è possibile contrastarlo senza per questo far uso di
missili e bombe. Chi cerca di farlo di volta in volta viene demonizzato,
deriso, minacciato e da qualcuno anche considerato alla stregua dei
terroristi che si sono abbattuti su New York. (…)

Se non
resistiamo oggi alla "tentazione" del silenzio, della censura e
dell’omologazione, domani sarà troppo tardi. Dopo l’informazione toccherà
ad altre libertà e ad altri diritti civili. Nel nome della lotta al
terrorismo e all’integralismo tutto sarà possibile e – quel che è peggio –
tollerato. Siamo disposti ad accettarlo? Spero proprio di no».

Beppe
Muraro sul mensile «Azione nonviolenta», novembre 2001

 COS’È
IL TERRORISMO?

«Due
crimini mostruosi hanno segnato l’inizio del nuovo millennio: gli
attentati dell’11 settembre e la risposta a questi attacchi, che
certamente ha fatto molte più vittime innocenti. Le atrocità dell’11
settembre sono considerate ovunque un evento storico, e questo è
assolutamente vero. Ma bisogna anche capire perché. Questi crimini hanno
causato la morte simultanea del più alto numero di persone nella storia,
fatta eccezione per il tempo di guerra.

La
parola “simultanea” non dev’essere trascurata: purtroppo i crimini sono
tutt’altro che rari negli annali della violenza che non dipende dalla
guerra. (…) Soltanto negli anni di Reagan, gli stati terroristici
finanziati dagli Stati Uniti nell’America centrale hanno ucciso, torturato
e mutilato centinaia di migliaia di persone, hanno provocato milioni di
storpi e di orfani, e hanno mandato in rovina quattro paesi. (…) Dire
che il terrorismo è “un’arma dei poveri” significa commettere un grave
errore di analisi. In realtà il terrorismo è la violenza contro gli Stati
Uniti. Chiunque ne sia l’autore».

Noam
Chomsky, articolo ripreso dal settimanale «Internazionale» del 30 novembre
2001;


l’autore insegna al «Massachusetts Institute of Technology» (M.I.T.) di
Boston



 STATI UNITI DI POLIZIA

«Vivo a
pochi isolati di distanza dal World Trade Center. A New York siamo ancora
in lutto dopo l’11 settembre. Vogliamo arrestare e punire i colpevoli,
smantellare la rete dei terroristi e impedire nuovi attentati. Ma le
misure adottate dal governo per combattere il terrorismo limitano in modo
allarmante la libertà e i diritti civili. (…) Diritti che credevamo
sanciti dalla Costituzione e tutelati dal diritto internazionale sono in
grave pericolo o sono già stati cancellati.

Non è
esagerato affermare che stiamo andando verso uno Stato di polizia. (…)
Ma neanche uno Stato di polizia potrebbe fermare i terroristi. L’illusione
della Fortezza americana ci impedisce di analizzare le cause di fondo del
terrorismo e le conseguenze di decenni di politica estera statunitense in
Medio Oriente, in Afghanistan e in altri paesi. Se le accuse mosse agli
Stati Uniti non verranno studiate e affrontate, il terrorismo continuerà».

Michael
Ratner, articolo ripreso dal settimanale «Internazionale» del 30 novembre
2001;


l’autore, avvocato esperto in diritti umani, insegna alla «Columbia Law
School» di New York



 «LE MARCE COSIDDETTE DELLA PACE»

«Gli
orfani di Stalin si sono aggregati al carro del terrorismo musulmano,
sperando che dalle piaghe e dalle pieghe della storia esca un po’ di pus
per nutrirli nuovamente. (…)

Il
clima persecutorio verso le forze di polizia cominciato a Genova, la
connivenza tra terrorismo islamico e le stesse frange che andarono in
soccorso delle Br, le marce cosiddette della pace ma, nei fatti, a favore
della guerra altrui, sono segnali da non sottovalutare».

Piero
Laporta, sul quotidiano «Libero» del 25 novembre 2001



 «IL CHIODO FISSO DELL’AMERIKA»

«Trent’anni
fa, vent’anni fa, i democratici e i pacifisti avevano un chiodo fisso: il
Cile di Pinochet. (…) E adesso? Trent’anni dopo, vent’anni dopo, i nuovi
cortei hanno ancora il chiodo fisso dell’Amerika e dell’imperialismo
malvagio (…). Ma stranamente sono evasivi ed evanescenti sui Pinochet
dei tempi d’oggi: loro, i talebani. Si respira nelle piazze una strana
aria: se non di giustificazione, quanto meno di superficialità. Eppure,
siamo di fronte a un regime decisamente più crudele e disumano del pur
crudele regime di Pinochet. Niente, è secondario: il problema è
l’interventismo amerikano».


Cristiano Gatti, sul quotidiano «il Gioale» dell’11 ottobre 2001



«QUESTA GUERRA GIUSTISSIMA»

«La
gente si è abituata e la tragedia dell’11 settembre sembra ormai passata.
Ci vorrebbe forse un missile talebano sul Vaticano per far ricordare alla
gente che il mondo giusto sta cercando di mandare all’inferno per sempre
la nuova minaccia musulmana? (…)

Non è
una critica a Voi, che oggi dedicate 4 pagine a questa guerra giustissima,
bensì ai nuovi giovanissimi presuntuosi che si fanno abbindolare dai
teorici della pace sempre e per forza».

Lettera
firmata pubblicata dal quotidiano «Libero» del 25 novembre 2001



CATTOLICI, MARXISTI E BUONI SENTIMENTI

«Le
culture ideologiche, di fronte alla guerra contro il terrorismo, si sono
preoccupate più di mobilitare la piazza su temi generici come la pace e le
ingiustizie nel mondo che di suggerire cosa fare in concreto, subito, qui,
ora. (…)

In
tutta la sua storia, il pacifismo non è riuscito a evitare una sola guerra
e i buoni sentimenti non hanno mai risolto i problemi del mondo. (…)

Da Gesù
Cristo, attraverso quel buon sentimento che è la fede, a Karl Marx,
attraverso quelle buone intenzioni che è la socializzazione dei mezzi di
produzione, c’è chi ha auspicato un cambiamento della natura umana. Gesù
Cristo è finito sulla croce, Marx in soffitta. E l’uomo è rimasto quello
di sempre: lupo dell’uomo. (…)

Ho
l’impressione che le culture ideologiche, cattolica e marxista e
collaterali, abbiano prodotto danni irreparabili alla nostra cultura
politica nazionale».

Piero
Ostellino, sul quotidiano «Corriere della Sera» del 24 novembre 2001



 «NOI SIAMO IL BENE»

«Visto
che sono un leale cittadino americano, non dovrei dirvi perché è accaduto
tutto ciò: del resto non è nostra abitudine indagare sul perché qualcosa –
qualsiasi cosa – accada. Preferiamo accusare gli altri di malvagità
immotivata. “Noi siamo il bene”, ha dichiarato un profondo pensatore alla
Tv americana, “loro sono il male”: e il pacchetto è pronto. A metterci,
per così dire, il fiocco è stato poi Bush in persona con il suo discorso
davanti alle Camere riunite, occasione in cui il presidente ha elargito ai
parlamentari – e in qualche modo a tutti noi della cerchia – la sua
profonda conoscenza delle astuzie e delle usanze dell’islam: “Odiano ciò
che vedono in quest’aula”».

Gore
Vidal, sul quotidiano «la Repubblica» del 16 novembre 2001



 «NON IN NOSTRO NOME»

«Gli
italiani che combatteranno in Afghanistan non lo faranno in nostro nome.
Noi non siamo in guerra. (…) È facile parlare di necessità della guerra
in un’aula di Parlamento o in una piazza tra lo sventolio delle bandiere.
Un po’ meno se la si vede da vicino, se gli “effetti collaterali” hanno un
nome, un’identità, un lavoro, degli affetti.

Se le
macerie che vediamo sono quelle di una casa o di un ospedale, se il
bambino mutilato ha un volto. Se, dietro i discorsi retorici, scorgiamo i
listini di borsa in cui le azioni delle fabbriche delle armi aumentano di
valore, o seguiamo le vie del petrolio. Se scopriamo che i buoni di oggi
erano i cattivi di ieri, e viceversa, e che le donne, con o senza burqa,
continuano ad essere usate, magari per la propaganda».


Redazionale di «Dialogo in Valle», periodico cattolico di Condove (Torino),
dicembre 2001

 

 

 



Bibliografia essenziale

– 
Chalmers Johnson, «Gli ultimi giorni dell’impero americano. I contraccolpi
della politica estera ed economica dell’ultima grande potenza», Garzanti,
Milano 2001 (l’autore è un professore statunitense)

– 
Franco Foari, «Psicoanalisi e cultura della pace», Edizioni Cultura
della pace, Fiesole (l’autore è uno psicanalista italiano, scomparso
qualche anno fa)

– 
Samuel P. Huntington, «Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale»,
Garzanti, Milano 2001 (il libro sostiene la diversità tra la cultura
occidentale e quella islamica, nonché l’inevitabilità dello scontro)

–  Noam
Chomsky, «Egemonia americana e "stati fuorilegge"», Edizioni Dedalo 2001 (l’autore
è un professore statunitense del M.I.T. di Boston)

–  Noam
Chomsky, «11 settembre. Le ragioni di chi?», Marco Tropea Editore 2001

–  Gore
Vidal, «La fine della libertà», Fazzi Editore 2001 (l’autore è uno
scrittore statunitense)

– 
Ahmed Rashid, «Talebani», Feltrinelli, Milano  2001

– 
Giulietto Chiesa/Vauro, «Afghanistan anno zero», Guerini e Associati,
Milano 2001

–  Ana
Tortajada, «Il grido invisibile. La vita negata delle donne afghane»,
Sperling & Kupfer, Milano 2001

– 
AA.VV., «No Global. Gli inganni della globalizzazione sulla povertà,
sull’ambiente e sul debito»,  Zelig Editore, Milano 2001

–  Gino
Strada, «Pappagalli verdi», Feltrinelli, Milano 1999

(un
medico davanti ai disastri della guerra).

 



Cliccando su

siti
inteazionali:

– 
www.rawa.org

è il
sito dell’«Associazione rivoluzionaria delle donne afghane», nata a Kabul
nel 1977

– 
www.9-11peace.org

è un
sito pacifista statunitense; 9-11 stanno ad indicare la data dell’11
settembre 2001


www.thenation.com

sito
dell’omonima rivista, per trovare un’informazione statunitense meno
schierata con il potere

– 
www.amnesty.org

il sito
di Amnesty inteational

– 
www.landmineaction.org 

il sito
delle organizzazioni che si battono contro la produzione delle mine
antiuomo

– 
www.un.org 

il sito
delle Nazioni Unite.

Siti
italiani:

– 
www.emergency.it

il sito
dell’organizzazione umanitaria italiana fondata nel 1994 dal chirurgo Gino
Strada

– 
www.unimondo.org

sito di
Trento, con moltissime informazioni sulle principali tematiche mondiali,
dal debito alla globalizzazione

– 
www.waews.it 

sito
che informa sui conflitti nei vari paesi del mondo, molto facile da
utilizzare

– 
www.peacelink.it 

storico
sito italiano sulle tematiche della pace

– 
www.nonluoghi.it

sito
per un giornalismo critico, tra fatti, idee e utopia

– 
www.lunaria.org

sito su
volontariato internazionale, immigrazione, razzismo.

 

 


MAI PI
U’

poesia di Meena (*)

 

 Sono
una donna che si è destata.

Mi sono
alzata e sono diventata una tempesta,

che
soffia sulle ceneri

dei
miei bambini bruciati.

Dai
flutti di sangue del mio fratello morto sono nata.

L’ira
della mia nazione me ne ha dato la forza.

I miei
villaggi distrutti e bruciati mi riempiono

di odio
contro il nemico.

Sono
una donna che si è destata,

la mia
via ho trovato e più non toerò indietro.

Le
porte chiuse dell’ignoranza ho aperto.

Addio
ho detto a tutti i bracciali d’oro.

Oh
compatriota, io non sono ciò che ero.

Sono
una donna che si è destata,

la mia
via ho trovato e più non toerò indietro.

Ho
visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa,

ho
visto spose con mani dipinte di henna


indossare abiti di lutto,

ho
visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire

la
libertà nel loro insaziabile stomaco.

Sono
rinata tra storie di resistenza, di coraggio.

La
canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,

nei
flutti di sangue e nella vittoria.

Oh
compatriota, oh fratello, non considerarmi

più
debole e incapace.

Sono
con te con tutta la mia forza sulla via

di
liberazione della mia terra.

La mia
voce si è mischiata alla voce di migliaia

di
donne rinate, i miei pugni si sono chiusi insieme

ai
pugni di migliaia di compatrioti.

Insieme
a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,

per
rompere tutte queste sofferenze,

tutte
queste catene di schiavitù.

Oh
compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero.

Sono
una donna che si è destata,

la mia
via ho trovato e più non toerò indietro.

Sono la
donna che si è svegliata.

Mi sono
alzata e sono diventata tempesta

fra le
ceneri dei miei figli bruciati.

I miei
villaggi in rovina e in cenere mi riempiono

di
rabbia contro il nemico.

Oh
compatriota, non mi guardare più debole e incapace.

La mia
voce si mescola con migliaia di donne in piedi,

per
rompere tutte insieme tutte queste sofferenze e queste catene.

Sono la
donna che si è svegliata,

ho
trovato la mia strada e non toerò mai indietro.

 

 (*) 
Meena, nata a Kabul nel 1957, fondatrice dell’«Associazione rivoluzionaria
delle donne dell’Afghanistan» (RAWA), fu assassinata da agenti segreti
russi e afghani a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio 1987.

 (*)
Davide
Casali


è nato a Torino nel 1974. Fotografo freelance, ha fatto reportages su
Sudan, Kenya, Kosovo, Perù, Colombia, Messico, Pakistan, Afghanistan,
pubblicati da varie testate (la Repubblica, L’Unità, il Manifesto,
Liberazione, La Stampa, Nigrizia, Missione Oggi, Missioni Consolata ecc.).
Ogni tanto, come dimostra questo dossier, si cimenta anche con la
scrittura, ma alla penna e ai tasti del computer dice di preferire la
macchina fotografica.

Davide Casali




COLOMBIA. La lotta del popolo U’WA: IL CUORE DEL MONDO (e le trivelle della Oxy)




Una storia esemplare


 Quando
il petrolio è sangue


 



Sono soltanto seimila, ma si sono ribellati alla prepotenza della «Oxy
Corporation»,  una multinazionale petrolifera degli Stati Uniti che
vuole sfruttare la loro terra.

I

dubbi (anche personali) di un osservatore internazionale davanti ad
opposti modelli di vita: quello antropocentrico e tecnoconsumistico
dell’Occidente e quello ecocentrico dei popoli indigeni.


 

«Esto es el
coracon del mundo». Ci disse con aria profetica il cacique major
Berito, con il suo sguardo da sciamano, i suoi bellissimi tratti
somatici da indio u’wa e gli occhi che ti penetrano l’anima.

Ancora oggi ci
chiediamo come abbia fatto a tornare a casa, in quel piccolo villaggio
sperduto nella selva colombiana, quest’uomo di circa 50 anni, mai uscito
da quelle montagne amiche, padrone di uno spagnolo poco più che
elementare ed incapace di leggere e scrivere.

«Così hanno voluto
i grandi spiriti», rispose ridacchiando e masticando una piccola
pallottola di foglia quando glielo chiedemmo, increduli, per la prima
volta.

Venuto per un giro
di sensibilizzazione sulla causa u’wa in Europa, al momento del ritorno,
all’aeroporto Internazionale Malpensa 2000 di Milano, salutati gli
accompagnatori, scomparve.

Panico tra gli
organizzatori, squadre di ricerca a Milano, Miami, Dusseldhorf, Caracas,
Bogotà. Nulla. Dopo una settimana arrivò, a piedi, nel suo villaggio di
Cubarà…

Forse allora hai
ragione tu, Berito, indigeno u’wa che insieme alla tua gente stai
combattendo una guerra che racchiude veramente il cuore di tutte le
contraddizioni, per usare una parola gentile, di questo mondo moderno.

Come tutti i cuori
anche il vostro coracon del mundo pompa sangue. Sangue vitale alla vita
degli u’wa e della selva, luogo dove vive questo popolo di 6.000
persone, nella stragrande maggioranza bambini.

Il sangue u’wa
prende il nome di ruiria e non ha prezzo. Se la Madre terra ne fosse
privata, morirebbe, come qualsiasi altro essere vivente che è
dissanguato.

L’uomo occidentale
invece l’ha battezzato in maniera diversa: petrolio. E un prezzo lo ha,
anzi tutti i giorni ha un valore differente, che è deciso in fredde
stanze piene di computers, che ricevono ordini di compravendita da tutto
il mondo.

Uomo contro uomo,
profitto contro ambiente, guerra contro pace, morte contro vita. Il
tutto riconducibile a due semplici parole: progresso e sviluppo. Parole
che ormai hanno perso il significato originario, surrogati di un
concetto decisamente più imbarazzante: denaro.

 



ARRIVA LA OXY

La storia è molto
semplice. Il sottosuolo del territorio u’wa, posto all’estremo nord
della Colombia, al confine con il Venezuela, è ricco d’idrocarburi.

Il governo di
Bogotà appoggia gli scavi e, nel febbraio del 1995, concede la licenza
d’esplorazione alla multinazionale statunitense Occidental Petroleum,
meglio conosciuta come Oxy Corporation.

Come tutti gli
altri esecutivi del Sud America, il gabinetto presieduto da Andreas
Pastrana sembra mal sopportare le proprie radici pre-colombiane. E in un
ambiente di democrazia sospesa, in cui il popolo colombiano è
periodicamente chiamato a scegliere tra uno schieramento politico
(neoliberista) e il suo esatto clone (aspetto tipico dell’influenza
statunitense nel sud America, ma ormai anche in Europa), gli uomini che
hanno il colore della terra sono considerati un fastidio.

Il danno che
porterebbe l’attuazione di questo progetto può essere analizzato in
maniera duplice. La prima rifacendosi alla cultura locale, la seconda
dando un valore occidentale e quindi puramente pratico.

Per i werjayas
(sciamani che vivono sulla montagna e influenzano la vita della
comunità) e per la stragrande maggioranza della popolazione,
l’estrazione petrolifera ha un significato dissacrante. Il sacro è
d’altronde l’asse portante della cultura u’wa, come di tutte le culture
indigene. L’estrazione del petrolio è l’atto con cui si dissangua la
Madre terra, generatrice di tutte le forme viventi da cui dipende la
sopravvivenza di tutti gli uomini.

Non potrebbe
esistere catastrofe più grande. La ricaduta socio-religiosa sarebbe
devastante. Il terrore per la vendetta di Sira, la Madre terra,
pervaderebbe la comunità.

Alla costruzione
del primo pozzo, pur se esterno al «resguardo», i digiuni di
purificazione si susseguono, nuove rigidissime regole sono dettate. La
scarsità di piogge è vissuta come una colpa, una punizione da scontare
per il gravissimo oltraggio.

La comunità u’wa
(la parte che  non conosce tecnologia, compravendita ed altri aspetti
tipici della società occidentale) non può nemmeno immaginare quali
catastrofi pratiche si abbatterebbero sulla sua vita.

Il territorio
sarebbe alterato da un inquinamento generalizzato ed irreversibile. I
fiumi si trasformerebbero in discariche di liquami tossici, stroncando
così la presenza di pesce. La foresta sarebbe rasa al suolo per far
posto a pozzi d’estrazione, oleodotti, piste asfaltate, accampamenti per
operai, nuovi insediamenti per coloni. La prostituzione importata e
l’alcolismo dilagherebbero tra i nuovi abitanti arrivati da lontano. Gli
u’wa ribelli sarebbero brutalmente uccisi da squadracce di paramilitari
adibite appositamente a fare il «lavoro sporco» che l’esercito regolare
non può fare. Dove ora è pace e prosperità sarebbe solo distruzione e
morte.

Verso tutto questo
gli u’wa sono indifesi, come un bambino che si incammina inconsapevole
con l’orco.

La Laguna de Lipa
è un esempio di come potrebbe evolvere la situazione attuale. Gli
indigeni ghuababis che vi vivevano, dopo essere stati spostati nella
bidonville di Saravena, si sono trasformati in un branco di accattoni
alcolizzati, ombre lamentose che implorano monetine da 50 pesos.

La laguna ha perso
per sempre la propria originaria bellezza e versa in condizioni
ecologicamente disastrose, simile ad una palude di liquami tossici.

Il mercato globale
inteso come selezione darwiniana (il più forte vince, il più debole si
estingue) si abbatterà come una furia sulle vite degli u’wa…

Solo pochi
indigeni, debitamente incaricati dalle autorità spirituali negli anni
passati di formarsi con una cultura occidentale per avere un’arma in più
nella lotta contro la Oxy, comprendono quali drammi incombano sul
destino della comunità. Costoro, in genere giovani intorno ai 25-30
anni, non godono però della simpatia della  popolazione, che mal vedono
la loro assenza prolungata dovuta ai lunghi viaggi, i loro nuovi
costumi, la loro contaminazione con l’uomo bianco.

 



SCONTRO TRA CULTURE

 «Gibraltar One»:
così è stato denominato il primo pozzo di esplorazione petrolifera della
Oxy Corp. costruito pochi metri all’esterno del territorio sacro. Un
nome che ricorda le Colonne d’Ercole e il significato che ha avuto per
secoli quello stretto che divideva il conosciuto dall’ignoto.

Per arrivare
all’impianto bisogna sottostare ad estenuanti controlli da parte
dell’esercito, schierato a difesa dell’insediamento. Il sito è
disseminato di bidoni che portano il marchio Shell, altra benefattrice
dell’umanità.

Dopo una lunga
collaborazione con la Oxy nello sfruttamento petrolifero di questa
regione, quando incominciarono le proteste inteazionali in favore
degli u’wa, la Royal Dutch Shell si ritirò prontamente dall’affare,
memore del boicottaggio globale. Oggi  la compagnia preferisce
acquistare pagine pubblicitarie sul Time, per spiegare come sia divenuta
una paladina dell’ambiente e dei diritti umani.

Sarebbe istruttivo
portare su questa montagna (un tempo ricoperta di selva, oggi
trasformata in pianura di cemento armato) i tanti «guru»  della crescita
economica continua.

Eccolo di fronte
ai miei occhi questo famoso libero mercato, nella sua versione più
sfrenata, selvaggia, pura. Luogo nel quale non c’è posto per le culture
diverse da quella tecno-consumistica occidentale.

Esiste una sola
ragione per cui queste persone devono morire per fare posto ad un
impianto petrolifero? Di più: esiste una sola ragione per cui queste
persone debbano morire affinché noi occidentali si abbia il diritto di
non utilizzare mezzi pubblici perché un po’ scomodi?

Su questa collina
abitavano circa 150 persone. Un giorno arrivarono gli elicotteri
dell’esercito e le sfollarono. Resiste una famiglia sola che vive
arrampicata sulla montagna (con vista sul pozzo petrolifero), invasa dal
fetore nauseabondo che emette incessantemente il cantiere, circondata da
militari che vigilano giorno e notte. Che sguardo triste hanno questi
uomini e queste donne. Non parlano, ma resistono.

Giovani militari,
molti dei quali con caratteristici tratti somatici indigeni, controllano
tutto quello che facciamo. È vietato scattare fotografie, è vietato
parlare con gli operai, è vietato fare riprese video.

Sopra le nostre
teste volteggiano gli elicotteri che trasportano i tecnici della Oxy
dalla cittadina di Arauca al pozzo petrolifero. Vivono blindati.

Gli operai (coloni
con la faccia triste riconoscibili dalla mantellina gialla) viaggiano
ogni mattina su camion messi a disposizione dalla multinazionale, lungo
la pista che corre in mezzo alla selva, costruita nei decenni passati.
Durante il percorso immensi pascoli testimoniano la distruzione massiva
della foresta negli anni del «taglia e brucia» selvaggio.

L’autista che ci
guida (un giovane u’wa dal nome biblico, Samuel) spiega che questi
pascoli un tempo erano tutti territori ancestrali indigeni. Racconta le
storie narrate dai vecchi sciamani. Storie di un tempo, quando il
territorio u’wa era dieci volte più grande e la comunità più numerosa di
quanto sia attualmente. Ogni tanto spunta un bovino, un «long ho»,
come lo chiamano i locali.

Testimonianza che
una ricchezza (anche economica) come la foresta pluviale è tuttora
distrutta da capitali gringos, ansiosi di portare nei fast food
occidentali hamburgers a basso costo.

Petrolio e bovini,
lo sviluppo all’occidentale voluto, preteso e desiderato dalla classe
dirigente colombiana, come da tutti gli altri paesi dell’America Latina,
passa attraverso la distruzione delle ricchezze naturali e la cacciata
delle popolazioni locali.

 



GLI INDIGENI

 È data in
Occidente, e non solo, l’idea che essi rappresentino un elemento
anacronistico. Un popolo ed una cultura, che rifiutano la proprietà
privata e lo scambio commerciale, esulano dal concetto occidentale di
civilizzazione.

«Per la mentalità
modea, il fatto di trincerarsi dietro un valore non commerciabile del
territorio rappresenta qualcosa di sfasato e contrario alla civiltà, che
merita qualsiasi forma di repressione volta a neutralizzare pretese così
assurde», ha sentenziato il giornalista Plino Apuleyo Mendoza durante
una trasmissione televisiva dedicata alla contrapposizione tra u’wa e
Oxy.

Un pensiero rozzo,
ma non lontano dalle dissertazioni economiche che quotidianamente si
sviluppano in prestigiose università occidentali.

Un’accozzaglia di
razzismo, idolatria del mercato ed ignoranza, solitamente riconducibili
ad un fantomatico interesse comune contro un piccolo interesse locale,
rappresentato da uno sparuto gruppetto di «selvaggi».

Accecati da
un’onnipotenza delirante, la civiltà tecno-consumistica ignora
bellamente che la distruzione continua dell’ambiente e dei tanti piccoli
popoli sparsi per il mondo ci sta portando verso una comodissima
catastrofe.

Una cultura come
quella u’wa, che mette l’homo tecnologichus di fronte alle proprie
responsabilità su quale tipo di mondo stiamo costruendo, è ingombrante.
E merita ogni forma di repressione. Non può spiegarsi altrimenti questo
spiegamento di forze, questo annientamento fisico silenzioso.

Ciò che quest’uomo
analfabeta, Berito, ci racconta attraverso tortuosi percorsi logici,
facendo ampi riferimenti ai miti, sono verità ecologiche
incontrovertibili. Anche scientificamente.

Il pensiero corre
ai chili e chili di carta scritta che l’IPCC (Intergovernamental Panel
Climate Change) ha pubblicato pochi mesi fa, contenenti un monito
all’umanità per il fenomeno del riscaldamento globale rapido, dovuto in
parte rilevante all’utilizzo di combustibili fossili.

Ma che importa! Là
sotto ci sono tre mesi di consumo petrolifero del mercato statunitense.
Là sotto ci sono milioni di dollari. Lontano di casa, immerso nelle
contraddizioni del mondo, con questi uomini miti e generosi che smontano
ogni pregiudizio occidentale sul selvaggio povero, sporco ed ignorante,
tutto appare chiaro, limpido. Ed allora le domande, soprattutto di notte
quando la conoscenza del buio vero ed assoluto scatena paure ancestrali
e non si riesce a dormire, piovono continue.

Due mondi
separati, uno popolato da una cultura indigena come gli u’wa e l’altro
da una civiltà tecno-consumistica: quale raggiunge il fine ultimo di
ogni essere vivente in natura, la prosecuzione della specie?
Indubbiamente il primo. O forse il fine ultimo dell’uomo è avere il
maggior numero di gingilli tecnologici? Qualcuno conosce un altro
pianeta dove andare a vivere? Il pozzo distante poche decine di metri da
me ne è un esempio chiaro.

Dove prima c’era
la vita donatrice di vita, ora c’è il cemento e l’acciaio. Le culture
indigene hanno sviluppato una cultura ecocentrica, noi antropocentrica.

Non è necessario
raggiungere il loro equilibrio ecologico perfetto, basterebbe che la
nostra visione del mondo che ha al centro l’uomo fosse contraddistinta
dall’amore, parola che tanto imbarazza, e dal rispetto per tutti gli
esseri umani.

Con i loro sguardi
sospettosi, questi piccoli grandi uomini sembrano cogliere il cuore del
problema che tuttora sfugge, forse volontariamente, a noi occidentali.

Un giorno, una
giovane indigena, madre di 5 stupendi bambini all’età di 25 anni,
laureata in sociologia a Bogotà, guardandoci con occhi profondissimi ci
domandò: «Perché l’uomo bianco non trova mai sazietà in quello che ha?».

Impossibile
rispondere a questa banale domanda. Forse perché, a differenza loro,
abbiamo deciso di sostituire i valori spirituali con quelli materiali.
Forse perché l’amore vero è difficile da raggiungere, ed allora è molto
più semplice comprarsi qualcosa che dia un po’ di soddisfazione
momentanea.

 


CHI DEVE AIUTARE
CHI?

 L’impatto con gli
indigeni è disarmante. Da buon occidentale ero partito dall’Italia
pensando che la mia presenza sarebbe stata indispensabile nella vicenda
u’wa. Ci aspettavamo un’accoglienza calda e amichevole, da eroi, da
salvatori.

Arrivati al
Chuscal, luogo dove si teneva l’annuale assemblea u’wa, a bordo di una
camionetta  scese il silenzio. Solo pochi bambini si misero a saltare
festosi intorno all’automezzo.

I delegati delle
autorità spirituali, dopo averci impedito di scendere dal mezzo (poiché
impuri), ci rispedirono senza tante storie al nostro alloggio, una
missione gestita da tre suore Teresine al di là del fiume Cubaron, in
mezzo alla selva.

Da subito capimmo
che la figura dell’occidentale, eroe indispensabile, non ha molta
ragione d’essere.

Passarono tre
giorni, in cui rimanemmo parcheggiati alla missione. Un luogo lontano
dal nostro mondo: senza luce, telefono, riscaldamento, acqua corrente,
circondato dalla selva e dai suoi rumori. Le tre suore vivono così, da
sempre. Anch’esse appoggiano gli u’wa. Dicono che in loro vi sia una
spiritualità profonda che li ha portati a conservare intatto il loro
credo religioso, nonostante le forti pressioni evangelizzatrici. E di
questo sono contente loro per prime.

Finalmente giunse
un ragazzo a comunicarci che potevamo raggiungere il Chuscal.

Ma quale
significato aveva la fredda accoglienza che abbiamo ricevuto all’arrivo?
Indubbiamente noi non eravamo che gli ultimi bianchi che si
presentavano, da 500 anni, a fare promesse. Inoltre le
strumentalizzazioni, in situazioni che attirano l’interesse
internazionale, si sprecano.

Le azioni di
alcune persone, che operano in stretto contatto con gli u’wa, sono
spesso dubbie e, molto probabilmente, interessate al ruolo di
intermediario unico tra gli indigeni e i capitali che arrivano
dall’Occidente. Per noi ci fu una breve cerimonia di accoglienza e tanti
buoni propositi sulle collaborazioni future. Nulla di più, nulla di
meno. D’altronde era meglio così.

Gli u’wa sono
timidi e silenziosi, non amano fare dissertazioni filosofiche. Inoltre
la realtà è di fronte agli occhi di tutti e non necessita di tanti
discorsi. Chiunque capirebbe il sopruso, la vergogna e il dolore che
vivono in questa terra. Allora è chiaro quale sia il compito di chi
viene quaggiù a vedere e a parlare.

Non soltanto per
aiutare, ma soprattutto per imparare. L’uomo occidentale deve
radicalmente cambiare i propri stili di vita. Si deve liberare del
consumismo dilagante, perché genera morte e distruzione. E non importa
se genera anche ricchezza. La ricchezza smodata non è un diritto.

Ed io di fronte a
quel pozzo mi sono sentito colpevole. Colpevole di far parte di una mega
macchina economico-sociale che trasforma ogni azione in danno o in
sopruso.

Mentre guardavo
quegli uomini pensavo alla carta che sarebbe stata utilizzata per
denunciare questa storiaccia, al gasolio necessario per il volo aereo,
all’energia indispensabile per battere sui tasti del computer e mille
altre cose.

«Al mio ritorno
avrò il coraggio di dire a tutti che gli u’wa non sono lontani da noi,
dato che li incontriamo quotidianamente quando andiamo rifornire la
nostra auto di carburante? Avrò il coraggio di ammettere che noi tutti
siamo corresponsabili di un genocidio nella misura in cui non ci
impegneremo nel limitare i nostri sfrenati consumi? Avrò il coraggio di
dire che, prima di intervenire sulle multinazionali, dobbiamo pensare
alle nostre azioni quotidiane? Avrò il coraggio di andare contro tutti i
luoghi comuni, creati in questi secoli per giustificare la
subordinazione dell’uomo alle macchine e ai sistemi economici?».

Tutto questo mi
domandavo mentre, salito velocemente in una camionetta, assieme ai miei
colleghi scappavo dal territorio per evitare una colonna di guerriglieri
venuti a prenderci. Ennesima contraddizione di un paese dove, forse,
realmente batte il cuore del mondo.




 

 


Le
organizzazioni delle Farc e dell’Eln


 Ma
con chi sta la guerriglia?

 


Nel dipartimento di Arauca, i guerriglieri delle Farc e
dell’Eln tengono comportamenti ambigui sia con il narcotraffico che con le
compagnie petrolifere. Forse anche per questo, da sempre gli u’wa si
dichiarano distanti da ideologie e azioni delle due organizzazioni
guerrigliere.


 di
Antonio Mazzeo


 

L’inizio delle
esplorazioni petrolifere in Arauca ha richiamato  l’attenzione di tutti
gli attori del conflitto colombiano, comprese le organizzazioni della
guerriglia, che a partire dal 1980 hanno fatto la loro comparsa nell’area,
avviando una offensiva per il controllo delle principali vie di
comunicazione.

Nel dipartimento di
Arauca operano stabilmente i Fronti n. 10 e 45 delle Farc e il Fronte
«Domingo Laín» dell’Eln. Di difficile lettura è il rapporto tra queste due
organizzazioni guerrigliere. Le relazioni non sono mai state stabili e si
sono alternate fasi di mutua collaborazione a veri e propri periodi di
conflitto per l’egemonia politica e territoriale. Le divergenze iniziarono
a presentarsi nel 1991, quando fu avviato il dialogo tra la guerriglia e
il governo di César Gaviria.

Tra Farc e Eln ha
pesato, in particolare, la competizione per il consenso da parte dei forti
movimenti popolari esistenti nel dipartimento di Arauca, in lotta per la
promozione degli investimenti sociali delle rendite petrolifere nel
deficitario settore dei servizi e dell’assistenza educativa e sanitaria.

Almeno sino alla
prima metà degli anni ’90, l’Eln ha operato combinando gli elementi
fortemente militari con il lavoro di propaganda ideologica, mentre le Farc
si sono presentate più legate ai movimenti sociali e meno radicali nelle
azioni militari. Nella seconda metà del decennio, l’atteggiamento dell’Eln
è mutato per ciò che riguarda il rapporto con i soggetti organizzati del
mondo contadino e sindacale. Tra i militanti di queste associazioni l’Eln
è riuscita a strappare alle Farc l’egemonia esercitata nel passato.

La perdita di
leadership ideologica si è fatta palese in occasione del massacro compiuto
il 12 giugno 1999 ad Arauca da parte di una colonna delle Farc-Ep di 6
leaders sociali. I responsabili del crimine vengono denunciati proprio
dall’Anuc (la forte Associazione dei contadini), dalla centrale sindacale
della Cut e dal Comitato indigeno di Arauca, i quali si dichiarano
«sconcertati per la serie di violazioni e fatti di sangue realizzati dai
membri dei Fronti n. 10 e 45 delle Farc».

Per contro le Farc
hanno ottenuto legittimità e consenso tra le organizzazioni dei piccoli
produttori di coca, vittime delle campagne di fumigazione del governo e
della pressione dei narcotrafficanti che monopolizzano i processi di
trasformazione e l’esportazione della cocaina. La distinta posizione
rispetto alla coltivazione della coca è stata causa di ulteriore frizione
tra i due gruppi armati. Mentre l’Eln non permette che nella zona si
sviluppino la coltivazione e il traffico della coca, nelle zone sotto il
controllo delle Farc, si sono diffusi piccoli appezzamenti e alcuni
laboratori per la lavorazione della pasta base.

 

 LA
STRAGE DELLE FARC


 
In
questo complesso scenario di lotta per il controllo del territorio era
inevitabile che le organizzazioni guerrigliere si dovessero confrontare,
entrando talvolta in conflitto, con il popolo u’wa in lotta contro la Oxy.
Il cabildo mayor ha più volte denunciato la crescente pressione esercitata
dai gruppi armati, l’utilizzo del resguardo per il loro occultamento, i
tentativi di reclutare giovani u’wa.

«Chiediamo di vivere
secondo le nostre regole – chiarisce Daris Cristancho, rappresentante del
cabildo u’wa -. Siamo un popolo totalmente pacifico e non vogliamo
violenza nel nostro territorio. Rispettiamo le culture e le filosofie
diverse dalle nostre, anche quelle che fanno uso della violenza per
combattere le proprie lotte; ma, allo stesso modo, chiediamo il rispetto
della nostra cultura di pace e che le armi e i conflitti siano lasciati
fuori dal Territorio Sacro. Così siamo distanti sia dalle Farc che dall’Eln,
perché distante e differente è la loro cultura e filosofia».

Tuttavia, alcune
gravi vicende verificatisi negli ultimi tre anni hanno spinto le autorità
tradizionali indigene ad assumere atteggiamenti distinti rispetto alle
Farc ed all’Eln. Mentre con la prima organizzazione si è determinata la
rottura di ogni relazione, con la seconda il dialogo è aperto: il transito
nel territorio u’wa delle colonne dell’Eln, ad esempio, non è apertamente
osteggiato. Non sono isolati i casi di simpatia da parte di adolescenti
indigeni, ma il forte controllo sociale esercitato dagli anziani proibisce
loro l’ingresso nelle file della guerriglia, pena l’esclusione dalla
comunità.

Ciò che ha
maggiormente influenzato i rapporti guerriglia u’wa risale al marzo 1999,
quando una colonna delle Farc sequestrava tre ricercatori indigenisti
statunitensi in visita nel territorio u’wa: Terence Freitas, Ingrid
Washinawatok e Lahe’ena’e Gay. Il primo di essi era stato il redattore
principale del pamphlet «Sangue della nostra madre: il popolo u’wa, la
Occidental Petroleum e l’industria petrolifera», che aveva consentito la
campagna internazionale a favore degli u’wa. I tre ricercatori indigenisti
avevano discusso con gli u’wa la possibilità di implementare alcuni
progetti educativi popolari. Una decina di giorni dopo il sequestro,
furono rinvenuti i loro corpi crivellati da armi da fuoco alla frontiera
con il Venezuela.

Ad oltre due anni di
distanza dall’eccidio, non è stato possibile comprenderne le motivazioni
reali. Secondo il National Catholic Reporter, l’atteggiamento delle Farc
potrebbe essere stato influenzato dalle tangenti pagate dalla Occidental:
«Una pratica comune in Colombia da parte delle compagnie che fanno affari
in aree sotto il controllo delle forze ribelli».

Le Farc avrebbero
deciso di sostituire, alla vigilia del «Plan Colombia», gli ingressi
ottenuti con le coltivazioni della coca con la richiesta del pagamento di
tangenti da parte delle industrie petrolifere. L’opposizione ai nuovi
progetti di esplorazione sarebbe stato considerato in modo negativo, in
quanto avrebbe potuto mettere in crisi il «nuovo» sistema di
autofinanziamento. A prova di questo presunto «interesse»
dell’organizzazione combattente, rappresentanti u’wa hanno affermato che
l’arrivo dei macchinari della multinazionale per le perforazioni a Cedeño,
nei primi mesi del 2000, sarebbe stato «pacificamente» presidiato da
elementi vicini alle Farc.

La tesi è tuttavia
di difficile dimostrazione; inoltre presenta almeno un’incongruenza.
Perché la Occidental dovrebbe negoziare con le Farc un suo intervento a
repressione di chi si oppone contro i nuovi progetti petroliferi, quando è
possibile continuare a sperimentare con successo la strategia di
finanziamento delle forze armate e di proliferazione dei gruppi
paramilitari? E quanto sono realmente antitetiche o distanti le posizioni
di Farc ed Eln rispetto al petrolio e le multinazioni che ne hanno
monopolizzato l’estrazione?

 


TANGENTI E SEQUESTRI

 È un dato acquisito
che le Farc abbiano reso sistematica la riscossione di tangenti dalle
imprese petrolifere straniere operanti nel territorio colombiano, così
come risponde a verità che le stesse imprese abbiano accettato di
sottostare all’estorsione, mentre contemporaneamente finanziavano lo
sviluppo di organizzazioni armate di estrema destra per la lotta
all’insorgenza e l’eliminazione selettiva dei leaders politici e
sindacali. Tuttavia, anche la crescita dell’Eln è stata possibile grazie
all’accumulazione finanziaria, ottenuta attraverso l’estorsione e il
sequestro di funzionari ed impiegati delle compagnie petrolifere ivi
operanti.

Ciò non ha impedito
all’Eln di considerare i consorzi inteazionali come obiettivo strategico
delle proprie azioni militari. Per questo motivo, contro le imprese del
settore petrolifero sono stati eseguiti attentati mediante il sabotaggio
degli oleodotti e la distruzione di automezzi. La prima grande azione
dimostrativa risale al 14 luglio del 1986, quando, ad appena un mese
dall’inaugurazione dell’oleodotto Caño Limón-Coveñas, l’Eln ne dinamitó un
tratto. Nei 10 anni successivi l’Eln lo avrebbe dinamitato in 443
occasioni.

Nello stesso periodo
le Farc hanno, invece, preferito non partecipare alle distruzioni degli
oleodotti. Una importante mutazione strategica ha avuto avvio nel 1997: il
6 giugno effettuano il loro primo attentato contro la struttura
petrolifera. In questa occasione lo stato maggiore delle Farc dichiara
obiettivo militare l’oleodotto e «tutte le compagnie straniere che
sfruttano le nostre risorse naturali».

Una valutazione più
oggettiva dei recenti fatti di cronaca, sul conflitto in atto nella
regione di Arauca, permette di verificare che, pur nella forte dialettica
ideologica ed egemonica tra Farc ed Eln, non sono mancati i momenti di
collaborazione per la realizzazione di importanti azioni militari contro i
complessi petroliferi e contro le stesse infrastrutture della Oxy.

Il 16 dicembre 1999,
ad esempio, guerriglieri di Farc e Eln hanno dinamitato congiuntamente tre
pozzi del campo di Caño Limón. Due mesi più tardi (23 febbraio 2000),
guerriglieri Farc e Eln hanno realizzato il blocco della strada nella zona
di Samoré, per impedire il transito dei tir verso il nuovo impianto Oxy.

 

 


LE
TAPPE DELLA LOTTA

 1988
I rappresentanti della Occidental Petroleum incontrano gli u’wa, offrendo
di partecipare alle spese della comunità per l’istruzione e la sanità.


1991

Adozione della nuova
Costituzione colombiana, che afferma i diritti degli indigeni.


7 aprile:
La Occidental,
nell’ambito di un consorzio che include la Royal Dutch/Shell e la
Ecopetrol, ottiene i diritti per l’esplorazione nel blocco di Samore.


agosto:
La Occidental e alcuni rappresentanti degli u’wa
firmano un accordo per lo sviluppo di scuole e ospedali. La Occidental
sostiene che questo accordo riguarda anche le conseguenze sociali e
ambientali del progetto, ma il portavoce dell’autorità tradizionale u’wa, 
Berito KuwarU’wa, che è analfabeta, sostiene che pensava di firmare un
accordo riguardante solo scuole e ospedali.


1995
  3 febbraio: I
l
ministero dell’Ambiente concede alla Occidental la licenza per le
esplorazioni sismiche intorno al territorio u’wa.


aprile:

Gli indigeni
minacciano il suicidio di massa se la Occidental inizierà a sfruttare i
giacimenti che potrebbero trovarsi nel loro territorio.


agosto:

Il difensore civico
deposita una denuncia contro il ministero dell’Ambiente presso la Corte
suprema di Bogotà, per la violazione dei diritti umani degli u’wa in
seguito alla concessione dei permessi di esplorazione alla Occidental
senza le consultazioni richieste dalla legge.


14 settembre:
La Corte suprema
si esprime a favore degli u’wa. La Occidental presenta ricorso alla stessa
Corte.


19 ottobre:
La Corte suprema
accoglie il ricorso della Occidental. Della causa viene interessata la
Corte costituzionale, competente per le questioni relative ai diritti
umani.


1996
  gennaio:

La Corte
costituzionale accetta di  esprimersi sulla decisione della Corte suprema,
affermando la legittimità della licenza ottenuta dalla Occidental.


1997
  12 gennaio:

La causa degli u’wa
viene presentata davanti alla Corte costituzionale colombiana, che il 3
febbraio si esprime a favore degli indigeni, richiedendo opportune
consultazioni entro 30 giorni.


4 marzo:

Il Consiglio di
stato si pronuncia sulla richiesta del difensore civico, dando torto agli
u’wa e in contraddizione con la Corte suprema.


1999
  marzo:

Una colonna delle Farc sequestra e giustizia tre
ricercatori statunitensi in visita al territorio u’wa.


24 agosto:
Il Goveo
colombiano e le autorità tradizionali sottoscrivono l’allargamento dei
confini ufficiali della riserva u’wa. Gli indigeni ribadiscono la loro
opposizione alle esplorazioni e allo sfruttamento petrolifero nel loro
territorio tradizionale.


21 settembre:
Il ministro
dell’Ambiente concede alla Occidental il permesso di effettuare scavi
esplorativi nell’area di Gibraltar. La Occidental propone quindi di
scavare il pozzo «Gibraltar 1», a 500 metri dal confine della riserva. Gli
u’wa non vengono consultati.


2000
  19 gennaio:

Agenti dell’esercito
colombiano irrompono nel territorio u’wa. La Occidental trasporta
macchinari sul sito del «Gibraltar 1». Il giorno dopo giungono poliziotti
anti-sommossa e gli u’wa che abitano vicino al pozzo vengono circondati.


22 giugno:
Polizia e
militari tentano di costringere gli indigeni ad abbandonare i loro
villaggi. I lacrimogeni vengono lanciati nelle case. Gli u’wa resistono
passivamente a questa azione.


24 giugno:
Centocinquanta
poliziotti anti-sommossa attaccano violentemente un sit-in degli u’wa nei
pressi di Cubarà. Almeno venti persone vengono ricoverate per i danni dei
gas lacrimogeni, un uomo viene colpito da un proiettile, diversi vengono
arrestati.


25 giugno:
I manifestanti
vengono di nuovo aggrediti  dalla polizia: 33 persone sono arrestate senza
motivo.


2001
  gennaio:

Bulldozer
dell’esercito abbattono le barricate degli u’wa lungo la pista che porta
al sito destinato alla costruzione del pozzo «Gibraltar 1». Muoiono due
bambini indigeni.


gennaio:

Al pozzo «Gibraltar
1» inizia la prospezione. Centocinquanta persone vengono sfollate con gli
elicotteri.


aprile:
Due rappresentanti indigeni, Daris Cristancho e
Roberto Berito Cubaria, iniziano un giro di sensibilizzazione in Europa.


aprile:
L’udienza con il papa a San Pietro, organizzata da
tempo, viene rimandata dal Vaticano per non ben specificati motivi.


luglio:

Attraverso una nota
Reuters, la Oxy Corp. comunica il mancato ritrovamento di petrolio durante
la prospezione nel sito «Gibraltar 1».

La multinazionale
americana informa anche di riservarsi nuove esplorazioni in loco.

 

 


Tra
storia e leggenda


 IL
SUICIDIO DI MASSA


 

«Il Padre del Cielo
diede loro questa storia vera: non possiamo consegnare ciò nelle mani
della Morte. Per questo il cacique disse: non resterò qui. Consegnerò il
mio spirito nelle mani della Madre terra insieme a tutta la comunità».
Rimasero solo alcune donne gravide, con compito di perpetuare la
discendenza. Gli altri si lanciarono da un dirupo.

A Guican è ben
individuabile il «penòn de los muertos», la rupe dei morti. Vuole la
memoria storica, e la leggenda, che in questo luogo gli u’wa, intorno alla
metà del 1600, attuarono un suicidio di massa contro la colonizzazione
violenta cui furono assoggettati. Fu la protesta estrema contro la
violenza sistematica dei conquistadores.

Un popolo che in
tutta la sua storia mai conobbe il giogo oppressivo dell’invasore, nemmeno
da parte degli incas che mai arrivarono in questi luoghi, pose termine
alla disperazione senza futuro in maniera irreversibile. «Il fiume si
riempì di corpi di uomini, donne e bambini. Così tanti che il corso
d’acqua da quel giorno cambiò percorso», raccontano i vecchi saggi.

La notizia che gli
u’wa abbiano nuovamente minacciato il suicidio collettivo, qualora il
sistema di pozzi fosse costruito, è smentita da alcuni, mentre da altri è
confermata.

È facile immaginare
che gli u’wa abbiano paventato questa minaccia (attraverso giornali
ansiosi di fare «il colpo»), affinché il silenzio che circondava la loro
lotta, fino al 1995, fosse rotto. La combattività che dimostrano non
lascia, infatti, intendere che gesti così estremi siano nelle loro menti.

Questo però è
accaduto e fa parte della loro cultura e della loro storia. È bene non
dimenticarlo.

Ma.P.

 



L’assemblea politica degli u’wa


 POLITICA
E SPIRITUALITÀ

 

Annualmente gli u’wa
indicono un’assemblea per decidere collegialmente quali misure adottare
per opporsi al progetto della multinazionale statunitense Oxy Corp. e del
governo colombiano.

Le modalità di
questa riunione, preceduta da un lungo digiuno purificatore, possono
considerarsi un esempio di democrazia e di vera partecipazione popolare
alla vita della comunità.

Nel territorio del
Chuscal, nei paraggi di una scuola non più utilizzata, si stabiliscono i
rappresentanti di tutte le famiglie che compongono la comunità.
All’esterno della scuola si costruiscono dei luoghi di riparo e ristoro.
Ogni partecipante porta viveri in abbondanza, affinché le esigenze di
tutti siano soddisfatte. All’interno dell’edificio si svolge l’assemblea.

Subito si nota una
grande presenza di donne, molte delle quali intente ad allattare un
piccolo. Non vi è gerarchia. Tutti hanno diritto ad esprimere le proprie
opinioni. L’assemblea è accesa e partecipata. Non esistono momenti di
tensione anche se le vedute, talvolta, sono molto diverse.

Le decisioni finali
non vengono prese a maggioranza. Bensì si discute ad oltranza, fino al
raggiungimento di una linea comune nella quale si possano riflettere i
pensieri di tutti gli u’wa.

Contemporaneamente i
vecchi werjayas, le autorità spirituali, anziché esercitare un potere
decisionale diretto come si potrebbe immaginare, pregano e svolgono riti
sacri affinché all’interno dell’assemblea vengano prese le decisioni
migliori.

Questo dà anche una
valenza sacrale alle decisioni finali, coerentemente con la cultura
spirituale della comunità u’wa.

Ma.P

 



Luglio 2001


LA
OXY SI RITIRA?

 

In un comunicato
stampa della fine di luglio, la Occidental Petroleum dichiarava che i
sondaggi, durati nove mesi, nel sito esplorativo «Gibraltar 1» escludevano
la presenza di petrolio.

Un moto di speranza
ha pervaso il fronte che ha avversato per lunghi anni questo progetto. «Il
petrolio si trasformerà in acqua perché noi stiamo pregando Sira, la Madre
terra, affinché compia questo prodigio. La Oxy non troverà oro nero e sarà
costretta ad andarsene, lasciandoci finalmente in pace». Così mi disse un
giorno un capo indigeno, ma io nel mio incrollabile determinismo scossi il
capo e pensai che il futuro sarebbe stato molto amaro per questa gente.
Gli ultimi sviluppi della storia danno, metaforicamente, ragione agli
indigeni.

Nei giorni
successivi il comunicato stampa ho preso contatto personalmente con il
vice presidente della Oxy Corp., Lawrence Meriage, a Seattle, che in una
stizzita risposta affermava che non è stato rilevato petrolio, ma che i
tecnici si riservano la possibilità di ordinare nuovi sondaggi in futuro
nella stessa zona.

Particolarmente
antipatico è stato inoltre il sarcasmo con cui sottolineava il mancato
suicidio collettivo degli u’wa.

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Maurizio Pagliassotti




Dossier: TESTIMONIANZE DI MISSIONARI CON PERMESSO? Su culture, conflitti, scelte, annuncio del vangelo

Articolo 1

SEMPRE
"AL TROTTO"

 

Il beato Giuseppe Allamano affermava che, se vogliamo conoscere la
nostra identità, è sufficiente ricordare il nostro nome: "missionari della
Consolata". Missionari che egli ha sognato come persone che andassero incontro alla
gente, qualificate nel campo spirituale, scientifico, culturale e pastorale. Il fondatore
non voleva gente mediocre. Essendo i suoi missionari destinati ad avere come orizzonte il
mondo, esigeva che avessero un cuore aperto alle sue dimensioni, capace di ampie visioni e
di accoglienza verso tutti. Il missionario è colui che va, che cammina. L’Allamano,
però, diceva (con un tocco originalissimo) che non dobbiamo solo camminare, ma correre,
"trottare". Missionari che camminano sempre, come i "samburu" o come i
magi, che non si sono fermati di fronte alle difficoltà; come ha corso la Consolata, per
andare ad aiutare Elisabetta; come hanno corso i cristiani "atleti" ricordati da
san Paolo.

Persone che trottano, dice l’Allamano, come la Madonna faceva
"trottare Gesù" (non so dove l’abbia letto o saputo, ma lui lo dice!). In ogni
caso questo esprime il suo sentimento e il dinamismo richiesto ai missionari della
Consolata oggi. Allora il sogno è che, a 100 anni dalla fondazione dei missionari della
Consolata, quando si sente il peso del tempo, noi vinciamo la tentazione di adagiarci, di
non sapere più correre. Trottare con entusiasmo. Se non lo facciamo, diventiamo inutili.
L’Allamano, nonostante l’età, non è mai invecchiato, perché ha sempre avuto attenzione
a ciò che avveniva al di fuori della sua stanza, a quello che vedeva; ha sempre
conservato l’attenzione ai tempi, ai cambiamenti; non si è fossilizzato, non si è
accontentato di ripetere, non è stato contento delle mete raggiunte, ma ha cercato di
andare incontro alle situazioni, alle necessità. È anche il nostro compito: non
fossilizzarci, non accontentarci di quello che abbiamo compiuto, ma andare oltre, obbedire
al comando di Gesù, prendere il largo, affrontare le situazioni che sfidano la missione,
il vangelo, il bene dell’umanità. E non solo partire, ma partire in comunione.
"L’unità di intenti" è il principio vincente: o si lavora insieme o si
perde tempo. E questo diventa particolarmente evidente oggi in un mondo globalizzato.
Ricordo le parole che il fondatore scriveva, nel 1909, a fratel Benedetto Falda: "La
nostra missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e della Consolata.
Passeranno gli uomini, cadranno alcune foglie, cadranno i rami secchi, ma l’albero
prospererà e diventerà gigantesco. Io ne ho le prove in mano". Le prove ci sono
ancora. Ce lo conferma anche l’esperienza di tanti nostri fratelli e sorelle che, nel
silenzio di ogni giorno, continuano a portare la "consolazione di Dio tra i più
poveri del mondo". È con questo spirito che vanno accolte le testimonianze di alcuni
missionari della Consolata, rilasciate in occasione del centenario dell’Istituto e
riproposte dal presente "dossier".

 

p. Gottardo Pasqualetti,

superiore dei missionari della Consolata in Italia

 

Articolo 2

 

 

Mozambico

 

 

Tenacemente presenti

 

"Mi tempestavano di domande:

"Perché rimani? Perché ti preoccupi di noi?".

E poter rispondere nel cuore: "Perché sono cristiano"".

 

 

di Franco Gioda (*)

 

Racconto quello che ho visto in Mozambico, quello che abbiamo vissuto
insieme e si sta vivendo oggi, con il sogno che ci ha guidato in questi anni. Se
togliamo il sogno, non comprendiamo il significato della nostra presenza missionaria nel
paese.
Bisogna ricordare e comprendere la storia: il tempo coloniale portoghese,
l’inizio dell’indipendenza nazionale e la rivoluzione comunista, la guerra, la pace e
oggi l’oblio. Dopo il 1975, con la libertà concessa a malincuore dal Portogallo in
seguito ad una lunga lotta, il Mozambico è caduto in un sistema che ha gravato
pesantemente su tutto: il marxismo-leninismo nel suo modello più radicale. Sono seguite
le nazionalizzazioni affrettate, la paralisi del commercio, la fuga degli imprenditori,
l’indottrinamento socialista, la mancanza di libertà minime, il controllo generale
su tutto. Come se ciò non bastasse, ecco la tragedia della guerra civile tra Frelimo
(Fronte di liberazione del Mozambico) e Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), guerra
aggravata da siccità e fame. Di qui l’insicurezza totale. Nel 1992 la pace, firmata
a Roma, con una grande speranza di rinascita.

Oggi, però, il Mozambico rischia di essere dimenticato
dall’opinione pubblica mondiale. Ultimamente il paese è stato ancora oggetto di
attenzione, ma solo a causa dell’alluvione: un momento drammatico e isolato, nel senso che
ha toccato solo una parte della nazione.

 

 

Calati nelle situazioni

 

I missionari della Consolata, che arrivarono in Mozambico nel 1925,
avevano in cuore la formazione impartita dal beato Giuseppe Allamano: quindi una
spiritualità del concreto, del quotidiano.
I primi pionieri giunsero nel territorio
senza tanti progetti, ma con una fortissima carica umana e spirituale, con l’ideale di
vivere in mezzo alla gente.

Oggi sono ancora presenti nelle zone più sperdute, dove le persone
sono abbandonate da tutti. Direi che hanno quasi timore della città, anche perché si
cercano i più poveri, con l’idea chiara dello sviluppo-consolazione. Quando il
missionario si cala nella realtà, non fa distinzione tra sviluppo e consolazione:
non ci può essere l’uno senza l’altra, e viceversa.

Con queste premesse, è importante sottolineare alcuni aspetti del
nostro lavoro in Mozambico. Abbiamo sempre cercato di immergerci nelle situazioni
concrete, per dare risposte utili.

La prima è stata la formazione attraverso le scuole: scuole di
arti e mestieri per l’avvio professionale al lavoro. In questo i fratelli missionari
sono stati una benedizione enorme. Naturalmente lo stato portoghese ne ha approfittato:
concedendoci la libertà di insegnamento (nel 1942), si è creato un intenso sviluppo con
il moltiplicarsi di scuole, soprattutto in foresta.

Con il tempo si è capito che, dietro il permesso del Portogallo,
c’era una strategia (non troppo velata) di espandere e rafforzare la colonizzazione.
C’è stato, allora, un momento di ripensamento e di ribellione al sistema con la
tentazione, per i missionari, di abbandonare tutto. Ma, guardando all’interesse della
gente, si è deciso di restare, di non abbandonare le comunità, almeno finché si è
potuto, cioè fino alla rivoluzione marxista-leninista, allorché tutto si è bloccato:
scuole, ministero, attività sociali.

L’unico permesso concessoci era di "essere presenti":
condividere le sofferenze e attese del popolo, aiutare a non perdere la speranza. Questo
fino al momento della pace, della ricostruzione, delle nuove scelte: scelte diverse da
quelle precedenti. Anche per noi, missionari, non più proprietari e gestori, ma
"servi" in aiuto e sostegno alle scuole governative; collaboratori senza
potere, onesti e umili.

C’è stata, con la pace, l’intuizione formidabile dell’università
cattolica.
In Mozambico c’era una sola università nel sud. Nel remoto nord del paese,
persino a 3 mila chilometri dalla capitale Maputo, la scuola era solo quella elementare,
con pochissime scuole superiori. L’intuizione di qualche missionario della Consolata è
sfociata nel progetto di una università, che al presente può vantare 1.500 studenti, con
quattro facoltà in tre città del nord. Una carta vincente.

 

 

Con grande "nostalgia"

 

Un altro aspetto del nostro lavoro missionario attuato in questi anni,
ma soprattutto in quelli della rivoluzione e della guerra, è stato la vicinanza con la
gente.

La prima "strategia" del governo comunista fu di isolarci, di
tagliarci fuori, di fare sì che non avessimo più alcun contatto con la popolazione. Ecco
la concentrazione in determinati posti, con missionari derisi ed espulsi. Per visitare le
comunità dei cristiani (fatica e denaro a parte), erano necessari permessi su permessi,
controlli meticolosi, attese estenuanti, limitazioni. Da qui ancora l’interrogativo:
che facciamo? Abbiamo cercato di resistere e di non mollare, sfruttando ogni occasione che
ci veniva concessa. Le visite alle comunità avvenivano con il rappresentante del partito
comunista alle calcagna, che controllava tutto. Ma (fatto inaspettato) il rapporto con la
gente è diventato più forte, più coinvolgente. In alcune comunità dura tutt’oggi.

I missionari di Cuamba, ad esempio, facevano pervenire (attraverso
persone) delle schede catechetiche da compilare nei villaggi; gli animatori locali
rispondevano alle domande, descrivevano i fatti, segnalavano gli esempi, e inviavano tutto
per iscritto al missionario, che ci rifletteva e programmava il lavoro pastorale.

È nata così una chiesa "ministeriale", dove i catechisti e
gli animatori facevano quasi tutto. Grazie a loro, le comunità resistevano alla
propaganda atea, vivevano nella fede e, addirittura, si moltiplicavano. In luoghi dove le
comunità, prima della rivoluzione e della guerra, erano 10-15… sono diventate 20-25. Ne
è derivata anche una "purificazione" per i missionari troppo legati
ancora alle strutture, ai metodi del passato, forse pure al governo. In quel tempo si è
capito che l’unico "buon pastore" è il Signore: è Lui che pascola il
gregge, al di là del nostro molto o poco lavoro. Un terzo aspetto della nostra presenza,
oltre alla formazione e condivisione di vita, è stata la testimonianza. Il Mozambico, con
la guerra, ha avuto circa 1 milione di morti, 2 milioni di rifugiati all’estero (nei
campi-profughi del Malawi e dello Zimbabwe), 5 milioni di sfollati interni… Tutto il
paese era in gravissime difficoltà. Poi la guerriglia, che sequestrava, rubava e
bruciava, seminando morte e distruzione anche fra i missionari.

Ma siamo rimasti. Abbiamo incoraggiato, testimoniato la speranza,
nonostante continui segni di morte. Forse ho portato anch’io un po’ di
consolazione, e solo con la testimonianza della mia presenza. Quante volte, dopo aver
viaggiato in bicicletta di notte, arrivavo ad un villaggio e mangiavo quello che
c’era. Mi tempestavano di domande: "Padre, perché sei qui? perché rimani?
perché ti preoccupi di noi?". E poter rispondere nel cuore: "Perché sono
cristiano… Per amore e nel nome di Gesù Cristo".

Quello che ho fatto io l’hanno fatto molti altri missionari, ognuno nel
suo stile, ma tutti con la stessa passione, la stessa voglia di essere
"testimoni" di Qualcuno per cui abbiamo dato la vita. Un po’ come Maria, sotto
la croce e accanto al figlio in agonia, ma senza poter fare nulla. Solo esserci!

Oggi, dopo gli accordi di pace dell’ottobre 1992, lo sforzo è di
aiutare il paese a vivere gli ideali stupendi conquistati con sofferenza nel periodo buio
del passato. Ricordare i valori appresi, il volto nuovo delle comunità cristiane, la
voglia di continuare a crescere nella formazione umana e cristiana… Cercare di non
cadere nelle nuove trappole,
come quella degli aiuti facili, della delega in bianco,
dei miraggi del benessere occidentale che generano divisioni, gelosie, discriminazioni,
povertà umana e morale.

Se volessi riassumere tutto, potrei farlo con la parola portoghese "saudade",
che è intraducibile; indica nostalgia e rimpianto di alcune situazioni, anche di
sofferenza. Credo che la chiesa in Mozambico senta "saudade" del tempo di
persecuzione e guerra. Un tempo tragico, certo, ma durante il quale in cui i cristiani
erano aggrappati alla parola di Dio. Non avevano nulla, ma erano luce. Una comunità di
testimoni e martiri (come i 21 catechisti trucidati a Guiúa), presenza viva di Cristo.

 

(*) Padre Franco Gioda, missionario in Mozambico durante il
colonialismo, la rivoluzione comunista, la guerra civile e il raggiungimento della pace.
È stato anche superiore dei missionari della Consolata operanti nel paese.

 

 

Articolo 3

dossier Kenya

 

 

Dal Kenya all’Ecuador

 

 

Dialogo con le culture

 

 

"La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,

ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti".

 

 

di Giuseppe Ramponi (*)

 

Quando operavo in Kenya (nel distretto dei samburu, diocesi di
Marsabit), ho potuto dialogare con vari rappresentanti di etnie vicine, i frequentatori
della missione, maestri e anziani che diventavano amici. Avvertivo il bisogno di capire
"la vita samburu": come era organizzata la tribù negli aspetti sociali,
educativi e religiosi. Il popolo viveva la cultura senza essee protagonisti: la vita di
ogni giorno era guidata dal capo-famiglia, in comunione con gli altri che formavano la
manyatta, il recinto.

Gli sperimentati missionari dicevano che il dialogo era previo e
necessario per l’evangelizzazione. E si doveva cercare una piccola "crepa"
dove mettere il dito e, allargandola, cominciare la predicazione; poi, come fa la sonda,
esplorare e capire se c’era posto per la nostra fede. Se ci lasciavano entrare, era nostro
compito costruire subito la chiesa, con messe, preghiere, canti, sacramenti, catecumeni.
Era il metodo di allora. Oggi, dopo tanta riflessione e polemiche durate anche anni, non
si è d’accordo su tutto. Io sono disposto ad accettare tutti i punti di vista e guardo da
ogni angolo, escluso quello "ottuso".

 

 

La cultura della vita

 

Un cambio radicale nella diocesi di Marsabit avvenne all’inizio
del 1970, quando il vescovo Carlo Cavallera accettò il parere dei missionari, che
suggerivano più impegno per la cultura: ricerca e studio di usi e costumi e conoscenza
della lingua tribale, e non soltanto di quella nazionale (swahili). Io venni scelto per il
distretto dei samburu e, nello stesso tempo, mi nominarono responsabile delle scuole
(Education Secretary). Cominciava un sogno ad occhi aperti.

Nei due settori educativi comuni a tutti i popoli (cultura e
istruzione) c’era finalmente l’opportunità di lavorare ad un progetto che mi stava
molto a cuore: elevare a dignità la cultura e farla entrare nella scuola come
educazione-base (per divenire persone) e completarla con l’istruzione (per
diventare cittadini). La scuola a Maralal era diventata un modello e un centro per
sincerare, identificare e dare dignità alla cultura locale e, allo stesso tempo, dotare
la persona di tutte le qualità garantite dai diritti umani e dal vangelo. Speravo, in
quel contesto, che la persona avrebbe saputo parlare e chiedersi: perché, come, quando,
dove, con chi?… Mi piace inorgoglirmi e affermare che la scuola era un paradigma nel
progetto storico del popolo samburu.

Con la mia partenza, l’impostazione cambiò, perché i successori
erano pratici: non volevano teorie, ma fatti pieni di numeri e guadagni.

Lasciato il Kenya, raggiunsi la Colombia. Nel 1983 ero a Cartagena de
Indias. Pensavo di lavorare con i negri, per cercare i legami con l’antica cultura
africana e dare il brivido della dignità originale a chi era stato spogliato di tutto. La
casa accogliente e comprensiva doveva essere la chiesa.
Doveva essere pure un
laboratorio di ricerca e ricostruzione, partendo da qualsiasi calore ancora vivo,
nonostante l’immensa cenere. Era una sfida. Fallì, perché i responsabili locali si
sforzavano solo di credere nelle verità divine, non nella Verità.

Nel 1987, dopo due anni passati nel Caquetá (importantissimi, perché
mi introdussero nel mondo indigeno, che mi mancava), arrivai in Ecuador, con gli indios in
lotta, portabandiera delle rivendicazioni culturali e organizzative proprie di un popolo
oppresso. In Ecuador sono diventato "pellegrino" con gli indios di lingua
quichua nella loro solitudine, angustia, indignazione ed ira. La gente era ai margini già
al tempo degli incas, diventando solo lavoro bruto e a buon mercato dai conquistatori
spagnoli in poi. Ma quando a Riobamba arrivò il vescovo Leonida Proaño, incominciò il
cammino di riscatto ed emancipazione. Ora l’indio ha un suo progetto di vita e
rivendica la propria storia.

Ho imparato di nuovo tutto e ho abbandonato un po’ la cultura dei
libri per abbracciare quella della vita reale e quotidiana. Oggi mi dedico anima e corpo
alle scuole, dove studiano i bambini indios, e voglio rendere la sede bella, idonea e
qualificata. L’educazione offrirà le "armi" per la "riconquista".

Lavoro anche nella pastorale indigena, con un buon numero di
catechisti: tutti volontari e tutti della base, popolo-popolo. Con essi faccio la lettura
critica della realtà comunitaria in trasformazione, per decifrare gli "enigmi
culturali", proponendo e avviando l’aggancio con l’utopia del Regno di Dio,
l’unica ragione per essere missionari e risposta ancora sempre valida per dipingere di
speranza il progetto storico dei popoli.La cultura non è un grande magazzino di fenomeni,
ma un intreccio di relazioni e di valori interdipendenti. Mi piace ragionare con i
collaboratori, specialmente maestri: il discorso è sempre interessante. La lettura di
segni, immagini, miti, gesti e relazioni non si può fare alle spalle del gruppo
interessato. Però è vero che c’è bisogno dell’"osservatore esterno". E
sono ancora convinto che è indispensabile il cammino indicato da Gesù Cristo e, più che
mai, sono attuali i suoi segni: chiavi per aprire, occhi, orecchie, bocche, mani, cuori
e… sepolcri.

 

 

L’innesto sull’albero buono

 

La scena ecclesiale mondiale ci ha regalato parole "chiavi".
Il Concilio ecumenico Vaticano II ci ha dato la parola "dialogo"; la
Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellín (1968) "liberazione",
quella di Puebla (1979) "stare con i poveri" e, con la Conferenza
ecclesiale di Santo Domingo (1992), entra nella storia l’esigenza dell’"inculturazione".
In America Latina essa diventa un imperativo per seguire Gesù Cristo nella solidarietà
verso i volti umani sfigurati.

In Ecuador non parliamo di dialogo con le culture, ma di grido della
cultura
e clamore persistente che esige spazio e riconoscimento nel palazzo della
politica e nella chiesa. La cultura india vuole entrare nella chiesa in nome del
cristianesimo che, bene o male, è diventato suo e si presenta "inculturato"
nell’arco di 500 anni. E si vuole pensare, parlare e agire nella chiesa con una
lingua propria e categorie di pensiero proprie.

Non si accontenta di riti e segni, ma si chiede il diritto di studiare
la filosofia partendo dalla propria cosmovisione, di costruire una teologia muovendosi dal
proprio progetto storico. È un’inculturazione speciale, che richiede la caduta
della chiesa monoculturale
e reclama il diritto di sedersi accanto alle altre culture,
già canoniche, accedendo con diritto completo alla piena cittadinanza ecclesiale. Ora
sogno e lavoro per un "innesto culturale" nella chiesa, affinché questa capisca
e utilizzi tutte le cose buone che la cultura ha, rivedendo e rettificando la struttura
monoculturale che, finora, ha reso "visibile la grazia" con parole, concetti
espressioni liturgiche e dottrinali tratte da un solo vocabolario.

È l’idea sottile di san Paolo (Rom 11, 11-24). Di solito si innesta il
ramo buono nell’albero selvatico. Il missionario insegna, invece, ad innestare la parte
selvatica nell’albero buono. Quindi diventa logica l’azione di inculturare la chiesa,
ossia innestare la cultura indigena nella chiesa.

Paolo vedeva i "pagani selvatici" innestati nell’"albero
buono" del popolo dell’alleanza, cioè la chiesa. E mi diverte l’idea di innestare
gli indios nella chiesa. Mi fa ricordare i barbari, che sconsacrarono l’impero romano, e
immagino lo stupore nel vedere questi "rambo" entrare nelle basiliche, un
po’ chiassosi, e chiedere ascolto. Che cosa impedisce che nel 2001 gli indios entrino
nella loro chiesa, parlino, cantino, adorino e si salvino? E questo senza chiedere in
prestito simboli, ideogrammi, concetti di vita, definizioni di sapienza e conoscenza, di
intelletto e fortezza, di consiglio, pietà e timor di Dio? Passi più lunghi della gamba?
Non me ne sono mai invaghito. Ho sempre cercato di partire da quello che è possibile.
Prima di arrivare alla teologia, c’è la pastorale, che è un lavoro per costruire la
comunità di fede, speranza e carità. Dopo, basta un niente per dire: è la chiesa. Il
vangelo è spirito, forza, visione, una visione di vita che parte da Gesù. Ma gli hanno
dato corpo, segni, sensi, oratoria, logica, parola, ragionamento, mezzi comunicativi. Se
nel passato talora (per non dire spesso) c’è stato bisogno di discutere e disceere la
vera teologia, per definire che cosa si doveva insegnare e credere, ciò significa che
l’interpretazione non è stata subito unanime. E perché non oggi? Anche i popoli
dialogano, ragionano e cambiano. In Kenya i kikuyu (descritti da padre Costanzo Cagnolo in
una celebre monografia di 68 anni fa) sono cambiati; non operano più nei villaggi, nei
campi e nei mercati come allora. Anche in Ecuador l’impero inca non c’è più. Ma c’è
Pilatuña e ci sono io. Pilatuña vive la cultura e io predico il vangelo. Però con
questa differenza: Pilatuña vive la cultura e non sa predicarla; io so forse annunciare
il vangelo, ma faccio molta fatica a viverlo.

 

(*) Padre Giuseppe Ramponi, missionario in Kenya, Colombia e, oggi,
in Ecuador. Ha scritto: "Preghiere samburu", Consolata Fathers, Nairobi (pro
manuscripto); "Missionari e indios. Sentire la vita", Edizioni Siaca, Cento
(FE), 1999.

 

Articolo 4

dossier Congo

 

 

 

Repubblica democratica del Congo

 

Tra i fuochi della guerra

 

 

Una guerra con 2 milioni di morti dal 1998.

Alta la tensione: "Siamo tutti uguali, però loro…".

Ma, con il missionario, si dice pure: "Se tu resti…".

 

 

di Santino Zanchetta (*)

 

La mia è una piccola testimonianza, con qualche particolare
drammatico, che giustifichi perché siamo rimasti nella Repubblica democratica del Congo,
nonostante la guerra. Lo faccio a nome di tutti i missionari: quelli che sono rimasti per
scelta o perché costretti… e che hanno anche dato la vita. Parlo della guerra vissuta
(dalla gente e dai missionari), per rispondere alla domanda: perché restare in tale
contesto? Recentemente il Congo ha subìto due guerre successive; la seconda è scoppiata
nell’agosto del 1998 ed è tuttora in corso.

Per noi, missionari, guerra sono i bombardamenti con armi
pesanti, quando le bordate non sono mai precise, né indovinate, né tanto meno…
chirurgiche. Le bombe cadono ovunque, perché il nemico da perseguire non ha un campo
preciso e occupa generalmente i quartieri popolari. Noi abbiamo avuto la fortuna di
sopravvivere, mentre 2 milioni di persone sono state uccise.

Guerra sono gli scontri, quartiere per quartiere, con gente che fugge e
cerca disperatamente rifugio; con soldati che, aspettando l’evoluzione degli avvenimenti,
si danno al saccheggio, rubando tutto il possibile, forse per appagare la propria fame o
per rifarsi dei salari mai ricevuti.

Guerra è l’odio verso i nemici e i loro alleati: un odio
alimentato dalla stampa, dai discorsi, dai canti e ritoelli, ma anche dalla sofferenza
di chi ha dovuto patire fame, lutti, atrocità, privazioni di medicine, luce, acqua.
Guerra è pure l’Aids, trasmesso (consciamente e inconsciamente) dai soldati e vissuto con
terrore da parte delle vittime.

Guerra è la rabbia contro la povertà mal sopportata (e ciò
spiega i saccheggi e furti), sfogo del tribalismo in atto.

 

 

Tasselli di un mosaico

 

In questo quadro fosco, noi missionari abbiamo vissuto la guerra
insieme alla gente. Con tensione, per avvenimenti che non hanno mai fine; con terrore, per
ciò che potrà ancora capitare, senza sapere quando e come; con silenzio, ignorando
assolutamente cosa fare per proteggersi o proteggere la popolazione. Con paura incessante:
della morte, della tortura, del sequestro, dell’isolamento, della mancanza di
comunicazione e informazioni.

Guerra è stata anche, per noi, la partecipazione al dolore del popolo,
superando il voltastomaco nel vedere persone bruciate vive con la tecnica del
"pneumatico sui corpi", pestate con il mattarello del mortaio. E poi i
ripetuti saccheggi a missioni, parrocchie, seminari, conventi, sotto la minaccia delle
armi; obbligati a caricare tutto sulle autoblindo dei militari e vederle partire.

In guerra, però, non sono le lacrime che salvano, ma come si affronta
la situazione, soprattutto per noi missionari, divenuti punti di riferimento. Abbiamo
vissuto ogni sorta di sopruso; siamo stati anche feriti nei sentimenti più profondi: come
uomini, come stranieri, come sacerdoti, suore e consacrati. Sorgono tante domande, tutte
cariche di angoscia: perché restare nel paese? Perché amare la gente? Perché, dopo
tutto quello che abbiamo vissuto e visto, dobbiamo credere che la nostra presenza abbia
significato e valore?… Perché, invece, non partire, in attesa di tempi migliori e più
sicuri? La mia risposta (mentre la guerra continua) non è né definitiva né esaustiva:
è un insieme di piccoli tasselli, come in un mosaico.

Il primo motivo che, come missionari, ci fa rimanere è l’affetto,
la parte umana di noi. Siamo vissuti per tanti anni insieme: abbiamo pregato e partecipato
al dolore comune nei funerali, alle difficoltà materiali e spirituali; abbiamo
chiacchierato a lungo visitando le case e prendendo in braccio i bambini; abbiamo sognato
iniziative comuni di sviluppo. La nostra esistenza è intimamente legata a quella della
gente.

Date queste realtà, chi ha il coraggio di spezzare i legami,
abbandonare l’amico nel dolore o nella lotta per la sopravvivenza? La vicinanza fratea
infonde coraggio ad una comunità disorientata, la fa sentire amata e valorizzata.
"Se tu resti – mi sento dire -, significa che noi siamo importanti, ci vuoi
bene e sei uno di noi".

Il secondo tassello del mosaico è più profondo: dipende dalla stessa
missione che ci vincola, senza sconti, alle comunità cristiane. Quali che siano le
circostanze (abbondanza, penuria, gioia, pericolo, gratitudine o indifferenza), il vangelo
della carità (cioè il dono di sé) deve essere proclamato in ogni situazione. Pertanto la
missione non è una passeggiata occasionale,
una manciata di emozioni che passano, ma
condivisione di vita, costantemente e concretamente.

Un terzo motivo: la nostra presenza deve diventare segno di una cultura
di pace contro ogni logica della guerra,
facendo capire che, nonostante la violenza,
è la frateità che deve reggere la vita… Attraverso riflessioni, incontri e gesti di
carità, il missionario approfondisce il vangelo con l’uomo della strada, provocando
(non senza fatica) pensieri di riconciliazione. Un esempio: furono fatti prigionieri dei
rwandesi, ed era "normale" insultarli, denigrarli e considerarli animali per
tutte le sofferenze che avevano provocato… Nella nostra riflessione, in missione,
abbiamo affrontato il tema della dignità dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che
supera l’appartenenza ad una tribù o stato. La riflessione ha incontrato molta
resistenza… perché "è vero che siamo tutti uguali, loro però…". Ciò
nonostante, dopo reazioni anche violente, siamo riusciti a raccogliere cibo e soldi per
andare a trovare i prigionieri "nemici", con un atteggiamento di pace e perdono.

 

 

Preparando il futuro

 

È importante rimanere e, soprattutto "come" si rimane. Non
è la presenza fisica che gioca il ruolo determinante, ma il significato che acquista e
l’azione quotidiana: cioè la vicinanza che faccia crescere la comunità cristiana,
che infonda speranza (ma anche soluzione) nei problemi concreti, che educhi alla non
violenza e al perdono.

In frangenti drammatici (come è avvenuto nelle nostre missioni del
Congo settentrionale) a volte è più utile la "partenza momentanea", perché il
missionario, restando, può mettere a repentaglio la vita della sua gente. Spesso,
infatti, "il bianco" è ricercato per quello che possiede o ha nascosto; e, per
sapere e trovare qualcosa (macchine, soldi, viveri), si può anche ricorrere alla tortura
delle persone. In questi casi, forse, la soluzione migliore è l’allontanamento
temporaneo, per permettere alla gente di vivere senza subire ulteriori pressioni e
violenze.

 

I missionari non sono eroi; non sono nati per questo (io, almeno);
però la presenza-missione li interpella e si esprime "con" la gente in tante
piccole cose.

Infine il nostro restare è un investimento per il futuro. La
situazione, anche pastorale, esige nuove visioni e prospettive; suppone che i missionari
lavorino non soltanto cercando di "sopravvivere" oggi, ma guardando alle
generazioni future. La guerra, purtroppo, non finirà domani e la ricostruzione del Congo
non avverrà dopodomani. I giovani, specialmente, devono saper convivere con la violenza,
stimolati però a cercare valori nuovi, umani e cristiani, per costruire un futuro di pace
per il paese. Ecco perché, in barba alla guerra (o, meglio, a motivo di essa), il nostro
gruppo missionario di Kinshasa ha voluto offrire un segno "forte". Prendendo lo
spunto dalla conferenza "Il coraggio dell’annuncio", abbiamo aperto una nuova
parrocchia nella "periferia più periferia" della capitale, dove bisogna
incominciare da zero. È una testimonianza di chiesa, di vicinanza missionaria, che
esprime, a dispetto della scarsità di mezzi e personale, la fiducia di poter dare un
volto nuovo al Congo. Noi siamo sempre "i missionari della Consolata".

 

 

(*) Padre Santino Zanchetta, missionario in Zaire-Congo. Il paese,
spaccato in due, è in guerra dal 1998: le vittime superano i due milioni. La separazione
incide anche sui missionari della Consolata, costituitisi in due gruppi che non possono
incontrarsi.

 

Articolo 5

 

dossier America Latina

 

 

America Latina

 

 

L’indio al centro

 

 

"Per gli indios, noi missionari non siamo importanti:

con la chiesa o senza la chiesa, faranno il loro cammino. Siamo noi che
abbiamo bisogno di loro".

 

di Antonio Bonanomi (*)

 

È importante chiarire subito un "dettaglio": l’indio non
esiste. Esiste come termine, non come realtà; nessuno degli indigeni dell’America si
riconosce come indio, perché è una parola sbagliata; è un "errore" di
Cristoforo Colombo,
che pensava di avere raggiunto le… Indie!

Pertanto meglio sarebbe parlare di popoli indigeni o, come si
dice in Argentina, di popoli aborigeni, che occupano un determinato territorio fin
dall’"inizio": quindi padroni della loro terra e storia. Tuttavia fare la
scelta degli indios non è una moda; significa incominciare a guardare il mondo non
dall’occidente, da noi, ma da loro. Non solo il mondo, ma anche la chiesa sarebbe
più povera senza la loro presenza, perché gli indios apportano una grande ricchezza, con
una saggezza, una storia e un progetto di vita diversi. Siamo noi che abbiamo bisogno di
loro, più che loro di noi. Qual è il panorama degli indigeni nell’America Centrale e
Meridionale? Sono circa 45 milioni coloro che si dichiarano indigeni, anche se credo che
siano il doppio, perché la maggioranza dei popoli che vivono in America hanno una
percentuale di sangue indi al 20-60%; quindi il volto indigeno è molto più comune di
quanto appare nelle nostre mappe. Essere indigeni in America è stato un motivo di
vergogna per tanto tempo e molti si sono mimetizzati per poter sopravvivere! Si passa dal
70-80% della Bolivia e del Guatemala, allo 0,2% del Brasile, all’1% del Venezuela, al 2%
della Colombia. Quindi c’è una diversità di presenza enorme.

C’è pure una diversità di situazioni: popoli che vivono ancora come
cacciatori, raccoglitori, pescatori e popoli che sono alle soglie della modeità con i
vantaggi e gli svantaggi che questo implica. Oggi questi popoli stanno facendo "la
riconquista" della loro storia, cultura, territorio.

Oggi il grande problema in America è il non riconoscimento della
propria identità.
Il futuro dirà chiaramente che, se l’America vorrà diventare un
continente con un volto, una storia e un progetto originali, dovrà necessariamente
riscoprirsi plurietnico e multiculturale: latina, india, nera. Una sfida enorme, ma
anche la ricchezza d’America.

 

 

Il quinto sole

 

Ci sono tre grandi tappe nella storia dei popoli indigeni. La prima è
il tempo che precede la conquista, e non è conosciuta. Tutti pensiamo che la storia
d’America sia incominciata quando è arrivato Colombo, ma quei popoli "scoperti"
avevano già migliaia di anni di civiltà, di cui è rimasto solo qualche rudere, alcune
iscrizioni e pochi reperti nei musei.

La seconda tappa della storia comincia con "la conquista".
Per noi il 1492 è una data gloriosa, perché spalanca all’Europa un mondo
sconosciuto; per gli indios è l’inizio della colonizzazione, del genocidio e della
"scomparsa", non solo fisica, ma soprattutto culturale, di identità.

Verso gli anni ’70 incomincia una terza tappa per i popoli
indigeni: è quella della "riconquista". Vissuti finora ai margini,
vogliono riappropriarsi della loro storia e identità; vogliono essere di nuovo
protagonisti e signori della loro terra espropriata. Per questo il terzo millennio, per
l’America, sarà il millennio degli indigeni e dei neri. Oggi il grande problema
americano è il non riconoscimento della propria identità, bensì l’essere un
continente senza identità.

La storia unisce i popoli indigeni, anche se la cultura a volte li
differenzia; e li unisce il progetto del futuro che sentono come proprio: gli indios
vivono dell’utopia, credono e sono convinti che sorgerà il "quinto sole", il
nuovo impero degli indios in America.

Se la società latinoamericana non accetta la sfida di assumere la
cultura e il progetto indigeno come radici della sua storia, difficilmente il continente
incontrerà la pace, perché non s’incontrerà con se stesso.

 

 

Alle radici

 

Noi missionari della Consolata in America Latina abbiamo compiuto un
lungo cammino per giungere alle… radici. Quando siamo partiti per il continente,
l’abbiamo fatto con un progetto particolare: incontrare l’America degli
emigranti e, quindi, la ricerca-scoperta di paesi o quartieri totalmente veneti, trentini,
siciliani, calabresi… tutta gente che era partita dall’Italia per cercare da
mangiare e sfuggire alla miseria.

La prima tappa dei nostri missionari è stata quella di stabilirsi dove
c’erano gli europei; arrivando, si sono sentiti più o meno a casa loro; non hanno
avvertito il cambiamento provato dai missionari in Africa, dove il "salto" era
più evidente.

Poi c’è stata la seconda tappa, a volte più lunga e a volte più
breve. Il fatto di essere missionari li ha resi inquieti e si sono, allora,
aperti alle zone più povere e abbandonate: il Chaco in Argentina, Roraima in Brasile, il
Caquetá in Colombia… Ma l’indio era sempre invisibile. Se si prendono in mano i
documenti ufficiali (come le Conferenze regionali) fino agli anni ’70, non si parla
mai di indios. È come se uno prima vede i rami, poi il tronco e, solo alla
fine, le radici.

Soltanto in una terza tappa i missionari e le missionarie della
Consolata sono arrivati agli indios. All’inizio è stato come giungere dal centro alla
periferia; poi si sono resi conto che giungere all’indio non è arrivare alla periferia
d’America, ma alle sue radici. A São Paulo, in Brasile, si contano 600-700 mila
giapponesi, una delle culture asiatiche più ricche; si trovano più cattolici giapponesi
in Brasile che nello stesso Giappone… In Colombia si incontrano pure turchi o colonie
libanesi. Le colonie sono come rami, che non hanno in sé la vita; questa viene dalle
radici. C’è anche il tronco, che è il mondo dei meticci, della colonizzazione: un
mondo inquieto, incerto, disposto a tutte le avventure. E, infine, le radici, che sono i
popoli indigeni.

Per gli indios, noi missionari non siamo importanti, né necessari: con
o senza la chiesa, essi faranno il loro cammino. Siamo noi che abbiamo bisogno di loro.
Non incontreremo mai le radici, né costruiremo una chiesa che sia davvero cattolica,
cioè con una pluralità di valori, senza gli aborigeni. Dobbiamo andare incontro agli
indios, perché sono "diversi"… La loro è una cultura che privilegia lo
spirito sulla materia. Per l’indio tutto è vita.

L’uomo può diventare animale o pietra… Noi occidentali non siamo il
centro di tutto, perché, avendolo fatto per ragioni di profitto, stiamo rovinando tutto.
È la tragedia dell’homo homini lupus, che si ripete.

 

Poi c’è la comunità. L’indio non esiste come
"individuo"; non dice "io", ma "noi"; si sente parte di un
corpo. Se volete annullare un indio, portatelo fuori dalla comunità: non esiste più, è
un uomo morto…

Come missionari, la nostra funzione è: stare con gli indios, sorretti
dal vangelo, per rafforzae l’identità. Nel momento presente essi devono
fronteggiare ad una sfida grande: unire, in una sintesi nuova, la loro storia e tradizione
con… altre realtà, in un processo di interculturalità. È questo il nostro compito di
missionari, membri di una famiglia ormai intercontinentale: non richiudere gli indios come
oggetti da museo, ma rafforzarli, aprendoli al dialogo interculturale; perché la loro
ricchezza non solo sia conosciuta, ma diventi valore per altri. Ricordo due figure
significative: la prima è quella di padre Giovanni Calleri, il primo missionario della
Consolata ucciso (nel 1968), per avere amato gli indios del Brasile; la seconda riguarda
un altro sacerdote, padre Alvaro Ulcué, colombiano, anch’egli ucciso (nel 1984),
perché si era schierato dalla parte degli indios. Questo dice qualcosa: che la scelta
degli indios in America Latina è anche scelta di martirio. Ciò vale pure per il nostro
istituto. È bello sapere che un missionario della Consolata colombiano, padre Ariel
Granada, sia morto martire in Mozambico e un italiano abbia avuto la stessa sorte in
Brasile… Questo "filo rosso", che caratterizza la storia delle missioni, lega
anche la storia dei popoli indigeni.

 

 

(*) Padre Antonio Bonanomi, missionario fra gli indios "nasa"
della Colombia. Dopo una significativa presenza in Italia come professore e formatore, ha
raggiunto l’America Latina.

 

Articolo 6

 

dossier Kenya nord

 

 

Kenya del Nord

 

 

Samburu a rischio

 

 

"Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca

di realizzarsi fuori della comunità… La popolazione

è "in guerra" per divenire più potente e ricca".

 

 

di James Lengarin (*)

 

Io sono un samburu. Appartengo ad un popolo nomade di pastori nel Kenya
del nord. I samburu sono un ramo dei masai (eravamo "cugini"): il 95% della
lingua, degli usi e costumi sono uguali, anche se non mancano le diversità. I samburu
sono circa 150 mila e vivono su una superficie di 20 mila chilometri quadrati. Un
territorio vasto, ma povero, perché senz’acqua. Quando ritorno a casa per trovare i
parenti, non li trovo mai sullo stesso luogo, perché, essendo pastori nomadi, devono
spostarsi alla ricerca di acqua e pascoli erbosi.

 

 

Mucche al centro

 

La società samburu è formata da otto clan (o insieme di famiglie), a
loro volta divisi in due: "vacche nere" e "vacche bianche". Il nome
non deve stupire, perché la nostra vita ruota attorno alle mucche. Con la loro pelle, ad
esempio, si confezionano vestiti, stuoie, tabacchiere, sandali: tutto proviene dalla
mucca. Essa è il centro di tutto, non la… new economy!

La nostra è anche una società gerontocratica, perché tutte le
decisioni vengono prese dal "Consiglio degli anziani": solo gli anziani, non
altre persone; nonne e mamme possono dire la loro, dare un parere, ma la decisione finale
spetta al Consiglio! È composto da tutti i capifamiglia, che devono dialogare e restare
uniti per il bene del popolo. La vita dell’individuo passa attraverso vari momenti di
crescita (classi di età) e diversa è la responsabilità sociale: il bambino deve restare
bambino e il guerriero… guerriero. I lavori sono organizzati secondo i ruoli: i ragazzi
pascolano i vitellini o le caprette; i guerrieri il bestiame più grosso e difendono la
società dai nemici; gli anziani guidano la vita attraverso il Consiglio, decidono su riti
ed iniziazione, controllano i matrimoni; le donne costruiscono le dimore, mungono il
bestiame, procurano acqua, legna e cibo per tutti; esse sono al centro della famiglia e
rispettate nel loro ruolo.

In ciò concee la vita religiosa tradizionale, i samburu credono in
un unico Dio, Ngai, che rimanda non solo ad un essere supremo, ma significa pure
"pioggia" e "cielo".
Nell’acqua c’è la vita. Il nostro
è un Signore che dona la vita attraverso la pioggia. E può manifestarsi in vari luoghi:
in una casa, sotto la pianta, sulla montagna, dove si prega, si offrono sacrifici, si
invocano le benedizioni (che sono quasi infinite). Si prega mattino e sera.

I samburu tradizionali sono molto lontani dalla fede in Gesù Cristo.
Il messaggio cristiano è di difficile accettazione. Un uomo-Dio: come è
possibile? I missionari devono faticare non poco per comunicare questa "buona
notizia", sconvolgente per i samburu.

La vita sociale è legata ai periodi di siccità e pioggia; quando
questa manca, la gente sta male, gli animali muoiono e la vita si ferma. Per questo Dio è
pioggia, cioè cibo, carne, sangue, latte: ciò che garantiscono gli animali.

Negli ultimi tempi i samburu sono cresciuti di numero, ma la qualità
dei pascoli è scaduta. Le frequenti siccità e carestie hanno costretto la gente ad una
maggiore dipendenza da cibi estei, come riso, polenta… Tutte cose che prima non
mangiavano; ora, invece, ne fanno uso per sopravvivere. Al presente dipendono anche dal
governo nazionale e dagli aiuti stranieri.

I samburu sono stati a lungo "fuori dal mondo". Quando in
Kenya c’erano i coloni inglesi, alla gente non era permesso di lasciare il territorio. È
rimasta, dunque, isolata per parecchio tempo, divenendo un problema per i colonizzatori,
che faticavano a concepire e dominare una società… senza capo, in quanto tutto è
determinato dal Consiglio degli anziani.

I missionari della Consolata ebbero i primi contatti con i samburu nel
1946, allorché padre Carlo Andrione giunse a Maralal per visitare alcuni amici kikuyu.
Così è iniziato l’avvicinamento, con qualche scuola.

La prima missione sorse a Baragoi nel 1951; vi era anche un centro per
ragazzi, una scuola, un dispensario; il tutto con la presenza delle suore. Fu un passo
molto importante per la nostra storia. I missionari osservavano, imparavano dalla gente,
dialogavano con gli anziani. La scuola è stata l’iniziativa più "utile",
come quella di Wamba e l’omonimo ospedale: un’oasi nel deserto, con medici che
arrivano dall’Italia.

Accennando ai missionari, è doveroso ricordare i confratelli martiri:
padre Michele Stallone ucciso nel 1965 e padre Luigi Graiff nel 1981. Nel 1998 cadde anche
padre Luigi Andeni. Missionari uccisi in un clima di "guerra", mentre essi
aiutavano in "pace" la gente e portavano cibo ai bisognosi.

 

 

L’antenna sulle capanne

 

Contese ce ne sono sempre state nel nord del Kenya, soprattutto fra le
tribù. Noi samburu, ad esempio, non mangiamo con i turkana, perché ce lo vieta la
tradizione che abbiamo ereditato dai nostri padri. Ricordo anche i bellicosi ngorokos e le
azioni di banditismo dei somali.

Ma ben altri sono gli scontri con operazioni tipicamente militari; sono
soldati che combattono altri soldati. E lo stato centrale ha le sue responsabilità.

Un proverbio recita: "Se chiudete la bocca al popolo, ne armate la
mano". Ecco allora che la lotta nel nord del Kenya è diventata una "guerra
civile". Lo stato, invece di garantire alla gente sicurezza e speranza di
vita, mette a disposizione fucili. Una nota preoccupante nei conflitti samburu è
la "giovinezza": la violenza è diventata un modo di vivere per i giovani; sono
ragazzi disoccupati che non hanno nulla da perdere e, di conseguenza, non posseggono né
etica né disciplina. Ma non si tratta di lotte tribali per impossessarsi di mucche o di
sorgenti d’acqua, bensì di banditi organizzati per un fine politico. Tra i rovi del
deserto si aggirano uomini con fucili a tracolla. In tale situazione la cultura samburu è
davvero a rischio. Finora i samburu, pur cambiando, hanno sostanzialmente conservato
l’identità culturale (tanto da essere subito riconosciuti) e il senso di libertà.
Invece altri gruppi hanno subìto in modo violento le spinte del cambiamento: coinvolti
nel processo di urbanizzazione, hanno perso le loro radici.

Quindi i samburu potrebbero rappresentare un esempio di mutamento
positivo (persino nella religione), conservando tuttavia i tratti culturali fondamentali.
Alcuni sono diventati cristiani, lavorano in città, dirigono piccole aziende, ma restano
samburu. Inoltre si sostengono a vicenda. Ognuno ha diritto alla propria libertà di
pensiero, purché non vada contro il bene comune. Al centro c’è la persona: tutto ruota
attorno ad essa e alla vita. Questo almeno fino a ieri.

Oggi però anche i samburu sono a rischio, perché c’è il miraggio
del benessere.
Tutto si sta sgretolando, mentre l’individuo cerca di realizzarsi
fuori della comunità. Il problema grave è che, al presente, la popolazione è "in
guerra" per divenire più potente e ricca. Quando un giovane samburu lascia il
villaggio per motivi di studio o lavoro, al ritorno a casa non si trova più a suo agio,
non è più uno di "loro": non va ad attingere acqua con i compagni, non segue
il gregge al pascolo. Forse il nuovo comportamento è determinato dal fatto che il ragazzo
non ha ricevuto l’educazione tradizionale. Infatti alcuni giovani non ascoltano più gli
anziani (che sono emarginati); invece sono impegnati nell’ascolto della radio e,
possibilmente, della televisione.

Su alcune capanne svetta persino l’antenna parabolica. Solo
musica. La cultura tradizionale tace. Ha voce solo l’immediato, l’economico.

Questo è il rischio che stiamo vivendo: essere individui che cercano
solo di avere di più e a prezzi facili. E dove finiremo con i nostri traumi?

 

 

(*) Padre James Lengarin, primo missionario della Consolata
"samburu" (Kenya). Ha studiato a Londra e Roma. Oggi svolge animazione
missionaria a Galatina (LE).

 

Articolo 7

 

San Vicente/Puerto Leguízamo (Colombia)

 

Nell’inferno della coca

 

 

"Io vorrei maledire la coca. Invece i veri maledetti

siamo noi. Ci siamo lasciati ingannare

dal miraggio di quelle foglie…".

 

 

di Javier Francisco Múnera (*)

 

Mi sento sinceramente un po’ a disagio con il titolo
"nell’inferno della coca", perché io ci vivo. Ma per me non è un inferno,
anche se potrebbe apparire tale. Quindi mi permetto di cambiare il titolo con
"Colombia: tensione armata e coca; la sfida della pace e dell’armonia con il
creato".

In Colombia, in un conflitto sociale che dura da oltre 50 anni e che
non si riesce ancora a risolvere, la pace è la nostra sfida più grossa. Impegna le
migliori risorse anche nel vicariato apostolico di San Vicente/Puerto Leguízamo.

 

 

Intreccio di armi e droga

 

Il vicariato ricopre un’area di circa 100 mila chilometri quadrati, con
quattro comuni principali: Cartagena del Chairá, Solano, San Vicente e Puerto Leguízamo.
Un territorio che rivela l’assenza dello stato per tutto ciò che riguarda i servizi
e le infrastrutture, nonché per i costanti scontri. L’attuale popolazione proviene
da altre regioni della Colombia, colpite dalla violenza politica degli anni ’50-60:
ha cercato qui lavoro e rifugio. La nostra regione si caratterizza per la coltivazione
della coca, oltre che per la presenza della guerriglia. I contadini hanno incominciato
lentamente a piantare coca e a vendee le foglie raccolte; hanno imparato a trattarle,
per ricavare la "pasta basica"; questa viene poi raffinata in polvere bianca e
venduta ai commercianti che alimentano i mercati di cocaina in Europa e America del Nord.

Oggi in Colombia (nella nostra zona in particolare) il conflitto
armato e il traffico di stupefacenti si intrecciano,
condizionando la vita della
popolazione e, quindi, anche la nostra presenza pastorale. È un’incredibile sfida
missionaria. Siamo convinti che solo la via del negoziato può aiutarci ad uscire dal caos
in cui annaspa la nazione; non possiamo accettare alcuna soluzione militare, che rechi
altro sangue e sacrifichi nuove vite umane. Riteniamo utile, come male minore, una
"zona di distensione", per realizzare una intesa con i guerriglieri delle Forze
armate rivoluzionarie colombiane (Farc).

Tuttavia la guerriglia è divenuta ormai un "quasi stato",
che domina e controlla il territorio e le persone, non solo nella nostra zona, ma anche
altrove: vi sono tasse, leggi, punizioni, reclutamento di ragazzi e ragazze, lavori
forzati, abusi contro i diritti umani. La gente lo sa: o resta a tali condizioni o se ne
va; non c’è via di mezzo, anche perché il controllo è forte e si esercita maggiormente
nelle aree rurali.

Un esempio: quest’anno a Remolino non si è celebrato il natale,
nonostante che i padri Giacinto Franzoi e Beppe Cravero avessero preparato la comunità.
La comandante guerrigliera Jessica, infatti, aveva ordinato alla gente di rimanere in
piazza per il "carnevale", durato tre giorni. I missionari avevano chiesto due
ore per poter almeno celebrare la messa di natale; ma la richiesta non fu accolta…
L’aspetto peggiore dell’episodio è che la gente non ha avuto la capacità di
reagire,
di resistere al sopruso della guerriglia.

Come missionari, dobbiamo educare tutti alla pace e alla
riconciliazione. La popolazione ha fiducia nella chiesa, anche se conflitti armati e
traffici di coca hanno soffocato i valori di convivenza sociale tipici di un tempo. Si
vive in una situazione assai confusa di "legalità illegittima", e i riferimenti
ai valori umani e cristiani non sono all’ordine del giorno. Però io credo che ci sia
ancora spazio per continuare a seminare, con più capacità "profetica", tutti
insieme e come équipes ecclesiali.

Il problema rende necessaria la formazione per il coinvolgimento
sia nel processo di pace sia nella costruzione di nuove forme di convivenza sociale, per
divenire più responsabili. Pertanto abbiamo iniziato, con altre diocesi, le "scuole
di pace",
affrontando temi importanti e fondamentali: identità e appartenenza
(necessarie dove il tessuto sociale è molto fragile); conflitti sociali e il loro
ragionevole superamento; partecipazione politica. Il tutto illuminato dalla bibbia e dal
magistero sociale della chiesa.

 

 

A mani vuote

 

L’altro grande conflitto che colpisce la nostra regione è quello della
coca. È un fatto grave, che si inserisce nella storia e nell’economia di uno sfruttamento
selvaggio che ha ferito e ferisce l’Amazzonia, creando un profondo squilibrio tra
persone e "habitat".

Dalla coltivazione della coca, dal suo mercato e traffico
internazionale traggono grandi guadagni anche diversi gruppi armati. In particolare, nella
nostra regione, sono le Farc che controllano il commercio della polvere di coca; e non si
può negare che, nelle aree di loro dominio, è aumentato il numero degli ettari
coltivati. Sono loro che decidono i prezzi e a chi vendere la "neve bianca". Ma
c’è anche un versante positivo: le Farc hanno obbligato a seminare mais, riso,
platano, iucca, perché la gente pensava solo alla coca.

Tuttavia resta l’"economia illecita" della coca. Su di
essa si sono scaricate le politiche errate dello stato centrale, ricattato dagli Stati
Uniti, con metodi repressivi. Ma le fumigazioni dei campi di coca e i prodotti chimici non
sono serviti a nulla; anzi, hanno compromesso l’ambiente, favorendo la deforestazione
dell’Amazzonia. Da registrare anche danni irrimediabili alle acque.

C’è il probema della cocasa: pare che questo sottoprodotto
(un residuo della lavorazione delle foglie di coca) contenga un elevato tasso di piombo,
con il rischio che sia assimilato da altre colture, i cui frutti sono di largo consumo
(pomodori e verdure varie). L’impatto su donne e bambini, destinati alla raccolta e
soprattutto alla lavorazione degli avanzi di coca, è nefasto, perché sono a contatto
(senza alcuna protezione) con prodotti chimici nocivi alla salute.

Spesso la popolazione è coinvolta in tale lavoro più per necessità
che per volontà: praticamente viene costretta, altrimenti non potrebbe sopravvivere. Mancano
le condizioni per una economia sostenibile con altri prodotti:
la scarsità di vie di
comunicazioni e di centri di raccolta fanno sì che si perdano tanti prodotti, mentre i
contadini non trovano un appoggio statale valido per rendersi autonomi con altre risorse.
E i soldi che entrano nelle tasche dei coltivatori di coca non giovano a nulla, perché
non recano né benessere né sviluppo; invece aumentano gli alcornolizzati e i prodotti di
lusso, totalmente non necessari. La qualità di vita non è migliorata; al contrario,
tutti gli articoli di prima necessità costano cari. L’economia della coca si è riversata
come una maledizione sui nostri contadini.

Ecco la testimonianza di un’anziana: "Di fronte al dolor

Giacomo Mazzotti




Indios di Roraima, Brasile. ANCHE GLI ANGELI PERDONO LE ALI

L’ennesima lotta per non scomparire e l’impegno della chiesa del Consiglio indigeno di Roraima

Articolo 1

Area
indigena «Raposa Serra do Sol»

Gli
indios nella morsa dell’esercito

del
Consiglio indigeno di Roraima

Gli indios
brasiliani di Roraima sono, ancora una volta, sul piede di guerra. I
macuxí, wapixana, ingaricó, patamona e taurepang, che abitano la regione «Raposa
Serra do Sol», stanno affrontando una nuova battaglia politica e legale.
Questa volta contro l’esercito nazionale e le sue caserme. Il luogo della
discordia (o dell’aggressione da parte dei bianchi) è il villaggio di
Uiramutã.

La
caserma ad ogni costo

Il
progetto «Calha Norte» prevede oggi anche una base militare nel villaggio
degli indios macuxí di Uiramutã. Ma la risposta della comunità locale e di
quella delle montagne non si è fatta attendere: sono ricorse alla
giustizia per impedire la costruzione della struttura dell’esercito.

I macuxí
sono molto preoccupati, specialmente dopo le denunce dei yanomami di abusi
sessuali e distribuzione di armi da parte dei militari nei villaggi
indigeni. La costruzione della caserma è un ulteriore attentato alla
cultura degli indios e una violazione dei diritti costituzionali in
Brasile.

La
tensione è alta a Uiramutã, poiché l’esercito sembra deciso a costruire la
caserma ad ogni costo.

Nel
novembre scorso l’esercito incominciò a spianare l’area, a soli 100 metri
dalle abitazioni macuxí, e i capi indigeni fecero ricorso alla giustizia
per fermare i lavori. Ma l’Avvocatura generale dell’unione (Agu), che
difende i militari, si appellò contro le decisioni favorevoli agli indios.
L’ultima sentenza della Corte federale di Brasilia ha previsto che
l’esercito individui con le comunità indigene il luogo più appropriato per
la costruzione della caserma. Ma finora i militari non hanno preso alcuna
iniziativa per arrivare ad un accordo.

L’Agu, con
il ricorso contro la decisione della Corte, ha rivelato che i militari non
hanno alcuna intenzione di trattare con gli indios. Il generale Claudimar
Nunes Magalhães, comandante della prima brigata della «selva», non crede
nel dialogo con i leader indigeni. «Qualsiasi luogo noi scegliamo – ha
detto – a loro non va bene» (Brasil Norte 19/01/2001).

D’altro
canto, in febbraio, i capi di tutte le etnie indie del Brasile si sono
riuniti: hanno inviato un documento alle autorità denunciando gli abusi
dei militari contro i yanomami e chiedendo di partecipare alla decisione
circa il luogo dove costruire la caserma nella regione Raposa Serra do
Sol.

Il 21
febbraio rappresentanti della Giustizia federale, politici e ufficiali
dell’esercito hanno visitato Uiramutã e il villaggio di Maturuca, dove
hanno incontrato i responsabili del Consiglio indigeno di Roraima (Cir).
Questi hanno sostenuto che la costruzione di una base militare a Raposa
Serra do Sol non è necessaria, poiché esistono già due unità militari
lungo i confini della regione. L’incontro non ha portato ad alcuna
soluzione.

Il 18
marzo il ministro della Difesa, Geraldo Quintão, ha dichiarato alla stampa
nazionale che l’esercito è determinato a costruire la base a Uiramutã,
nonostante l’opposizione indigena. Il giornale O Globo ha rivelato che i
militari ritengono impensabile una decisione finale della Corte, contraria
alla costruzione della caserma (O Globo 18/03/2001).

Inoltre a
Roraima Quintão ha affermato che la demarcazione dell’area yanomami è
stata un errore e si è dichiarato contrario ad altre demarcazioni di terre
indigene in aree uniche (non a macchia di leopardo), riferendosi proprio a
Raposa Serra do Sol (O Estado de São Paulo, 22/03/01).

Il
«municipio bianco» a Uiramutã

La
demarcazione della terra indigena Raposa Serra do Sol è considerata da
varie organizzazioni ambientaliste e dei diritti umani l’emblema della
politica governativa brasiliana circa i diritti indigeni, soprattutto il
diritto alla terra.

L’area
Raposa Serra do Sol occupa 1.651.300 ettari nel nord orientale di Roraima
ed è abitata da oltre 15 mila indios macuxì, wapixana, ingaricó, patamona
e taurepang.

La
demarcazione di questa zona è stata apertamente e costantemente combattuta
dal governo e dai parlamentari di Roraima, anche con mezzi illegali (ad
esempio, la strumentalizzazione di capi indigeni), onde bloccare la
conclusione del processo di delimitazione del territorio. È dal 1998 che
l’atto finale è fermo negli uffici della Presidenza della repubblica, a
causa delle pressioni dei politici.

Vari
gruppi economici e politici, con interessi in Amazzonia, seguono con ansia
gli sviluppi della situazione a Raposa Serra do Sol, sperando in un
«precedente giuridico» che li aiuti a contrastare altre demarcazioni di
aree indigene.

Nel 1997
il governo di Roraima fece pressione per l’installazione del «municipio
bianco» a Uiramutã, nella regione delle montagne, come strategia per
destabilizzare il movimento di demarcazione e per frammentare il
territorio indigeno.

Il
municipio è stato la fonte di costanti aggressioni contro gli indios, di
invasione dei loro territori e di divisione tra i villaggi. Il Consiglio
indigeno di Roraima ha lottato legalmente per annullare il municipio,
installato al contrario per vie illegali. La sede, nel cuore del villaggio
di Uiramutã, esprime la politica di soffocamento contro le società
indigene praticata dal governo di Roraima.

La
prefettura di Uiramutã ha costruito altri edifici pubblici fra le
abitazioni macuxí e ora rivendica che il villaggio sia riconosciuto come
vila (cittadina dei bianchi) e addirittura come città. Ma vi sono solo 110
non-indios a Uiramutã, contro 380 indios. Oltre alle costanti minacce ed
aggressioni fisiche contro gli indios, i non-indios commerciano bevande
alcornoliche, responsabili della distruzione fisica, sociale e culturale
delle comunità.

È in
questo contesto che si colloca la costruzione della caserma, senza il
consenso degli indios. La struttura consoliderebbe l’invasione del
villaggio e, inoltre, costituisce una violazione del diritto
costituzionale delle società indigene a conservare i propri costumi,
lingue, credenze e tradizioni, nonché il diritto originario sulle terre
dove vivono da sempre. Oltre a questo, preoccupa gli indios la recente
denuncia dei capi yanomami di irregolarità commesse dai militari nella
base di Surucucus.

I yanomami
accusano soldati e ufficiali di abusare sessualmente delle loro donne e di
distribuire armi da fuoco e munizioni agli uomini. Il che aumenta le
aggressioni fisiche tra i villaggi rivali.

I capi
indigeni di Roraima non vogliono che questa storia si ripeta in altre
comunità e temono che la presenza di militari nei pressi dei villaggi
generi prostituzione e alcornolismo.

I tuxáuas
(capi) di Raposa Serra do Sol non sono contrari alla presenza
dell’esercito in Amazzonia, ma non vogliono caserme dentro o nei pressi
dei villaggi indigeni. Un’eventuale caserma dovrebbe essere costruita
lontano dalle comunità, per evitare i problemi vissuti dai yanomami.

L’esercito
finora si è rifiutato di discutere la scelta di un altro luogo per la
base. Secondo il colonnello Roberto De Paula Avelino, responsabile del
progetto Calha Norte, il problema non può dipendere da questioni indigene
e territoriali. A suo parere, le uniche preoccupazioni riguardano la
sovranità nazionale e lo sviluppo regionale. «Spero che nei prossimi 18
mesi la caserma di Uiramutã sia in funzione» ha affermato il militare in
un’intervista alla stampa. Significativo il titolo: «Calha Norte non bada
alla questione indigena in Roraima (Folha de Boa Vista, 5/12/2000).

Complici i cercatori d’oro

Il
villaggio di Uiramutã sorge nella regione delle montagne, una delle
quattro aree che formano la Raposa Serra do Sol, a poca distanza dal fiume
Maú, al confine tra Brasile e Guiana. Sul finire degli anni Cinquanta, i
garimpeiros (cercatori d’oro) si installarono nel cuore del villaggio, a
fianco pure della casa del vecchio tuxáua José Massaranduba, che vive
tutt’oggi in loco.

La
presenza di garimpeiros ha causato l’oppressione e disgregazione della
comunità attraverso l’alcornolismo, la prostituzione, gli omicidi, lo
sfruttamento della manodopera indigena, insieme ad una lunga serie di
violenze culturali e fisiche. Poi, con il fallimento del garimpo (miniera
d’oro) nella regione, gli invasori se ne sono andati. Sono rimasti solo
pochi avventurieri.

Agli inizi
degli anni Ottanta la comunità indigena, già rafforzata dal movimento di
recupero socioculturale nei villaggi e dalla lotta per la terra, riuscì a
controllare il viavai di estranei.

Intanto, a
partire dal 1985, si è assistito ad una nuova invasione di garimpeiros in
territorio yanomami, attratti sempre dalla corsa all’oro. Tale invasione
fu favorita dallo stesso governo di Roraima che, tra i vari provvedimenti,
aprì una strada per facilitare l’«integrazione» del territorio isolato. Il
villaggio di Uiramutã è stato nuovamente circondato da garimpeiros. I
nuovi invasori hanno aperto bar e postriboli vicino alle case degli indios.
E le comunità indigene della regione sono state colpite da malaria,
malattie respiratorie, come pure da aggressioni fisiche che causano molti
decessi.

Però, in
questa circostanza, gli indios erano più organizzati e coscientizzati
rispetto al passato. La presenza di garimpeiros li ha stimolati a
sollecitare un urgente e quanto mai necessario riconoscimento ufficiale
della loro terra.

Nel 1993
la Funai (Fondazione nazionale dell’indio) concluse e fissò il processo di
identificazione e demarcazione del territorio macuxí, ingaricó, taurepang
e wapixana e lo consegnò al ministro di Giustizia. Il fatto suscitò, da
parte del governo locale, proteste, minacce e tentativi di consolidare
l’invasione. Fra questi vi fu la costruzione della diga del Tamanduá, sul
fiume Cotingo, che gli indios contestarono con successo.

La
creazione del municipio di Uiramutã è stato l’ennesimo stratagemma
politico del governo di Roraima per impadronirsi del territorio.

Gli indios
hanno denunciato l’imposizione della struttura «bianca» nel villaggio di
Uiramutã e il Consiglio indigeno di Roraima è ricorso alla giustizia
contro la creazione illegale del municipio. Il processo è ancora in alto
mare e si aspetta la decisione definitiva di Brasilia.

Nella
regione, tra il 1997 e il 1998, la reazione degli indios portò
all’espulsione dei garimpeiros dall’area e la chiusura dei garimpos, che
costituivano insieme al settore terziario l’unica fonte di rendita per il
municipio. Al presente ci sono solo i salari dei dipendenti del municipio
a sostenere la «cittadina».

Si sappia
che le comunità indigene delle montagne hanno al presente il controllo di
quasi tutte le terre che dovevano teoricamente appartenere al municipio.

La corruzione dei capi

Uiramutã è
un villaggio che comprende due realtà diverse: il centro tradizionale
(chiamato vila), invaso dai bianchi, e il centro recente.

Il centro
tradizionale è una fascia di terra delimitata, da ovest ad est, da due
igarapés (torrenti), che confluiscono nello stesso punto dopo le ultime
case. Il territorio misura circa 1.000 metri di larghezza sul lato ovest,
300 sul lato est e circa 1.300 metri di lunghezza (vedi cartina). Tra i
due igarapés vivono 26 famiglie macuxí. Fra loro si trovano pure 31
famiglie di non-indios, per un totale di 110 persone.

Il governo
di Roraima ha installato proprio qui la sede del municipio e ha «riempito»
il luogo con le seguenti strutture politiche: una scuola elementare con
otto classi e una media con cinque, più un corso supplementare; un campo
sportivo; una casa di appoggio per l’esercito; due cistee d’acqua; un
palazzo comunale con la «camera dei deputati»; un centro di
amministrazione; un ambulatorio; due generatori elettrici; un
radiotelefono; una casa per «il club delle madri»; un commissariato di
polizia.

Il centro
recente del villaggio (situato lungo il limite settentrionale e
meridionale dell’area invasa e da essa separato solo dai due igarapés), è
amministrato dal tuxáua Orlando Pereira, figlio di Massaranduba. Qui si
contano 74 case, con un totale di 380 persone. Il centro possiede una
scuola con 83 alunni e diversi insegnanti indigeni, un ambulatorio, acqua
canalizzata, una chiesa cattolica, tre retiros per l’allevamento del
bestiame e 56 piccole piantagioni. La comunità indigena (e le sue
abitazioni) è circondata quasi totalmente dal complesso di edifici
costruiti dal governo. A lato dell’agglomerato delle case del villaggio,
c’è la sponda dell’igarapé meridionale, dove i militari vogliono costruire
la loro caserma. La distanza della base militare dalla casa indigena più
prossima è di appena 100 metri.

Nella
regione i rapporti tra indios e non-indios sono stati sempre tesi e
pericolosi per gli indigeni e i loro alleati. Basta ricordare alcuni
episodi recenti: il rogo di tre case indie a Uiramutã; l’invasione nel
1999 da parte di abitanti della vila del vicino villaggio di Weilimon, in
seguito al tentato omicidio del leader Paulo; il tentativo di pugnalare il
segretario generale del Cimi, Egon Eck.

Ma ancora
più grave è il fatto che il governo di Roraima abbia cornoptato e ingaggiato
alcuni leader indigeni con stipendi e promesse di ricchezza. Questi si
sono schierati addirittura contro i propri diritti e dei fratelli,
arrivando a chiedere la demarcazione di una superficie inferiore a quella
che la stessa legge loro garantisce, nonché il ritorno dei garimpeiros,
l’espansione della vila e, oggi, la costruzione della caserma a Uiramutã.

La
cornoptazione è stata la strategia principale, adottata dall’attuale
governatore dello stato di Roraima, per destabilizzare il movimento
indigeno e impedire l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do
Sol.

Articolo 2

Ladri,
corrotti e «viados»

di Carlo
Miglietta (*)

Boa
Vista, capitale dello stato di Roraima. Scendendo dall’aereo, il primo
assaggio del clima è tremendo. Fa molto caldo; soprattutto c’è un’umidità
che ti fa sembrare di camminare… nell’acqua calda! I missionari della
Consolata, venuti ad attenderci, ci prendono in giro: «Ma se è inverno!
Siamo nei mesi freschi delle piogge».

Ci
sorprende che ad attenderci non ci sia l’amico padre Silvano Sabatini.
Però subito ne comprendiamo il perché. La città è tappezzata di manifesti,
stampati dal governo e da fantomatiche associazioni di commercianti e
agricoltori, che attaccano i missionari e la Funai (Fondazione nazionale
dell’indio) per la loro difesa degli indios.

Alcuni
cartelloni recitano: «La Funai genera miseria e conflitti!»; «No alle
demarcazioni delle terre! A “isole” sì, ad “area continua” no!»; «Il
Brasile è dei brasiliani e non degli indios»; «La diocesi deve
catechizzare, non terrorizzare»; «La chiesa è contro la società»…

C’è lotta
senza quartiere tra i missionari (che premono perché le terre indigene
siano demarcate come aree continue, secondo la Costituzione brasiliana del
1994, e il governo locale, in mano alla lobby dei fazendeiros, che accetta
solo la demarcazione del territorio «a isole» (cioè a pezzetti),
accerchiate da grandi fazendas pronte ad inglobarle… Sui muri vistose
scritte: «Preti ladri, corrotti e travestiti! (viados)».

Padre
Sabatini è uno dei «ricercati», ed è meglio che non si faccia vedere in
giro. Il suo libro Massacre (1998) ha inchiodato, con nomi e testimonianze
precise, gli autori dell’uccisione di padre Giovanni Calleri e di numerosi
indios: militari, personaggi di compagnie minerarie e di sètte
nordamericane fiancheggiatrici.

Missione
di Calungá, alla periferia di Boa Vista. È anche la sede provinciale dei
missionari della Consolata. E qui abbracciamo finalmente padre Silvano,
che ci aggioa sulla situazione molto tesa.

Il diritto
degli indios alla demarcazione delle loro terre indigene è rimasto
disatteso. Bianchi, fazendeiros ed enti minerari hanno depredato gli
indios delle loro terre, massacrandoli con mitragliatrici e bombe,
inquinando i fiumi con derivati mercuriali, diffondendo malattie contro
cui gli indios non hanno difese immunitarie. In una trentina d’anni, da
300-400 mila sono passati a poche decine di migliaia.

Il governo
di Roraima, dato che i potenti fazendeiros non hanno alcuna voglia di
abbandonare (neanche dietro indennizzo) le aree da essi arbitrariamente
occupate, cerca addirittura di aumentare la presenza dei bianchi nelle
aree indigene, per rendee ancora più difficile l’espulsione. A tal fine,
ha favorito l’immigrazione di contadini del nordest, soprattutto del
Maranhão. In queste regioni era iniziata una timida assegnazione di terre
ai contadini, senza dotarli delle necessarie infrastrutture (trasporti,
scuole, ospedali): il contadino, che si è visto dare un terreno a 400-600
chilometri dalla città, ma senza mezzi per raggiungerlo, non sapendo come
vendere i raccolti, ha accettato la misera offerta del latifondista; e
dotato di grossi camion e aerei per i trasporti, con pochi soldi si è
visto di nuovo legalmente proprietario di tutti i terreni.

Il governo
di Roraima concede ai contadini poveri 100 metri quadrati di terra a Boa
Vista per costruire una baracca; ed essi vi giungono a frotte dal nordest.
Così la città è cresciuta, in una decina d’anni, da 70 mila a 360 mila
abitanti: tutti baraccati, senza fogne, con la luce rubata attraverso
allacciamenti di fortuna, con acqua solo se, scavando nel terreno, c’è la
ventura di trovarvi un pozzo.

Il governo
di Roraima ha indetto, contro la demarcazione delle terre, la «marcia in
difesa dello stato», favorendola in ogni modo con trasporti gratuiti e una
giornata di libertà per i dipendenti della pubblica amministrazione. La
Folha de São Paulo ha scritto che vi hanno partecipato 30 mila persone,
ma, secondo il giornale locale O Correio, la manifestazione è stata un
fiasco, con non più di 3 mila persone.

Visitiamo
l’ospedale infettivologico per gli indios, a pochi chilometri da Boa
Vista. È stato costruito dai missionari della Consolata a misura di indio:
come «reparti» ci sono «maloche», le tipiche costruzioni a capanna
plurifamiliare, e come letti le immancabili amache. Gli indios possono
cucinarsi il cibo secondo le proprie usanze; dispongono di locali per
lavori artigianali anche durante il ricovero; hanno possibilità di
alfabetizzarsi… L’ospedale è diretto da Renato, un avvocato brasiliano
di origine tedesca, anch’egli nel mirino della repressione, e vi operano
part time un medico colombiano e un radiologo venezuelano. Malattie più
frequenti: tbc, malaria, varicella, morbillo, che colpiscono gli indios in
forme devastanti.

Un
cruciale problema per l’ospedale sono i finanziamenti: lo stato, che
dovrebbe mantenerlo in convenzione, paga… qualche volta. Tempo fa i
missionari sono stati costretti a chiuderlo e a portare gli infetti
all’ospedale statale ottenendo… l’immediato pagamento degli arretrati.

Eucaristia
nella cappella (anche questa a forma di maloca) nella missione di Boa
Vista. Padre Silvano ricorda con viva commozione Micarnela, mancata un anno
fa, indicandola come vera «santa missionaria», per avere fino all’ultimo
pensato ai fratelli e alla missione, nonostante la sua gravissima
malattia.

Pure noi,
anche guardando il sacerdote celebrante, siamo commossi: padre Silvano,
dopo 79 anni di «intemperie», è cieco! Ma la mente, lucidissima, vede
sempre lontano e il cuore è appassionato… Preghiamo per gli amici di
Torino, i familiari, i sostenitori degli indios.

(*) Carlo
Miglietta è medico a Torino. Si è recato due volte nella zona di Roraima,
l’ultima delle quali per accompagnare gli inviati del settimanale
«Famiglia Cristiana».

Articolo 3


Surumú – Maturuca


Storia di liberazioni

di
Benedetto Bellesi

Una
volta si vergognavano di sentirsi indios; oggi si sono riappropriati delle
loro terre, dignità e valori culturali. È una lotta infinita, combattuta
su due fronti: contro l’oppressione estea e schiavitù intee, come
alcornolismo e dipendenza. Da 40 anni i missionari della Consolata camminano
con gli indigeni di Raposa Serra do Sol, aiutandoli a confrontarsi con la
parola di Dio, a cui traggono ispirazione e forza per continuare il loro
processo di riscatto.

Prima di
mettersi al volante padre Giacomo Mena si toglie le ciabatte e infila i
piedi nudi nelle scarpe d’ordinanza. «Meglio bollenti che una grana con la
polizia – spiega -. Non conviene farsi prendere in castagna, specie in
questi giorni in cui tutti cercano appigli per sbattere la chiesa in prima
pagina». Un bel segno di croce e ci mettiamo in viaggio per Surumú e
Maturuca. «Il Signore ce la mandi buona» continua, con un augurio che
vuole essere anche una preghiera.

Lasciata
alle spalle Boa Vista, infiliamo la statale che conduce in Venezuela.
L’asfalto invita a pigiare sull’acceleratore; ma per un’ora e mezza, un
occhio alla strada e l’altro al contachilometri, l’autista rispetta con
scrupolo i limiti di velocità. Poi svolta a destra, su uno stradone
sterrato. «Ora siamo al sicuro» afferma il padre con un sorriso soione:
ferma l’auto, rimette le ciabatte e riparte a tutto gas.

Padre Mena
non è fanatico di regole e comandamenti. Nato a Chiari (Brescia) 60 anni
fa, metà della vita spesa in Brasile, conosce bene la situazione e,
piccolo ma furbo quanto basta, sa dove finisce la sfida e inizia la
prudenza. «Sicuri dalla polizia, non da peggiori incontri – continua
sorridendo sotto i baffi e sbirciando di traverso per vedere la mia
reazione -. Qui si sa quando si parte, ma non quando e se si arriva a
destinazione. Preti e suore sono nel mirino di pistoleros pagati dai
fazendeiros. La situazione, ora, sembra calma; ma non si è mai sicuri al
cento per cento».

SPECIALISTI DEL PROGRESSO

Il viaggio
continua, invece, liscio come l’olio e dopo un’altra ora buona siamo a
Surumú: la vila (villaggio dei bianchi) è sotto l’amministrazione
regionale; la missione si trova nella riserva Raposa Serra do Sol.
«Abbiamo i piedi su due staffe – spiega suor Leta, missionaria della
Consolata -. E ciò crea una certa tensione. I bianchi non ci sopportano,
perché difendiamo gli indios; noi boicottiamo le loro botteghe, perché
vendono alcornolici agli indigeni».

La
missione di Surumú, la prima fondata tra gli indios della savana (1951), è
stato il centro della riscossa indigena. Iniziò con la scuola elementare e
inteato per una trentina di alunni, poi è stata adattata alle varie
esigenze della popolazione indigena, diventando centro di formazione per
leaders e capi indigeni; oggi è una specie di università agricola.

«Con la
demarcazione della riserva e il graduale recupero della terra – spiega
suor Leta, incaricata della formazione di questa scuola -, c’è bisogno di
gente capace di difendere i propri diritti e promuovere l’autonomia
economica delle comunità. Cinque anni fa, nella loro assemblea annuale, i
tuxáuas hanno chiesto ai missionari di assumersi questa responsabilità».

Un’équipe
di missionari e professori di antropologia, diritto, tecnica agricola ha
progettato un programma di tre anni e si è messo subito al lavoro. Una
trentina di giovani hanno già concluso i corsi e si sono reinseriti nelle
rispettive comunità.

Le
principali materie di studio riguardano la tecnica agricola e agropecuaria;
la formazione è integrata con lezioni di antropologia e diritto, perché
gli alunni conoscano e apprezzino i valori culturali dei vari gruppi
etnici, imparino a fronteggiare uniti le sfide che li aspettano in futuro.
Qualche volta padre Giorgio Dal Ben porta a scuola i tuxáuas, che
raccontano agli studenti il cammino di lotta che stanno percorrendo per
riacquistare la loro dignità. Così la memoria storica viene tramandata di
generazione in generazione.

Alle
lezioni teoriche segue la pratica. La missione ha un esteso campo, dove i
giovani coltivano fagioli, mais, orzo; un frutteto con banani, manghi,
aranci, limoni; stalle con mucche, porci, galline. Fa impressione vedere
ragazze maneggiare zappe, concimi e tritaforaggio. «Anche le ragazze
frequentano questa scuola – spiega la suora -. Fa parte della loro
cultura: è la donna che coltiva i campi».

Entro
nell’aula scolastica, dove il professore Martino sta tenendo una lezione
di apicultura. Gli alunni sono attenti e non badano alla nostra
intrusione. «Sono affamati di sapere – continua suor Leta – e
impegnatissimi». Quasi tutti hanno solo la licenza elementare; nei ritagli
di tempo si preparano privatamente per conseguire il diploma statale di
secondo grado. Spesso accompagnano il professor Martino nelle varie
malocas, per esaminae i terreni e studiae le possibilità di
coltivazioni. Un mese fa hanno filmato il loro lavoro: un trapianto di
banani, con relative spiegazioni su qualità del suolo, malattie, cure e
concimazione. Poi hanno proiettato la cassetta in una maloca, imparando
così a trasmettere agli altri ciò che apprendono.

Suor Leta
confessa che anche lei ha molto da imparare da questi giovani. «Quando
arrivai a Surumú – racconta – in questa veranda c’erano sempre otto grossi
rospi, nonostante i sette gatti e quattro cani che girano per casa; finché
una ragazza sparse un po’ di sale sul pavimento e i rospi sparirono. “Oggi
ho appreso una cosa nuova: come ammazzare i rospi” dissi. “I rospi non si
uccidono, suora” rispose la ragazza. Oltre a imparare che il sale
impedisce la respirazione dei rospi, ricevetti una bella lezione di
ecologia: il rospo mangia insetti e scarafaggi; il gatto mangia il topo, i
cani allontanono i serpenti… Nella cultura indigena ogni creatura ha il
suo posto nell’equilibrio della natura».

AGENTI DI SALUTE

Altro
fiore all’occhiello della missione di Surumú è il piccolo, ma
attrezzatissimo ospedale S. Camillo, il primo e l’unico in tutto la parte
settentrionale della riserva Raposa Serra do Sol, la savana di Surumú e
Basso Cotingo e la «regione delle montagne» di Maturuca. Da otto anni lo
dirige suor Teresa, missionaria della Consolata kenyana. Oltre ai vari
reparti, mi mostra con orgoglio il giardino da lei curato, zeppo di alberi
da frutta ed erbe medicinali.

Ma i
frutti più belli del S. Camillo sono gli operatori di sanità, infermieri e
infermiere che già operano in molti villaggi della riserva. «Sono tanti e
ben preparati – spiega suor Teresa -. Se la cavano benissimo nei casi di
ordinaria amministrazione. Per quelli più complicati i pazienti vengono
portati qui, dove sono curati o immediatamente inviati a Boa Vista o a
Santa Eléna, in Venezuela, a seconda dell’urgenza e disponibilità: Boa
Vista è a due ore e mezza di viaggio; il confine venezuelano è
raggiungibile in un’ora».

Fino a
poco tempo fa, suor Teresa era supervisore della scuola infermieristica,
dei centri di salute e scuole della riserva: le visitava periodicamente
con grande beneficio per insegnanti e operatori sanitari. Poi
l’amministrazione regionale ha cominciato a mettere i bastoni tra le
ruote: la suora ha dovuto smettere le sue visite e i corsi di
infermieristica sono chiusi. «I fondi stanziati per l’ospedale sono
bloccati dall’amministrazione di Roraima – spiega sconsolata suor Teresa
-; medici, insegnanti e microscopisti hanno cercato lavoro altrove. Da tre
mesi sto aspettando l’arrivo di sussidi e altro personale per mandare
avanti l’ospedale. Ma sono stanca di sperare. È stanchezza mentale: ogni
progetto viene prima approvato e poi sistematicamente impedito, con grande
danno della popolazione indigena».

È la
strategia messa in atto dalla società locale contro la chiesa di Roraima,
con un continuo stillicidio di attacchi, calunnie, sospetti, minacce,
boicottaggi, fino a veri atti di violenza. «È in corso una guerra di
logoramento – sospira padre Luciano Stefanini (una vita spesa accanto alla
popolazione indigena) -, per costringerci a gettare la spugna nella difesa
dei diritti degli indios; una lotta che assorbe tempo, energie e denaro
per controbattere gli attacchi, anche per via legale, a scapito del lavoro
religioso e formazione della gente».

VIVERE NELLA TERRA PROMESSA

A Surumú
si tengono anche le assemblee annuali, dove i tuxauas della savana e delle
montagne prendono le decisioni più importanti per la vita delle loro
comunità. Storica è stata quella del 1977, quando dichiararono guerra
all’alcornolismo e giurarono di lottare uniti per riscattare terra, cultura
e dignità. Nel presbiterio della chiesa sono ancora appesi i simboli di
tale decisione: un fascio di rami, per indicare che l’unione fa la forza,
e una croce di legno, simbolo della volontà di sacrificarsi per il bene di
tutta la popolazione.

Anche i
giovani hanno assimilato le decisioni dei loro capi; sono consapevoli che
tutti i loro mali sono legati all’alcornolismo, che ubriacarsi significa
abbrutirsi. Per questo gli alunni della scuola di Surumú hanno forgiato
uno slogan e lo hanno inserito nel loro regolamento interno: «Ha bevuto?
Fuori!». Chi beve deve allontanarsi dalla scuola. E vi si attengono con
scrupolosa serietà.

«Qui è
iniziata e continua una storia di liberazione – afferma suor Leta -. Una
volta tutta la regione era in mano ai fazendeiros; gli indios erano alle
loro dipendenze e affogavano le loro frustrazioni nell’alcornol; ora quasi
tutti i bianchi hanno lasciato le fazendas e gli indigeni sono ritornati
padroni della propria terra e del proprio destino. Un conto, però, è
entrare nella “terra promessa”; come viverci è una storia tutta da
inventare».

Articolo 4

Maturuca, scuola di liberazione

Lasciamo
la savana e ci addentriamo nella regione delle serras (montagne). La
strada costeggia fiumi e ruscelli, attraversa amene vallette e e si
arrampica per dorsali scoscesi. Il panorama diventa sempre più vario e
pittoresco: bello da fotografare, affatto comodo per viverci. «Delle 46
comunità di Maturuca – dice padre Mena – non sono molte quelle
raggiungibili per strada camionabile. Alcune sono a 200 km di distanza: se
ne percorre 60 in auto, il resto a piedi. Le visitiamo tutte almeno due o
tre volte all’anno».

Tenendo
conto che, durante il periodo delle piogge, strade e sentirneri sono
impraticabili, rimangono sei mesi in cui è possibile raggiungere le
malocas più isolate. Le visite richiedono fino a due o tre settimane.
Tanto di cappello ai due missionari, Giorgio Dal Ben e Giacomo Mena,
parroco e vice, che in barba all’età, rispettivamente 58 e 60 anni,
continuano con immutato ritmo giovanile.

«Una
volta, per raggiungere un villaggio ingaricó – continua padre Giacomo – ho
impiegato 10 giorni. In un’altra occasione, i miei accompagnatori ogni ora
si fermavano a parlottare, con la scusa di farmi riposare. Dopo mezza
giornata, riuscii a capire che si erano perduti e cercavano punti di
riferimento». In questa regione montagnosa e senza strade anche gli angeli
perdono le ali.

CUORE DEL RISCATTO

Grazie a
Dio, l’auto di padre Mena non ha le ali: al tramonto siamo in vista di
Maturuca. Una corona di alture scintillanti fanno da sfondo a un arioso
anfiteatro, in cui le ombre lunghe degli alberi di mango ed anacardio
nascondono case e capanne disseminate nel pianoro. A parte la scuola, un
edificio ampio e moderno, gli altri fabbricati del villaggio appaiono
poveri e male in aese.

Cuore
della vita economica e sociale della comunità è un ampio piazzale
rettangolare, i cui lati sono delimitati da due casette bianche, sedi
dell’ambulatorio medico e laboratorio di taglio e cucito, da un grande
padiglione a cupola, dove sono raccolti una trentina di agenti di salute
per un corso di aggioamento, e da due file ben allineate e ad angolo
retto di capanne e tettornie, destinate a mercati e fiere nel periodo
estivo.

In
disparte, la vecchia chiesetta, distinta a mala pena da una crocetta di
legno, pendolante dal culmine del tetto. Neppure l’antistante casa dei
padri dà nell’occhio: tre stanzette basse e scure, con mobilia ridotta
all’osso. Unica comodità modea è un paio di pannelli solari che
alimentano le fioche lampadine dell’abitazione e della chiesa.


Disposizione e caratteristiche degli edifici sono significative: la chiesa
riveste un ruolo di presenza, sostegno e accompagnamento del cammino di
liberazione delle popolazioni indigene. Ma protagoniste sono le comunità,
che hanno preso in mano le redini del proprio futuro.

Il cammino
è stato lungo e faticoso ed è ancora tutto in salita. È iniziato alla fine
degli anni ’60, nella maloca di Raposa, nella zona della savana, quando i
missionari della Consolata si schierarono con un capo makuxí, Gabriel
Viriato, nella difesa della sua terra dalle invasioni dei bianchi. Una
vittoria che diede una svolta all’impostazione del lavoro missionario tra
gli indigeni della diocesi di Roraima.

Uno degli
animatori di tale cambiamento è padre Dal Ben, che nella regione di Raposa
fece le prime esperienze e lanciò varie iniziative a favore degli indios;
e quando si trasferì a Maturuca, questa divenne il centro della
liberazione di tutte le popolazioni indigene della riserva Raposa Serra do
Sol: macuxí, wapixana, ingaricó, patamona e taurepang. Qui fu ideata,
discussa e avviata la famosa campagna «una mucca per l’indio»: nel 1979
avvenne la prima consegna di bestiame alla maloca di Maturuca; l’anno dopo
a quelle di Enseada e Petra Branca e negli anni seguenti il progetto fu
esteso a tutte le comunità che ne fecero richista.

Con tale
progetto gli indigeni riuscirono a bloccare l’avanzata dei bianchi nel
loro territorio; con la campagna per la demarcazione della riserva Raposa
Serra do Sol, sempre partita da Maturuca, essi cominciarono a recuperare
le terre perdute.

LOTTA ALL’ALCOOLISMO

«Non siete
troppo coinvolti nel sociale?» domando con una punta di provocazione. «Il
lavoro impostato dalla missione di Maturuca nella regione delle montagne –
comincia padre Mena, serio e composto come non lo avevo mai visto – si
basa sul progetto di Dio, come appare dalle prime righe della bibbia:
“Creati a immagine di Dio”, da cui derivano rispetto, dignità e valore
della propria e altra persona; “crescere e moltiplicarsi”, cioè
organizzazione familiare e comunitaria; “occupare e dominare la terra”,
cioè lavoro e responsabilità individuale e collettiva. Sono i tre pilastri
della nostra attività missionaria, basati sul confronto con la parola di
Dio».

Una delle
prime decisioni prese a Maturuca fu la lotta all’alcornolismo. «Era l’inizio
del 1977 – racconta il maestro indigeno Elias -. Riflettendo sulla parola
di Dio, i nostri tuxauas presero coscienza della necessità di liberarsi
dalla schiavitù dell’ubriachezza, che distrugge l’essere di Dio che è in
noi, oltre a minacciare l’estensione fisica di individui e comunità».
Iniziò così la lotta alla cachaça, una grappa estratta dalla canna da
zucchero e venduta dai bianchi, e al caxirí e pajuarú, micidiali bevande
alcornoliche fatte in casa con la fermentazione della farina di manioca.
L’impegno fu accolto da tutti i tuxauas della riserva indigena
nell’assemblea tenuta lo stesso anno a Surumú.

Nonostante
la buona volontà, non è facile sbarazzarsi delle cattive abitudini
assimilate da oltre mezzo secolo di invasioni, oppressioni, frustrazioni e
abusi provocati dai fazendeiros. Il discorso fu ripreso nel natale 1993:
durante i 15 giorni di riflessione sul primo capitolo della bibbia, i
catechisti di Maturuca si presentarono in chiesa e dissero alla comunità:
«Noi abbiamo deciso di non bere più bevande alcornoliche e vogliamo che
tutta la comunità faccia altrettanto».

Era una
decisione drastica, coraggiosa, quasi una violenza psicologica e
culturale. «È vero che caxirí e pajuarú ci sono stati tramandati dai
nostri antichi – continuarono i catechisti -, ma noi ne abusiamo, fino a
commettere dei crimini. Non dobbiamo più né berle né produrle». Dopo tre
giorni di discussioni e contorsioni, metà della comunità accettò tale
decisione.

«Fu un
grande passo verso la liberazione – racconta Jaime, cornordinatore dei
catechisti di Maturuca -. In un incontro a livello diocesano abbiamo
proposto la nostra scelta ai catechisti di altre parrocchie. La reazione
fu durissima; siamo tornati a casa con la coda tra le gambe. Più positiva,
invece, è stata la risposta delle comunità di Maturuca che, dopo lunghe e
snervanti discussioni, hanno accolto tutte il nostro motto: no alle
bevande alcornoliche, sì all’organizzazione comunitaria».

«Se siano
stati sempre fedeli, non lo posso giurare – aggiunge padre Giacomo,
riprendendo il suo sorriso soione -. Ma il cambiamento è avvenuto,
specialmente negli ultimi anni. La gente ha preso coscienza che l’alcornol
distrugge la vita comunitaria; ha pure constatato che si ammala di meno,
ha più energia per lavorare e più cibo per la famiglia».

LOTTA ALLA DIPENDENZA

Per
recuperare la propria dignità, l’immagine e somiglianza di Dio, è
necessario avere una buona alimentazione, che si ottiene lavorando e
producendo con le proprie mani. Madre natura è particolarmente prodiga in
questa regione: fiumi, ruscelli e sorgenti dappertutto, foreste e
praterie, terreno per allevamenti, orti, frutteti, piantagioni.

Inoltre,
con la demarcazione di Raposa Serra do Sol, quasi tutto il territorio
indigeno è ritornato nelle mani delle varie etnie. Ora la gente è libera
di stabilirsi dove vuole, con l’autorizzazione dei capi villaggi,
naturalmente, poiché la terra, secondo la cultura india, appartiene alla
comunità. Ma bisogna farla rendere.

«Il lavoro
– continua il padre – risolve un’altra piaga secolare degli indios: la
dipendenza dal bianco». Anche oggi, con la cosiddetta «cesta basica»,
pacco di alimenti, vari politici corrompono e manipolano a piacere alcuni
gruppi indigeni rimasti fuori dal processo di liberazione, fino a far dire
loro quello che vogliono contro la chiesa e quelle organizzazioni indigene
schierate contro la politica ufficiale.

Per
sciogliere il legame della dipendenza, padre Mena vuole introdurre nella
regione delle montagne le cornoperative o botteghe di generi di prima
necessità. L’iniziativa non è nuova; già negli anni ’70 padre Giorgio
l’aveva lanciata con otto comunità della zona di Raposa e ripetuta a
Maturuca; ma è stato un fallimento: la gente comprava la merce a credito e
finiva per non pagare più. Da una decina di anni non ne esistono più e gli
indios continuano a dipendere dai bianchi, fazendeiros e commercianti
delle vilas.

Altro
sogno di padre Mena è recuperare i vecchi crediti delle cornoperative
fallite. Un’operazione del genere è riuscita con le donne della scuola di
taglio e cucito: con il capitale recuperato sono stati aperti altri
laboratori di cucito in varie malocas che hanno chiesto e sottoscritto le
regole del gioco. «Anche questo è un modo di aiutare la gente a recuperare
dignità, libertà, indipendenza e responsabilità comunitaria. Storia e
cultura li hanno abituati a vivere alla giornata. Ma hanno cominciato a
pensare al futuro: calcolare spese, costi di produzione e guadagni,
risparmiare e capitalizzare per ulteriore sviluppo, prevedere manutenzione
e riparazioni».

Lo stesso
senso di responsabilità è richiesto nei progetti di allevamento del
bestiame. Quando in un villaggio la mandria assegnata non aumenta o
addirittura diminuisce, gli animali vengono ritirati consegnati ad
un’altra comunità, che s’impegna a «recuperare il progetto», cioè
riportarlo il più presto possibile al numero originario: 50 mucche e due
tori. Recuperato il bestiame, la comunità può chiedere di continuare o
passarlo a un’altra maloca.

LA FORZA DELLA COMUNITÀ

E tutto
avviene attraverso l’organizzazione comunitaria. Il missionario ispira e
sostiene le iniziative; ma le decisioni vengono prese e realizzate
comunitariamente. È tutta la comunità che deve chiedere e sottoscrivere la
responsabilità dei progetti del bestiame o della scuola di cucito; sono
gli indigeni che gestiscono i vari progetti, assegnano o ritirano il
bestiame, controllano se le regole vengono applicate e comminano eventuali
sanzioni. È tutta la comunità che si impegna a evitare le bevande
alcornoliche.

Fuori
della comunità, l’indio è perduto; non ha forza per resistere da solo.
Basta che uno si ubriachi e tutta la maloca lo segue.

La
dimensione comunitaria permea tutta la vita, compresa naturalmente quella
religiosa. Ogni domenica la gente si raduna per pregare insieme e,
riflettendo sulla parola di Dio, esamina e discute i problemi di ogni
giorno, per concludere con un impegno concreto, che coinvolge tutti e di
cui rendere conto la domenica seguente.

Battesimi,
matrimoni e altri sacramenti sono eventi importanti per tutta la comunità.
Vi partecipano tutti e intervengono con discorsi, consigli, esortazioni,
interpretazioni, gesti simbolici: come lanciare nell’acqua sassi o
pezzetti di legno, per indicare che si gettano via i peccati, perché
l’acqua se li porti via.

«Nel rito
del battesimo – spiega padre Mena – la rinuncia a Satana e alle sue
seduzioni e la professione di fede si traducono in impegni concreti e
comunitari: no alle bevande alcornoliche e ubriachezza; sì al rispetto della
persona, al lavoro e aiuto reciproco; fedeltà nei doveri comunitari e
nell’impegno missionario, per comunicare agli altri la propria fede. Il
prete non ha bisogno di fare tante prediche; ci pensano i genitori, capi,
animatori, catechisti a dare consigli, fare raccomandazioni ai
battezzandi, ed esortare gli adulti a dare il buon esempio».

In questo
processo di crescita nello spirito e impegno comunitari anche i missionari
e loro ospiti sono chiamati a dare il buon esempio. Posso giurare che nei
giorni passati nella riserva indigena non ho visto neppure una birretta.

box 1


Glossario

box 2


Con il fiato
sospeso

i fatti
degli ultimi mesi

Novembre
2000 – Ruspe dell’esercito raggiungono Uiramutã e cominciano a spianare il
terreno per la caserma: una collinetta accanto alle case macuxí, separata
da esse solo dalla strada verso il villaggio. Avvalendosi dei militari, il
prefetto Venceslau Braz fa spianare un altro luogo nel villaggio, per
costruire un campo di calcio. Gli indios ne impediscono l’uso.

Dicembre
2000 – Orlando Pereira, leader di Uiramutã, e Jacir De Souza, cornordinatore
indigeno della regione delle montagne, a nome delle comunità, richiedono
alla giustizia di proibire la costruzione della caserma.

3 gennaio
2001 – Il giudice federale di Roraima, Helder Girão Barreto, dà parere
favorevole alla sospensione dei lavori. Il giudice considera infondata
l’argomentazione che l’opera è necessaria per la sovranità nazionale,
ricordando che la sovranità («concetto antico e abusato») non è
compromessa in alcun modo con la demarcazione delle terre indigene.
Secondo Girão, la vicinanza della caserma metterebbe a rischio
l’organizzazione sociale, i costumi, le lingue, credenze e tradizioni dei
popoli indigeni, «in netto contrasto con l’articolo 231 della
Costituzione».

18 gennaio
2001 – Il generale Claudimar N. Magalhães, comandante della prima brigata
della selva, reagisce alla sentenza del giudice federale: organizza in
loco una visita di autorità per ascoltare le parti coinvolte, cercare
l’appoggio degli indios e dimostrare l’inesistenza di un conflitto con
loro. I capi, legati al Consiglio indigeno di Roraima (Cir), e la
Fondazione nazionale per l’indio (Funai) non sono invitati. Gli unici
indios presenti sono quelli che appoggiano la suddivisione delle terre da
parte del governo.

26 gennaio
2001 – Capi macuxí organizzano a Uiramutã un incontro con le autorità
statali e federali per discutere dove costruire la caserma. I militari non
vi partecipano, perché «tutto è già stato verificato il giorno 18 e
nient’altro può più essere fatto».

31 gennaio
2001 – Il giudice Feando T. Neto, presidente del tribunale regionale
federale della prima regione di Brasilia, accoglie la richiesta
dell’Avvocatura generale dell’unione contro la sentenza di sospensione dei
lavori. I militari possono ricominciare a ricostruire la caserma.
L’Avvocatura sostiene il leader Pereira e il cornordinatore De Souza non
avevano legittimità nella loro iniziativa, non avendo dimostrato di
appartenere al villaggio. Ma la contestazione è infondata, perché si basa
solo sulle carte d’identità rilasciate a Boa Vista e non considera il
riconoscimento della Funai, secondo la quale i due sono registrati come
dirigenti della comunità e della regione.

5 febbraio
2001 – Neto ritorna sui suoi passi e sospende la decisione del 31 gennaio.
Il giudice decreta che «l’esercito brasiliano e la comunità indigena,
entro 15 giorni, si riuniscano per trovare un’area che sia strategicamente
favorevole alla vigilanza dell’esercito, ma che non sia nel villaggio
degli indios, restando ad una distanza che non comprometta questi ultimi».
La decisione è presa in seguito al ricorso di Deborah Duprat, procuratrice
del Ministero pubblico federale di Brasilia.

5-8
febbraio 2001 – Circa 400 capi di varie etnie si riuniscono a Pium (Roraima)
per la loro XXX Assemblea generale annuale: inviano un documento al
presidente della Repubblica, ai ministri di Giustizia, Ambiente e Difesa,
al presidente della Funai e ai procuratori del Ministero pubblico
federale, chiedendo che i loro diritti, riconosciuti dalla Costituzione,
siano rispettati: soprattutto la omologazione immediata delle terre;
specie Raposa Serra do Sol, minacciata dall’invasione dei risicoltori, dal
Parco nazionale del Monte Roraima e dal municipio di Uiramutã. Inoltre il
documento si appella affinché non siano costruite nuove basi militari fra
i yanomami. Ve ne sono già tre (Awauris, Surucucus e Maturacá) e una
quarta è prevista a Ericó. Pure a Raposa Serra do Sol vi sono due basi
militari.

15
febbraio 2001 – L’Avvocatura annuncia alla stampa che si appellerà contro
Neto, presidente del Tribunale regionale federale della prima regione, che
impedisce a Uiramutã la costruzione della caserma del sesto battaglione di
frontiera a Raposa Serra do Sol (Folha de São Paulo 15/02/2001).

21
febbraio 2001 – Autorità giudiziarie, militari e politiche visitano
Uiramutã su invito del Comando militare dell’Amazzonia, quando già è
scaduto il tempo, stabil

Benedetto Bellesi Carlo Miglietta




Viaggio nella società dell’AIDS. LA NUOVA PESTE (e la vecchia fame)


«Vediamo arrivare nei nostri reparti pazienti africani che
hanno risparmiato soldo su soldo per venire qui a farsi curare. Li
rimettiamo in piedi, pur sapendo che la maggior parte di loro non avrà i
mezzi per continuare la cura, quando toerà a casa»


(Martine Bulard,

“Le Monde
Diplomatique“)


Il
punto della situazione


Correva l’anno 1981

Conosciuta
soltanto dal 1981, la sindrome da immunodeficienza acquisita nota con
l’acronimo inglese «Aids» ha già fatto 22 milioni di morti, per tre quarti
africani. Nei paesi del Sud del mondo l’epidemia si espande senza
controllo. Le azioni di educazione e informazione producono risultati
deludenti. Nel frattempo, i paesi più poveri hanno intrapreso una dura
lotta contro le multinazionali farmaceutiche. Perché oggi i medicinali
contro l’Aids sono acquistabili da un’esigua minoranza.

di Guido Sattin (*)

IL
PEGGIORE DISASTRO
DELL’ERA MODERNA

«Il peggiore
disastro dell’era modea, che Stati Uniti, Europa e Giappone avrebbero
potuto evitare con relativamente poco sforzo, ma che finora hanno
totalmente ignorato. Non abbiamo fatto niente per evitare i 17 milioni di
morti di AIDS in Africa, per impedire che quest’anno ne muoiano altri 3
milioni. In tutto, dal 1996 al ’98, abbiamo dato all’Africa solo 75
milioni di dollari. Niente, appunto».

A fare questa
dichiarazione non è stato un qualche esperto dell’Organizzazione mondiale
della sanità (Oms) o un esponente terzomondista di qualche Organizzazione
non governativa. Il giudizio e l’accusa pesantissimi sono di Jeffrey D.
Sachs, direttore del Center for Inteational Development di Harvard,
consulente di governi ed organismi multinazionali, uno dei più noti
economisti a livello mondiale.

Pochi mesi fa, la
dottoressa peruviana Elisabeth Sanchez, professore dell’Università
Cayetano Heredia di Lima, esperta in malattie infettive, in una lunga
conversazione mi diceva con estrema crudezza: «È chiaro che l’AIDS sta
aumentando in Perù. Cinque anni fa erano 2.000 i pazienti con AIDS
conclamato e ora sono circa 20 mila. Direte che non sono poi tanti, ma
questo numero va moltiplicato per il dato probabilistico di 100 infettati
per ogni malato. Questa è una proporzione che è accettata in molti paesi
come il nostro. In Perù con l’AIDS succederà quello che sta succedendo in
Africa; se in questo momento in certe zone dell’Africa si arriva al 40% di
sieropositivi nella popolazione, gran parte di questi nel giro di 5/10
anni saranno morti ed il continente si spopolerà. Nel Perù sarà uguale».

E l’economista Sachs,
con altrettanta crudezza, continua: «Eppure, al di là degli effetti
devastanti che l’epidemia di AIDS e le altre malattie stanno avendo
sull’Africa, anche nel mondo occidentale vi saranno contraccolpi molto
negativi che in parte già si avvertono. La malattia non conosce confini ed
infatti nuovi ceppi dell’AIDS, che erano esclusivi dell’Africa, si stanno
già diffondendo in Occidente. Il peggiorare della situazione nel
continente nero porterà a maggiore instabilità politica, governi ancor
meno capaci di controllare le situazioni locali, guerre, migrazioni di
massa, crescita della povertà ovunque. Più aspettiamo a intervenire e più,
quando saremo costretti a farlo, sarà costoso e complicato rimediare ai
danni».

È interessante e,
allo stesso tempo, preoccupante che un professore di economia affronti
queste tematiche. Probabilmente l’AIDS ha già smesso di essere solo un
problema sanitario per trasformarsi in un problema economico e politico.

UN
PROBLEMA SANITARIO

L’AIDS (Acquired
Immuno-Deficiency Syndrome = sindrome da immunodeficienza acquisita) è una
malattia abbastanza recente e, tuttavia, essa si è diffusa rapidamente in
pressoché tutte le nazioni, assumendo le caratteristiche di una vera e
propria pandemia.

I primi casi sono
stati descritti negli USA, alla fine del 1981, tra omosessuali maschi,
colpiti da infezioni opportuniste o da tumori particolari quali, ad
esempio, il sarcoma di Kaposi, e affetti da una forma di immunodeficienza
da causa allora non conosciuta. Studi retrospettivi su sieri congelati
hanno mostrato la presenza di anticorpi contro il virus HIV (Human
Immunodeficiency Virus = virus dell’immunodeficienza umana),
successivamente riconosciuto responsabile della malattia, in un soggetto
morto in Africa nel 1959.

Da dove è venuta
questa malattia? Sono state formulate numerose ipotesi; la più accreditata
indicherebbe come progenitore dell’HIV un virus, l’STLVIII (Simian T Cell
Leukemia Virus III), che nella scimmia provoca una sindrome riconducibile
all’AIDS dell’uomo. L’infezione, dunque, avrebbe colpito le zone rurali
dell’Africa dove sarebbe rimasta confinata per lunghi anni e,
successivamente, si sarebbe diffusa alle aree urbane del Centro Africa. Di
là, attraverso i rapporti commerciali con altri stati, l’infezione avrebbe
raggiunto Haiti e l’America Centrale, si sarebbe diffusa negli USA, in
Europa e in tutto il mondo.

Per ciò che concee
le modalità di diffusione e presentazione dell’epidemia da HIV, sono
descritti tre differenti quadri (pattes) epidemiologici.

Il I patte
comprende gli USA, il Canada, l’Europa dell’Ovest, l’Australasia, il Nord
Africa e parti del Sud America; qui l’epidemia si è diffusa soprattutto
tra omosessuali, bisessuali e tossicodipendenti. Coloro che hanno
contratto l’infezione per via eterosessuale, costituiscono una piccola
percentuale.

Nel II patte,
comprendente il resto dell’Africa e del Sud America, la maggioranza dei
soggetti ha acquisito l’infezione per via eterosessuale, con un rapporto
uomo-donna di circa uno ad uno.

Il III patte (Asia-Pacifico,
Europa dell’Est e Medio Oriente), dove il virus HIV è stato introdotto
probabilmente più tardi rispetto ai paesi appartenenti agli altri pattes,
si caratterizza per un numero modesto di casi notificati di AIDS. In
questi ultimi anni, tuttavia, si è riscontrato un forte incremento dei
casi di infezione da HIV, al punto che l’epidemia dell’Asia può far
scomparire tutte le altre sia come impatto che come portata.


UN PROBLEMA POLITICO
ED ECONOMICO

La pandemia sta
distruggendo intere popolazioni del Sud del mondo. Il perché lo capiamo
dalle parole della dott.ssa Sanchez.

«In Perù, se vuoi
entrare nel programma statale di lotta all’AIDS, devi prima dimostrare di
essere sieropositivo e per questo devi fare la prova sierologica Elisa. A
pagamento: ti costerà circa 20 soles (12 mila lire, ndr). Una volta
dimostrata la sieropositività, entri nel programma. E cosa ti offre il
programma? Ti dà consigli, ti obbliga ad eseguire la prova (sempre a
pagamento) per tua moglie, per le persone con le quali hai avuto rapporti
sessuali. Solo consigli e niente farmaci. I farmaci il sieropositivo o
l’ammalato deve comprarli. Quanti sono gli infettati che potranno curarsi?
Immàginati che devi investire in farmaci circa 500 dollari al mese (più di
quello che guadagna un medico statale in Perù). Onestamente non credo che
qualcuno possa farlo, se non fa parte della ristretta, minoritaria e
potente borghesia. Il governo non può farsi carico di tale spesa, le
Organizzazioni inteazionali di aiuto neanche e i pazienti… stanno
morendo».

Semplicemente e con
poche parole, la dott.ssa Sanchez ci ha spiegato il perché in Africa,
Asia, America Latina l’AIDS è simile e forse peggiore all’epidemia di
peste vissuta in Europa nel corso del 1300.

L’impossibilità di
curare i pazienti e di trattare gli infettati fa sì che l’epidemia si
diffonda senza nemmeno conoscee le reali dimensioni, se non nel momento
in cui il paziente muore o si ammala (ad esempio di tubercolosi). Quindi
l’epidemia si estende senza controllo e i programmi di educazione e
prevenzione hanno scarso impatto su una popolazione molto giovane per
l’alto indice di natalità.

Quanto detto sopra è
chiarito dai dati della pandemia che, nei paesi ricchi, ha coinvolto
fondamentalmente persone con «comportamenti a rischio», sui quali però con
un’importante azione di educazione/informazione oggi si riesce ad
influire. Nei paesi poveri la percentuale di donne infettate (che
raggiunge il 55% di tutti i casi nell’Africa Sub-sahariana) e i quasi
1.500.000 bambini infettati dimostrano che la malattia interessa la vita
quotidiana della gente, e non più i comportamenti a rischio.

Anche il semplice
preservativo, unica ed efficace barriera all’infezione, può essere un
lusso, senza parlare degli alti livelli di prostituzione, fenomeno
tristemente «normale» in una popolazione povera e con indici di
disoccupazione inimmaginabili da noi.

CHE
FARE DAVANTI A
UN’EMERGENZA MONDIALE?

Cosa ha detto il
segretario generale delle Nazioni Unite a New York il 20 febbraio del
2001?

«Nei suoi due
decenni di esistenza – spiega il documento firmato da Kofi Annan -,
l’epidemia dell’AIDS ha continuato a propagarsi senza fine in tutti i
continenti e, anche se è più grave in alcuni paesi piuttosto che in altri,
nessun paese è fuori rischio. In questi due decenni essa si è convertita
in una vera emergenza mondiale».

«Nella dichiarazione
del Millennio, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite
(settembre 2000), si afferma chiaramente che il mondo ha finalmente
riconosciuto la reale grandezza della crisi. Nel documento i leaders si
impegnano a invertire la tendenza della propagazione del virus
dell’immunodeficienza umana per l’anno 2015; a dare aiuti speciali ai
bambini rimasti orfani a causa della malattia; ad aiutare l’Africa ad
acquisire la capacità per affrontare il problema della propagazione della
pandemia e di altre malattie infettive».

Più avanti Kofi
Annan afferma: «Si sono ottenuti buoni risultati nel tentativo di far
fronte all’epidemia in molte parti del mondo. La discesa dei tassi di
infezione con HIV in molte comunità e, in alcuni casi, in molti paesi,
specialmente fra i giovani, ha dimostrato che le strategie di prevenzione
servono. La discesa dei tassi di mortalità per AIDS nei paesi
industrializzati e in alcuni paesi in via di sviluppo ha dimostrato anche
che la prevenzione e il trattamento dell’AIDS sono efficaci».

Quindi il segretario
generale delle Nazione Unite può concludere: «L’HIV/AIDS costituisce
l’ostacolo più formidabile per lo sviluppo nei nostri tempi».

Il lungo documento,
dopo l’introduzione, inizia con un’analisi simile a quella dell’economista
Sachs: «L’AIDS si è convertito in una grave crisi di sviluppo. Uccide
milioni di adulti nel fiore della loro vita, distrugge ed impoverisce
famiglie, debilita la forza lavoro, lascia orfani milioni di bambini e
minaccia il tessuto economico e sociale delle comunità e la stabilità
politica delle nazioni».

«Gli effetti
negativi del virus dell’immunodeficienza e l’AIDS si fanno sentire in
tutto il mondo, ma soprattutto in Africa, Caraibi, Asia meridionale e
sudorientale. Il morbo si propaga con rapidità e si ripercuote sulla forza
lavoro, la produttività, le esportazioni, gli investimenti; in una parola,
su tutta l’economia nazionale. Se l’epidemia continuasse al ritmo attuale,
le nazioni più colpite perderanno nei prossimi 20 anni fino il 25% della
crescita economica prevista».

SFIDA
ALLA SICUREZZA

La mia vicina di
casa, a Villa el Salvador (Perù), mi raccontava di una ragazza del
quartiere morta per AIDS e dei suoi figli orfani.

La dott.ssa Sanchez
ribadiva che non voleva aiuti per fare le prove sierologiche in assenza
dei farmaci e che in queste condizioni l’unico aiuto possibile doveva
essere concentrato sull’informazione/educazione.

Nella mia città,
Venezia, le vestigia storiche della peste sono innumerevoli, come pure le
testimonianze dell’impari lotta per bloccarla. La società di allora si era
munita di una legislazione, di strumenti e metodi per lottare e vincere la
peste, e anche grazie a questa lungimiranza fu una società opulenta.

La nostra società
invece, nonostante la mole di dati disponibile, non riesce a comprendere
che i problemi dell’Africa Sub-sahariana o del Perù sono problemi pure
nostri, e questo indipendentemente dal fenomeno migratorio.

In un passo del suo
discorso, il segretario generale delle Nazioni Unite ha affermato: «Nelle
regioni più colpite, l’AIDS sta invertendo la tendenza di decenni di
sviluppo. Cambia la composizione delle famiglie e la forma di
funzionamento delle comunità, colpisce la sicurezza alimentare e
destabilizza i tradizionali sistemi di appoggio. Distrugge il capitale
sociale, al punto da far sparire la base delle conoscenze della società e
debilitare i settori di produzione. Inibendo lo sviluppo dei settori
pubblici e privati e grazie alle ripercussioni sull’intera società,
debilita le istituzioni nazionali. Ostacolando nel tempo la crescita
dell’economia, colpisce gli investimenti, il commercio e la sicurezza
nazionale, facendo sì che la povertà sia ancora più generalizzata ed
estrema. In poche parole, l’AIDS si è convertito in una sfida alla
sicurezza dell’umanità».

La sfida all’AIDS
deve essere una lotta alla povertà, vera peste del secolo che si è appena
aperto.


DISEGUAGLIANZA
SOCIALE

Oggi è l’AIDS,
domani sarà Ebola, dopo domani la «mucca pazza» e così via. Allora anch’io
sono d’accordo con Kofi Annan, Sachs e la dott.ssa Sanchez: il problema
non è solo sanitario, ma anche economico e politico.

Dobbiamo impegnarci
a eliminare le fondamenta sulle quali le malattie si sviluppano: la
diseguaglianza sociale.

(*) Guido Sattin,
medico-igienista di Venezia, cura per la nostra rivista la rubrica medica
«Come sta Fatou?».

Le
parole dell’Aids


GLOSSARIO ESSENZIALE


Aids
:
«Sindrome da immunodeficienza acquisita» (Acquired immunodeficiency
syndrome), una grave malattia causata dal virus HIV, che distrugge le
difese immunitarie dell’organismo, soggetto di conseguenza a gravi
infezioni «opportunistiche» e a talune forme di cancro.

Anticorpi:
sostanze secrete dai linfociti B in risposta all’aggressione
sull’organismo di sostanze conosciute come antigeni. Ogni anticorpo è
specifico per un particolare antigene. Nel caso del virus HIV, non tutti
gli anticorpi prodotti sono neutralizzanti. Nonostante la loro presenza,
il virus conserva la sua potenza distruttiva.

DNA:
acido desossiribonucleico, una molecola di grandi dimensioni che conserva
le informazioni genetiche e costituisce il fondamento dell’ereditarietà.

Elisa:
abbreviazione di «Enzyme Linked Immuno-Sorbent Assay» (saggio di
assorbimento legato a enzima o metodo immuno-enzimatico). Si tratta
dell’esame sierologico (del sangue) più usato per stabilire se il corpo
abbia reagito alla presenza del virus HIV.

Epidemia:
l’insorgere di una malattia, temporaneamente ad elevato rischio di
diffusione. L’insorgenza e l’estinzione di un’epidemia dipendono da
fattori quali la gravità della malattia, le modalità di trasmissione
dell’agente infettivo, le condizioni ambientali, la durata
dell’incubazione e l’esistenza di portatori sani (asintomatici). È
indispensabile elaborare le strategie per combattere un’epidemia sulla
base di questi fattori. L’infezione da HIV può essere trasmessa, ma non è
a elevato rischio di contagio. Il periodo di incubazione è lungo.

Epidemiologia:
studio delle cause di insorgenza, scomparsa o diffusione delle malattie.

Eziologia:
studio delle cause delle malattie.

HIV:
il virus dell’immunodeficienza umana, che causa l’Aids. Di questo virus
esistono due tipi principali: HIV-1, responsabile della pandemia mondiale
dell’Aids, e HIV-2, anch’esso causa dell’Aids e diffuso principalmente in
Africa occidentale.

Immunosoppressione:
riduzione dei meccanismi di difesa immunitaria dell’organismo.

Incubazione:
intervallo tra il momento in cui il corpo viene in contatto con il
microrganismo e il momento della comparsa dei primi sintomi della
malattia. Nel caso dell’Aids, il periodo di incubazione è molto variabile;
può durare da alcune settimane a mesi o persino ad alcuni anni.


Infezione opportunistica: infezione
indotta da un microrganismo di solito ben tollerato dall’organismo, che
può diventare patogeno quando le difese del corpo son depresse. Le
manifestazioni più gravi di Aids sono causate da infezioni
opportunistiche.

Leucociti:
cellule del sangue responsabili della difesa dell’organismo da agenti
estei.

Preservativo:
protezione in lattice da applicare sul pene in erezione, quando l’uomo è
sessualmente eccitato. Può essere usato come metodo di contraccezione e di
prevenzione di malattie veneree.

Prevenzione:
misure individuali o collettive finalizzate a limitare o a evitare il
rischio di un incidente o malattia, riducendone le conseguenze e curandone
gli effetti. Nell’ambito sanitario, la prevenzione comprende provvedimenti
sociali nonché strettamente medici.

Retrovirus:
virus il cui materiale genetico è composto da RNA, ma che è trasformato
nella cellula in DNA da uno speciale enzima, la transcriptasi inversa. Il
virus HIV è un retrovirus.

RNA:
acido ribonucleico. Trasmette le informazioni genetiche conservate dal DNA
nella cellula. Tutto il materiale genetico del virus dell’immunodeficienza
umana è costituito da molecole di RNA.

Sieropositivo
o HIV-positivo
: soggetto che risulta positivo al test per la
ricerca di anticorpi anti-HIV. Egli è venuto in contatto con il virus HIV
e dovrebbe essere considerato potenzialmente contagioso tramite il suo
sangue e i rapporti sessuali. Quando il test non individua anticorpi, il
soggetto è detto «sieronegativo» o «HIV-negativo».

Sindrome:
un insieme di sintomi e segni che possono costituire il comune
denominatore di certe malattie. La sindrome da immunodeficienza
costituisce la caratteristica essenziale dell’Aids, ma può verificarsi
anche in altre patologie, come nelle malattie congenite o tumorali
(leucemia), o può essere indotta da farmaci (terapia immunosoppressiva nei
pazienti sottoposti a trapianto).

Sistema
immunitario:
tutti i meccanismi che intervengono a difendere
l’organismo contro i cosiddetti antigeni, cioè agenti estei (batteri,
virus, parassiti) o sostanze tossiche. Il sistema immunitario riesce a
distinguere gli aggressori presenti nell’organismo stesso da quelli
estei. Può riconoscere i nemici aggressivi, quelli contro i quali è già
in possesso di difese (naturali o acquisite). Sa organizzare il giusto
attacco agli antigeni. A questo scopo usa: gli anticorpi (o
immunoglobuline) presenti nel flusso circolatorio (risposta «umorale»);
cellule specifiche chiamate linfociti B e T, capaci di riconoscere gli
antigeni, organizzare la risposta e produrre nuovi anticorpi (risposta
cellulare); i macrofagi che intervengono dopo i linfociti e gli anticorpi.
I linfociti T4, che cornordinano le difese immunitarie, sono cellule
strategiche che costituiscono il bersaglio del virus HIV, che le paralizza
e le distrugge.

STD:
sexually transmitted disease (malattia venerea trasmessa), cioè qualsiasi
malattia che può essere contratta attraverso i rapporti sessuali. L’Aids è
essenzialmente una malattia venerea trasmessa.

Virus:
agenti infettivi responsabili di numerose patologie in tutti gli esseri
viventi. Si tratta di particelle piccolissime (visibili soltanto al
microscopio elettronico) che, diversamente dai batteri, possono
sopravvivere e moltiplicarsi solamente all’interno di una cellula vivente
a spese della cellula stessa.

In
sintesi


22 MILIONI DI MORTI

Il 70% degli adulti
e l’80% dei bambini sieropositivi vivono in Africa, così come sono
africani i 3/4 dei quasi 22 milioni di morti dall’inizio della pandemia.

Si stima che
nell’anno 2000, 3,8 milioni di persone si siano infettate nell’Africa a
sud del Sahara e che 2,4 milioni di persone siano morte per AIDS.

Si stima che circa
25,3 milioni di africani siano sieropositivi o ammalati di AIDS conclamato
ed in 16 paesi più di un adulto su dieci (dai 15 ai 49 anni d’età) sia
infettato.

Attualmente l’AIDS
è la principale causa di morte in Africa. Nel mondo ci sono 13,2 milioni
di bambini orfani per AIDS e fra questi 12,1 milioni vivono in Africa.

In alcune zone
dell’Africa Sub-sahariana nel 2000 il numero di nuovi infettati, per la
prima volta, non è stato maggiore dell’anno anteriore; ma si pensa che ciò
sia dovuto al fatto che la lunghezza dell’epidemia ha già coinvolto un
numero tale di adulti sessualmente attivi, che sono sempre meno quelli
ancora non infetti e quindi suscettibili di nuova infezione.

Nei paesi dell’ex
Unione Sovietica si registrano alcune delle tendenze più drammatiche
dell’epidemia. Solo nel 2000 ci sono state nella Federazione Russa più
nuove infezioni che la somma di tutti gli anni anteriori; ciò sarebbe
dovuto ad una complessa combinazione di crisi economica, rapidi
cambiamenti sociali, aumento della povertà e della disoccupazione, aumento
della prostituzione e a cambiamenti nelle abitudini sessuali della
popolazione.

La mortalità a
conseguenza dell’AIDS è discesa considerevolmente nei paesi ricchi nel
decennio del 1990 grazie fondamentalmente all’efficace terapia retrovirale
nei sieropositivi, che allunga la vita degli stessi. È però calato il
lavoro di prevenzione: 30.000 persone si sono infettate in Europa
occidentale e 45.000 nell’America del Nord nell’anno 2000.

Con una prevalenza
del 15% che duri nel corso della vita, moriranno più della metà di coloro
che oggi hanno 15 anni di età. In Botswana, dove c’è una prevalenza del
36%, più del 75% morirà di AIDS. In alcuni paesi questa tendenza sta
cambiando la piramide tradizionale della popolazione, e la nuova avrà la
forma di un camino con una base più stretta di giovani e bambini. Il
cambiamento più drammatico della piramide avrà luogo quando i giovani
adulti, infettati in età precoce, inizieranno a morire di AIDS.


Aids tra scienza e coscienza

Ma
se l’è proprio cercata?

Nel tunnel
chiamato hiv-aids si intravvedono confortanti spiragli di luce, dopo il
buio assoluto. Ma non per le popolazioni del Sud del mondo, anche se dal
Sudafrica giungono buone notizie circa il prezzo (finora proibitivo) dei
farmaci. In ogni caso la battaglia è durissima per tutti. Specie quando si
deve combattere contro ignoranze, pregiudizi, moralismi, cattiverie.

di Giancarlo
Orofino (*)


Alcuni anni fa, durante una festa per scambiarci gli auguri di
natale tra amici, simpatizzanti e volontari dell’associazione Arcobaleno
Aids (finalizzata al supporto psicosociale di sieropositivi), mentre si
brindava, ballava e scherzava, fui assalito da uno sconforto tremendo. Una
nube nera mi offuscò l’anima e quasi la vista. «È mai possibile – mi
dicevo – che, tra un anno o due, molte di queste persone (tutte giovani)
non ci saranno più?».

Quelli erano gli
anni davvero duri dell’Aids, quando le speranze dei nuovi farmaci venivano
quotidianamente infrante dalla scomparsa di coloro che non ce l’avevano
fatta ad arrivare in tempo. Non parlo di secoli fa. Parlo di anni, di
pochi anni.

Oggi quasi tutti i
sieropositivi di allora stanno bene: molti vengono in ambulatorio e
prendono i farmaci; mi parlano dei loro malesseri ma anche dei loro
progetti; mi mostrano le foto dei loro bambini.

Ecco cosa può fare
la medicina, la ricerca, in particolare nel campo delle malattie
infettive. Il «nemico» è noto, è conosciuto nei minimi particolari, è
attaccabile in maniera molto selettiva.

La
svolta di Vancouver

Yokoama, agosto
1994. Sono in Giappone (a mie spese) per sapere, dalla viva voce dei più
importanti scienziati del mondo, se vi sia qualche notizia importante per
la cura dei miei pazienti sieropositivi. Però too con le ossa rotte:
tante cose bollono in pentola, ma per ora non c’è niente e bisogna
aspettare. Il vaccino, poi, è un’utopia. Tante persone non ce la faranno…

Vancouver (Canada),
luglio 1996, prime ore del pomeriggio. L’aula è gremita all’inverosimile.
Non è la sede delle sessioni plenarie (cioè il Palazzo dello sport, da 15
mila posti), ma una sala comunque grande, non però così ampia da contenere
tutti i partecipanti a quel Congresso mondiale. Poiché la notizia si è
diffusa, sono tutti lì.

David Ho parla dei
nuovi potenti farmaci che, in due anni, con procedure assolutamente
rapide, sono già in commercio. L’oratore spiega come si può finalmente
curare e forse guarire l’Aids. Un fremito percorre l’uditorio: medici,
pazienti, giornalisti e operatori vari sono tutti coinvolti. È la svolta.

Dal 1996 poco tempo
è passato. E tutto è cambiato in meglio, anche se la parola «guarigione» è
rientrata nel cassetto. Purtroppo, però, il Sud del mondo si è
progressivamente staccato: qui i farmaci sono mai arrivati. Questo,
attualmente, è il cruccio più grosso che accompagna (dovrebbe
accompagnare) l’operato di chi si occupa di infezione da Hiv-Aids; questa
è la grande sfida da vincere al più presto, con l’impegno di tutti, ad
ogni livello.

Molte cose sono
cambiate vertiginosamente nel giro di pochi anni e molte sono quelle
ancora da fare: sul piano della prevenzione, della discriminazione, del
supporto psicologico e delle cure. Il ritmo accelerato delle scoperte
scientifiche obbliga al continuo aggioamento, alla verifica costante.


Il medico «sa»

Oggi si ammalano di
Aids solo coloro che pervengono alla fase finale della malattia, ignari di
essee portatori, o coloro che non assumono (o non possono assumere) le
terapie.

Però i sieropositivi
continuano lentamente ad aumentare e appaiono anche persone non più
giovani. Occuparsi dei pazienti implica sforzo e dedizione, sia perché
frequentemente alle spalle vi sono situazioni psicosociali pesanti, sia
perché, in assenza di figure istituzionali-psicologiche cui riferirsi, sul
medico vengono «scaricate» angosce e timori.

Il medico è uno dei
pochi che «sa» e pertanto con lui ci si deve sfogare. Per questo, a volte,
si termina l’ambulatorio sfiniti e appesantiti da tanti problemi. La
risposta del medico può essere o di coinvolgimento o di rigida osservanza
tecnico-scientifica o di fuga.

Personalmente mi
sono fatto molto prendere dalla malattia Aids sul piano del volontariato e
dell’impegno sociale; ma cerco anche, ogni giorno, di non farmi assorbire
troppo dai pazienti, per non finire «cotto» prima del tempo. Devo
assolutamente conservare un minimo di distacco che mi permetta di non
«identificarmi troppo», di non ammalarmi con essi.

D’altro canto l’Aids
ha completamente stravolto, in Italia e nel mondo, il classico rapporto
medico-paziente: un po’ per i motivi accennati e un po’ perché i malati
stessi sono stati lo stimolo per la ricerca e l’assistenza. Di più, oggi,
nella transizione da una malattia «a prognosi infausta» (diciamo noi
medici, ossia mortale) ad una malattia cronica, il coinvolgimento del
paziente è fondamentale: in primo luogo per le problematiche legate alle
terapie.

In questi anni
alcuni pazienti hanno compiuto molti passi in avanti
nell’autodeterminazione e consapevolezza; ma altri devono fare ancora
tanta strada. Quante meschinità e bassezze ancora si perpetuano con la
scusa del virus! Invece proprio il virus dovrebbe essere la molla che
spinge a cambiare alcuni aspetti della propria esistenza.

Ho visto cambiare
tante persone rompere il proprio guscio di egoismo, aprirsi agli altri.
Come sempre, «questo incredibile uomo» sa tirare fuori nei momenti
drammatici risorse sepolte ma vive. In Sudafrica, addirittura, alcuni
attivisti hanno intrapreso lo sciopero dei farmaci, in segno di
solidarietà verso i loro concittadini che non hanno i soldi per pagarsi le
cure (cfr. box, pagina 40).

Mentre sto scrivendo
questo articolo, è giunta la notizia che proprio in Sudafrica una grande
battaglia per la vita di tante persone sieropositive è stata vinta: le 39
case farmaceutiche hanno ritirato la causa contro la produzione locale dei
farmaci anti-Aids (con prezzi inferiori), grazie anche all’impegno e alla
forza di piccoli-grandi eroi.

Già, quanti «eroi»
ho conosciuto! Giovani che hanno saputo affrontare con dignità
straordinaria il dolore e la morte, arricchendo in qualche modo il mondo.

Nella introduzione
agli Atti del Convegno Outadali (Venezia, 16-19 ottobre 1997) si legge:
«Per la maggior parte degli altri noi siamo coloro che moriranno; ma
intanto siamo coloro che rivelano e testimoniano la necessità di un
cambiamento; siamo una parte dell’umanità che offre a tutti l’opportunità
di un modo nuovo di vivere, di amare e di morire».

Spesso penso ai
tanti pazienti perduti in questi anni e mi sento come un tenente che,
durante la battaglia, ha perso i suoi uomini di compagnia: Francesca,
Roberto, Gaetano, Filomena, Maria…

Giustamente si
paragona l’Aids ad una guerra, che miete milioni di vittime lontano da
noi. Prima eravamo tutti sulla «stessa barca»: questo secondo «Titanic»
incappato nell’iceberg dell’Aids. Per un momento tutti uguali; poi sono
arrivati i farmaci, le «scialuppe». Ma solo i più fortunati (i più ricchi)
vi hanno trovato posto.


«Ipersesso»
e stranieri

Accennavo alla
prevenzione. Al riguardo gli sforzi ed investimenti sono risultati
efficaci tra i tossicodipendenti e in una certa parte della popolazione.

Ma oggi sarebbe
necessario andare più in profondità: nei luoghi del rischio, nelle strade,
nei quartieri, e non basta. La società deve risolvere una situazione
schizofrenica che è anche frutto di uno sfrenato consumismo: da una parte
la «ipersessualizzazione» (ossia mettere il richiamo sessuale, ovunque e
comunque, per vendere o attirare di più) e, dall’altra, la paura
dell’Aids.

Ma a che gioco
giochiamo?

Luc Montagnier,
grande scienziato, nonché uno degli scopritori del virus dell’Aids, ha
affermato: «La decadenza dei costumi e delle abitudini sessuali è
certamente alla base della diffusione della malattia». Nei colloqui con i
pazienti o con coloro che vengono a fare il test, io cerco sempre di
insistere non solo sulla «protezione», ma anche sulla responsabilità e
maturità dei propri comportamenti. Penso, spero di non essere l’unico.

Esiste poi il grande
problema degli stranieri. Molti hanno paura del test: temono di essere
individuati, schedati, espulsi.

Non hanno ancora
capito che il medico gode (è uno dei veri e pochi privilegi che dobbiamo
tenerci ben stretti!) di piena autonomia ed è legato al segreto
professionale. Alcuni probabilmente hanno retaggi, che si trascinano dai
loro paesi d’origine, dove il sieropositivo è un reietto; altri non si
fidano; forse credono che non esista neanche l’Hiv.

La prevenzione con
gli stranieri e per gli stranieri è un capitolo in larga parte ancora
tutto da scrivere, ma bisogna fare presto. La malattia è curabile, sì, ma
se colta in tempo.

Vi sono poi alcune
situazioni particolari, come la gravidanza, in cui la diagnosi precoce è
ancora più fondamentale. Infatti se la donna sieropositiva viene seguita
dall’inizio della gravidanza, con la possibilità di prendere tutte le
misure medico-sanitarie del caso (terapia della donna, taglio cesareo,
cura del bambino nelle prime quattro settimane di vita), il rischio per il
figlio diventa bassissimo.

Prudenza,
non moralismo

«Dottore, che mi
consiglia? Sul posto di lavoro devo dire che sono sieropositivo?». La
domanda è frequente e la risposta è quasi sempre la stessa: grande
prudenza.

Purtroppo la gente
non è ancora matura per accettare la sieropositività; e pensare che spesso
tra un datore di lavoro o un collega sieronegativi e il dipendente o
compagno, anch’essi sieropositivi, l’unica differenza è stata solo un po’
più di fortuna o prudenza in qualche occasione…

L’ignoranza è ancora
dilagante. Si pensa che sieropositività significhi tossicodipendenza o
contagio anche solo parlando. Il popolino è assetato di notizie-bomba che
diano senso a giornate «vuote» di lavoro. E allora si lancia la sassata:
«Lo sai che Tizio ha l’Aids?».

Pure il moralismo da
quattro soldi è sempre di moda. «Se l’è cercata!» si dice. A parte il
fatto che nessuno cerca il proprio male, che ci conferisce il diritto o
l’autorità di giudicare? Il giudizio può essere o su un piano
legale-giuridico (e in tale caso bisogna avere le competenze specifiche e
studiare ogni singolo caso) o su un piano morale (ipotesi questa che
richiede una correttezza interiore che appartiene solo a Dio o ai suoi
legittimi rappresentanti). Quanti giudizi sono proferiti da persone
moralmente molto più a terra dei giudicati!

E poi, applicando
questo criterio, che dovremmo dire di coloro che hanno un tumore al
polmone avendo fumato per anni 40 sigarette al giorno? Che dire degli
infartati, che non hanno voluto dimagrire né prendere la pillola per la
pressione alta, o di coloro con la cirrosi frutto di anni e anni di abusi
alcolici? Tutti colpevoli e da condannare?…

Un giorno entra in
ambulatorio una signora: viene a ritirare i farmaci anti-Hiv per il
genero, che ha telefonato preannunciando la visita. Poche battute, un po’
di imbarazzo e poi la donna prende coraggio:

– Ma a questo qui,
quanto gli resta da vivere?

– Come ha detto?
Guardi che «questo qui» è un essere umano, ha sposato sua figlia; ed è un
mio paziente. Non si permetta di parlare così!

La signora abbozza
una scusa e se ne va. Pensava di trovare un alleato alla sua cattiveria.
Avrà capito?

In ogni caso ci
vuole prudenza e grande sensibilità da parte di tutti gli operatori
sanitari nella tutela della privacy. L’Hiv continua a non essere una
malattia come le altre. Forse non lo sarà mai.

Insieme ai farmaci,
l’altra grande medicina, che in questi anni ha curato e cura i malati, è
l’amore: ha coinvolto di volta in volta infermieri, medici, psicologi,
operatori a vario titolo, così come partner, familiari, amici, volontari.
Tante donne, in particolare, hanno saputo e sanno stare accanto ai propri
mariti e compagni superando i pregiudizi, le passioni, oltre che i propri
limiti.

Come ha ragione
quella paziente e amica che scrive: «Il cuore è una ricchezza inesauribile
ed è ben più contagiosa dell’Hiv!».

Tra 100 anni l’Aids
non ci sarà più. Di esso si parlerà come di una grande epidemia della
storia, che rischiava di cancellare continenti e intere generazioni.

Esiste un gruppo di
persone (tra le quali il sottoscritto), che lottano per ridurre quel tempo
maledettamente lungo, perché ogni secondo è una vita. La lista per
iscriversi è sempre aperta.

(*) Giancarlo
Orofino è dal 1993 specialista in malattie infettive all’ospedale «Amedeo
di Savoia» di Torino. È socio-fondatore dell’associazione
«Arcobaleno-Aids» a Torino. Nel campo dell’Aids ha partecipato a studi
clinici per la sperimentazione di nuovi farmaci e a progetti di assistenza
psicosociale. È membro dell’Inteational Aids Society.

L’«etica»
delle multinazionali farmaceutiche

Salvare
i brevetti (e i profitti)
o salvare le vite?


In un mondo sempre più privatizzato anche il «diritto alla
salute» sta diventando un lusso. Lo è già da tempo nei paesi del Sud del
mondo, dove si muore di malaria, diarrea, tubercolosi, polmonite. E ora di
Aids. Le cure ci sarebbero, ma costano troppo. Le multinazionali si
giustificano con gli elevati costi della ricerca. Peccato che i dati
smentiscano i pianti: i loro profitti sono in crescita e di gran lunga
superiori a quelli delle altre aziende. Così qualche paese (Thailandia,
India, Brasile, Sudafrica) ha provato a ribellarsi al sistema vigente,
sfidando le ire degli Stati Uniti e dell’«Organizzazione mondiale del
commercio». Vinceranno le ragioni del profitto o quelle del traballante
«diritto alla salute»?

di Paolo Moiola


UGUALI DAVANTI ALLA MALATTIA?

Qualcuno sostiene
che la malattia accomuna tutti, ricchi e poveri. Ritengo che questo possa
essere (parzialmente) vero per la morte, ma non lo è per la malattia. Gli
esempi si sprecano: il reperimento di organi (dai reni alle coee), le
liste di attesa per esami ed operazioni chirurgiche, l’accesso a farmaci e
strutture ospedaliere troppo spesso tutto si riduce a una questione di
soldi. Nei paesi del Sud in primo luogo, ma anche in molti paesi ricchi.

La sanità
statunitense non è quella bella e buona favoleggiata nella popolarissima
serie televisiva «E.R., medici in prima linea». Negli Stati Uniti il
livello delle cure mediche è eccelso soltanto per chi può permettersi di
pagare un’affidabile assicurazione sanitaria. La conferma viene dalle
graduatorie inteazionali che mettono ai primi posti della sanità
pubblica la Francia e, sorpresa, l’Italia, mentre gli Usa sono molto
indietro.

Come si fa a
conciliare il diritto universale alla salute con la privatizzazione della
sanità? Eppure, sembra proprio questa la strada battuta, soprattutto nei
paesi meno sviluppati dove la popolazione spesso non ha neppure il
necessario per mangiare.

Il problema si
ripete con l’Aids. La malattia, già soprannominata la «peste» del
millennio, ha fatto strage nei suoi 20 anni di diffusione. Ebbene,
guardando alle statistiche degli organismi inteazionali, si vede che
l’80 per cento dei decessi legati alla malattia è stato registrato
nell’Africa subsahariana, ovvero nei paesi più poveri del mondo.

Per essi il futuro è
nero, se si considera l’enorme diffusione del virus Hiv tra donne e
bambini. Ci sono paesi africani (Zimbabwe, Botswana, Zambia) dove più del
35% delle donne registrate nei reparti di mateità urbani (che
rappresentano un’esigua minoranza del totale) sono contagiate.

Rispetto al totale
mondiale, si calcola che circa 2/3 dei casi di trasmissione dell’Aids
dalla madre al bambino (durante la gestazione e, in misura inferiore,
durante l’allattamento) avvengono in Africa.

Gli scienziati sono
convinti che un vaccino contro l’Aids sarà pronto entro il 2007. Nel
frattempo, i malati di Aids hanno possibilità di sopravvivenza molto
diverse, a seconda che abitino nel Nord o nel Sud del mondo.

TERAPIE
DA 15 MILA DOLLARI

Le multiterapie
anti-Aids (un cocktail di medicine come l’AZT e il 3TC) oggi consentono
una consistente riduzione della mortalità. Però queste cure costano circa
15.000 dollari all’anno per paziente. Cifre impensabili per i paesi del
Sud, dove l’epidemia ha assunto connotati drammatici.

Alcuni di essi (come
Brasile, India e Thailandia) hanno trovato un modo per aggirare il
problema fabbricando copie a buon mercato dei farmaci brevettati. In
questo modo, il costo delle terapie è crollato a circa 350 dollari l’anno
per paziente.

Nel 1997 il
presidente sudafricano Nelson Mandela promulgò una legge, denominata
Medicine Act, che recepiva questa situazione. Con essa venivano presi due
provvedimenti per combattere il dilagare dell’Aids: da un lato si decideva
di acquistare i farmaci non necessariamente dall’industria nazionale
(costituita da filiali delle multinazionali), ma da qualsiasi paese estero
dove i prezzi fossero più convenienti. In altre parole, veniva instaurato
un mercato parallelo, che importava i farmaci (i cosiddetti «farmaci
generici») dai paesi le cui leggi nazionali permettono di ignorare i
brevetti sui farmaci in caso di urgente bisogno.

Il secondo aspetto
della legge, ancora più radicale, consisteva nell’autorizzare la
fabbricazione dei farmaci antiretrovirali da parte delle industrie locali,
anche in assenza dell’autorizzazione delle industrie farmaceutiche che
detengono i brevetti.

Contro la legge si
mobilitò immediatamente la lobby farmaceutica mondiale, con immediate e
pesanti pressioni sugli Stati Uniti e, di conseguenza, sull’Omc,
Organizzazione mondiale del commercio. Così, lo scorso 5 marzo, a
Pretoria, è iniziato il processo intentato da 39 case farmaceutiche contro
il governo sudafricano, colpevole di aver emanato una legge che viola gli
accordi sul commercio mondiale.

E qui il problema
assume connotati interessanti, riassumibili in un semplice quesito. Come è
possibile che multinazionali potentissime chiedano «protezione» dalle
conseguenze del libero mercato, usualmente icona intangibile del sistema
neoliberista?

FARMACI
«PROTETTI»
DAL «LIBERO» MERCATO

Dal 1994, ai paesi
aderenti all’Omc è stato intimato di sottomettersi agli accordi denominati
«Trips». Secondo questi, non è più possibile produrre un farmaco o
acquistarlo all’estero senza l’autorizzazione (contro versamento di «royalties»)
del proprietario dell’invenzione, che conserva questa prerogativa per 20
anni.

Tuttavia, sotto la
pressione di alcuni paesi, i Trips hanno previsto clausole di eccezione:
in caso di emergenza sanitaria o di intralci alla concorrenza (rifiuto di
vendita dell’inventore o prezzi troppo alti), ogni governo ha il diritto
di ricorrere alle «licenze obbligatorie» (compulsory licences) e alle
importazioni parallele. Le prime consentono di fabbricare un prodotto
senza l’accordo dell’inventore (come hanno fatto il Brasile, la Thailandia,
l’India); le seconde di acquistarlo là dove è venduto a minor prezzo (come
vuole fare il Sudafrica).

Di queste scappatornie
si lamentano le lobbies farmaceutiche, che vogliono imporre la
soppressione di ogni eccezione ai diritti di brevetto. Lo fanno attraverso
gli Stati Uniti, che a loro volta sono i veri decisori all’interno dell’Omc.

Poiché in campagna
elettorale la nuova amministrazione Bush ha accettato cospicui
finanziamenti dall’industria farmaceutica, aspettiamoci pressioni e
ritorsioni commerciali (ad esempio: la tassazione dei prodotti
d’esportazione) degli Stati Uniti sui paesi «disobbedienti».

È inutile negare
l’evidenza: i Trips sono clausole protezionistiche introdotte
dall’Organizzazione mondiale del commercio, grande sacerdotessa del libero
mercato. Libero finché fa comodo agli interessi privati dei grandi gruppi
industriali e finanziari.

Eppure, non occorre
essere oppositori del sistema neoliberista per affermare che i pazienti
non sono clienti e i farmaci non sono prodotti come gli altri. E che il
diritto di brevetto non può essere posto al di sopra dei bisogni
elementari dell’umanità. «Che i brevetti – ha scritto Le Monde
Diplomatique – assicurino l’avvenire è forse vero per l’avvenire della
ricerca privata e senza alcun dubbio per quello degli azionisti delle
compagnie farmaceutiche, ma in nessun caso per quello dei malati».

I
TAGLI ALLA SANITÀ PUBBLICA

Abbiamo parlato di
350 dollari annuali per pagare le cure a un malato di Aids utilizzando i
«farmaci generici». La cifra, pur bassa rispetto ai prezzi ufficiali,
rimane elevatissima per le finanze pubbliche dei paesi del Sud.

Negli anni passati,
la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno imposto ai
paesi del Sud l’adozione dei famigerati «aggiustamenti strutturali». I
tagli delle spese pubbliche si sono tradotti in tagli ai già esigui budget
sanitari. Ha senso ora lamentarsi dell’inadeguatezza dei sistemi sanitari
nei paesi in via di sviluppo?

Nella maggioranza
dei paesi poveri (in particolare, di quelli africani) la spesa sanitaria
globale pro capite non supera i 10 dollari all’anno. Quindi, anche a
prezzi ultrascontati, offrire cure pubbliche ai malati di Aids sarebbe
impossibile. Soltanto un’esigua percentuale di fortunati vedrà difeso (più
o meno efficientemente) il proprio «diritto alla salute». Dunque, si
ritorna all’assioma di partenza di quest’articolo. Chi è povero, sia esso
lo stato o l’individuo, ha molte meno possibilità di rimanere in salute e,
ove malato, di curarsi.


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Guido Sattin Giancarlo Orofino Paolo Moiola