Reportage dall’Iraq di Saddam

ASSE DEL MALE O ASSE DEL PETROLIO?

Tony Blair, il più
fedele alleato di George W. Bush, ha presentato alla camera dei comuni un
dossier per avvalorare la pericolosità di Saddam. Ma il primo ministro
inglese non ha convinto, confermando indirettamente l’opinione di
Condoleezza Rice secondo la quale non c’è bisogno di provare la
colpevolezza dell’Iraq.
Non si sbaglia. Per giustificare una guerra contro Saddam, è sufficiente
sapere  che Baghdad possiede la seconda riserva di petrolio della terra
dopo l’Arabia Saudita. Intanto,

un ex ispettore
dell’Onu ha svelato che…

 

Quasi sempre si dimentica che il
groviglio di tragiche contraddizioni che lacerano oggi il Medio Oriente è
la conseguenza di due secoli di imperialismo francese, inglese ed
americano.

Interpretare la storia e
l’attualità del Medio Oriente trascurando l’esistenza del petrolio è come
voler scrivere la storia di Torino dimenticando l’influenza decisiva della
Fiat negli eventi della città. Come scrisse anni or sono Filippo Gaja:
«Tutta la legalità del Medio Oriente è stata costruita con l’illegalità,
la prevaricazione e la violenza. Le frontiere non sono che righe
immaginarie che attraversano il deserto, tracciate dopo estenuanti
mercanteggiamenti e continue cancellazioni con riga, compasso e matita, in
base a imperativi arbitrari dettati da calcoli economici, totalmente
estranei agli interessi dei popoli (che, del resto, nessuno si è mai
sognato di interpellare). L’inchiostro con cui questa storia tragica è
stata scritta negli ultimi cento anni è il petrolio».

 Oggi, invece, ci spiegano che
l’intervento armato contro l’Iraq è necessario perché Saddam Hussein,
occultando pericolose armi non convenzionali, costituisce un pericolo per
il mondo intero e perché occorre finalmente portare la democrazia al
popolo iracheno e, a seguire, in tutto il Medio Oriente. 

Anche se le motivazioni sinora
addotte per giustificare l’attacco non si discostano poi molto da quelle
che in passato i regimi liberali e fascisti usavano per legittimare le
imprese coloniali, è interessante notare che questo nuovo diritto
dell’Occidente all’ingerenza democratica è invocato per i paesi del Medio
Oriente, proprio mentre nei paesi del Nord del mondo assistiamo ad uno
straordinario attacco alle libertà e ai diritti democratici fondamentali
in nome della globalizzazione, della governabilità, dei parametri di
Maastricht, del pericolo terrorista, ecc.  

SADDAM, BIN
LADEN E LA «GUERRA INFINITA»

La guerra in Afghanistan ed il
completo fallimento del dichiarato proposito di catturare vivi o morti Bin
Laden ed il fantomatico mullah Omar, hanno reso ancora più evidente che
l’obiettivo delle operazioni militari progettate dagli Usa sotto il nome
di Enduring freedom non ha nulla a che vedere con la guerra al terrorismo
internazionale.

Come il presidente Clinton con i
bombardamenti sull’Iraq riusciva a sviare l’attenzione dell’opinione
pubblica americana dalle sue «prestazioni extra politiche» e ad evitare
l’impeachment (dicembre 1998), così Bush jr., agitando tempestivamente gli
spauracchi di Bin Laden e di Saddam Hussein, riesce a garantire enormi
flussi di denaro all’industria bellica statunitense e tenta di far passare
in secondo piano gli scandali finanziari in cui membri autorevoli della
sua amministrazione sono ampiamente coinvolti.

La «guerra infinita» che Bush ha
garantito al mondo, non è però solo l’ennesimo stratagemma per coprire
difficoltà di politica intea e per tentare di risollevare l’economia
americana da una ormai cronica recessione.

Non è un caso che due degli «stati
canaglia» nel mirino degli Usa, Iraq e Iran (bollati da Bush nel suo
discorso del 29 gennaio scorso sullo «stato dell’Unione», come «asse del
male») siano anche importanti paesi produttori di petrolio.

Si diceva una volta che chi
controlla il Golfo, controlla il mondo. Oggi, il dominio delle risorse
energetiche dell’Asia Centrale, che con quelle del Medio Oriente
rappresentano circa i due terzi delle risorse del nostro pianeta, è un
obiettivo imprescindibile per chi come gli Usa vogliono che il XXI secolo
sia ancora un secolo americano.

Per un paese che aspira alla
«dittatura globale», l’intervento in Afghanistan era perciò necessario,
non solo per insediare un fedelissimo come Karzai al governo del paese, ma
soprattutto per piazzare per la prima volta alcune basi militari nelle
repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale che, oltre ad essere una
spina nel fianco di Iran e Cina, potrebbero diventare utilissime per un
attacco all’Iraq, nel caso probabile di un rifiuto di paesi arabi amici di
offrire le loro basi per tale operazione.

Gli eventi dell’11 settembre 2001
e ciò che n’è seguito, il diritto alla legittima difesa, il diritto alla
rappresaglia da tutti riconosciuti ed approvati (persino dall’Onu con
risoluzione 1368 del 12 settembre), sono serviti da pretesto per fornire
una parvenza di legittimità ad un nuovo capitolo della vecchia e mai
dismessa politica delle cannoniere.

Esemplari a tale proposito le
affermazioni del consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice:
«Per l’Iraq non c’è bisogno di prove: Saddam è un individuo pericoloso».

Se per l’Iran si sta ancora
battendo la via diplomatica, per l’Iraq, gli Usa hanno ormai scelto quella
militare.

RAFFREDDARE IL
CONFLITTO PALESTINESE

Nell’editoriale del 22 aprile il
Washington Post si rammaricava che gli Usa non possano attaccare a loro
piacimento l’Iraq senza avere alle spalle il consenso di tutti gli arabi.

Certamente per gli Stati Uniti è
difficile dare, contemporaneamente, una «lezione» a due popoli arabi,
quello palestinese e quello iracheno, senza creare tensioni irreparabili
tra le masse popolari di quei paesi arabi come Egitto, Arabia Saudita e
Giordania, cosiddetti moderati solo perché asserviti agli interessi
occidentali.

Gli Usa non hanno nulla da offrire
se non un temporaneo raffreddamento del conflitto mediorientale, giusto il
tempo occorrente per una guerra che porti ad un cambiamento di regime in
Iraq. Una volta neutralizzato Saddam, potranno delegare nuovamente a
Sharon, Netanyahu o Peres la soluzione del problema palestinese.

La ricerca di alleati interni ed
estei all’Iraq, la scelta all’interno dell’inconsistente e litigiosa
opposizione irachena di una «testa di legno» che garantisca in futuro gli
interessi nordamericani, la risistemazione territoriale del Medio Oriente
e il consenso dell’opinione pubblica americana e mondiale a questa nuova
«operazione di polizia coloniale», sono tutte questioni che gli Usa
debbono definire prima dell’intervento armato.

Per mascherare una divisione del
paese in tre piccoli stati più controllabili e più deboli economicamente e
militarmente, per il dopo-Saddam si prospetta una soluzione federalista,
che permetta «alle etnie sciite, sunnite e kurde di vivere insieme senza
la prevaricazione di una di esse, evitando però che l’autonomia si
trasformi in indipendenza, il che nel caso dei kurdi potrebbe
compromettere un aiuto militare turco», come spiega l’ex segretario di
stato Henry Kissinger.

In realtà si vuole evitare che in
futuro l’Iraq possa tornare ad essere una potenza regionale concorrenziale
ed ostile ad Israele. Perciò tra gli aspiranti alla guida del futuro Iraq
federale troviamo tale Al-Sharif Ali Bin Al-Hussein, parente del re di
Giordania ed esponente hascemita. Ciò di quella monarchia che goveò
l’Iraq con una politica completamente subalterna agli interessi britannici
sino al 14 luglio 1958, quando tutto il popolo iracheno insorse, fucilò la
famiglia reale, linciò il ministro Nuri Said (considerato più inglese
degli inglesi) e proclamò la repubblica.

LA
«CROCIATA» MASS-MEDIATICA                           

L’amministrazione Bush è divisa al
suo interno fra coloro che intendono attaccare (infischiandosene
dell’opinione degli alleati) e quanti ritengono che si debba ricercare il
consenso più ampio, soprattutto fra i governi europei. Questi però,
consapevoli della contrarietà alla guerra della maggioranza dell’opinione
pubblica, si nascondono dietro una risoluzione dell’Onu che avalli
l’intervento armato contro l’Iraq.

 Non esistendo al momento la prova
del coinvolgimento iracheno negli eventi dell’11 settembre, né tanto meno
un collegamento con Al Qaeda, per convincere l’opinione pubblica
dell’urgente necessità della guerra contro l’Iraq, è iniziata una
martellante «crociata mass-mediatica», consistente nella quotidiana
scoperta di fabbriche e depositi di sostanze chimiche, batteriologiche e
nucleari pronte per essere usate contro tutto l’Occidente.

Il copione che si sta realizzando
è quasi simile a quello che portò all’intervento della Nato in Jugoslavia:
il 15 gennaio 1999 venne confezionato dall’Uck l’eccidio di Racak, che
provocò la generale indignazione dell’opinione pubblica la quale diventò
favorevole all’intervento armato. Il 6 febbraio si mise in scena la farsa
dei colloqui di pace di Rambouillet con condizioni talmente vessatorie ed
inaccettabili per la Serbia, che in pratica equivalsero ad una
dichiarazione di guerra.

ALLA
RICERCA  DI UN «CASUS BELLI»

Per l’Iraq si sta costruendo il
casus belli. La richiesta di ispezioni incondizionate corrisponde già alla
farsa di Rambouillet.

È opportuno ricordare che, verso
la fine dell’ottobre 1997, il governo iracheno bloccò alcune ispezioni dei
commissari dell’Unscom (United nations special commission) ai palazzi
presidenziali e alla sede dei servizi segreti (peraltro già perquisiti più
volte), avendo il sospetto che l’obiettivo delle visite non rispecchiasse
gli scopi della risoluzione 687, ma che fosse quello di scoprire il
sistema di sicurezza a protezione del presidente dell’Iraq. Il governo di
Baghdad, nel riconfermare l’intenzione di continuare a collaborare con
l’Onu, richiese però l’allontanamento degli ispettori di nazionalità
americana.

Nei mesi successivi gli Usa fecero
pressioni sui loro alleati per trovare consenso e collaborazione per
risolvere militarmente la controversia; quando ormai la guerra sembrava
inevitabile, il segretario dell’Onu Kofi Annan, su pressione di molti
governi, il 22 febbraio 1998 volò a Baghdad e strappò in extremis un
accordo. Alcune richieste irachene (come quella di iniziare a discutere
una data certa per la fine dell’embargo) vennero prese in considerazione e
si stabilì la continuazione delle ispezioni dell’Unscom, accompagnate da
diplomatici di varie nazionalità, nominati direttamente da Kofi Annan.

Due mesi dopo, gli ispettori più
sensibili alle esigenze degli Usa accusarono i diplomatici nominati dal
segretario dell’Onu di intralciare le ispezioni e in taluni casi di
sostenere addirittura il punto di vista delle autorità irachene.

Nell’agosto 1998, l’Iraq sospese
nuovamente la collaborazione con gli ispettori reclamando una discussione
sulla fine dell’embargo. A fine mese, le tensioni all’interno dell’Unscom
sfociarono nelle dimissioni del più discusso tra gli ispettori: il
colonnello dei marines William Scott Ritter (vedere scheda). Nel corso di
una trasmissione televisiva, Ritter rivelò che gran parte della
commissione, compreso il capo degli ispettori, l’australiano Richard
Butler, lavoravano per la Cia ed Israele. Paradossalmente l’Iraq, cui
competevano le spese delle ispezioni, pagava per essere spiato!

Nel dicembre 1998 gli ispettori di
Butler lasciarono definitivamente Baghdad, sostituiti dai bombardieri
anglo-americani e la questione delle ispezioni è rimasta a tutt’oggi nella
medesima situazione di allora.

L’Iraq chiede di affrontare non
solo il problema delle armi, ma anche quello della durata dell’embargo,
del ripristino della sovranità su tutto il paese e dell’eliminazione delle
no-fly-zones. Gli Stati Uniti puntano solo all’intervento militare per
ripristinare quel dominio sul  petrolio arabo che le nazionalizzazioni dei
primi anni Settanta gli avevano tolto.

Prossima fermata, Teheran.

 


Sfogliando s’impara…
Punire gli innocenti

«“Però – mi si dice – è lecito
castigare un singolo malfattore; dunque sarà lecito anche punire una
collettività con la guerra”. Una replica troppo prolissa esigerebbe
questa obiezione. Mi limiterò a osservare che c’è questa differenza:
nelle azioni giudiziarie il reo convinto paga la colpa secondo la
legge, nella guerra ognuna delle due parti accusa l’altra. Lì il
castigo tocca solo al colpevole, l’esempio arriva a tutti; qui la più
gran parte delle sventure ricade su coloro che meno ne sono
meritevoli, su contadini, vecchi, donne, orfani, fanciulle».

Erasmo da Rotterdam, Adagia,
1508

 Giustizia
Infinita

«Sapete bene ciò che dice la
bibbia: “Occhio per occhio, dente per dente”. Ma io vi dico: non
vendicatevi contro chi vi fa del male. Se uno ti dà uno schiaffo sulla
guancia destra, tu presentagli anche l’altra. Se uno vuol farti un
processo per prenderti la tunica, tu lasciagli anche il mantello. Se
uno ti costringe ad accompagnarlo per un chilometro, tu va’ con lui
per due chilometri».

vangelo secondo Matteo, 5,
38-41

 

«NOT IN OUR
NAME»

«Che non si dica che i
cittadini degli Stati Uniti non hanno fatto nulla quando il loro
governo dichiarava una guerra senza limiti e approvava nuove, dure
misure di repressione.

I firmatari di questa
dichiarazione fanno appello al popolo degli Stati Uniti affinché si
opponga alle politiche e all’orientamento politico generale emersi
dopo l’11 settembre 2001 e che rappresentano gravi pericoli per i
popoli del mondo. (…)

Crediamo che i popoli e le
nazioni abbiano il diritto di determinare il loro destino, al di fuori
della coercizione militare delle grandi potenze. (…)

Crediamo che perplessità,
critiche e dissenso vadano valorizzati e tutelati. (…)

Per questo facciamo appello a
tutti gli americani affinché si oppongano alla guerra e alla
repressione scatenata nel mondo dell’amministrazione Bush. È ingiusta,
immorale e illegittima. Scegliamo di fare causa comune con i popoli
della terra.

Il presidente Bush ha
dichiarato: “Siete con noi o contro di noi”. Ecco la nostra risposta:
ci rifiutiamo di consentirvi di parlare a nome di tutti gli americani.
Non abbiamo intenzione di rinunciare al nostro diritto di porre
domande. Non consegneremo le nostre coscienze in cambio di una vuota
promessa di sicurezza. Diciamo “non a nome nostro”. Ci rifiutiamo di
prendere parte a queste guerre e respingiamo qualunque affermazione
secondo la quale verrebbero  combattute a nome nostro e per il nostro
bene». (…)

appello firmato da 4.000
personalità statunitensi e pubblicato sul

«New York Times», settembre
2002

 

ALLA
RICERCA DI UN PRETESTO

«Oggi come ieri, ciò che la
Casa bianca ricerca non è il ritorno degli ispettori in Iraq: bensì un
pretesto per un’avventura militare che rischia di approfondire il
fossato tra il mondo musulmano e l’Occidente. Chi può sapere quali
sarebbero le conseguenze di una tale impresa su una regione già
sconquassata dall’offensiva del governo israeliano contro i
palestinesi?».

Alain Gresh

su «Le Monde
Diplomatique»settembre 2002

 

 


QUANTI BARILI?

 La classifica dei paesi con
le maggiori riserve di petrolio (in miliardi di barili al gennaio
2002):

 Arabia Saudita   261,75
    Iraq        112,50
    Emirati Arabi        97,80
    Kuwait     96,50
    Iran          89,70

A distanza seguono Venezuela
(77,69) e Russia (48,57). 

 

 

BILANCIO
MILITARE DEGLI STATI UNITI

 –  bilancio militare per il
2003 (*):

355,5 miliardi di dollari, con
un incremento del 37% rispetto al 2002
–  debito pubblico degli Usa: 6.280 miliardi di dollari al 16 nov.
2002

 (*)  ovvero stanziamenti
pubblici per il Pentagono

 

 


ANTIAMERICANO? RILEGGIAMO
IL VANGELO DI MATTEO…

Un amico cui ho fatto leggere
in anteprima queste riflessioni mi ha fatto notare che manca un
giudizio sul comportamento di Saddam Hussein e del governo iracheno.

Abitualmente succede che colui
il quale vuole biasimare l’operato degli Usa, per non passare per un
vetero-comunista antiamericano e filo Saddam, deve prima elencare
tutte le malefatte del dittatore iracheno.

Per fortuna, nella mia vita ho
quasi sempre potuto esprimere il mio pensiero senza che ciò implicasse
la perdita del posto di lavoro o ritorsioni e quindi posso
tranquillamente  affermare che nessuna nefandezza al mondo è
paragonabile o può giustificare il crimine di genocidio del popolo
iracheno, perpetrato dagli Usa attraverso l’embargo che, dal 1990 ad
oggi, ha procurato almeno 1.500.000 vittime. Tutto ciò, con la servile
complicità degli altri governi occidentali, di centro-destra e di
centro-sinistra, e con l’avallo dell’Onu.

Credo allora sia opportuno
ricordare quel consiglio del vangelo secondo Matteo (Mt 7,3-5) che
recita: «Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello,
mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? Come potrai
dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio,
mentre nell’occhio tuo c’è la trave? Ipocrita, togli prima la trave
dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza
dall’occhio del tuo fratello».

Cesare Allara




Reportage dall’Iraq di Saddam

LA «CONVERSIONE» DI SADDAM

Sulla bandiera del paese si staglia
«Allah Akbar». Da tempo il presidente iracheno ha capito che la religione
può aiutarlo. E così ha deciso di ergersi a paladino dell’islam. Stretti
tra sciiti e sunniti, i cristiani sono circa il 3% della popolazione,


la maggioranza dei quali cattolici caldei, che…

In Iraq la religione di stato è
l’islam.
Ma l’articolo 25 della Costituzione riconosce la libertà di culto per le
altre religioni. Per questa ragione, in un paese a netta prevalenza
islamica (65% sciiti e 32% sunniti) vengono riconosciute dal governo altre
14 professioni di fede tra cattoliche, ortodosse e protestanti.

I cristiani in Iraq rappresentano
circa il 3% della popolazione, una stima non certa visto che non esistono
dati ufficiali recenti. A questa mancanza di precisione si deve aggiungere
l’emigrazione di molti cristiani (specialmente negli Stati Uniti
d’America), il cui numero è sconosciuto.

Il 70% dei cristiani iracheni
appartiene alla Chiesa cattolica caldea, una chiesa «uniate» (in comunione
con Roma) di rito orientale, che ha la massima espressione gerarchica nel
patriarca Raphael Bidaweed I, la cui sede è a Baghdad, che conta circa 100
tra chiese e conventi in tutto il paese, di cui 25 parrocchie nella sola
capitale.

Capire le condizioni in cui questa
comunità vive non è facile. Certo, se si pensa alla situazione dei non
musulmani nei paesi vicini, come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi
Uniti, ci si deve rallegrare della sua stessa sopravvivenza. L’impressione
è che, se ci sono dei problemi, questi non riguardano le persone, ma
alcune politiche di governo.

L’Iraq, retto dal 1968 dal partito
Baath, si distingueva per essere un paese laico, anche se a maggioranza
musulmana, in un’area intensamente permeata dallo spirito dell’islam.
Però, da qualche tempo, sembra che le cose stiano cambiando.

A Saddam Hussein viene comunemente
attribuito il desiderio di diventare un nuovo Nasser, un leader capace di
riunire sotto di sé tutto il mondo arabo; e la religione, prima relegata
alla sola sfera privata, sembra essere un buon mezzo per raccogliere i
consensi di quel mondo: Saddam Hussein paladino della lotta per la
riconquista della Palestina contro l’invasore ebreo; Saddam Hussein eroe
dei popoli che percepiscono gli attacchi e le guerre del mondo occidentale
non musulmano non in senso politico-economico, ma religioso: il mondo
contro l’islam.

Questo avvicinamento all’islam,
legato alla nuova immagine di capo religioso in un paese musulmano, che
Saddam vuole sia percepito (sia in patria che all’estero), ben si confà
anche agli iracheni che, come tutti i popoli in disgrazia, trovano l’unico
conforto nella religione.

Ecco quindi comparire sulla
bandiera irachena «Allah Akbar» (Allah il più grande); ecco che ogni anno,
in occasione del compleanno del presidente, si inaugura una nuova moschea
e, contestualmente, si posa la prima pietra di un’altra.

A Baghdad è in costruzione la
moschea più grande del mondo, Saddam Grand Mosque, il cui progetto prevede
8 minareti, di cui 4 alti 280 metri. Nel 2000 fu terminata la moschea di
Um al-Maarik, dedicata alla «madre di tutte le battaglie» come venne
chiamata in Iraq la guerra del Golfo, anch’essa con 8 minareti: 4 hanno la
forma di canne di mitragliatrice, con il colpo innestato, e 4 di rampe di
lancio dei missili scud, che nel 1991 caddero su Israele e Arabia Saudita.
E un chiaro messaggio del legame religione-potere-guerra, che non passa
inosservato.

Dal 1997 (anno del nostro primo
viaggio) al 2001, il numero delle donne che per le strade di Baghdad
indossano il velo che copre il capo è aumentato notevolmente; a Mosul, una
delle vie principali, è quasi impossibile trovare una donna per strada dal
tramonto in poi.

Il ricorso alla religione (ultima
risorsa per chi non ne ha più) è favorito dal governo. Questo, grazie ad
una politica accorta, cerca di deviare l’attenzione verso un elemento che
può consolare e amalgamare, nel nome dell’islam, le aspirazioni delle due
grandi componenti religiose: i sunniti (minoritari, ma al potere) e gli
sciiti (maggioritari, ma con scarsa rilevanza politica ed economica).

QUEL CALDEO DI
TAREQ AZIZ

In questa situazione come vivono i
cristiani? La questione deve essere esaminata da due punti di vista:
quello delle fonti di informazioni e, poi, quello dell’analisi delle
informazioni stesse.

Le fonti informative sono due: i
cristiani che vivono in Iraq e quelli che l’hanno abbandonato e risiedono
all’estero. Le fonti intee parlano di convivenza non problematica nella
maggioranza dei casi; spesso, quando si tocca l’argomento, si fa notare
che il vice primo ministro, Tareq Aziz, è cristiano caldeo.

Circa la vita di tutti i giorni,
noi stessi abbiamo assistito ad una cerimonia in una chiesa caldea di
Baghdad, dove a suonare l’organo ed intonare i canti era un musulmano,
Mohammed. E le stazioni della Via Crucis della chiesa dell’Assunzione a
Baghdad furono scolpite dal musulmano Ghani, uno dei maggiori scultori
iracheni viventi.

Una situazione idilliaca quindi?
Secondo fonti estere non si direbbe. I cristiani (per esempio nella ricca
zona petrolifera di Kirkuk) sarebbero sottoposti alla ricollocazione
forzata in altre zone, compiuta dal governo che vorrebbe «arabizzare»
un’area di interesse economico e strategico, essendo Kirkuk vicinissima
(ma fuori) della no fly zone controllata da americani ed inglesi e, di
conseguenza, importantissima, in vista di un’eventuale invasione di truppe
dal nord curdo. La ricollocazione riguarda pure i kurdi, i turkmeni e gli
yazidi.

Un altro problema investe
l’identità dei cristiani che, pur dichiarandosi discendenti degli assiri,
sono costretti a «dimenticare» la loro origine per assumere quella
dell’etnia maggioritaria della zona in cui abitano. Le etnie riconosciute
in Iraq sono solo l’araba e kurda.

Inoltre un recente decreto
governativo stabilisce che non è più possibile dare ai nuovi nati nomi non
arabi, iracheni o islamici, con un chiaro richiamo alla religione
maggioritaria. La ragione è di porre fine all’abitudine dei cristiani di
dare ai figli nomi stranieri. Pertanto, se è possibile riferirsi a nomi
biblici, questi devono avere sempre la forma araba: non più Maria o Mary,
ma Mariam. È solo un nazionalismo un po’ esasperato? I cristiani giudicano
il decreto un tentativo di «arabizzarli»; ma, pur adeguandosi «obtorto
collo», nella vita privata Mariam continua a essere Maria.

Più grave è la conferma dataci da
mons. Shlemoun Warduni, patriarca vicario dei caldei, dell’inizio di
applicazione di un nuovo decreto. Esso impone, nei documenti di identità,
di dichiararsi o musulmano o non musulmano. Libertà religiosa a parte, il
decreto è potenzialmente pericoloso dal punto di vista legale. Oggi l’Iraq
è ancora uno stato laico; però, se le cose dovessero mutare, i cristiani
potrebbero non godere più della protezione prevista dal corano per le
«genti del libro» (ebrei e cristiani, in quanto depositari di un messaggio
divino) e ricadere nella categoria di popoli atei, non meritevoli di
protezione.

IL MINISTERO
DEGLI AFFARI RELIGIOSI

Molto delicato è il problema della
libertà religiosa. In Iraq esiste il reato di apostasia (la conversione di
un fedele ad un’altra religione). Ma un cristiano che diventa musulmano
non rischia nulla; anzi, probabilmente, dalla sua conversione trarrebbe i
vantaggi che di solito appartengono alla maggioranza. Invece il musulmano
che volesse farsi cristiano non avrebbe vita facile: sebbene
(fortunatamente) non venga più applicata la pena di morte, lo aspetterebbe
tuttavia la «morte civile», la perdita del lavoro, dei beni, del diritto
ereditario e, addirittura, della moglie e dei figli da cui sarebbe
forzatamente separato.

Le possibilità di conversioni
dall’islam al cristianesimo non appaiono grandi, perché i cristiani non
possono fare proselitismo al di fuori dei loro edifici di culto e studio.
Lo stesso insegnamento della religione cristiana a scuola va scomparendo.
Sembra infatti che, contestualmente all’obbligo dello studio del corano in
tutte le scuole del paese (compresi gli orfanotrofi cattolici frequentati
solo da cattolici), gli istituti dove si insegna il cristianesimo siano
sempre meno.

Stando ad un decreto del 1972,
l’insegnamento di tale materia è obbligatorio solo nelle scuole in cui il
numero degli alunni cristiani raggiunge il 25%. Secondo fonti estere ed
intee, sarebbero sempre più numerosi i direttori scolastici che, per non
gravare sul bilancio con lo stipendio di un insegnante di religione
cristiana, rifiuterebbero l’ammissione di alunni che porterebbero la
percentuale della presenza al 25%.

Da questi esempi si capisce che le
informazioni sulla condizione dei cristiani sono molto diverse, a seconda
della fonte di provenienza. Molti definiscono «troppo allarmistiche» le
notizie provenienti dall’estero. In realtà esse poggiano su una base di
verità.

Resterebbe da capire la ragione
della disparità di tono nella denuncia. Nel caso delle prudenti fonti
intee, un’ipotesi potrebbe essere il desiderio di non scontentare il
governo e quello, comune a molte minoranze, di tenere un basso profilo,
che favorirebbe di più la sopravvivenza.

Nel caso delle fonti estee
(quasi tutte nordamericane), i giudizi negativi potrebbero nascere da una
volontà di denuncia sincera, rafforzata dall’essere ormai fisicamente
lontani da qualsiasi eventuale conseguenza. Inoltre ci potrebbe essere la
complicità (diretta o indiretta, cosciente o meno) di tali fonti con i
governi che, da 12 anni (e con nuovo impeto dopo l’«11 settembre»), hanno
iniziato e continuato la campagna di demonizzazione dell’Iraq, capro
espiatorio della volontà egemonica di quei governi nell’area
mediorientale.

L’Iraq è un paese in cui non è
facilissimo avere delle informazioni; per esempio, ogni aspetto della
religiosità, musulmana o cristiana, viene filtrato, esaminato e ricondotto
al ministero degli Affari religiosi, in totale controllo dei musulmani.

Per capire la situazione dei
cristiani, è necessario raccogliere tutte le informazioni possibili, da
ogni fonte, e cercare di ricostruire un quadro globale.

Ci augureremmo che la situazione
fosse quella di pacifica convivenza, sbandierata sia dai cristiani sia dai
musulmani che vivono nel paese. Se così non fosse, le speranze di
sopravvivenza della comunità cristiana sarebbero veramente ridotte: spinti
all’emigrazione da guerre, condizioni minoritarie, tragica situazione
economica, i cristiani potrebbero scegliere di abbandonare quei luoghi nei
quali, con San Tommaso, la cristianità arrivò ben sei secoli prima
dell’islam.

Gli eventi dal
1990 al 2002

GUERRA, EMBARGO,
DISTRUZIONE, MORTE

1990:
invasione del Kuwait 2 agosto: risoluzione 660

Il Consiglio di Sicurezza
dell’Onu (Cds) condanna l’invasione e ordina all’Iraq di ritirarsi dal
Kuwait.

6 agosto: risoluzione 661
Il CDS dell’Onu impone l’embargo totale.

25 agosto: risoluzione 665
L’Onu autorizza l’uso della forza per assicurare l’attuazione
dell’embargo.

29 novembre: risoluzione 678
Ultimatum: «gli stati membri dell’Onu sono autorizzati ad usare tutti
i mezzi necessari per far attuare le precedenti risoluzioni a partire
dal 15 gennaio 1991».

1991:
«guerra del Golfo»

16/17 gennaio Inizia la
«guerra del Golfo».

28
febbraio L’Iraq si ritira dal Kuwait: fine della «guerra del Golfo».

3 aprile: risoluzione 687

Il Cds proroga le sanzioni
fino alla distruzione completa di tutte le armi non convenzionali da
parte dell’Iraq. Il disarmo nucleare è sottoposto al controllo
dell’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), mentre per
il controllo e la distruzione delle armi chimiche e batteriologiche
viene creata una commissione internazionale speciale detta Unscom.

giugno
Francia, Usa e Gran Bretagna istituiscono le «no-fly zones» che
vietano all’aviazione irachena il sorvolo delle zone Nord e Sud
dell’Iraq. Ciò al fine di proteggere dalla guerra i kurdi al nord e
gli sciiti al sud.

11 ottobre: risoluzione 715
Gli ispettori dell’Unscom vengono autorizzati ad ispezionare senza
limiti qualsiasi luogo dell’Iraq.

1992: Mig
2 ottobre: risoluzione 778

Congelamento dei beni iracheni
all’estero.

27 dicembre
Un caccia F-16 abbatte un Mig iracheno nella «no-fly zone»
meridionale.

1993: bombardamenti

gennaio:
Bombardieri Usa martellano per giorni «obiettivi militari» iracheni in
risposta ad asserite violazioni del cessate il fuoco.

giugno
Presunto complotto di Saddam Hussein per uccidere l’ex presidente Bush
in visita nel Kuwait. In conseguenza di ciò le navi Usa presenti nel
Golfo sparano 23 missili cruise sul quartier generale dei servizi
segreti iracheni a Baghdad uccidendo 6 persone.

1994:
Kuwait riconosciuto

10 novembre
Il Consiglio del Comando della Rivoluzione e l’Assemblea Nazionale
Irachena riconoscono la sovranità, l’integrità territoriale,
l’inviolabilità dei confini e l’indipendenza politica del Kuwait, come
stabilito dalla commissione Onu nell’anno precedente.

1995: «oil for food»

aprile: risoluzione 986
La mancanza di cibo e medicinali provoca, secondo l’Unicef e la Cri,
la morte di 4.500 bambini al mese. Vista la grave situazione
alimentare e sanitaria venutasi a creare a causa dell’embargo l’Onu
elabora la risoluzione detta «oil for food» che permetterebbe all’Iraq
di esportare ogni 6 mesi 2 miliardi di dollari di petrolio in cambio
di cibo e medicinali. Il governo iracheno rifiuta la risoluzione e
chiede la fine immediata dell’embargo.

1996: kurdi

20 maggio
L’Iraq, dopo trattative con il Segretario generale dell’Onu, accetta
l’applicazione della 986.

31 agosto: lotte tra kurdi
Il presidente Clinton decide di intervenire militarmente contro l’Iraq
dopo che il Partito Democratico del Kurdistan (Pdk) di Barzani,
appoggiato dall’esercito iracheno, ha cacciato i rivali kurdi del Puk
di Talabani dalla città di Erbil.

31 ottobre
Con la mediazione Usa termina il conflitto tra Puk e Pdk.

dicembre
Inizia l’operatività della «oil for food»: dal ricavato della vendita
del petrolio il 50% serve per pagare i danni di guerra, per le spese
di distruzione degli armamenti e convenzionali, per le spese degli
ispettori dell’Onu e per il sussidio ai kurdi del nord.

1997: ispettori

27 ottobre
L’Assemblea nazionale irachena raccomanda la sospensione della
collaborazione con gli ispettori Onu, fino a quando non saranno
definiti tempi certi per la revoca dell’embargo.

29 ottobre
Il vice premier iracheno Tareq Aziz, in una lettera al Cds, denuncia
che gli ispettori dell’Unscom non puntano a realizzare il mandato
della commissione ma a rilevare i sistemi di sicurezza dell’Iraq.
L’Iraq esige perciò che gli ispettori americani, considerati spie, se
ne vadano entro una settimana.

13 novembre
L’Iraq ordina l’espulsione degli ispettori Usa. Dopo intense
trattative, con la mediazione russa, gli ispettori ritornano a
Baghdad.

dicembre
Gli iracheni vietano agli ispettori dell’Unscom ulteriore accesso ai
siti presidenziali.

1998: ancora «problemi»

gennaio
Gli Usa preparano una nuova guerra contro l’Iraq, senza però trovare
l’appoggio dei paesi arabi.

febbraio
Una proposta di mediazione russa, che prevede la formazione di una
speciale commissione molto allargata (composta da esperti dei 5 paesi
membri del Cds e da quelli dei 21 paesi membri dell’Unscom), che possa
visitare gli 8 siti presidenziali sospetti, viene accettata da
Baghdad, ma respinta da Washington.

23 febbraio
Kofi Annan, dietro pressioni europee e arabe, vola a Baghdad e in
extremis riesce a strappare un accordo che, riprendendo in larga parte
la proposta russa, impedisce l’intervento Usa e regolamenta le
ispezioni Onu ai palazzi presidenziali.

3 aprile
Si concludono le ispezioni ai palazzi presidenziali, senza che in essi
siano stati trovati i laboratori per la fabbricazione di armi chimiche
e batteriologiche.

10 aprile
Il capo degli ispettori dell’Unscom, l’australiano Richard Butler e
gli ispettori Usa accusano gli esperti nominati da Kofi Annan di
intralciare le ispezioni e di sostenere il punto di vista delle
autorità irachene.

14 aprile
L’Aeia annuncia che l’Iraq ha completamente smantellato il programma
nucleare.

19 maggio
Tareq Aziz in visita a Roma invita il papa in Iraq.

23 giugno
Butler accusa Baghdad di produrre gas nervino per i missili.

30 giugno
Dopo che un F-16 Usa ha colpito con un missile Harm una «postazione
radar» nella zona di non volo vicino a Bassora, l’Iraq chiede
l’abolizione delle «no-fly zones» decise, senza l’approvazione
dell’Onu, da Usa, Gran Bretagna e Francia.

3 agosto
Le autorità irachene accusano Butler di trovare sempre nuove scuse per
non riconoscere l’avvenuto disarmo iracheno e per mantenere in vita
l’embargo come vogliono gli Usa.

4 agosto
Richard Butler se ne va da Baghdad.

5 agosto
Nonostante i talebani siano pronti a consegnare Bin Laden, gli Usa
bombardano per rappresaglia il campo di addestramento di Hakrat in
Afghanistan e una fabbrica di medicinali alla periferia di Karthum in
Sudan che produceva e vendeva medicinali anche all’Iraq.

27 agosto
Il colonnello dei marines William Scott Ritter, il più discusso tra
gli ispettori dell’Unscom, si dimette.

1° settembre
In una intervista ad una televisione nordamericana Scott Ritter rivela
che gran parte della Commissione, compreso il capo degli ispettori,
l’australiano Richard Butler, lavorano per la Cia ed il Mossad
israeliano.

1° ottobre
Dennis Halliday, cornordinatore per l’Onu del programma umanitario in
Iraq, si dimette per protesta contro l’embargo Onu.

5 novembre
L’Onu condanna l’Iraq per non collaborazione con gli ispettori
dell’Unscom. Gli Usa preparano l’intervento militare.

11 novembre
Ultimatum Usa a Baghdad: gli ispettori lasciano precipitosamente
l’Iraq.

14 novembre
Su pressione dei Kofi Annan l’Iraq accetta il ritorno degli ispettori.

17 novembre
Gli ispettori appena giunti a Baghdad chiedono alle autorità irachene
di consegnare documenti su ipotetici programmi batteriologici e
chimici che Butler ritiene esistenti: l’Iraq rifiuta.

9 dicembre
Butler accusa l’Iraq di aver bloccato un’ispezione al quartier
generale del partito Baath.

16 dicembre
Gli ispettori fuggono da Baghdad. Alle 22.50 improvviso attacco
missilistico Usa contro Baghdad.

17/20 dicembre
In 4 giorni di bombardamenti vengono lanciati più missili di quanti ne
furono impiegati durante tutta la guerra del Golfo del 1991. Colpiti
anche ospedali, università e fabbriche. Si stimano 1.600 morti. Gli
attacchi missilistici proseguiranno quasi quotidianamente fino ai
giorni nostri.

1999: incursioni aeree

17 dicembre: risoluzione 1284
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu istituisce l’Unmovic che
sostituisce l’Unscom e promette che le sanzioni verranno sospese, se
l’Iraq collaborerà con gli ispettori «sotto tutti gli aspetti».

Secondo il ministero della
Difesa iracheno, nel 1999, le incursioni aeree anglo-americane sono
state 16.848 ed hanno causato più di 150 morti e quasi 400 feriti in
grande maggioranza civili.

2000: l’embargo non perdona

14 febbraio
Con le identiche motivazioni di Dennis Halliday si dimettono in pochi
giorni il tedesco Hans Von Sponeck, cornordinatore del programma
umanitario Onu per l’Iraq, e la sua connazionale Jutta Burghart,
responsabile del «World Food Program».

1° marzo
Hans Blix è nominato capo dell’Unmovic.

agosto
Secondo il ministero della sanità iracheno, l’embargo ha provocato dal
1990 ad oggi 1.273.000 vittime.

settembre
L’Iraq respinge nuovamente gli ispettori dell’Onu che dovevano
riprendere i controlli sul disarmo non convenzionale.

novembre
L’Iraq decide di eliminare il dollaro e di adottare l’euro come moneta
per il commercio estero.

2001: l’anno dell’«11
settembre»

16 febbraio
L’Iraq sfida le «no-fly zones» e ripristina i collegamenti aerei
civili tra Mosul, Baghdad e Bassora.

maggio: arriva Bush figlio
Appena insediato, il nuovo presidente Bush jr. bombarda Baghdad: non
accadeva dal natale 1998.

giugno
Riapertura della linea ferroviaria di collegamento con la Turchia,
interrotta nel 1981.

11 settembre: attentati di New
York
Dopo la tragedia delle Torri gemelle, George W. Bush guarda
all’Afghanistan dei talebani e all’Iraq di Saddam.

2002: l’era della guerra
preventiva?

23 settembre: la dottrina di
Bush
George W. Bush presenta al Congresso statunitense e al mondo la sua
dottrina nel «The National Security Strategy of the United States».
Inizia l’era della «guerra preventiva».

24 settembre: il dossier di
Blair
Il primo ministro inglese Tony Blair, principale alleato di Bush,
presenta alla camera dei comuni un dossier dei servizi segreti
sull’Iraq. Ma le prove non convincono. Pochi giorni dopo (28
settembre) Londra ospita una grande manifestazione contro la guerra.

24 settembre:

«Vade retro» Germania!

A Varsavia, il ministro della
difesa statunitense, Donald Rumsfeld (con Condoleezza Rice, un
«superfalco» dell’amministrazione Bush), si rifiuta di stringere la
mano al collega tedesco Peter Struck, ministro del cancelliere Gerhard
Schroder, appena riconfermato dagli elettori anche per il suo «no»
alla guerra contro l’Iraq.

1 ottobre: gli Usa contro gli
ispettori
A Vienna si trova un accordo: gli ispettori dell’Onu possono tornare a
Baghdad. Ma gli Usa (spalleggiati dalla Gran Bretagna) si oppongono.
Vogliono una nuova risoluzione, che preveda l’utilizzo della forza.

10 ottobre: sì di Camera e
Senato
La Camera e il Senato degli Stati Uniti autorizzano «il presidente a
usare le forze armate, come ritiene necessario e appropriato, al fine
di difendere la sicurezza nazionale degli Usa contro la minaccia
continua posta dall’Iraq».

26 ottobre: contro la guerra

A Washington e a San Francisco sfilano i pacifisti statunitensi. Sono
le più grandi manifestazioni dai tempi della guerra del Vietnam.

5 novembre: vince Bush
Nelle elezioni di medio termine vincono i repubblicani del presidente
Bush.

8 novembre: risoluzione Onu

Il Consiglio di sicurezza approva all’unanimità la risoluzione 1441,
che sancisce la ripresa delle ispezioni in Iraq. In caso di mancata
collaborazione, Baghdad rischia «gravi conseguenze».

13 novembre: Baghdad accetta

L’ambasciatore iracheno presso le Nazioni Unite consegna a Kofi Annan
una lettera in cui si dice che «l’Iraq accetta senza condizioni il
ritorno degli ispettori» .

18 novembre: arrivano gli
ispettori
Hans Blix guida il primo gruppo di ispettori (30 persone). Lo svedese
annuncia che anche un semplice ritardo di 30 minuti nell’apertura di
un sito sarà considerato una violazione seria.

Luigia Storti




KENYA, AMORE NOSTRO

«Il 28 giugno 1902, ottava della
festa della Consolata, alle ore
4,30 ho la santa soddisfazione
di celebrare la prima messa che si sia
detta in questa parte del Kikuyu.
Consacro alla Consolata queste povere
anime, supplicandola che ci ottenga
dal suo Divin Figlio di poter presto
raccogliere frutti abbondanti di vita
eterna». Così scrisse padre Filippo
Perlo, da Tuthu, fra i KIKUYU. Con lui
c’erano padre Tommaso Gays e i fratelli
coadiutori Celeste Lusso e Luigi Falda.
Iniziava dunque, 100 ANNI FA,
l’evangelizzazione dei missionari
della Consolata in Kenya,
neo colonia britannica.
Un’«avventura» tutta in salita.
Perché?

«MA NOI NON SIAMO COME LORO»
Uno scozzese che rapava le donne, e non solo.
I bianchi che comandavano
e i neri che obbedivano, e non solo.
Mentre i missionari ne risentivano negativamente.

IL RICORDO NEFASTO
DI BOYES

Gli europei che, dal 1895 e con
vari intenti, misero piede nel Kenya
dei kikuyu lasciarono negli abitanti
un ricordo ostile. Lo confermò il
capo locale Karuri, che commentò
il primo incontro con il bianco: «Ne
ebbi paura. Credetti di vedere un
dio e, appena a casa, prima di entrare
nel villaggio, presi un montone
per fae un sacrificio a quel dio
bianco, affinché non mi seguisse in
casa mia» (cfr. «Fonti»).
La figura che, all’inizio e più di
ogni altra, riscosse una deplorevole
nomea, fu J. Boyes. Questo scozzese,
accompagnato da 60 askari senza
scrupoli, terrorizzò Tuthu e dintorni,
al punto che la gente emigrava
in massa nell’eventualità di un
suo insediamento nel villaggio.
Era un commerciante e predatore
di bestiame, che fece strage
di elefanti incamerando
enormi quantità di avorio.
Non risparmiò le donne; se
qualcuna non gli andava a
genio, la esponeva al pub-
blico scherno, dopo averla rapata a
zero, legata ad un albero e, magari,
fucilata. L’esperienza con quell’europeo
rese i kikuyu molto circospetti:
ogni bianco era un possibile
Boyes.
I missionari della Consolata subirono
in modo negativo l’accostamento
all’avventuriero. «In qualche
villaggio – scrissero – trovammo un
po’ di diffidenza, e la causa è questa:
circa un anno fa venne qui un
certo Boyes. L’arrivo dei bianchi in
questi luoghi fu da qualcuno creduto
un ritorno di Boyes e dei suoi
metodi».
A Nyeri, fino al 1907, gli anziani
si domandavano chi fosse il patri
(padre) e rispondevano: «È un indiano
che viene a vendere cotonate
o un forestiero che compra ragazze
». Bastava addentrarsi nei villaggi
per cogliere la diffidenza.

CAROVANE, TASSE, MACCHINE
I britannici «pacificarono» la colonia
del Kenya dal 1899 al 1902.
Per salvaguardare l’occupazione, le
truppe militari si spostavano da una
regione all’altra continuamente;
gli spostamenti
erano affiancati
da carovane di portatori, che assicuravano
viveri e munizioni. A tale
scopo furono ingaggiati, con la forza,
anche uomini e donne dei territori
sottomessi.
Nacque allora la frase «andare in
carovana», che alludeva ad un grave
pericolo di vita. Infatti numerosi
portatori, durante il tragitto, soccombevano
per mancanza di assistenza
sanitaria, eccessiva fatica ed
attacchi di guerriglia.
Anche il missionario, appena arrivato,
organizzò carovane. Fu questo
l’unico mezzo a disposizione per
aprire e dislocare i suoi centri di influenza.
Una strategia rischiosa, dato
l’esempio negativo del regime coloniale.
Il potere della Corona inglese divenne
effettivo, tra l’altro, con l’imposizione
della tassa sulle case. La
quota fu di due rupie, poi tre e, infine,
sei. Quando scattarono gli aumenti,
parecchi kikuyu, colti alla
sprovvista, si riversarono nella missione
cattolica in cerca di lavoro.
Spesso gli operai del patri furono costretti
a chiedergli un anticipo di stipendio,
altrimenti l’ufficiale del governo
avrebbe razziato loro il bestiame
o bruciato la capanna o
sequestrato le donne.
Il comportamento dell’amministrazione
coloniale fu osservato con
attenzione dal missionario, che temette
una ritorsione del malumore
generale anche nei suoi confronti.
Un detto significativo, che misurava
la diffidenza kikuyu verso lo
straniero, era: «Il bianco ci ha conciati
per le feste». Tali parole, oltre
che ricalcare avversione, erano pregne
pure di magico terrore.
I bianchi apparvero ai kikuyu fra
lo scoppiettio di fucili e il frastuono
di treni, dall’alto di ponti e carri o
comodamente seduti in case di pietra.
Per i nativi tutto ciò sconfinava
nell’incomprensibile, per non dire
diabolico. Un anziano riferì ad un
padre: «Voi bianchi siete padroni
dell’ngoma [spirito malvagio]. Non
c’è un ngoma in quelle cose che voi
chiamate macchine? Vedi, noi ci intendiamo
di ferro e facciamo molti
lavori con esso, ma non abbiamo
mai visto il ferro andare da sé, parlare
e poi uccidere da lontano, sputando
fuoco su chi vuole».
Anche il missionario fu coinvolto
in questo giudizio di timore. Egli sarebbe
stato «un figlio del sole».
Quando correva in bicicletta o metteva
mano all’aratro, tirato da buoi,
la gente esclamava: «Costui è Dio».
L’ultimo atto dell’occupazione, il
più odiato, fu l’espropriazione delle
terre. L’azione fu condotta in vista
delle fattorie da assegnarsi ai coloni,
che avrebbero consolidato la supremazia
bianca in Kenya.
Il missionario accettò il sistema,
ritenendolo un male necessario affinché
la popolazione approdasse al
progresso. Egli diede per scontato il
lavoro come via allo sviluppo.
Ma i kikuyu stentarono a capire:
a cogliere, per esempio, la diversità
di azione dei bianchi del governo rispetto a quelli della missione. Occorse
del tempo per comprendere
che i primi erano una cosa e i secondi
un’altra.

DISTINGUERSI
DAI COLONIALISTI

All’inizio i rapporti fra la missione
cattolica e l’amministrazione coloniale
furono improntati a vicendevole
simpatia.
Tuttavia il missionario non tardò
a comprendere che, battendo quella
via, avrebbe compromesso la sua
opera. Era dunque urgente mutare
rotta. Accorgendosi che il proprio
comportamento era attentamente
studiato dai kikuyu, colse la palla al
balzo per prendere le distanze dal
colonialista: evidenziò la sua identità
facendosi chiamare patri o mundu
wa Ngai (uomo di Dio).
Un altro elemento differenziatore
fu la scorta armata. Era quasi una
regola che il bianco circolasse per il
paese circondato da 30-40 askari. Il
missionario intuì che la presenza di
soldati alle calcagna lo avrebbe accomunato
ai conquistatori. E rifiutò
la scorta fra lo stupore generale.
Esisteva un’altra tentazione: costruire
le missioni, sfruttando la mano
d’opera gratuita degli africani.
Dopo «le spedizioni punitive», il
governo, per scoraggiare nuove ribellioni,
obbligava 100-200 uomini
di ogni tribù a lavorare gratis per le
sue strutture coloniali (strade, fortezze,
abitazioni di askari, ecc.). Il
potere avrebbe avallato il sistema
anche per il missionario cattolico,
che però declinò l’offerta.
Bisognava non dar adito ad alcuna
illazione di connivenza fra i due
poteri: «Tanto più – commentavano
i missionari – che ripetiamo sempre
che qualsiasi lavoro fatto per noi viene
ricompensato. Una tale idea di
giustizia fa molto effetto sugli indigeni,
assuefatti a vedere nei bianchi
soltanto degli usurpatori».
Questa citazione indica un aspetto
importante per diversificare il
missionario dal colonialista: il lavoro
retribuito. I kikuyu ben presto
acquistarono la certezza che, lavorando
con il patri, erano subito pagati
in contanti, e non a colpi di kiboko
(staffile), come accadeva nei
lavori forzati del governo.
La notizia di un «bianco diverso»,
che pagava gli operai, si divulgò rapidamente.
«Durante le carovane,
alla fine della giornata, i portatori
cantavano le lodi del padre: la canzone
diceva che essi volevano sempre
lavorare con lui, perché era buono.
Il genere di bontà era specificato
e consisteva nelle rupie con cui
avrebbe pagato il loro lavoro».

LA MEDICINA GRATUITA
Il missionario, per farsi conoscere
ed accettare, camminava ore e ore
per i villaggi kikuyu «senza neppure
chiedere una banana»: e intanto
curava i malati. Egli non lesinò fatiche
in questa attività. Ogni giorno,
per ben sette ore, visitava i villaggi
distribuendo medicine; oppure attendeva
a malati in missione, curando
anche 100 persone.
Così facendo, la fama di questo
uomo bianco speciale si spandeva
ovunque.
Padre Carlo Ciravegna, ricordando
quell’intenso apostolato, scrisse:
«Di uomini bianchi ne passavano
molti sulle strade carovaniere dei
grandi laghi equatoriali: ma questi
venivano a comprare avorio e a conquistare
il paese; si facevano accompagnare
da askari armati. Invece i
padri non facevano commercio, non
avevan fucili… ma passavano facendo
del bene, curando gratuitamente
i malati. Fare del bene a gente sconosciuta
era per questi poveri neri
un fatto inaudito: per la prima volta
essi vedevano spiegarsi davanti ai loro
occhi stupefatti i miracoli della
carità cristiana».
La strategia per rimuovere le remore,
che impedivano al missionario
l’accesso psicosociale ai kikuyu,
trovò una punta di diamante nell’amicizia
con i capi locali. Il piano fu
realizzato con gradualità.
Già esisteva una piattaforma: la
familiarità con la popolazione, specie
con le donne e i bambini. «Come
volentieri le madri cedono ora
alle braccia delle suore i bimbi, e
quanto sono felici quando esse li accarezzano!
Poco alla volta noi riusciamo
a farci kikuyu ed entriamo
ogni giorno di più nella loro vita».
Visitando Murang’a, il missionario
fu accolto con entusiasmo. Gli
andarono incontro un capo famiglia,
le donne e i bambini, offrendogli
i primi posti attorno al fuoco; e
quando il patri parlava, tutti pendevano
dalle sue labbra. Alla fine dell’incontro,
il pater familias si dichiarò
figlio e servo dell’ospite. La
familiarità raggiunta si concretizzò
in scambi di doni: da una parte un
po’ di tembo (bevanda alcornolica),
latte o un montone e, dall’altra, una
coperta colorata.
Un giorno il genitore di un operaio
del centro di Tuthu si recò dal
missionario, che raccontò: «Egli mi
parla all’orecchio: suo figlio d’ora in
poi è anche mio figlio, e come egli è
padre così lo sono anch’io. Se suo figlio
è cattivo con lui, egli lo batte; se
è cattivo con me, io lo devo battere».
Però il missionario mirava più in
alto, cioè al capo villaggio, sperando
che accattivandosi le simpatie e, soprattutto,
convertendolo al cristianesimo,
la popolazione ne avrebbe
seguito l’esempio.
Lo sforzo di perseguire la fiducia
dei capi provocò pure qualche curioso
inconveniente, come quello di
due capi di Metumi, che divennero
gelosi per il reciproco sospetto che
il padre favorisse uno più dell’altro.

SPERANZE DI CONVERSIONE
Il mutato rapporto con la popolazione
fu portato alla ribalta dai missionari
con soddisfazione.
Un anziano pregava Ngai, con le
mani protese verso il cielo, affinché
elargisse al padre «tanta ricchezza e
una casa alta come il Monte Kenya,
che fosse potente come il capo Karuri
e che lo spirito del male non lo
danneggiasse mai».
Al missionario sembrava che tutto
si mettesse per il meglio.

IN AZIONE CON TRE «PUNTE»
Come coniugare in missione
il verbo «convertire»?
«Prova e vedrai! Escluso
il condizionale,
in ogni altro modo
è difficile».
Se ne discute
a Murang’a.

NON MANCAVA L’IRONIA
Il sub-commissioner nella colonia
del Kenya, L.S. Hinde, disse ai missionari
della Consolata: «Gli indigeni
vi conoscono in un modo differente
da quello con cui conoscono
il governo. Voi, viaggiando anche
in zone inesplorate, già siete per fama
conosciuti e chiamati per nome
come amici». Era una lusinga.
Il missionario non tardò ad accorgersi
che i suoi ragionamenti interessavano
poco la gente.
Padre Francesco Cagliero, durante
un catechismo ai suoi operai, chiese
perché egli fosse venuto fra loro e
quanti dèi ci fossero. Un tale rispose:
«Non so perché tu sia venuto nel
mio paese; né so quanto tu vai chiedendo,
ma mi sembra che tu oggi abbia
bevuto molto vino per venir fuori
con queste interrogazioni».
Non fu solo l’ironia ad ostacolare
l’evangelizzazione, bensì la difficoltà
intrinseca dell’argomento affrontato.
Per quanto si ripetesse che Dio
non è come l’uomo, composto di anima
e corpo, ma puro spirito, immancabilmente
l’uditorio ripiegava
su temi più abbordabili, quali: se Dio
avesse la barba, se fosse bianco o nero,
se indossasse sempre tanti vestiti,
se mangiasse ogni giorno carne.

IL BATTESIMO CAUSA MORTE?
I missionari non furono dei battezzatori
frettolosi. Infatti i primi
battesimi risalgono al 1909-1911: e
a Tuthu, la prima sede fra i kikuyu,
addirittura al 1916. Fino a tale data
si battezzò quasi esclusivamente in
punto di morte. Furono di regola
battesimi di anziani, avvicinati dal
missionario nel suo apostolato itinerante.
Divenuti amici della missione,
ne accettarono pure l’insegnamento
religioso e, data l’età avanzata, furono
battezzati di comune accordo
prima che la morte li cogliesse. Lo
stesso dicasi per i bambini moribondi.
Poiché il missionario battezzava
persone che poco dopo sarebbero
morte, i kikuyu dissero che l’acqua
versata in testa, fosse «avvelenata
dagli stranieri» e causasse la morte.
Fu un’insospettata difficoltà per l’evangelizzazione.
Si contestò la diceria discutendola
pubblicamente. Il battesimo fa veramente
morire? Il patri e la mware
sono battezzati: e sono forse morti?
«Anzi, il Signore li ha fatti ricchi e
sapienti, li tiene come suoi figli e li
difende dallo spirito del male, il quale
ha grande paura del battesimo».
Però la diceria doveva essere sfatata
con gesti visibili. Ecco allora che il
missionario, curando gli ammalati,
praticava a tutti abbondanti lavaggi
in fronte.
Non mancò, poi, l’accusa di malocchio.
Se ne avvide, a proprie spese,
suor Faconda. La missionaria voleva
prendersi cura di una bambina,
che deperiva di giorno in giorno. Incontrò
la madre al mercato, con la
bimba sulla schiena. La kikuyu, vedendola,
non esitò a lanciarle l’mbu
(grido di allarme nel pericolo), mettendo
a soqquadro l’ambiente…
Molti kikuyu parteciparono alla
prima guerra mondiale come portatori.
L’esperienza fu deleteria. Religiosamente
parlando, i pochi superstiti
ritornarono a casa scandalizzati
dal comportamento distruttivo ed
omicida dei bianchi (inglesi e tedeschi),
che pure si dicevano cristiani.
Né riportò esempi stimolanti per
abbracciare il cristianesimo chi lavorava
nelle fattorie dei coloni inglesi.
A Gatanga due cristiani furono apostrofati
dal padrone: «Siete asini, sapete
solo credere a ciò che dicono i
preti e le suore». Poi il farmista sputò
per terra con disprezzo.
E che dire della poliginia, l’eterno
scoglio per l’evangelizzazione?

LA FORZA DELLA TRADIZIONE
Tutte le obiezioni dei kikuyu di
fronte al cristianesimo sono riconducibili
ad un unico denominatore
comune: l’attaccamento rigoroso alla
tradizione.
«I kikuyu non distinguono fra vita
sociale, politica, sessuale e individuale,
ma tutte queste vite (per così
dire) formano un unico complesso,
che non si può sezionare e che ha la
sua ragione d’essere nella tradizione
». Chi la ignora automaticamente
si autoespelle dalla comunità e diventa
straniero.
La tradizione è l’anima del popolo:
rafforza il vincolo di parentela,
lo spirito di corpo e la reciproca accoglienza,
senza la quale ci si trova
disorientati. Infrangere o staccarsi
dalla tradizione significa misconoscere
il proprio paese, rinnegare la
religione degli antenati, attirarsi la
vendetta degli spiriti, esporsi all’ostracismo
degli anziani e contaminarsi
del thahu più orribile (impurità
rituale).
Quando si sentenzia «è tradizione
dei kikuyu», si enuncia un dogma,
che è pericoloso abbandonare o
dal quale deflettere. Furono visti figli
di capi, ritornati dall’Inghilterra
con tanto di laurea, riassumere le abitudini
dei genitori, per nulla scalfiti
dall’Europa.
L’attività missionaria cozzò sempre
contro il corpus integrato degli
usi e dei riti della tradizione, ai quali
i kikuyu erano legati con «una gelosia
e testardaggine da montanari».
«Dopo 37 anni di convivenza con
questa gente – scrisse padre Costanzo
Cagnolo -, pur usando la loro lingua
e seguendo da vicino tutte le loro
manifestazioni sociali, familiari e
individuali, più di una volta mi trovo
perplesso sull’esatta comprensione
della loro mentalità» (1).
Padre Giacomo Cavallo annotò:
«Trovo uno spirito eminentemente
conservatore, di cui è imbevuto il
kikuyu, che gli fa rigettare le cose solo
perché sono nuove». Ogni volta
che si prospetta qualcosa di diverso,
arriva puntuale il leitmotiv: «Però i
nostri vecchi non hanno detto, non
hanno fatto così». Le conversioni al
vangelo segnavano il passo.

GRAVE DISAPPUNTO
Convertire è un verbo all’infinito.
Come coniugarlo? «Prova e vedrai!
Escluso il condizionale, in altro modo
è difficile». La citazione, nel suo
problematico umorismo, ritrae bene
lo stato d’incertezza del missionario.
Egli non si trastullava in chimeriche
illusioni. Tuttavia, di tanto
in tanto, non riusciva a celare il proprio
disappunto di fronte agli scacchi
patiti.
Il fatto dovette impressionare abbastanza,
se un vecchio di Limuru
sentì il bisogno di accostare alcune
suore melanconiche per consolarle.
«I giovanetti, i bambini e le ragazze
vi ascoltano e vi capiscono; le donne,
invece, vanno a lavorare e a raccogliere
patate, e non si intendono
di tali cose: chi mai per il passato le
insegnò ad esse? Aspettate, abbiate
pazienza…».
Attendere e pazientare. Il missionario
era una persona di fede e di
questa si caricava per fronteggiare i
momenti di stanchezza e dubbio.

IN DIECI A MURANG’A
Gli storici delle missioni della
Consolata fra i kikuyu ravvisano
nell’1-3 marzo 1904 una data significativa
per l’evangelizzazione dell’etnia.
A Murang’a si ritrovarono
10 missionari per discutere e approvare
un metodo di apostolato.
Nell’incontro, dopo aver preso atto
dei successi ed insuccessi, si prospettò
una strategia d’azione, praticabile
secondo tre direttive.
? Formazione di catechisti: prevedeva
la scelta di alcuni kikuyu intelligenti
e retti, per istruirli e impegnarli
nell’evangelizzazione. Il sistema
fu giudicato buono, ma avrebbe
procrastinato troppo le conversioni.
?¡ Azione sanitaria e scolastica: una
linea che suggeriva di costruire
collegi e ospedali, nella speranza che
i giovani e i malati abbracciassero la
nuova religione. La proposta non riscosse
molte adesioni. Si obiettava
che i genitori dei ragazzi, non ancora
persuasi della necessità dell’istruzione,
avrebbero boicottato la frequenza
scolastica dei figli. Gli ospedali,
poi, esigevano molto denaro,
irreperibile per il missionario.
?¡ Predicazione itinerante, ossia
passare da un villaggio all’altro annunciando
la parola di Dio. Così facendo,
il cardinale Guglielmo Massaia
conseguì buoni risultati fra gli
oromo d’Etiopia (2). Tuttavia il successo
era garantito solo «nei paesi civili
o con una semiciviltà, come l’Abissinia;
ma fra popoli selvaggi e per
indole incostanti e volubili come i
kikuyu, il buon seme inaridirebbe
appena germogliato».
I partecipanti all’incontro di Murang’a
valutarono i pro e i contro di
ogni possibilità. Alla fine optarono
per combinazione delle tre linee d’azione.
Il «metodo misto» fu approvato.

EVANGELIZZAZIONE
GRADUALE

A Murang’a i missionari confrontarono
le loro prime esperienze. Riconosciuto
il pertinace attaccamento
dei kikuyu alla tradizione, convennero
che la missione avrebbe
dovuto procedere con gradualità:
pretendere immediate conversioni
sarebbe stato come «voler far fissare
il pieno sole meridiano a chi fino
allora è stato chiuso in un buio sotterraneo
». Conveniva avanzare con
piedi di piombo e, intanto, spargere
le prime idee evangeliche.
L’evangelizzazione graduale si estrinsecò
nella tolleranza e prudenza
di fronte alla consuetudo locale. A
differenza di varie denominazioni
protestanti (Church Mission Society,
Church of Scotland, Salvation Army,
African Inland Mission, ecc.), si accettò,
per esempio, l’iniziazione.
In un’epoca successiva padre Cagnolo
stigmatizzò la mancanza di
duttilità mentale, scrivendo: «Certi
educatori, che vorrebbero abolire il
corpo delle tradizioni, si creano amare
sorprese, come quando si tenta
di abolire la circoncisione ed altri
usi per sé indifferenti al progresso…
Diamo tempo al tempo». Né si indirono
crociate contro la poliginia.
In conformità alla metodologia esposta,
i primi missionari non si lasciarono
contagiare dalla «malattia
del mattone»: cioè costruire edifici
all’«europea». Scrisse padre Filippo
Perlo: «Non è nostro sistema far le
chiese e poi i cristiani, ma pensiamo
sia metodo migliore l’attendere che
questi sentano il bisogno di quelle».
Per anni la chiesa sarà un capannone
e il campanile si mimetizzerà
con un mugumu (albero sacro), dalla
cui sommità la campana suonerà
a distesa.

L’ALBERO DELLA SFIDA
Di pari passo con l’attendismo,
alcune scelte del missionario indicano
come l’evangelizzazione dovesse
pure sfidare la cultura locale.
Il capo Wambugu (che aveva concesso
al missionario delle agevolazioni
per erigere la sua sede) rispose
picche quando si ventilò l’ipotesi
di abbattere degli alberi sacri, sotto
i quali gli operatori magici compivano
sacrifici per impetrare la pioggia
o la vittoria sugli odiati masai. Il
padre tuttavia, necessitando di un
alto fusto per innalzarvi la campana,
additò proprio un rigoglioso mugumu.
Gli anziani replicarono che, se avesse
toccato l’albero, sarebbe certamente
morto; ma il missionario si
avvicinò alla pianta per incidervi col
coltello una croce. Nello sbigottimento
generale, si rivolse alla gente,
osservando che nulla gli era successo,
perché il «patri è l’uomo di Dio».
Una provocazione per affrettare
l’ora del vangelo.

(1) Padre Costanzo Cagnolo scrisse The
Akikuyu, Mission Printing School, Nyeri
1933 (un’importante monografia sul popolo
in questione, con pregevoli illustrazioni).
(2) Il riferimento al Massaia non è casuale.
I missionari della Consolata intendevano
proseguie l’opera.

ATTENTI ALLO STREGONE!
Nel villaggio tradizionale
lo «stregone» detta legge:
si nasce, si vive e si muore
ai suoi ordini.
E guai a snobbarlo!
Il missionario lo sa e prende
le sue misure.

DAL «MEDICO CONDOTTO»
Non si scherza con la tradizione.
I suoi interpreti sono gli athuuri (anziani).
Essi «formano il gran senato
della nazione; ad essi è dato di conoscere
il bene e il male e, al di sopra
di loro, non v’è che Dio. Dopo
il loro giudizio non c’è appello».
Ma il ruolo degli anziani resta lettera
morta senza il consenso, diretto
o indiretto, del mundu-mugo (medico,
indovino, operatore magico o,
più volgarmente, stregone).
Nel villaggio e nella famiglia l’individuo
nasce, vive e muore ad libitum
del mundu-mugo; nessuna azione, privata o pubblica, sfugge
al suo controllo: «Questi
indigeni non fanno nulla
di importante (o creduto
tale) senza il parere
dello stregone».
Il mundu-mugo dispone
di effettive conoscenze
terapeutiche. Ad un
missionario capitò di
assistere alla medicazione
di una profonda ferita
alla mano; l’arto venne legato
con fili d’erba e poi cucito con lunghe
spine. «Non si può negare che
tutto fosse fatto con una certa cognizione».
Quando però il mundu-mugo affrontava
un male psico-somatico, l’ironia
per il medico e la commiserazione
per il paziente traboccavano.
«Vorrei lo vedeste (lo stregone) nell’esercizio
delle sue funzioni: con
che energia si dà attorno al cliente
per liberarlo dall’ossessione di spiriti,
che gli vogliono fare la pelle. Se
non suda due camicie è solo perché
non ne possiede neanche una…».
Anche i capi si ammalano. E, come
tutti, vengono trattati dal mundumugo.
Ma, al cospetto di un personaggio
influente, lo stregone spesso
annaspa impacciato per una diagnosi
adeguata al paziente. Tuttavia se la
caverà con l’astuzia, asserendo che
«il capo è stato avvelenato da qualche
bestia mentre dormiva; oppure
un rospo gli è entrato in pancia, o
che è stato vittima di imbrogli e filtri
nocivi di qualche nemico».

ALTRE TRE MANSIONI
Il mundu-mugo svolgeva pure altre
importanti funzioni.
?¡ Arbitro di pace. Quando, dopo
un litigio o una guerra, i contendenti
trattavano la pace, si procedeva secondo
un rituale diretto dal mundumugo.
Chi chiedeva la sospensione
delle ostilità offriva i pegni della pace:
una pelle di bue, un fascio d’erba,
uno scranno, una pecora. La controparte
consegnava un montone e
una giovane pecora. Si sgozzavano
gli animali (quelli della controparte);
con il grasso si ungevano sia i pegni
della pace sia le parti che la contraevano.
?¡ Contro ladri e avvelenatori. Un
missionario, durante una visita al villaggio,
dovette sostare, perché si stava
compiendo una cerimonia. «Il
capo e lo stregone… stavano mettendo
una medicina in una piccola
fossa nella strada» e pronunciavano
minacce… Terminata l’operazione e
ricoperta la buca, il padre fu ricevuto
dal capo, che gli spiegò come tutto
ciò avrebbe impedito a qualunque
ladro o avvelenatore di entrare
nel villaggio senza essere visto.
?¡ Maledice e benedice. Fra le maledizioni
primeggiano, per efficacia
e timore, quelle scagliate da genitori
e anziani, specialmente se in punto
di morte… Camminando succedeva
di imbattersi in sentirneri e campi
attraversati da liane, tese a 2 metri
di altezza, oppure contrassegnati da
ramoscelli o pali con appeso un osso
umano. Allora i passanti indietreggiavano,
perché quelli erano segni
di maledizione.
Di fronte a tali segni, ci si rivolgeva
al mundu-mugo. Costui girava a
più riprese attorno al luogo maledetto,
ammonendo che chi lo avesse
violato sarebbe stato destinatario
di disgrazie. Proclamato il divieto,
piantava qua e là dei rami secchi,
ciascuno accompagnato da una maledizione.
«Chi entrerà qui sprofondi
sotto terra, come io vi sprofondo
questo ramo! Chi varca questi confini
inaridisca all’istante come queste
foglie secche».

L’OSTILITÀ DEL MUNDU-MUGO
Per i missionari gli «stregoni» erano
«i sacerdoti del paganesimo»,
i quali a loro volta tolleravano gli
stranieri dalla veste bianca «come
il fumo negli occhi».
Il missionario non mieteva molte
conversioni, ma intanto lavorava. La
sua popolarità, dovuta a dispensari,
scuole e fattorie, cresceva di giorno
in giorno. Il mundu-mugo lanciò l’allarme:
se non si interveniva subito,
quei bianchi avrebbero scalzato la
tradizione e, con essa, il suo potere.
Il patri apparve al mundu-mugo
come un concorrente economico temibile,
capace di rovinargli la piazza
con la cura gratuita dei malati…
mentre lui esigeva bovini e ovini.
Contro la volontà del mundu-mugo
e degli anziani, nel 1907 a Limuru
il missionario riuscì nel difficile
intento di ridurre il tributo di montoni
che i giovani della «classe d’età»
dovevano pagare a quella anteriore
di otto iniziazioni: non più 60 capi
di bestiame, ma due!
Il fatto fu grave, perché provocò
un contrasto fra le generazioni, contrasto
fino allora sconosciuto nella
società kikuyu. Ma questo era quanto
il missionario si riprometteva: disarticolare
il sistema tradizionale per
far spazio al messaggio evangelico.
Il mundu-mugo attaccò il missionario
con accuse precise.
a) Accusa di siccità. Padre Perlo,
fondatore nel 1903 della missione
centrale di Nyeri, all’inizio stabilì la
sua sede sulla collina Niagaitua, in
barba a tutti. Il loro stregone Waweru
lo apostrofò: «Tu ci hai assicurato
che sei venuto in mezzo a noi per
farci del bene, ed ecco che ora ci
porti un gran male, fabbricando la
tua casa su questa collina sacra; Dio
si è offeso, ci nega la pioggia e con la
ostinata siccità annienta i nostri raccolti
e vuol farci morire di fame».
b) Accusa di avvelenamento. Era
morto Wanghengie, un operaio addetto
alla controversa costruzione
della missione sulla collina Niagaitua.
Il mundu-mugo colse la palla al
balzo per diffondere la notizia che il
bianco avvelenava i kikuyu, per pascersi
di notte dei loro corpi. L’accusa,
che mirava ad isolare il missionario,
sortì un certo effetto: «Per
quasi due mesi restammo isolati dalla
gente, per quella specie di blocco
morale di cui gli stregoni, con la loro
infame calunnia, erano riusciti a
circondare la missione».
c) Accusa di sterilità. Il mundumugo
ammoniva incessantemente:
«Chi si fa cristiano non avrà figli in
eterno!». Lo stesso capo Karuri, sul
punto di convertirsi al cristianesimo,
si sentirà minacciare: «Amico, prenditi
guardia! Ti proibiranno di avere
dei figli: vedi un po’ se essi ne hanno!».
Di fronte a tali accuse, il missionario
rispose con l’azione catechetica
e sanitaria. E… qualche mundumugo
mutò atteggiamento.

DA RIVALI AD AMICI
Il primo incontro fra un missionario
e un operatore magico avvenne
il 12 ottobre 1902 (a Tuthu?), per
iniziativa di padre Perlo. Egli intuì
subito l’eccezionalità del personaggio
e, da abile stratega, gli chiese un
appuntamento, come qualsiasi altro
cliente. Al termine il mundu-mugo
pronunciò il responso: favorevole in
tutto.
Padre Rodolfo Bertagna ne cercò
l’abboccamento per un’intervista su
Dio. «Gli chiesi se sapeva così bene
le cose di Dio, come si intendeva
delle sue pecore… Tutto il suo scibile
in materia si riduceva a questo: esservi
due dèi; uno in alto per le cose
al di sopra della superficie terrestre
ed uno in basso, entro terra, da cui
vanno quelli che muoiono. Concluse
la dissertazione con un’aria trionfante,
visto che non l’avevo mai interrotto
né contraddetto».
Diversi missionari strinsero amicizia
con il mundu-mugo. Poteva capitare
che, durante il catechismo, avessero
come uditore lo stesso operatore
magico… L’argomento di una
lezione era l’unità di Dio. Terminata
l’esposizione, il mundu-mugo ap-
provò il maestro, pur stravolgendo
il senso del discorso. «Sentite, uomini,
il padre ha parlato bene. Noi
credemmo sempre che ogni collina
avesse il suo dio, e ci sbagliavamo.
Non ci sono che due dèi: uno per i
bianchi e uno per i neri…».
Il mundu-mugo e padre Antonio
Borda Bossana, una volta conosciutisi,
entrarono in confidenza. «Mi
racconta le istruzioni che ha sentito
dalle suore riguardanti l’eternità dell’anima,
l’unità di Dio, giusto e onnipotente,
e aggiunge che anche lui
ora, quando va a medicare i malati,
fa la preghiera al Dio del patri e insegna
tutto quanto ha sentito di
nuovo. In verità da questi stregoni
non era da aspettarsi così subito un
aiuto tanto prezioso».

LA GRANDE RINUNCIA
Leggiamo in un diario anonimo:
«Ho trovato che i nostri insegnamenti
sono assai diffusi e (per così
dire) inconsciamente assorbiti; tanto
che molti anziani ed anche qualche
stregone mi enunciarono le cose
da noi insegnate riguardo a Dio,
ai suoi attributi, all’anima umana e
alla sua destinazione oltre la tomba,
miste colle loro credenze».
Il testo, del 1905, conferma il mutato
rapporto fra missionario e mundu-
mugo. Non era ancora la conversione,
ma per l’evangelizzatore era
già un consolante risultato. Il salto
di qualità per l’avvicinamento al cristianesimo
fu l’accettazione che i figli
dello stregone si battezzassero.
Karogo aveva cinque mogli e una
stalla che rigurgitava di vacche. Era
un mundu-mugo convinto; per la sua
rettitudine, prudenza e ospitalità era
venerato come un patriarca nell’intera
regione di Tetu e Masera. Acconsentì
che il figlio ventenne Momboy
si convertisse al cristianesimo. A
casa sua strinse un patto di amicizia
con la missione… a scapito di un magnifico
montone!

IL MISSIONARIO NON È…
«Non esiste religione senza il suo
mundu-mugo». Secondo questo proverbio
kikuyu, il missionario fu assimilato
all’operatore magico. Infatti
anch’egli, come il mundu-mugo, curava
gli ammalati, indiceva preghiere
per la pioggia, consigliava.
Padre Gioachino Cravero ascoltò
un dialogo fra un anziano e il capo
Karuri. «Dunque – interruppe il vecchio
– i padri sono anch’essi stregoni?
». «Sicuro – rispose convinto Karuri.
Qual paese e qual popolo non
ha i suoi stregoni? Li hanno i bianchi
in Europa… Perfino Dio in cielo
ha i suoi stregoni, per dare le medicine
a quelli che stanno lassù con lui.
Non è così, patri?».
Padre Cravero non gradì il paragone.
E, tutte le volte che il suo lavoro
era equiparato a quello del presunto
collega, metteva i puntini sulle
«i»: il patri insegnava una verità
certa e traeva la dottrina dalla sapienza
di Dio, mentre il mundu-mugo
si affidava alla divinazione.
Il missionario non accettò di essere
paragonato all’operatore magico
neppure nel campo medico, per
non inficiare il messaggio evangelico
della stessa magia. Che la religione
kikuyu fosse compenetrata di elementi
magici costituiva per lui una
ragione in più per salvaguardare
la propria da una simile affinità, allo
scopo di proporla come un’alternativa
assolutamente nuova.

IL PREZZO DELLA SPOSA
«Intrattenetevi quanto
volete con i neri…
Decantate loro i diritti
delle donne…
Essi vi risponderanno
con il sorriso più fine:
“Ma… la donna
non è un uomo”».

POVERE DONNE!
Il primo impatto del missionario
con la donna lasciò subito una
traccia profonda nel suo cuore. Le
bambine nude, le ragazze rapate,
le madri a seno scoperto o vestite
con una ruvida pelle
imbevuta di grasso misto a ocra
lo impressionarono.
L’impressione si tramutò immediatamente
in «compassione», allorché
apparve la mole di fatica sopportata
dalla donna. «I kikuyu appartengono
ad una bella razza, che
però nelle donne è degenerata a
causa delle eccessive fatiche».
Il missionario dovette aver ritratto
la donna continuamente curva
sotto pesanti carichi, se
scrisse: «In questo paese la
donna è la vera bestia da soma.
Dal mattino alla sera ogni
riposo le è sconosciuto». Il paragone «bestia da
soma» riecheggerà ancora
nel 1954.
Ci si aspetterebbe un po’ di considerazione
per la donna incinta.
Invece… «le donne sono non di
rado, insieme colle loro creature,
vittime innocenti di tanta schiavitù.
Non sono pochi i casi di aborto
(spontaneo), come sono
ancora abbastanza frequenti
le morti di giovani spose nel
momento di dare alla luce il
frutto delle loro viscere».
Che il «sesso debole» svolgesse
mansioni più numerose del «sesso
forte» è fuori discussione. Ecco che,
mentre le mogli sudano nel campo,
i mariti «vanno a zonzo» a tracannare
birra. Ecco che mentre le sorelle
sono impegnate nel trasporto
di un carico, i fratelli guerrieri si allenano
nel canto e nella danza o lucidano
le lance. E mentre le ragazze
collaborano con le missionarie nella
conduzione di orfanotrofi ed asili,
i ragazzi a scuola rifiutano ogni lavoro,
come i genitori maschi.

INFERIORITÀ PARADOSSALE
La donna subiva una paradossale
discriminazione: non solo svolgeva
un’azione economica superiore a
quella dell’uomo, ma l’assolveva in
una inferiorità psicosociale, indotta
e mantenuta dalla nascita alla morte.
Alla nascita di un figlio, la madre
e le sue assistenti emettevano un trillo
di gioia, ripetuto cinque volte se
era maschio e tre se femmina. Il padre,
per celebrare la venuta al mondo
di un nuovo rampollo, tagliava
cinque o tre canne da zucchero: cinque
per un «lui» e tre per una «lei»…
L’iniziazione per i giovani è l’evento
per antonomasia. È una festa
per tutti, specie per i candidati. Trattandosi
tuttavia delle ragazze, i festeggiamenti
si svolgevano in tono
più dimesso rispetto a quelli per i ragazzi:
una minore coreografia di balli
e canti, un’offerta ridotta di cibi e
bevande.
La donna era la massima incarnazione
della forza-lavoro: dissodava
il terreno, seminava, mieteva e
trasportava a casa. Il suo lavoro non
sempre era compensato da un adeguato
raccolto; bastava una breve
siccità per annullare la sua fatica. In
tale caso, all’inizio di una nuova semina,
la donna doveva assoggettarsi
alla purificazione con il sacrificio
di una pecora o una capra, onde rimuovere
il thahu (impurità) che aveva
frustrato il dovuto raccolto.
Quando la donna cadeva ammalata,
rischiava la morte per mancanza
di assistenza: le si prestava un po’
di cura nei primi giorni di malattia;
ma, se non guariva in fretta, era abbandonata
a se stessa. È sorprendente
che quasi tutti i morenti rinvenuti
dai missionari nella brughiera
fossero donne o bambini.
Nel 1930 era ancora imperante,
se padre Ciravegna poté scrivere:
«Intrattenetevi quanto volete con i
neri, anche coi più svegli ed intelligenti.
Decantate loro i diritti delle
donne; spiegate con pazienza le ragioni
buone a persuaderli dell’onore
a cui la donna ha diritto in forza
della sua debolezza e delle sue funzioni
di madre… Essi, scrollando il
capo, vi risponderanno col loro sorriso
più fine: “Ma… la donna non è
un uomo!”».

LA DONNA SPOSATA
Una moglie come si comportava
nel regime poliginico? Alla stregua
del proverbio «due donne insieme
sono due vasi di veleno», ci si aspetterebbe
gelosie e litigi all’ordine del
giorno. Non era escluso: per questo
ogni moglie viveva separata nella sua
capanna.
Tuttavia, non di rado, si assisteva
ad una pacifica convivenza. Fratel
Benedetto Falda rilevò: «Il bisogno
di aiutarsi per i lavori faticosi dei
campi, il taglio della legna, ecc. fa sì
che queste disgraziate, sfiorite dalla
loro giovinezza, conducano una vita
senza sogni, perché non sono considerate
degne di essere consultate
o di condividere col marito l’amministrazione
della famiglia, ma solo riservate
a produrre figli che aumentino
la ricchezza del capo famiglia».
La poliginia, pertanto, diventava una
scappatornia per sgravarsi dal lavoro.
Talora l’insofferenza femminile esplodeva:
la donna fuggiva di casa.
Era un gesto di enorme coraggio,
perché carico di conseguenze. Se la
moglie abbandonava il marito senza
essere stata picchiata, non poteva più
tornarvi se prima non lo avesse pacificato
«con il sacrificio di un montone». Il che costava.
Eppure alcune mogli erano così esasperate
che ne combinavano «di
belle e strane per costringere il marito
a percuoterle».
Altre volte era l’uomo ad assumere
l’iniziativa di cacciare la donna.
Questo avveniva quando la sposa
dimostrava poco amore al lavoro,
oppure era rea di infedeltà coniugale.
Fu il caso di Wangiuku, adultera
e pigra. La donna, cacciata, andò errando
di casa in casa per un po’ di
cibo e un ricovero per la notte. Il figlio
illegittimo trovò rifugio nell’orfanotrofio
della missione, mentre la
madre finì la sua esistenza azzannata
dalla iena.
Nelle liti minori fra marito e moglie,
il missionario interveniva talora
da paciere. «Non di rado la rappacificazione
di mariti e mogli avviene
per i buoni uffici del patri, raggiunta
con soddisfazione delle parti».

ASILI, COLLEGI, CONVENTI
Con il taglio del cordone ombelicale,
madre e figlio incominciano ad
existere separatamente. Chi nasce,
tuttavia, è ben lungi dall’essere autonomo,
in quanto ha estremo bisogno
degli altri e, in caso di allattamento
naturale, della donna in modo
esclusivo.
Le madri kikuyu raramente, durante
il giorno, deponevano i figli
poppanti. Le vedevi al mercato o in
chiesa, mentre sarchiavano o attingevano
acqua, con il bimbo sempre
lì: sulla schiena o attaccato al capezzolo.
E chi attendeva agli altri figli?
Non «lui», ma sempre «lei».
Però agli svezzati si concedeva parecchia
libertà: un’espressione eufemistica
per nascondere l’impossibilità
fisica di curarsi di loro.
Il missionario, osservando quotidianamente
molti ragazzetti abbandonati
a se stessi e affamati, decise
di raccoglierli in asili. Nel 1920 ne esistevano
15. L’iniziativa favorì sia i
figli sia le madri, per ragioni facilmente
intuibili.
In alcune missioni l’affluenza di
bambini all’asilo fu tale che, mancando
del necessario personale di
assistenza, le missionarie furono costrette
ad accettare solo i figli di famiglie
cristiane. «E non potete immaginare
quanto le donne ci prendono
gusto al sollievo che l’asilo loro
apporta; al mattino presto sono già
lì con i loro piccini; mentre alla sera
non compaiono mai a ritirarseli».
Un altro passo mosso dal missionario
per la «liberazione della donna
» si concretizzò nei collegi femminili.
Il primo sorse a Nyeri nel
1911; nel 1921 erano 13, capaci di ospitare
250 ragazze. In questi centri
erano istruite religiosamente, imparavano
a leggere e a scrivere, si esercitavano
in cucito e culinaria. Specialmente
erano avviate al matrimo-
nio cristiano attraverso una capillare
sensibilizzazione ad opporsi alla
poliginia, basata sulla compra-vendita
della donna.
L’unico onore raggiungibile dalla
donna era quello di generare figli. La
sterile era oggetto di scherno. E una
ragazza che, volontariamente, avesse
rinunciato alla mateità, avrebbe
costituito un caso serio aberrante. Il
missionario mirò proprio a questo:
avere delle donne che professassero
la verginità per «vocazione».
Nyeri, 8 dicembre 1929: 10 ragazze
kikuyu emisero il voto di castità
come suore. Quando, due anni
prima, vestirono l’abito, si tenne il
«siku kuu ya airitu» (il grande giorno
delle vergini).
Per i kikuyu «airitu» sono le ragazze
non iniziate che, se rimaste tali,
non sarebbero mai state ritenute
donne. Il fatto che per delle airitu si
organizzasse una festa infliggeva un
colpo severo alla mentalità kikuyu.
All’unico ideale della fecondità-mateità,
condizione imprescindibile
per realizzarsi, si replicava con quello
inedito della verginità… per il regno
dei cieli (cfr. Mt 18, 12).
Ma la verginità o il celibato comportava
per i kikuyu un atto di fede
nell’assurdo. Economicamente e socialmente
si infrangeva l’istituzione
della «ricchezza della sposa»…
Per l’evangelizzatore era pure «la
rivincita del sesso debole»: dopo essere
stato calpestato per secoli con
dicerie e sarcasmi, esso acquistava
dignità e rispetto anche al di fuori
del dogma della tradizione.

RESISTENZE AL MUTAMENTO
Il sistema maschilista reagì prontamente
ai tentativi di mutamento.
Sull’affluenza dei bambini all’asilo
gravarono le solite accuse di cannibalismo
e di avvelenamento, rivolte
al missionario. Ma, con il passare del
tempo, le prevenzioni scomparvero.
Più lungo si rivelò, invece, il contrasto
circa le ragazze che frequentavano
la missione; a tal punto che i
collegi si limitarono ad essere solo
dei dormitori. Si temeva (non a torto)
che le ragazze si convertissero al
cristianesimo.
Nel giugno 1932 a Murang’a il Local
Native Council discusse la proposta
delle missioni cattoliche di aprire
e finanziare un collegio femminile.
Il primo kikuyu che interloquì
sull’argomento aveva fama di essere
progressista; ma sostenne che «la
donna è una schiava, che deve lavorare
soltanto per il marito e che, pertanto,
non deve essere considerata
degna di educazione alcuna». Così
ragionarono anche gli altri membri
del Consiglio, sancendo la fine dell’emancipazione
della donna.
Ancora più tenace fu l’opposizione
alle postulanti della «vita religiosa
». Poiché, mentre le ragazze del
collegio, alla fine si sposavano e la famiglia
percepiva «il prezzo della
sposa», quelle che invece si chiudevano
in convento non procacciavano
il becco di un quattrino.
Per protestare contro il mancato
guadagno, una madre giurò di impiccarsi
ad un albero del monastero.
Vari genitori fecero ricorso al governo
coloniale, che impose al missionario
di restituire le ragazze o di
pagare una somma equivalente al
«prezzo della sposa». Altre furono
rapite mentre lavoravano alla missione,
rinchiuse in una capanna per
parecchi giorni e battute a sangue.
Erano altri tempi.

ECCO IL RE. EVVIVA IL RE!
Il tormentato
cammino di Karuri
verso il battesimo.
Ma che fare delle
50 mogli?
E la conversione
fu libera? Il valore
determinante
del bene.

NELLA LEGGENDA… DA VIVO
Quando a Tuthu, nel 1902, avvenne
il primo incontro fra il capo
Karuri e il missionario, il kikuyu era
all’apice della sua fama. Ricchissimo
di terre e bestiame, di figli e mogli
(ne avrebbe accasato almeno 50!),
Karuri era il «re» più temuto dagli altri
capi e il più rispettato dalla popolazione.
Intelligenza e forza, ambizione
e volontà gli avevano spianato
la strada verso una eccezionale
ascesa sociopolitica. Come se non
bastasse, vantava una storia personale,
che lo proiettò nella leggenda
ancora vivo.
Karuri sarebbe stato gravemente
ammalato. Secondo il costume locale,
fu confinato nella brughiera e,
quando sembrò morto, abbandonato
in pasto alle iene. Ma qualcuno lo
riportò a casa e guarì. L’evento fu il
trampolino di lancio verso il successo.
Era evidente, infatti, che questo
uomo, vincitore della morte, avrebbe
operato grandi cose.
Per spiegare il fatto si ricorreva al
mito della «doppia origine». Sarebbero
esistiti «due» Karuri: il primo,
quello umano, morto nella foresta…
per lasciare posto al secondo, di
provenienza divina. L’idea era così
radicata che qualcuno, dopo avere
perlustrato la cappella dei missionari,
«vista la madre e il figlio di Dio»,
avrebbe domandato: «Karuri
dov’è?». Come se la chiesa, la casa
di Dio, dovesse essere la naturale dimora
del capo.

UNA FIGURA COMPLESSA
Karuri fu anche un mundu-mugo,
«facitore della pioggia». Si sarebbe
pure dato alla divinazione. «I suoi
responsi sono i più stimati. Egli è richiesto
soprattutto quando si ammala
un capo, e ci va con solennità.
Però egli, più furbo, quando non sta
bene, viene da noi (missionari), perché
ha ormai provato che le nostre
medicine, specie se purganti, l’effetto
lo producono con sicurezza».
Commentando la morte di un ragazzo,
avvenuta nonostante il sacrificio
ufficiato da un mundu-mugo,
Karuri esclamò: «Quanto sono ignoranti
i kikuyu!… Correte a fare la cabala
dallo stregone, e intanto la gente
muore. Non sapete che, prima dei
sacrifici dei montoni agli spiriti, bisognano le medicine? E per dare le
medicine adatte soltanto il patri e le
suore non sbagliano».
A Tuthu pioveva troppo e le messi
marcivano sui campi. Karuri, arrabbiato
con i «facitori della pioggia
» per non essere stati capaci di
arrestarla, li radunò tutti, «e ora sono
là, legati al collo, che si sforzano
coi loro gesti a far cessare la pioggia…
Se non ce la faranno, staranno
lì. E quanti colpi di kiboko si sono
già presi!… Di notte si ritirano nella
capanna; però sono proibiti di accendere
il fuoco per scaldarsi».
Un simile comportamento, contraddittorio,
lasciava trasparire una
complessa personalità, capace di
esulare dal canone della tradizione.
Per il missionario era di buon auspicio.

INTESA E FASCINO
Tra l’evangelizzatore e il leader
nacque subito un’intesa. Al primo
giovò molto, per superare la diffidenza
del popolo. Di fronte agli altri
capi ed anziani, «egli (Karuri)
parla di noi (missionari) e ci presenta
ai suoi sudditi. Dice che siamo venuti
non con pensieri cattivi, ma per
far loro del bene, curarli delle malattie,
insegnare a leggere e scrivere,
difenderli dai nemici».
A Karuri interessò soprattutto l’istruzione.
La prima scuola fu aperta
nel 1902, frequentata dallo stesso
capo e dai suoi figli. All’illustre allievo
il missionario riservò un trattamento
speciale con lezioni private.
A volte nel capo albergavano secondi
fini, come quando esigeva dal
bianco qualche regalo (una coperta
colorata, ad esempio). In tali frangenti
il missionario rifuggiva dal patealismo,
scoraggiando il pretendente.
Al pari di tutti, Karuri subì il fascino
del missionario, specie del suo
servizio gratuito. Secondo l’usanza
kikuyu, chi si rivolgeva ad un superiore
per consigli o per risolvere un
problema, gli offriva un montone
quale ricompensa. Ma Karuri, impressionato
dalla generosità del patri,
non fu da meno: soppresse ogni
donativo dovutogli.
Il missionario aspettava Karuri al
«varco». Nel frattempo mise in atto
varie iniziative per accelerae la
conversione.
?¡ Risiedere vicino al capo. La località
dove erigere la missione, oltre
che centrale rispetto alla gente, doveva
soddisfare il requisito di «essere
alle costole di Karuri, per avere
una costante influenza su di lui».
?¡ Catechizzare il capo a tu per tu.
L’efficacia dell’iniziativa consisteva
proprio in quel «a tu per tu».
?¡ Riposo domenicale alla missione.
Scrisse padre Gaudenzio Barlassina:
«Pigliando Karuri in disparte
gli suggerii, poiché imita il bianco,
di imitarlo anche di domenica,
rifiutando la cira (assemblea) e tutto
il suo lavoro; la festa sia per tutti
di Dio e trascorsa con il padre. Accettò
volentieri».

LA DIFFICILE CONVERSIONE
Se le conversioni dei kikuyu al cristianesimo
furono travagliate, quella
di Karuli le superò tutte per difficoltà.
Lo «scandalo dell’apostasia»
dalla tradizione e il timore della conseguente
vendetta degli ngoma pesarono
sull’animo di Karuri come
un incubo. Gli anziani e i capi minori
gli puntavano di continuo il dito
del «non ti è lecito».
Gli sciamani si dimostrarono i più
irriducibili, poiché la defezione del
grande capo avrebbe segnato la loro
parabola discendente. Senza di
lui, come avrebbero potuto conservare
il potere? Secondo gli anziani,
era gravissimo «correr dietro a certe
dottrine dei bianchi», che stavano
mangiandosi tutta la ricchezza
del paese.
Fra le difficoltà affrontate da Karuri,
è da menzionare anche la critica
pretestuosa del protestantesimo
e dell’islam contro il cattolicesimo.
I missionari anglicani inglesi guardavano
in cagnesco quelli cattolici
italiani (e viceversa). «Chi sono gli
italiani? Povera gente in cerca di che
sfamarsi. Figurarsi! Nel loro paese
sono tanto schiavi che sono obbligati
a fare gli askari per niente… I padri
poi ti costringeranno ad adorare
una muiritu, ad inginocchiarti davanti,
vedrai!» (allusione alla Vergine
Maria). Per un kikuyu inginocchiarsi
davanti ad una muiritu, cioè
una ragazza non iniziata, era un’umiliazione.
I musulmani sfruttarono l’opinione
secondo cui l’islam, oltre ad assicurare
un progresso rispetto al culto
tradizionale, sarebbe stata anche
una religione più adatta alla mentalità
kikuyu.
Che dire, poi, della scandalosa incoerenza
degli stessi cristiani con le
loro intee divisioni? Gli ufficiali
dell’Impero britannico, attillati, seri
e potenti, «com’è che non vengono
in chiesa? Perché non sono tutti
cattolici, se la vostra è l’unica vera
religione? E il re d’Uganda, perché
non è cattolico, ma protestante?».
Infine l’ostacolo della poliginia.
Non fu di poco conto per Karuri rinunciare
alle sue 50 mogli. Al di là
della componente affettiva (da non
sottovalutare), quelle donne valevano
centinaia e centinaia di montoni,
dozzine e dozzine di buoi! Con il
battesimo tutto sarebbe svanito.

GIUSEPPE
E MARIA CONSOLATA

Candidata al battesimo c’era pure
Wanjiru, «la regina» delle 50 consorti
di Karuri. Fu lei che il capo
scelse come sposa per il resto della
nuova vita. Le altre furono date in
moglie ad amici e conoscenti, con i
quali Karuri aveva debiti di riconoscenza
per servizi ricevuti.
Il 6 gennaio 1916 Karuri e Wanjiru
furono battezzati con il nome di
Giuseppe e Maria Consolata.
Karuri visse appena 5 mesi da cristiano.
Il missionario, che ne aveva
favorito la conversione fin dal 1902,
vide coronati i propri sforzi dopo 14
anni, quando la vita del capo volgeva
ormai al tramonto.
Quali furono gli effetti dell’avvenimento
per la causa dell’evangelizzazione?
Buoni, secondo padre Perlo.
Qualche missionario credette di
scorgere in tutta la popolazione l’attesa
evoluzione psicologica, favorevole
all’accettazione del battesimo.
Alcuni kikuyu si sarebbero perfino
chiesti: «Karuri si battezza! È dunque
questa la via da seguire?» (*).
Ma la realtà fu diversa. Maria Consolata,
per esempio, la promettente
moglie cristiana di Karuri, morto il
marito il 14 maggio 1916, ridiventò…
Wanjiru. Altrettanto significativo fu
il fatto che nessuno dei figli più influenti
di Karuri si fece cattolico.

PRESSIONE?
Ogni conversione religiosa trascende
la logica umana. Per i missionari
quella di Karuri era da attribuirsi
principalmente all’azione della
«grazia divina».
Questo tuttavia non fuga le perplessità
umane sull’accaduto. Non si
potrà mai stabilire quanto la conversione
del capo sia stata libera e sincera.
Ci si chiede se nel missionario
ci sia stata pressione… In ogni caso la
sua buona fede è fuori discussione.
La ricerca di un’azione adatta al contesto
culturale e, particolarmente, gli
scoraggiamenti e i dubbi dimostrano
che l’evangelizzatore non ebbe altro
scopo che quello religioso e che
operò secondo coscienza.
La buona fede, dimostrata e convalidata
da opere di carità, salvò i
missionari dall’essere accomunati ai
colonialisti. «Il padre non è uno straniero
» osserveranno i kikuyu durante
la lotta dei Mau Mau per l’indipendenza
del Kenya (1950-54).
Ma le stesse opere di carità potrebbero
prestarsi all’accusa: «Così
facendo, voi li comprate alla fede».
Però giova ricordare come i missionari
si siano astenuti da doni inutili
e abbiano proposto la conversione
evangelica nella sua essenza.
Essi hanno operato con dedizione
cristiana, sull’esempio di Gesù
Cristo, «il quale passò facendo del
bene e sanando tutti» (At 10, 38).
(*) Il personaggio fu analizzato da padre
Filippo Perlo nel libro Karoli, Istituto
Missioni Consolata, Torino 1925. Il
sottotitolo «Il Costantino Magno del
Kenya» è eloquente.

Superficie: 582.646 kmq.
Popolazione: 30 milioni (stima 2000).
Capitale: Nairobi (2,5 milioni di abitanti).
Gruppi etnici: kikuyu 17,7%, luhya 12,4%, luo 10,6%,
kamba 9,8%, kisii 6%, meru 5%, mijikenda 5%, kalenjin,
turkana, maasai, pokot, borana, samburu, indo-pakistani
(80 mila), europei (45 mila), arabi (40 mila).
Lingue: kiswahili (ufficiale), inglese e idiomi locali di origine
bantu (luyia, gusii, guria, akamba, kikuyu, embu, meru,
mbere, tharaka, swahili, mijikenda, segeju, pokomo, taita,
taveta), nilotici (maasai, samburu, turkana, teso, njemps,
el molo, kalenjin, nandi, marakwet, pokot, tugen, kipsigis,
elkony, luo) e cusciti (boni, somali, rendille, orma, borana,
gabbra).
Religione: tradizionale 60%; cattolici 26%; protestanti
7%; musulmani 6%.
Ordinamento statale: Repubblica presidenziale; membro
del Commonwealth, Onu, Oua, associato Ue.
Presidente e capo del governo: Daniel Arap Moi dal
1978. Dicembre 2002: elezioni presidenziali senza Moi.
Economia: agricoltura per esportazione: caffè, tè, ananas,
piretro, fiori, cereali; allevamento, specie tra i pastori
nomadi; turismo (377 milioni $ Usa nel 1997).
Indice sviluppo umano: 0,508 (130° su 174 paesi).
Analfabetismo: 17,5%.
Pil pro capite: 350 $ Usa (1998).
Debito estero pro capite: 242 $ Usa (1998).

FONTI CONSULTATE
Tutte le testimonianze e citazioni,
riportate nel presente articolo e
in quelli successivi, sono tratte con
qualche adattamento da: Francesco
Beardi, I MISSIONARI DELLA CONSOLATA
FRA I KIKUYU DEL KENYA, 1902-
1933, Torino 1980.
È una tesi di laurea in antropologia
culturale alla facoltà di Scienze
politiche del capoluogo piemontese,
che si avvale di tutti gli articoli
sui kikuyu pubblicati dalle
riviste mensili «LA CONSOLATA» e
«MISSIONI CONSOLATA» dal 1902 al
1933. La tesi valorizza pure diari
di missionari, non pubblicati, ma
esaminati da: Alberto Trevisiol, I
PRIMI MISSIONARI DELLA CONSOLATA NEL
KENYA, 1902-1905, Università Gregoriana
Editrice, Roma 1983.
Per un’introduzione alla storia e
cultura dei kikuyu fino all’arrivo dei
missionari della Consolata, si legga
il saggio di Francesco Beardi,
I KIKUYU DEL KENYA, in «Il popolo
kikuyu», Edizioni Missioni Consolata,
Roma 2001, pp. 11-30.
Circa l’impatto del cristianesimo
sulla cultura tradizionale kikuyu, si
veda: Silvana Bottignole, UNA CHIESA
AFRICANA SI INTERROGA, Morcelliana,
Brescia 1981.

GLOSSARIO KIKUYU E MERU
– Airitu: ragazze non iniziate
– Areki: sodalizio degli anziani
(meru), meno importante di «njuri»
– Askari (usato da europei): soldati
kenyani alle dipendenze degli
inglesi
– Athuri: classe degli anziani
– Mbu: grido di allarme nel pericolo
– Mugumu: albero sacro
– Mundu-mugo: medico tradizionale,
operatore magico, indovino,
stregone (volgarmente)
– Mungu (swahili): Dio
– Mware: suora missionaria
– Mwareki: singolare di «areki»
– Mwiritu: singolare di «airitu»
– Ngai (kikuyu): Dio
– Ngoma: spirito malvagio di un
defunto
– Njuri: classe degli anziani meru
– Patri: padre missionario
– Thahu: impurità rituale

CHI È II L DEMONIO?
Un punto focale, secondo la metodologia
missionaria di Murang’a,
fu la presentazione del messaggio
cristiano usando le categorie
mentali della cultura locale. Oggi si
parla di inculturazione del vangelo.
I missionari come si atteggiarono
di fronte a questa tematica? Va da sé
che, ai loro tempi, essi si sentirono
latori di una religione che doveva essere
più accettata che proposta. Ma
sorprende come la loro predicazione
si sia incarnata nell’habitat culturale
locale, assumendone talora la dialettica
concettuale.
Ecco un dialogo fra padre Cagliero
e i lavoratori della missione. Il tema
è: «Il diavolo non è l’anima dei
defunti».
– Chi è il diavolo? – chiese il padre.
– Non lo sappiamo. Dillo tu e lo sapremo
anche noi.
– Secondo voi, il diavolo è l’anima
dei morti. È così?
– Sì, padre. Quando uno si ammala,
uccidiamo un montone per offrirlo al
diavolo, dicendo: «Anima di mio padre
cessa di fargli del male».
– Ebbene, questo è errato. Se il demonio
fosse l’anima dei nostri genitori
defunti, come voi dite, come potrebbe
farci del male? Un genitore,
che da vivo ama i figli, morto che sia,
cessa forse di amarli?… Tu, per esempio,
quando sarai morto, maleficherai
i figli che ora ami? «No, mai!»
rispose l’interpellato.
– Allora, perché affermate che il diavolo
è lo spirito dei morti?
– Adesso che conosciamo la verità
non lo diremo più.
Lo stesso missionario si cimentò
con un articolo complesso del credo
cristiano: la divina figlianza adottiva
dell’uomo. «Per spiegarmi, mi servii
di un fatto comune fra i kikuyu.
Un fanciullo, senza genitori e parenti,
viene adottato da un altro nel
modo seguente: l’adottante uccide
un montone alla presenza dell’adottando,
riempie una tazza di sangue
e, dopo avee bevuto alquanto, la
porge da bere al fanciullo, che con
quell’atto diventa suo figlio. Così –
dissi – fa Iddio con gli uomini. Questi,
nascendo macchiati, sono senza
padre in cielo, sono anzi schiavi del
demonio; ma l’acqua del battesimo,
data dal padre, libera dalla schiavitù
del demonio e ci fa figli di Dio».
L’assemblea, attonita ed ammirata,
esclamò: «Costui è sapiente e sa
di tutto: conosce perfino i nostri costumi».
Una missionaria sfruttò la categoria
del thahu per spiegare il
peccato originale: come il primo è una
impurità che contamina, diffondendosi
a macchia d’olio, così il secondo
si trasmette di padre in figlio.
Ma il battesimo purifica tutto.

IL BUONO E IL CATTIIVO
Si è detto che i primi battesimi solenni
di adulti risalgono al 1909-
1911. Non è esatto. Il primo battesimo
fu quello di Waweru, mundumugo
di Murang’a, l’11 giugno 1905.
Mentre era catecumeno, un’epidemia
gli sterminò tutti i montoni. La
moglie l’accusò di essere lui la causa
della moria, perché favorevole alle
«dottrine del bianco», irritando
così gli antenati. Waweru rispondeva:
«No, no: i genitori vogliono sempre
bene ai loro figli, e i nostri vecchi
non hanno cessato di amarci. Iddio
è padrone dei nostri montoni: c’è
dunque da arrabbiarsi se egli dispone
delle cose sue?».
A chi gli consigliava di sacrificare
agli spiriti per placarli, dichiarava:
«Preferisco rivolgermi direttamente
a “Dio padrone”, il quale saprà bene
far cessare i miei infortuni». Fu battezzato
sfidando gli altri stregoni,
che lo tacciarono di tradimento.
Affascinante è la storia di Kagwe,
di Karima. Fabbro trentenne,
impazzì e bruciò la sua officina. Ustionato
in tutto il corpo, guarì, ma
non dalla pazzia. La fantasia popolare
lo circondò presto di un alone
mitico: figlio delle fiere, dormiva con
loro trasformandosi egli stesso in bestia;
si cibava di cadaveri come le iene,
lottava coi leoni. Godeva però di
intervalli di lucidità; anzi, erano
sempre più frequenti.
Un giorno ritoò sulle ceneri della
sua capanna, sotto lo sguardo curioso
di 40 stregoni, che decisero di
guarirlo del tutto e avviarlo alla magia.
Kagwe divenne mundu-mugo, la
cui fama valicò la regione, al punto
da scalzare quella di tutti gli altri 40
messi insieme.
Venuto a diverbio con il capo degli
stregoni, lo infilzò con la lancia
e gli succedette nella medesima dignità.
Uccise pure un soldato indigeno;
e fu sferzato con 20 colpi di kiboko
per 10 giorni consecutivi ed imprigionato
un anno.
Pessimi i rapporti con la missione.
Accusò il padre di aver causato la
meningite che decimò i kikuyu; ma
il missionario, proprio durante il processo
che dibatteva il caso, lo zittì.
Kagwe allora mutò tattica: cercò l’intesa
truccata con il rivale bianco.
E qui il tranello giocò lo stesso artefice,
a tal punto che una sera chiese
al patri il battesimo. «Tu!».
– Sì, io, Kagwe!
– Vedremo…
Quel «vedremo» comportò prove
interminabili. Quando ormai tutto era
pronto, ne arrivò ancora una, l’ultima,
la più ardua. «Kagwe, io ti battezzo,
ma a una condizione…».
– Quale?
– Che tu edifichi la tua casa presso la
missione.
Il mundu-mugo tentennava. L’indomani
disse: «Accetto». Però, sul
punto di costruire la capanna, buttò
via ogni strumento gridando: «No,
non posso!». Il padre escogitò un
compromesso: affidare il lavoro a operai.
L’8 settembre 1919 Kagwe, ex assassino
e mundu-mugo infausto, si
chiamò Giovanni Battista.

Quando lei osò… parlare
A Tetu e a Gikondi alcune ragazze catecumene si ribellarono alla poliginia,
determinando una situazione conflittuale.
Ma l’esempio più clamoroso di «femminismo», che coinvolse anche il missionario,
riguardò Wangare, accasata presso Kemoso. Il marito non aveva
ancora consegnato tutti i montoni pattuiti per «il prezzo della sposa» e,
per giunta, la bastonava.
La donna notificò il fatto al genitore, il quale, in vista del processo, cercò
il sostegno del patri. Al processo Wangare osò prendere la parola opponendosi
a Kemoso, che naturalmente si dichiarava innocente.
«Non l’avesse mai fatto! Esplose tutto l’antifemminismo dei kikuyu, con
l’aggiunta dell’assioma che le donne non hanno voce in capitolo. Ciò che
rovinava tutto era l’atteggiamento nuovo, contrario alla tradizione, di Wangare,
la femminista selvaggia, che non sapeva, non voleva tacere». Con un
gesto espressivo di protesta, gli anziani e il marito abbandonarono il processo.
La donna perse la battaglia e fu condannata, perché il suo intervento nel
processo fu giudicato un affronto al consiglio degli anziani. Fu condannata
perché lei, donna, aveva parlato in «pubblico», mentre le spettava solo
il «privato».

FRANCESCO BERNARDI




KENYA, AMORE NOSTRO

Gli altri popoli dei missionari

Nel «deserto di pietre»
di Marsabit, nel nord
del Kenya, ecco
i pastori seminomadi
SAMBURU, come pure
i TURKANA, i RENDILLE,
gli EL MOLO, i BORANA,
i GABBRA.
Attoo al grande lago Victoria,
vivono i dinamici e numerosi
LUO.
A differenza dei bantu kikuyu
e meru, questi popoli sono
nilotici, cusciti e nilo-camiti.
Altre culture dunque.

SAMBURU
il popolo dalla «schiena dritta»

Viso ovale e altero, corpo robusto
e armonioso come una
statua greca, dritto come un
fuso su una gamba e l’altra sollevata
nella tipica posizione dell’airone, la
destra appoggiata alla lunga lancia, il
guerriero samburu è l’esemplare tipico
dei popoli pastori, che disprezzano
con orgoglio il «lavoro a schiena
curva» dei popoli agricoltori.
Anche la danza tradisce tale orgoglio:
i guerrieri si divertono saltando,
pettoruti e a piedi pari, come canguri,
librandosi nell’aria come farfalle,
per ricadere sugli stessi centimetri di
suolo da cui prendono lo slancio.

ORIGINE
Proprio la farfalla avrebbe dato il
nome ai samburu, per quel senso di
raffinata armonia, sconfinante nell’effeminatezza,
che sprigiona dalla
loro vita (*). Per alcuni tale nome deriverebbe
da «coloro che hanno il
borsellino» (ampur); per altri da «coloro
che vanno in guerra» con la sacca
dei viveri, per fare razzie o combattere
i razziatori.
Un tempo erano conosciuti come
burkineji, corruzione di loibor kineji,
cioè «possessori di capre bianche».
Tra di loro, però, preferiscono chiamarsi
lookop, «possessori della terra
». Di fatto occupano un territorio
di oltre 20.000 kmq a sud del lago
Turkana, costituito dal Distretto
Samburu e alcune frange del Distretto
di Marsabit.
Da dove siano giunti non si sa. Gli
anziani raccontano di provenire da
un luogo chiamato Pagaa, probabilmente
nell’attuale Sudan, spinti da
grave fame e carestia. Una cosa è certa:
i samburu sono cugini stretti dei
masai, dai quali si sono staccati, non
sappiamo quando, formando un
gruppo autonomo e omogeneo: entrambi
i popoli sono nilo-camiti, nomadi
e pastori, parlano la stessa lingua,
hanno usi e costumi assai simili.
Il termine in-kishu per i samburu
significa sia «bestiame» che «persona
»: l’identificazione è totale e sacrale,
vivendo in profonda simbiosi,
sul piano esistenziale e psicologico,
soprattutto col bestiame bovino, il
cui latte e sangue giocano un ruolo
essenziale anche nella simbologia religiosa.
Bovini, capre, pecore e qualche
dromedario costituiscono la base
dell’economia, della sussistenza e del
prestigio familiare. Il bestiame fornisce
cibo e pelli, che servono per
fabbricare oggetti di uso domestico
e ricoprire le abitazioni. La quantità,
più della qualità, oltre a costituire
motivo di orgoglio dell’allevatore, è
strategia di sopravvivenza. Le mandrie,
divise in piccoli nuclei, vengono
dislocate in varie zone del territorio:
sull’altopiano e nelle pianure
orientali, dove abbondano corsi
d’acqua e vegetazione forestale, nella
savana delle pianure occidentali e
nel semideserto delle pianure centrali
ed orientali. Con tale dislocamento
i samburu garantiscono la sopravvivenza,
in caso di grave crisi,
come razzie, epidemie, siccità, di almeno
un piccolo nucleo di animali
da cui ricominciare.
Ovviamente, il bestiame costituisce
la base dell’alimentazione. Ma esso
non è visto in funzione della resa di
carne, che viene consumata solo raramente,
in occasioni di celebrazioni
sociali, rituali e familiari. La dieta è
quella classica dei popoli nomadi: il
saroi, cioè latte unito a sangue.

ORGANIZZAZIONE SOCIALE
Il popolo samburu è diviso in otto
grandi famiglie: cinque sono dirette
discendenti di altrettanti progenitori;
tre sono nate da conflitti e divisioni
tribali. All’interno d’ogni clan
esistono varie segmentazioni, che
rafforzano le relazioni personali, legami
di solidarietà e senso di parità.
Elemento portante dell’organizzazione
sociale e politica sono le classi
di età, con funzioni e mansioni specifiche
simili al modellato dei masai.
Nel sistema samburu tali classi sono
sei. Ma poiché ogni classe è racchiusa
nel ciclo di circa 15 anni e si entra
nella prima all’età di 15-20, le classi
più importanti sono quattro, con rari
superstiti della quinta e sesta, vegliardi
quasi ottuagenari e oltre.
La prima classe di età è formata dai
giovani iniziati e circoncisi durante
lo stesso ciclo di 15 anni: essi sono
chiamati moran, cioè guerrieri. La
loro funzione, infatti, è militare: hanno
il diritto e dovere di difendere il
territorio e gli armenti che vi pascolano;
di iniziativa propria passano all’attacco
per battute di caccia contro
animali predatori o per razzie del bestiame
alle popolazioni vicine. Non
hanno potere decisionale, ma i moran
seniori hanno il compito di comunicare
la loro esperienza ai coscritti
più giovani e ai primi gruppi
di iniziati della classe successiva.
«Non c’è classe di circoncisi senza
il proprio nome» dice un proverbio
samburu. Il nome è importante: conferisce
identità a individui e gruppi.
Per questo tutti gli iniziati di un determinato
ciclo ricevono un nome
speciale, che li distingue dalle classi
precedenti: lkishili sono quelli della
classe iniziata nel 1960; lkiroro dal
1975; lmoli dal 1990.
La seconda classe è formata da uomini
sposati o in procinto di sposarsi.
Essi devono badare alla famiglia e
soprattutto accudire al bestiame, la
cui crescita procura prosperità e prestigio
personale e serve ad avere nuove
mogli e figli. La fortuna economica
e familiare toerà utile per acquistare
più autorità nel passaggio
alla classe successiva.
La terza classe possiede il potere
politico e decisionale. È la classe dei
padri: i loro figli sono ormai entrati
nella prima classe, dei moran, e ne
controllano movimenti e attività militari.
Le decisioni vengono prese nei
consigli degli anziani, cui fanno parte
anche i membri delle classi successive.
Essi hanno uguale potere
politico; ma il prestigio e successo
personale possono essere motivo di
maggiore ascolto ed efficacia persuasiva.
Tali consigli sono locali; ma
ci sono occasioni in cui si richiede un
consiglio unico per tutto il territorio.
La quarta classe, insieme ai superstiti
della quinta e sesta, ha funzione
«religiosa». I suoi membri sono i depositari
della tradizione: rappresentano
il legame vivente tra il passato e
l’aldilà. Il loro compito specifico è di
consulenza e sacerdotale: alcuni riti
e cerimonie richiedono la presenza
di almeno uno di loro.
Benché in tale sistema organizzativo
anzianità e vecchiaia siano altamente
rispettate, non si può definire
l’ordinamento samburu una gerontocrazia.
In tale modello, infatti, il
potere e le varie funzioni (militare, economico,
politico e religioso) sono
distribuiti tra tutti i membri in maniera
diffusa e partecipata, sottraendoli
al dominio del singolo capo o di
un gruppo oligarchico.
Le donne, però, sono escluse dalla
vita politica e dal meccanismo delle
classi di età, dal momento che non
sono destinate a restare nel clan.

INIZIAZIONE
Nei primi 15 anni il samburu non
conta nulla: è un nkerai (bambino) o
layeni (ragazzo-pastorello). Ma con
l’iniziazione entra nella maturità.
L’iniziato, dopo essere stato rasato
e fornito di sandali nuovi, coperto da
una pelle di pecora, spalmata dalla
madre con grasso e polvere di carbone,
viene circonciso davanti alla
porta della propria abitazione, con
l’assistenza di un padrino. In genere
il circoncisore non è un samburu. Il
circonciso non deve mostrare paura
né lamentarsi per il dolore: sarebbe
una vergogna per tutta la famiglia.
Dopo la cerimonia il giovane riceve
regali, cibo e, dal padrino, arco e
frecce. Quindi rimarrà a casa per circa
un mese nell’osservanza di restrizioni
rituali; quindi comincerà ad andare
a caccia di uccelli: un’occupazione
di tre mesi chiamata laibartani.
Quindi raggiunge gli armenti lontani
per dedicarsi al pascolo e alla difesa
del bestiame; per una decina
d’anni intrecciano atti di coraggio a
una vita di vanitosi elegantoni.
Ma per diventare un moran il giovane
deve passare attraverso tre stadi,
con relative cerimonie dette lmugit:
sono riti di passaggio obbligatori
e punti fermi dell’educazione
impartita dagli anziani.
Inizia con il lmugit delle frecce (o
uccelli), durante il quale viene ucciso
un bue: di fronte a sua madre, il
giovane giura di non mangiare più
carne in presenza di donne sposate.
Solo da questo momento diventa
moran e può dipingersi il corpo con
l’ocra rossa.
Segue il lmugit del nome, quando
il giovane ha circa 20 anni. Anche
questo rito è accompagnato dal sacrificio
di un bue, ucciso per soffocamento:
esso non deve cadere a terra,
ma tenuto sollevato dai giovani
per i quali la cerimonia è celebrata.
Il bue dovrà essere mangiato interamente
e le ossa bruciate. Il lmugit del
toro, in cui viene ucciso un altro bue,
chiude praticamente il periodo del
«moranato»: il giovane è pronto per
il matrimonio e passa nella seconda
classe di età.

IL MATRIMONIO
Il cerimoniale del matrimonio è
complesso e suggestivo. Le trattative
con la famiglia della sposa sono condotte
dall’interessato, col sostegno
del padre; ma ogni anziano della parentela
patea o matea può mettere
il veto sulla ragazza scelta, minacciando
di maledire i futuri figli.
Oltre agli otto buoi da consegnare
al suocero, lo sposo deve procurare
vari regali per la sposa (due pelli di
capra, due orecchini di rame, un recipiente
per il latte, una pecora) e vari
capi di bestiame per parenti e affini
e da sacrificare per la festa. La
sposa dovrà procurarsi un grembiule
speciale, orecchini, un pezzo di
pelle di leone da legarsi alla gamba,
perline, sandali, un bastone di pianta
detta nkoita.
Per la data delle nozze, la nuova
luna è la più propizia e i giorni pari
i più adatti. Quel giorno, di primo
mattino, la promessa sposa viene
circoncisa (clitoridectomia). Tre
quarti d’ora dopo giunge lo sposo,
accompagnato dal compare e da altri
che sospingono un bue, una vacca
ed una pecora. La madre della
sposa toglie i paletti che ostruiscono
l’entrata della
capanna ed il
bue viene fatto entrare ed è ucciso.
Con tale sacrificio il matrimonio è
validamente ratificato, anche se la
cerimonia è appena iniziata. Seguono
riti complicati per la divisione
della carne del bue; quindi gli anziani
avviano una litania di benedizioni
sul padre della sposa, deponendo
burro sulla sua testa.
Per tutto il giorno si compiono altri
riti e il mattino la sposa deve recarsi
a piedi fino al villaggio dello
sposo. Il viaggio, spesso lungo e penoso
per la donna appena circoncisa,
termina alla manyatta (capanna)
dello sposo; vi entra passando tra
due file di anziani che benedicono
la nuova coppia. Nella nuova capanna
essa accende il fuoco nuovo,
che deve scaturire da due bastoncini
sfregati: il fuoco non dovrà mai
spegnersi finché la nuova famiglia si
trasferirà altrove.

MONDO DEL SACRO
Fulcro delle credenze religiose, attorno
a cui ruotano preghiere, sacrifici
e la stessa vita, è Nkai, Dio
buono e severo contemporaneamente.
Al di sotto di lui c’è una serie
di spiriti custodi, posseduti da ogni
cosa e persona.
Il termine nkai serve per indicare
anche il cielo e la pioggia; ma il concetto
che i samburu hanno della divinità
è molto chiaro: Dio è unico,
onnipotente, onnipresente, provvido,
ecc. In generale, gli attributi lo
descrivono come essere maschile;
ma alcuni lo descrivono come ente
femminile, quando, per esempio, lo
si prega perché sorregga l’uomo, come
una mamma sostiene i suoi bimbi.
Anche se gli attribuiscono forme
antropomorfiche, i samburu
rifuggono dal compararlo agli uomini:
Nkai è Nkai, dicono.
Benché Dio sia dappertutto, alcuni
luoghi, densi di fascino e meraviglia,
sono ritenuti privilegiati dalla
presenza divina, come i monti Ng’iro,
Marsabit e Kulal, oppure grosse
piante, cave, sorgenti d’acqua. Luoghi
sacri in cui si svolgono i riti più
importanti della vita.
Oltre alle preghiere quotidiane in
cui, in modo assai spontaneo, si invoca
Dio per le necessità dell’etnia,
clan, famiglia o individuo, i samburu
esprimono il loro culto mediante il
sacrificio. Un tempo avevano il lasar,
sacrificio di offerta. Oggi, il sorio, sacrificio
di ringraziamento, è l’atto di
culto fondamentale: ricorre due volte
all’anno. Lo si celebra di sera in ogni
gruppo di capanne e consiste nell’offerta
di una pecora nera, grassa,
non ancora incinta. La carne viene
arrostita e mangiata: la parte destra
dagli uomini e la sinistra dalle donne.
Il sangue, mescolato con l’interno
dello stomaco, viene spalmato
sulle capanne e sugli animali.
Contrapposto a Dio buono, i samburu
credono in uno spirito maligno
chiamato Milika, pressappoco il nostro
demonio.
Al pari di altre etnie africane, anche
i samburu hanno la figura del
mago-guaritore (loiboni), a cui si ricorre
in caso di malattia inguaribile,
sterilità, peste del bestiame, prima di
affrontare il nemico… È retribuito
con buoi e montoni. I suoi strumenti
sono sassolini, cianfrusaglie e radici
contenute in zucchette.
È un personaggio temuto da tutti
e di cui non si parla volentieri. Dal
canto suo, il mago-guaritore non
ama mostrarsi in giro. Egli trasmette
il suo mestiere al figlio più abile,
insegnandogli i segreti di erbe e veleni.
Quando muore viene sepolto
sotto un mucchio di sassi.
Un altro importante personaggio
è il laidetidetani, indovino o sognatore.
Suo compito è interpretare i sogni,
conoscere le stelle, prevedere
l’arrivo della pioggia. Il lais, invece,
è un personaggio dotato del potere
di ritrovare cose perdute, portare
fortuna o iella. Da costui i samburu
stanno volentieri alla larga.

LA MORTE
Anche la morte ha il suo cerimoniale.
In genere i morti non sono seppelliti,
eccetto i personaggi molto anziani
e rinomati e i bimbi di pochi
mesi; questi sono sepolti presso il
fuoco nella capanna, che viene poi
abbandonata. Per questo l’anziano
samburu, quando sente la morte vicina,
prega così: «Dio, fammi un vero
lookop: non permettere che l’erba
mi mangi». Chiede, cioè, di morire
nel suo clan e non lontano dal villaggio;
di avere una sepoltura onorevole
e una tomba riconoscibile, non coperta
dall’anonimato della savana; di
essere sepolto con la faccia rivolta alla
montagna sacra, sede di Dio.
In tal caso, il morto, rasato, viene
adagiato sulla pelle su cui dormiva e
sistemato in modo che la sua faccia
sia rivolta verso la montagna. La
gente deporrà rami intorno dicendo:
«Dormi da solo!». Il luogo verrà ricordato
per un po’ di tempo; chiunque
passerà accanto alla tomba vi
getterà un ramo verde.
(*) Cfr. anche: Achille Da Ros – Virgilio
Pante – Egidio Pedenzini, Proverbi Samburu,
Emi, Bologna (in samburu, inglese
e italiano).

RENDILLE
cultura del cammello

Lo chiamano harab lanugseli,
letteralmente «succhiarsi la
lingua». È un rito che si compie
alla nascita d’un bambino e si
svolge in questo modo: raccolti insieme
otto oggetti tipici del clan, un
uomo picchia leggermente il neonato
ripetute volte; poi altri uomini del
clan sputano sugli stessi oggetti e li
passano sulle labbra del neonato; infine
ognuno gli sputa sulla bocca
gridando: «Idei aleh!», sii come me.
La cerimonia serve a controllare il
potere delle maledizioni (ibire), che
per i rendille sono una cosa seria: ogni
clan ha le sue; vengono tramandate
da una generazione all’altra. Sono
credute e temute anche dai popoli
vicini: qualsiasi cosa strana possa
capitare l’attribuiscono a una maledizione
dei rendille, che spesso sono
invitati a pregare per togliere la iella.

«T’AMO… PIO CAMMELLO»
Circa 600 anni fa, gli antenati dei
rendille vivevano in Somalia: facevano
parte di uno stesso gruppo etnico
cuscita e parlavano la stessa lingua.
Fin d’allora elaborarono una cultura
ruotante attorno al cammello e determinati
riti per ottenere benessere
per sé e per gli animali, seguendo un
duplice calendario, solare e lunare.
Poi l’espansione degli oromo avviò
un grande movimento migratorio
verso sud e ovest, provocando una
differenziazione progressiva e dando
origine agli attuali somali, sakuye,
gabbra, rendille.
Tra i nuovi gruppi etnici, i rendille
sono quelli che si sono spostati più
a sud e hanno mantenuto lingua e
cultura più intatte. Oggi, sono circa
36 mila e vivono nella zona semidesertica
del distretto di Marsabit, circondati
a est dai borana, a nord dai
gabbra, con i quali si guardano in cagnesco
da qualche decennio, a est e
sud dai samburu.
Con questi ultimi, invece, le relazioni
sono ottime. La delimitazione
territoriale è molto elastica, per cui i
samburu entrano nella terra rendille
e viceversa. Pur mantenendo la propria
identità, la vicinanza dei gruppi
ha favorito mutui scambi di elementi
culturali: i rendille imitano gli oamenti
maschili e femminili dei
samburu e hanno metabolizzato varie
cerimonie di iniziazione.
Gelosi della propria identità, i rendille
si definiscono «proprietari di
cammelli»: ma allevano pure bovini,
ovini, caprini e pochi asini. Dal bestiame,
eccetto gli asini (usati solo
come bestie da soma) proviene il cibo,
sotto forma di latte, sangue e raramente
carne; la pelle è adatta a
molteplici usi. Il bestiame compare
nelle feste religiose e profane ed è
motivo d’orgoglio e prestigio per il
proprietario, il cui peso sociale e politico
è determinato dalla grandezza
delle mandrie.
Il cammello, soprattutto, gioca un
ruolo importante nella vita economica
rendille: esso è utilizzato per il
trasporto di attrezzi e strutture degli
accampamenti verso nuove terre da
pasto; o per trasportare l’acqua da
pozzi lontani. Un servizio inestimabile
se si tiene conto che l’animale
può portare fino a 90 chili di peso,
percorrendo 40 km per 6-8 ore al
giorno. Inoltre può restare senza bere
per 10-14 giorni.

CASA MIA, CASA MIA!
La pastorizia è attività comune a
uomini e donne, dall’infanzia al matrimonio;
in seguito le mansioni vengono
distinte: l’uomo l’abbandona
gradualmente per avvicinarsi alla vita
politica e la donna si dedica ai lavori
domestici, tra cui l’approvvigionamento
d’acqua, legna da ardere e
periodica costruzione della casa.
Trenta abitazioni in media formano
un villaggio, che non ha una collocazione
territoriale stabile; ma, secondo
esigenze igieniche e di pascolo,
viene smontato e ricomposto
altrove, rispettando la consuetudine:
la casa del capo al centro e tutte le altre
intorno, in ordine d’importanza
decrescente verso la periferia.
Una siepe di rami spinosi circonda
sempre l’abitato, entro il quale sono
disposti i recinti per il bestiame e
si aprono alcuni spazi che la gente utilizza,
di tanto in tanto, per eseguire
danze o canti corali.
Sotto un albero frondoso, accanto
al villaggio, si riunisce quotidianamente
il consiglio di anziani, per esaminare
i problemi inerenti alla vita
pubblica ed esercitare funzioni di
corte giudiziale, quando occorre.
Ogni famiglia tiene attorno all’accampamento
un piccolo numero di
cammelle, dalle quali le donne mungono
il latte per il fabbisogno quotidiano.
Le mandrie, invece, pascolano
lontano: ragazzi e guerrieri custodiscono
cammelli e bovini; ragazze e
donne non sposate capre e pecore.
I rendille vivono quasi in simbiosi
con il proprio bestiame, legati da vincoli
sacrali; ciò si manifesta soprattutto
durante le lunghe abbeverate:
i pastori, soprattutto le ragazze, chiamano
le bestie per nome, parlano loro
come si fa tra amici; ne cantano le
lodi e ne esaltano le qualità, quasi
fossero membri di famiglia.
Diversamente da molte società africane,
la donna rendille gode di
grande rispetto e considerazione: la
casa è territorio femminile e il marito
non ci mette il becco. Se un uomo
vuole parlare privatamente con altri
uomini, non può mandare via la moglie:
è lui che deve andarsene in un
posto dove non ci sono altre case,
oppure mandare gentilmente la consorte
a fare una commissione. Se un
matrimonio si rompe e non ci sono
figli, la casa rimane alla moglie per
sempre, anche se la rottura avviene
durante le trattative per le nozze.

UNA SPOSA PER 8 CAMMELLI
Due sono i capisaldi dell’organizzazione
sociale e politica dei rendille:
la divisione in 9 clan patrilineari
ed esogamici e il sistema delle classi
d’età. I clan di grandi dimensioni sono
ramificati in varie sezioni; clan e
sezioni sono dispersi in numerosi villaggi
che accolgono, oltre la famiglia,
un certo numero di forestieri.
Ogni clan è caratterizzato da notevole
coesione intea e si distingue
dagli altri per alcuni poteri rituali e
costumi propri. Tra i nove clan ne emergono
due: l’uno è detentore del
potere politico; l’altro di quello religioso,
i cui capi hanno carica ereditaria
e sono riconosciuti come tali da
tutti i rendille.
Le classi d’età conferiscono uguali
diritti e doveri a tutti gli uomini appartenenti
alla stessa leva. La formazione
di una classe ha luogo quasi
contemporaneamente in ogni villaggio
e comporta l’iniziazione di tutti i
giovani il cui padre appartiene alla
terza classe d’età.
In tale circostanza, i candidati, riuniti
in gruppo, sono circoncisi e, subito
dopo, ricevono in dono alcuni
capi di bestiame dai parenti più prossimi.
Durante la cerimonia gli iniziandi
eseguono canti e danze particolari,
che non ripeteranno più per
tutta la vita. Ai festeggiamenti segue
un periodo di reclusione in una capanna
comune appositamente costruita,
in attesa della completa guarigione.
Poi iniziano a svolgere le
mansioni proprie del grado d’età: pascolo
e attività di guerra.
Passati 12 anni, i «guerrieri» possono
sposarsi. Il matrimonio non si
concretizza in un momento particolare,
ma è un processo che avviene
per gradi: una serie di incontri tra i
padri dei futuri sposi stabilisce l’ammontare
della ricchezza della sposa
(in media 8 cammelli); i festeggiamenti
iniziano con la circoncisione
della moglie e durano diversi giorni.
La celebrazione interessa contemporaneamente
diverse coppie della stessa
leva (vedi riquadro).
Col formarsi di una nuova classe,
ogni 14 anni, i guerrieri passano allo
status di anziani, abbandonano le armi
e si dedicano alla famiglia e bestiame.
Successivi passaggi conferiscono
loro prestigio crescente, fino al
grado più alto, il sesto, difficilmente
raggiungibile: i superstiti diventano i
saggi custodi della tradizione.

SENZA ALDILÀ
I rendille credono in un Dio identificato
col cielo, creatore d’ogni cosa
visibile, capace d’influire sugli eventi
terreni, fenomeni naturali e vita
di ciascun individuo.
Il culto, per il quale non esistono
luoghi specifici, si avvale della preghiera,
a volte associata a sacrifici animali
e offerte di latte. L’attività sacerdotale
è svolta occasionalmente
dal padre e quotidianamente da un
anziano che funge da coreuta nelle
preghiere corali del mattino e della
sera.
Viene attribuita notevole importanza
ai cicli lunari e, ogni prima notte
di luna nuova, il «ritorno della luce» è festeggiato dalle donne con apposite
danze.
Non vi è credenza nella vita ultraterrena
e la morte viene spiegata come
un riappropriarsi della vita da
parte di Dio. Subito dopo il decesso,
il capo del defunto viene rasato e il
corpo cosparso di grasso; poi, a sepoltura
avvenuta, la tomba è coperta
da un mucchio di pietre, sulle quali
i parenti di passaggio versano un
po’ di latte in segno di benedizione
e posano qualche foglia di tabacco.

CAPRO ESPIATORIO
TURKANA
orgogliosi di vivere all’«inferno»

«Imigliori guerrieri dell’Africa
orientale; eccezionalmente
impavidi; con una fama di estremo
e rapace eroismo»: così hanno
definito i turkana gli amministratori
coloniali del passato. I primi incontri
non sono incoraggianti, scrive
un missionario che da anni vive insieme
a loro: sono «chiusi, un po’ rozzi
e grossolani, privi delle grazie della
società; impulsivi e attaccabrighe;
fieramente indipendenti, orgogliosi,
arroganti, ma anche giorniosi e felici; ispirano
forti emozioni: chi lavora tra
loro o li ama o li odia; spesso tutte e
due le cose insieme».
Ma è grazie a tale aggressività o reputazione
di essere tali, che sono tanto
numerosi e riescono a vivere in un
ambiente lunare.

SEGUENDO UN BUE RIBELLE
Il nome turkana (*) non dice molto:
forse deriva da aturkan (grotta,
cavea), da cui ngaturkana: uomini
delle cavee. Qualcosa in più si può
ricavare dai loro scarsi miti delle origini.
Inizialmente esisteva il gruppo
etnico dei karamojong: 500 anni fa,
questi emigrarono dall’Etiopia nel
Sudan, per poi ripiegare verso sud,
dividendosi in gruppi autonomi e
prendendo nomi propri: jie, dodos,
turkana, jiye, toposa, teso, donyiro,
kuman. I vecchi raccontano che queste
popolazioni «erano un tempo un
solo territorio, un solo popolo, una
sola famiglia».
Gli etnologi definiscono a grandi
linee questi gruppi come «nilo-camiti
» o «nilotici cuscitizzati». Di fatto,
la loro lingua affonda le radici
nell’intricato sottobosco nilotico, ma
sangue e cultura hanno i colori dei
popoli di lingua camitica (cuscita).
Per quanto riguarda i turkana,
un’antica leggenda narra che essi si
chiamavano jie; ma un giorno si separarono
da essi, seguendo le orme
di un bue capriccioso che, fuggendo,
si tirò dietro molta gente: da quel
momento essa si chiamò turkana; avanzò
verso sud e, sgomitando, assimilando
o cacciando le popolazioni
arrivate prima, diede il proprio nome
alla terra occupata: Turkwen, terra
dei turkana. Il contatto con altre
popolazioni ha arricchito la formazione
delle loro mandrie: ai soliti bovini
hanno aggiunto capre, pecore,
cammelli e asini.

HABITAT INFERNALE
Il Turkwen o, come viene chiamato
dall’amministrazione statale, Distretto
Turkana, misura oltre 61.000
kmq e si trova nella Great Rift Valley:
una lunga fossa a circa 600 metri
s.l.m., caratterizzata da pianure
sabbiose, blocchi rocciosi di 300-400
metri e catene di colline e montagne
di origine vulcanica alte fino a 1.600
metri.
La temperatura minima si ferma a
24° e la massima può raggiungere i
42° nei mesi di gennaio-marzo. Le
precipitazioni sono scarse e imprevedibili,
anche se i turkana continuano
a dividere l’anno in akiporo
(stagione delle piogge, aprile-agosto)
e akamu (stagione secca, settembremarzo).
Nel nord cade 100-300 mm
di pioggia l’anno; nel sud 300-800;
nel centro e nell’est non piove quasi
mai. Turkwell e Kerio sono i fiumi
principali; altri corsi d’acqua stagionali
non sono altro che letti di sabbia,
pietre e detriti. La vegetazione è
quella tipica della savana: acacie spinose,
cactus, sisal, palma dum, specie
lungo i corsi d’acqua, e cespugli
spinosi qua e là tra sassi e sabbia.
In tale ambiente infeale, nulla è
dato gratuitamente; tutto ciò che si
ha, o si vuole avere, deve essere faticosamente
conquistato e difeso, aggredito
e vinto. Altrimenti si soccombe.
Qui i turkana hanno sviluppato
carattere e cultura, orgogliosi
del proprio isolamento, accresciuto
dalla fama di guerrieri spietati che si
portano addosso.
Da sempre, infatti, essi compiono
razzie di bestiame: fa parte del loro
sistema economico, giustificato da
un mito tramandato da una generazione
all’altra: Dio ha dato ai loro antenati,
e solo a loro, tutto il bestiame
domestico esistente nel mondo; per
cui, razziare il bestiame altrui non è
pelle, abbellite da teorie di perline
multicolori.
Famosi sono i fabbri turkana: estraggono
il ferro da una roccia speciale
e modellano armi e utensili. Oltre
alle classiche lance e frecce dei
popoli nomadi, essi fabbricano il
micidiale bracciale: infilato al polso
e coperto da una sottile guaizione
di cuoio, sembra un oamento; ma
liberato da essa, svela il suo vero scopo:
è un’arma che non lascia scampo.
Caratteristici sono pure i loro
bastoni da combattimento: sembrano
comuni canne decorate; ma dovunque
colpiscono le decorazioni
lasciano il segno.
Nei loro oamenti, donne e uomini
rivelano un vasto campionario
d’inventiva, gusti, significati suggestivi
e altro. Le fogge dei capelli
sono totalmente differenti
da quelle samburu;
collane, orecchini, pendenti
e altri oamenti
femminili distinguono le
nubili dalle sposate e indicano
differenti situazioni
familiari: nascite e
lutti, vedovanza e lontananza
del marito. Oltre
alla perforazione dell’orecchio,
è praticata
quella del labbro inferiore,
per inserirvi un
monile metallico.
Armi, utensili, oamenti
e oggetti artigianali
hanno per la gente
un valore puramente
pratico, senza escludere
quello estetico; ma
da quando i bianchi
hanno cominciato ad
apprezzarli come souvenir
turistici, i turkana
hanno fatto un balzo
nell’adattamento alla
«civiltà industriale».

SOCIETÀ DEL BESTIAME
L’intera etnia turkana è divisa in 12
clan, con usi e rituali propri, e 25 sezioni
sparse in tutto il distretto, con
regole esogamiche. Tutti i maschi sono
divisi in due grandi gruppi: ngimoru
(pietre) e ngirisae (leopardi),
distinguibili da segni decorativi in
occasione di feste. L’appartenenza è
alternata tra padre e figli: se il padre
è ngimoru, i figli saranno ngirisae e
viceversa. Col matrimonio le donne
entrano nel clan e gruppo del marito.
Ma clan, sezioni e gruppi non rivestono
particolare significato sul
piano socio-economico, poiché non
posseggono bestiame proprio.
Cuore e centro del sistema sociale
turkana è l’ekal, famiglia estesa:
un nucleo indipendente,
economicamente autosufficiente
e geograficamente
distinun
crimine, ma significa semplicemente
riprendersi ciò che è proprio
per diritto divino e primordiale.
Se a tale giustificazione si aggiunge
il prestigio di uccidere uno o più
nemici, ostentato con speciali decorazioni
e cicatrici sul petto, si comprende
come i turkana si siano guadagnati
la fama di guerrieri coraggiosi
e sanguinari; anche se negli
ultimi anni si sono dati una calmata,
sia per convinzione, sia perché le popolazioni
circostanti si sono rifoite
di armi da fuoco (vedi riquadro).

ADATTARSI O SPARIRE
Dote fondamentale dei turkana,
modellata dalle difficoltà ambientali,
è il grande spirito di adattamento.
Pur conservando vari usi e costumi
del gruppo originario karamojongjie
(modi di vestire, decorazioni e
fogge di capelli, rituali e tipi di alleanze),
i turkana hanno abbandonato
tante pratiche classiche dei popoli
nilotici, come la circoncisione
sia maschile che femminile; le classi
di età, l’importanza dell’autorità degli
anziani e della divisione clanica.
Il rapporto con il bestiame, soprattutto,
è essenzialmente pratico, ben
lontano dalla simbiosi psicologicasacrale
dei samburu.
Quando, per motivi di sopravvivenza,
migrano nelle città o altri territori
tribali, i turkana accettano di
ripristinare la circoncisione o adottano
le tradizioni del nuovo habitat.
Unici tra i pastori nomadi, i turkana
non si vergognano di «piegare la
schiena» per zappare e coltivare la
terra, appena le rare piogge ne offrono
l’opportunità, né di avvantaggiarsi
d’ogni cosa commestibile: uova,
pesce, pollame e carne di animali selvatici,
cibi rigorosamente tabù per le
altre popolazioni pastorali. Fanno eccezione
le cai di cane e iena.
Poiché le difficoltà aguzzano il cervello,
i turkana hanno imparato a usare
tutte le risorse offerte da un ambiente
ostile. Legno, pelli, cuoio, avorio,
metalli, zucche, semi, ossa,
coa, zoccoli, unghie, piume ecc….
nulla è buttato, ma trasformato in utensili,
oamenti e altri oggetti di artigianato.
Solo la tessitura non è praticata,
per mancanza di fibre vegetali.
In compenso, le donne sono abili
nel lavorare il cuoio, con cui confezionano
caratteristiche sottane di
to, formato da padre, moglie (o mogli),
figlie non sposate e figli con relative
mogli e prole; ma può essere estesa
a parenti e affini. Il padre è padrone
assoluto (ekapolon) del
bestiame, che non sarà spartito tra i
figli fino a quando egli è in vita.
Nella vita quotidiana sono importanti
i rapporti di vicinato: differenti
ekal possono aggregarsi, formando
un villaggio sparso, in una comune
area di pascolo, per aiutarsi a
vicenda nella ricerca di acqua, custodia
del bestiame e assistenza reciproca
in ogni eventualità.
Nel vicinato si realizza l’organizzazione
politica dei turkana, dando
vita a un microcosmo di consigli di
anziani, con potere decisionale circa
la soluzione dei problemi che emergono
dalla vita quotidiana. Tali consigli
non sono stabili, poiché un ekapolon
può emigrare dal villaggio in
qualsiasi momento verso altre zone
di pascolo e non incontrare più i vicini
per tutta la vita.
Altra importante struttura organizzativa
è la «società del bestiame»:
è un’alleanza tra uomini discendenti
dallo stesso antenato, parenti, affini
e amici, con l’impegno di procurare,
dare o ricevere animali quando
uno dei soci ha perduto il bestiame
o si trova in qualche grave necessità,
come il matrimonio.

MA QUANTO MI COSTI!
Più delle strutture, sono gli eventi
della vita a ricoprire un ruolo importante
nella vita turkana: iniziazione
e matrimonio, nascita di un figlio
e morte dell’ekapolon.
Bambini e ragazzi hanno il compito
di pascolare e difendere il bestiame
dell’ekal fino al giorno dell’iniziazione
(esapan). Questa avviene all’età
di 15-20 anni, con un gruppo
consistente di candidati, nella stagione
umida, quando il cibo abbonda.
Il rituale è ridotto all’osso: abolita
la circoncisione, esso consiste nel
«sacrificio dell’esapan»: a tuo gli iniziandi
devono uccidere un animale
(toro o caprone) con un colpo di
lancia preciso, per dimostrare la
propria forza e abilità. Poi gli anziani
li spalmano con il contenuto dello
stomaco della vittima e spruzzano
su di loro saliva e acqua, simbolo
di vita e di benedizione.
I rituali proseguono con festeggiamenti e abbuffate di carne. Infine
ogni giovane si reca dal padrino che,
dopo avergli trasmesso il bagaglio
morale, le tradizioni dell’etnia e acconciato
la capigliatura, gli consegna
il necessario di un autentico turkana:
lancia, clava, poggia-testa, braccialecoltello,
anello, sandali nuovi. Ora il
giovane è diventato un guerriero: deve
respingere i nemici, condurre la
mandria in pascoli lontani e partecipare
alle razzie.
Verso i 30 anni, il giovane può sposarsi
e così raggiunge un secondo
grado di maturità. Ma è un processo
lungo e complesso.
Iniziato il corteggiamento e ottenuto
il consenso della ragazza, in genere
ancora adolescente, il giovane
deve ottenere l’approvazione del padre.
Se esso è positivo, il genitore si
reca con gli anziani alla casa della famiglia
della sposa e avvia il contratto
matrimoniale.
È questo il punto cruciale, dove la
«società del bestiame» si rivela provvidenziale.
Il prezzo della sposa, infatti,
può raggiungere i 40-50 capi di
bovini e cammelli, 100-150 di pecore
e capre, un discreto numero di asini
e beni di uso immediato (coperte,
tè, zucchero, tabacco). Domanda
e offerta subiscono sconti durante la
contrattazione; ma la somma rimane
sempre alta; e non è scontato che il
padre sia disposto a sborsarla, specie
se vuole procurarsi un’altra moglie:
da qui la necessità di rivolgersi a zii,
affini e amici.
Raggiunto l’accordo tra le due famiglie
sul prezzo da sborsare, lo sposo
chiama alcuni amici e rapisce la
ragazza. La sposa è consenziente, naturalmente;
ma il rapimento deve avvenire
col maggiore baccano possibile:
la ragazza grida e si divincola
per mostrare l’attaccamento ai genitori;
i rapitori devono fare apparire
che si tratta di un bottino di razzia,
tanto per non smentire la propria fama.
A colpo fatto, gli anziani benedicono
gli sposi, che cominciano a
convivere.
Riprendono le trattative tra le due
famiglie per la consegna del bestiame,
che generalmente viene fatta a rate.
La prima deve essere la più consistente,
perché i parenti della sposa
acconsentano alla cerimonia definitiva:
l’uccisione del bue. Con questa
cerimonia viene sancita la legittimità
del matrimonio a tutti gli effetti, anche
se il pagamento delle altre rate
durerà molti anni o tutta la vita.

RELIGIONE… INTERESSATA
I turkana hanno la certezza di un
Dio chiamato Akuj (cielo): benevolo,
onnipotente, unico (senza mogli
e figli), onnisciente… ma è alquanto
lontano. Presente al tempo delle origini,
non si interessa troppo delle
faccende umane, pur rimanendo
sempre sorgente della vita e del destino
di ogni essere. A volte Dio comunica,
attraverso il sogno, in vista
di necessità collettive, mediante uomini
scelti, come l’emuron, personaggio
fondamentale nella società
turkana, che riveste il ruolo di sacerdote,
mago, medico e divinatore.
I turkana si avvicinano ad Akuj ed
esprimono la loro dipendenza, seppure
raramente, con preghiere e sacrifici,
in caso di calamità collettive,
malattia di anziani e altre circostanze
dettate dalla tradizione. Si ha il
«sacrificio per la pioggia», con l’uccisione
di un bue in caso di siccità
prolungata; si sacrifica un toro (o caprone)
al rientro del bestiame dalle
alture o per scongiurare la moria degli
animali.
Oggetto della preghiera, guidata
dagli anziani o dall’emuron, sono
realtà concrete: pioggia, acqua, cibo,
aumento di figli e bestiame, salute
delle persone; ma anche pace, armonia,
concordia tra gli anziani.
Inoltre, l’universo turkana è popolato
da entità benevoli o malevoli,
da un gran numero di spiriti della
natura e spiriti dei morti. La loro potenza
è limitata, ma è sempre meglio
tenerli a bada con una serie di rituali,
formule di scongiuro, amuleti e talismani,
piccoli gesti di rispetto: un
pizzico di tabacco, libagioni di latte
e acqua.
Infine, accanto all’azione di Akuj
e degli spiriti, i turkana credono in
realtà soprannaturali impersonali,
controllabili dagli specialisti: maghi
e indovini, possessori di poteri positivi
o distruttivi. Ne esistono parecchi,
ma il più popolare, stimato e temuto,
è l’emuron, spesso molto ricco,
grazie al contributo in bestiame
che riceve per le sue prestazioni.
Personaggio caratteristico, presente
in quasi tutti i villaggi, è il «lanciatore
dei sandali»: dalla posizione che
tali aesi assumono in volo e nella ricaduta,
egli diagnostica le cause di
un’anomalia e dà la risposta al problema
che gli viene presentato.
(*) Cfr. anche: Achille Da Ros,
Noi, i Turkana, Emi, Bologna, 1994.

PASSARE TRA LE DITA
EL MOLO
quei «poveri diavoli»

Fisico malsano, endemica debolezza
ossea, labbra macchiate,
denti scoloriti… una trentina di
anni fa gli el molo contavano un centinaio
d’individui, destinati a scomparire
per carenze alimentari e matrimoni
tra consanguinei. Apatia e sregolatezza
facevano il resto: sembrava
che la gente avesse deciso di darsi alla
pazza gioia prima di sparire.
Con la fondazione della missione
di Loyangallani, le cose cominciarono
a cambiare sia dal lato umano che
morale: medicine, igiene e aiuti alimentari
fermarono la moria; i matrimoni
con turkana e samburu hanno
portato un ricambio di sangue e, in
pochi anni, gli el molo sono più che
raddoppiati.

INSEGUITI DALLA SFORTUNA
Per molto tempo gli el molo sono
stati denominati, anche nei censimenti
ufficiali, come ndorobo o dorobo,
storpiatura europea di il torobo,
poveracci: nomignolo con cui i
maasai indicavano una ventina di
gruppetti etnici, el molo compresi,
sprovvisti di armenti e costretti ad arrangiarsi
con altre attività, come caccia
e pesca. La loro vita e attività giornaliera
non potevano essere descritte
con una parola più significativa.
Probabilmente anche il termine
cuscita el molo (o ol molo) significa
la stessa cosa: «pescatori del lago».
Recenti studi etnologici, infatti, li
classificano tra i cusciti e non più nilo-
camiti, come erano ritenuti fino a
pochi anni orsono. Si tratta infatti di
un gruppo cuscita orientale che,
spinto dai somali 500 anni fa, raggiunse
l’estremo nord del Kenya e si
stabilirono lungo la sponda orientale
del lago Turkana.
Attacchi, vessazioni e persecuzioni
da parte di altre etnie circonvicine
continuarono a restringere il loro territorio,
cacciandoli sempre più a sud
e costringendoli a trovare scampo su
minuscole isole. Finché la piccola comunità
sopravvissuta, ritoò a costruire
i loro villaggetti sulla terra ferma,
di fronte alla cosiddetta «isola
delle capre» o più realisticamente «isola
del non ritorno».
Più dei feroci predatori di un
tempo, sembra che sia la natura
ad accanirsi contro gli el
molo. Tutto il territorio, dove
la precipitazione annua
non supera i 50-60 mm,
non offre che pietrame,
con pochi cespugli spinosi
e palme dum. Pur
mitigato da venti che soffiano
notte e giorno, il caldo
raggiunge e supera facilmente
i 45°. Anche per le capre
diventa ardua fatica trovare
qualcosa da brucare. E se le piogge
falliscono, allora è tragedia per gli
animali e per la gente tutta.
Da quando si è cominciato a misurare
regolarmente il livello del lago
Turkana, si è scoperto che esso scende
di 30 cm l’anno: fenomeno preoccupante
per il futuro degli el molo.

ADDIO CULTURA ANTICA
Oggi essi costituiscono una delle
più esigue etnie del Kenya. Secondo
etnologi e missionari, gli el molo puro
sangue sarebbero una quarantina;
quelli con sangue turkana e samburu
oltre 200 individui.
Mescolanza di sangue e contatti
con altre etnie hanno provocato un
processo di acculturazione, specialmente
tra i giovani, in cui è difficile
distinguere gli usi e costumi originari.
Pochi anziani conoscono la lingua
el molo; mentre la gioventù è passata
al samburu o turkana e non capisce
più neppure i canti tradizionali.
I guerrieri samburu, soprattutto,
hanno affascinato i giovani el molo,
almeno nel passato, arruolandosi
nelle loro classi di età e tingendo la
capigliatura con ocra rossa.
Da questa stessa etnia sono copiati
vestiti e abbigliamenti femminili.
Oamenti originali delle ragazze sono
costituiti da dischetti di guscio
d’uovo di struzzo, oppure da rozzi
monili di spine e pinne di pesce. A
volte si fanno collanine di conchiglie,
alle quali è legato un valore sacrale.
Unico capo di vestiario che resiste
è il selah: una specie di gonna aperta
ai fianchi, fatta di funicelle attorcigliate,
indossata da donne e ragazze
specie quando vanno a pescare.
Gli uomini, invece, seguono la moda
turkana, sia nel vestire che nell’acconciatura
dei capelli: parrucca
fatta con peli e pelle di vacca o piume
di struzzo.

CACCIA… A DIO IPPOPOTAMO
Quella degli el molo è essenzialmente
una vita di pescatori: sono abilissimi
nell’uso di arpioni, lenze e
reti o nasse, quanto coraggiosi nello
sfidare le onde del lago, a volte gigantesche,
con una zattera composta
da due tronchi di palma dum, legati
insieme da corde vegetali.
L’arpione è la loro unica arma tipica:
è fatto di un pezzo di ferro, a
cui è fissata una corda vegetale, che
permette di recuperare l’aese e tirare
la preda verso la zattera. Il lungo
manico è ricavato dalla radice di
acacia, raccolta in luoghi esenti da
tabù. D’uso comune sono le reti fatte
con fibre della solita palma dum,
come pure quelle europee, nonché
un tipo di nassa che essi chiamano
«rete dei turkana».
Naturalmente la dieta degli el molo
è basata essenzialmente sul consumo
di pesce, soprattutto pesce
persico e tilapia. Coccodrilli, tartarughe
e ippopotami procurano a volte
un apprezzatissimo cambio nel
menù. Il pesce è di solito arrostito sul
fuoco, oppure viene tagliato a strisce
ed essiccato al sole, per poi essere
rammollito in acqua e bollito in pentolini
di recupero.
Il dattero di palma e bacche di
sokotei costituiscono il secondo nutrimento,
specie per i giovani. Marginale
è il consumo di latte, fornito
dalla modesta quantità di bestiame,
allevato per scambi matrimoniali.
La carne d’ippopotamo è considerata
nutrimento di prima classe e,
quando ne sentono il bisogno, gli el
molo organizzano tutti insieme battute
di caccia in grande stile. È sempre
un’impresa pericolosa, rivestita
di senso mitico: l’ippopotamo è considerato
quasi una divinità, un dio
che dona la sua stessa vita per la buona
salute del «popolo del lago».
L’ippopotamo è al centro di una
speciale cerimonia, detta ngwere, celebrata
ogni due o tre anni a Moite,
65 km dagli usuali accampamenti. In
tale festa vengono ricordati gli antenati
con danze e canti, accompagnati
dallo sbattere di due bastoncini. Il
capo gruppo spiega le parole dei
canti, dato che pochi ormai conoscono
la lingua.
Quando viene aperta la caccia al
pachiderma, i giovanotti vengono
frustati dai vecchi, per stimolarli alla
ricerca dell’animale. Una volta localizzato,
il giovane prescelto deve
lanciarglisi contro con coraggio, se
non vuole buscarsi altre frustate.
L’uccisore dell’ippopotamo diventa
una persona tabù: per tutta la durata
della cerimonia non potrà cibarsi
della carne della vittima; in compenso
è acclamato come eroe della festa
e avrà diritto a fregiarsi di un amuleto
fatto di osso dell’animale, appeso
al lobo dell’orecchio.

VITA SOCIALE
Punti fondamentali della vita sociale
degli el molo sono la circoncisione
maschile e femminile. Quest’ultima
avviene lo stesso giorno del
matrimonio, come tra i samburu, dai
quali probabilmente hanno copiato
il rito.
Una volta, la dote, versata dallo
sposo al suocero o alla parentela della
sposa, ammontava a quattro pali
di palma dum per costruire la zattera,
un arpione da pesca e una rete di
funicelle; attualmente, da quando
sono permessi i matrimoni con
turkana o samburu, tale pagamento
consiste in qualche mucca e capra.
Alla sposa, poi, il giorno del matrimonio,
viene dato un nuovo nome
da parte del marito.
Compito dell’uomo è badare alla
pesca e al pascolo, per chi possiede
bestiame. La donna si occupa della
costruzione della capanna, cura dei
figli, provviste di acqua e quant’altro
concee la misera cucina.
La società el molo è acefala, anche
se si pratica un certo rispetto per
l’anziano, eminente per doti umane
e sacrali.
Ogni nascita è salutata da preghiere
a Wacq (Dio), nell’ambito della
famiglia, senza partecipazione del
clan. A differenza di altri popoli, gli
el molo accettano con gioia i parti gemellari.
La morte è considerata un ritorno
presso Wacq. Gli adulti vengono
sepolti fuori del villaggio, vicino
al lago, e il tumulo è ricoperto di
pietre. Poi tutto il villaggio si sposta
dal luogo dove sorgeva.

GABBRA
pace, pioggia e lunga vita

Pelle color rame, corpi longilinei
e volto dai lineamenti asciutti e
fini non lasciano dubbi: i gabbra
(*) sono uno dei tanti gruppi cusciti
della grande famiglia oromo (Etiopia),
con i quali condividono lingua
e cultura pastorale. Dai somali
hanno attinto elementi arabo-musulmani
e la predilezione per i cammelli,
che assumono rilevante importanza
economica, sociale e rituale.
Abitano a cavallo del Kenya ed Etiopia.
La zona kenyana (35.000
kmq) si estende dalla sponda orientale
del lago Turkana fino al centro abitato
di Marsabit ed è popolata da
oltre 25 mila gabbra, 36 mila cammelli,
9 mila bovini e 360 mila tra pecore
e capre.

VAI DOVE TI PORTA IL VENTO
Il territorio dei gabbra è un immenso
tavolato dove steppe e savane,
disseminate di arbusti spinosi ed
erbe secche, si alternano a deserti di
pietraie e polvere lavica, circondate
da rilievi rocciosi e ammassi morenici
di origine vulcanica, simili a enormi
palle di cannone arrugginite.
Il turista che vi si avventura nella
stagione secca non può sottrarsi all’impressione
di essere capitato in
una solitudine sconfinata, soprattutto
di fronte al deserto del Chalbi, incrostato
di sale, regno assoluto della
fata morgana. Chi invece vi arriva
durante la stagione umida (marzo-aprile
e novembre) e vede scrosciare
le piogge, lo scorrere tumultuoso di
torrenti in piena, lo spuntare rapido
dei fiori, pianura e monti ricoprirsi
di verde, può comprendere perché i
gabbra amino questa terra.
Conservatori come tutti i popoli
pastori, quella dei gabbra è l’etnia
kenyana meno toccata dall’occidentalizzazione.
Cultura e strutture sociali
sono mirabilmente adattate all’habitat,
lasciandolo intatto come è
da millenni. Lavoro e vita sono guidati
dalla natura, dai ritmi lunghi delle
stagioni, gestazioni e crescite.
I gabbra comprano dal fabbro accetta,
lancia, coltello, scalpello per lavorare
il legno; per il resto sono indipendenti
e ricavano quanto occorre
loro da ciò che offrono la natura e
il mondo animale.
Attività principale è la pastorizia,
accompagnata da un semplice artigianato
per uso domestico: sedie, recipienti,
coppe, manici, bastoni, borse,
cordami.
L’abitazione soprattutto rivela lo
spirito di adattamento dei gabbra.
Costruita con materiali vegetali e
pelli, pianta circolare di 3-4 metri di
diametro, struttura a cupola, essa è
facilmente montabile e smontabile,
per essere trasportata quando, alla ricerca
di acqua o nuovi pascoli, essi
migrano liberi e leggeri come il vento,
che corre libero e gagliardo, inebriato
dagli spazi immensi.
La terra appartiene a tutta l’etnia;
il bestiame è proprietà dei capifamiglia.
Tutti hanno diritto di accedere
ai pozzi: la priorità può essere riservata
a chi ha costruito o riparato il
pozzo; gli altri si attengono pazientemente
e rigorosamente ai tui decisi
dagli anziani. Inoltre, prima si abbeverano
le bestie, poi le persone.

ATTÀCCATI AL TRENO!
La famiglia (worra), per lo più monogamica,
è il fondamento della società
dei gabbra. Essi vivono in villaggi
(olla) di una ventina di capanne,
disposte in fila o in semicerchio,
circondate da una siepe di rami spinosi
con due entrate. Accanto alla capanna
ci sono i recinti del bestiame.
In ogni villaggio l’assemblea degli
anziani, raccolta sotto un albero, cura
gli affari di politica, amministrano
la giustizia e dirimono le questioni
comunitarie: ricerca di nuovi pascoli,
migrazioni, dispute, date di celebrazioni,
tui di abbeveramento degli
animali, epidemie, pericoli di attacchi
nemici. Nel consiglio emerge
la figura dell’«abba olla» («padre del
villaggio»), con funzioni di guida,
proporzionate alle doti personali.
Un’unità più vasta raggruppa i discendenti
da un capostipite comune
e non lontano nel tempo. I membri
del lignaggio sono tenuti ad aiutarsi
a vicenda, specie in caso di vedovanza,
razzie subite o carestie.
Il clan o sezione (gosa) è alla base
dell’organizzazione della vita. Sono
cinque: Alganna, Galbo, Gara, Odola
e Sharbanna. Il principio di discendenza
è patrilineare: ogni gabbra
sa fin da fanciullo a quale gosa appartiene
suo padre e quindi egli stesso.
Il ricordo del nome degli antenati
si spinge fino alla 10a generazione.
Ogni clan si organizza come unità
sociopolitica, in molti aspetti autonoma,
con funzioni rituali e costumi
propri, con un gruppo di anziani responsabile
dell’andamento generale
e particolari funzioni giudiziarie, per
dirimere i problemi di difficile soluzione.
Questi anziani risiedono in un
villaggio sacro, detto yaa, dove sono
custoditi gelosamente i simboli sacri
clanici: tamburo, corno e bastoncini
per l’accensione del fuoco.
Ma la struttura socio-politica più
tipica dei gabbra è la classe di età (luba),
uno dei più affascinanti modelli
socio-politici dell’Africa. In tale sistema
ogni generazione assume, via
via, compiti e funzioni dapprima privati
(farsi la propria famiglia), poi sociali,
politici e religiosi (ordinare la
cosa pubblica e celebrazione di riti),
per restringersi, infine, in un gruppo
con funzioni di consiglio e rappresentanza.
Il sistema delle classi di età tra i
gabbra può essere paragonato a un
treno in corsa, composto da 10 vagoni,
in cui viaggiano tutti i membri
dell’etnia, eccetto i ragazzi non ancora
iniziati e le ragazze nubili; in ogni
carrozza ci sono i componenti di
una stessa classe. Ogni 8 anni il treno
si ferma e tutti i passeggeri passano
dal proprio vagone a quello precedente,
lasciando libero l’ultimo,
sul quale salgono i giovani, che cominciano
così il loro cammino nella
vita sociale.
Tale fermata, o passaggio di classe,
viene celebrata con grande enfasi,
specie per gli anziani, ai quali sono
conferiti i poteri rituali, prestigio sociale
e custodia delle tradizioni. La
circoncisione dei giovani, invece, di
solito avviene nell’adolescenza senza
che l’evento sia solennizzato.

PACE E PIOGGIA
I gabbra credono in un unico Dio,
chiamato Waqa, che significa cielo e
fenomeni atmosferici. Egli è signore
della vita e della morte e sanzionatore
del male. La religione è piuttosto
ritualistica, basata sulla natura, ordinata
ai bisogni dell’uomo ed espressa
in riti, cerimonie, sacrifici, feste,
danze, canti e benedizioni.
I gabbra non conoscono altro intervento
di Dio se non quello che egli
compie nella natura e nella vita.
Le sue parole sono pioggia, stagioni,
nascita dei figli, morte, malattie, ritmo
del tempo, prosperare degli uomini
e animali.
In genere si prega per ottenere,
non per glorificare. L’uomo è il centro
di attenzione: si chiede pioggia,
pace, figli, salute. I riti si svolgono in
un’atmosfera di serenità, tanto più
che sono sempre feste sociali. Nelle
preghiere si usa il passato: per invocare
la pioggia si dice: «Qui è piovuto
»; per chiedere la pace: «Noi siamo
uomini di pace» (vedi riquadro).
Pioggia e pace sono due valori fondamentali
della società gabbra, espressione
del modo di porsi in rapporto
con la natura, con Dio e con
gli altri.
Tra i gabbra non c’è parola più ripetuta
del termine nagaya (pace) nel
senso più vasto del termine: armonia,
ordine, sereno compimento del
proprio lavoro, intesa e accordo tra
i membri del villaggio, crescita ordinata
degli animali, celebrazione regolare
di feste e riti, libertà da attacchi
nemici, malattie, carestie.
In un ambiente dove la precipitazione
non supera i 200 mm l’anno e
non è sempre puntuale, la seconda
parola più ricorrente in conversazioni
e preghiere è bokaya, pioggia, attesa
con spasmodica pazienza.
L’attesa è la logica dei gabbra. Non
si tratta di inerzia o fatalismo, ma di
semplice fiducia in Dio, poiché da
lui tutto dipende: da Waqa viene la
pioggia, dalla pioggia l’erba, dall’erba
il latte, dal latte la vita.

L’ISOLA… CHE NON C’È
Pioggia e pace, dunque. Due valori
che potrebbero far pensare alla società
gabbra come un’isola di uomini
felici. In realtà istinto di aggressività
e desiderio di trionfare sul
nemico, difficoltà ambientali, tensioni
provenienti dalla vita quotidiana
e dal contatto con altre culture
creano non pochi problemi.
Essi desiderano e invocano la pace
per la propria etnia; ma diventano
aggressivi e spietati con le tribù
vicine, fatta eccezione per i borana,
loro fratelli e di cui parlano la lingua,
e a volte per i rendille. Nemici tradizionali
sono samburu e shangilla.
L’esaltazione del valore viene espressa
in riti e canti che inneggiano
al coraggio, alla vittoria e vendetta.
L’uccidere un nemico è gloria imperitura
in seno alla società; un grosso
anello d’avorio oa il braccio dell’uccisore;
le donne esaltano il guerriero
e gli mettono al collo una delle
loro collane dicendo: «Ne hai ucciso
uno, uccidine un secondo!».
I gabbra lasciano la caccia di gazzelle
e antilopi ai wata: una classe di
uomini di origine straniera guardata
con un certo disprezzo; mentre provano
coraggio e bravura uccidendo
gli animali più pericolosi: leoni, elefanti,
rinoceronti.
Tale orgoglio viene espresso anche
nel canto:
«Leone solitario!
Hai la criniera come la chioma
di una giovane donna.
Ma quando da lontano
fai sentire la tua voce
chi non ha coraggio dice:
son morto!
Leone solitario,
mi hai irritato.
Sono sceso dalla collina
e t’ho finito».
(*) Cfr. Paolo Tablino, I gabbra del Kenya,
Emi, Bologna 1980.

BORANA
pacifici, ma non pacifisti

«Dio creò l’uomo e un elefante,
li pose in un meraviglioso
giardino; tutti
i giorni passeggiava con loro. Nel
giardino c’era un fiume d’acqua limpida;
ma l’elefante la intorbidiva e
non ascoltava né Dio né l’uomo che
gli dicevano di non farlo. Allora l’uomo
uccise l’elefante. Dio si stizzì per
tale gesto e cacciò l’uomo dal giardino.
Per questo i borana vivono nella
disperata ricerca d’acqua, seminomadi
in un semideserto».
Dal «paradiso perduto» alla dura
realtà presente: il breve mito racchiude
secoli di storia.

RITORNO ALL’INFERNO
In un tempo imprecisato, popolazioni
dell’alto Egitto migrarono nelle
regioni montagnose dell’Etiopia
meridionale. Non era il paradiso, ma
ce n’era quanto bastava per fermarsi
stabilmente, dedicandosi all’agricoltura, ma senza dimenticare l’allevamento
dei bovini. Così nacque l’etnia
cuscita (o camitica) degli oromo.
A partire dal secolo XVI, la crescita
demografica e la diminuzione di terre
produttive causarono frizioni e lotte,
anche sanguinose. Molti oromo si
staccarono dal ceppo originario e ripresero
a migrare, dando origine a
circa 200 gruppi di differente consistenza
numerica, gelosi della propria
autonomia, pur conservando lingua
e tradizioni culturali.
Alcuni si spinsero verso est, ma furono
ricacciati dai somali. Costretti
a migrare verso sud, occuparono le
regioni ai piedi dell’acrocoro etiopico
e continuarono a coniugare agricoltura
e allevamento.
Altri, poi chiamatisi borana, si
sparsero nel semideserto, a cavallo
tra Kenya ed Etiopia: ambiente più
simile all’inferno che al paradiso dei
miti delle origini. Nelle immense distese
di sabbia e pietraie sono tornati
alle antiche abitudini del nomadismo,
con un drastico cambiamento
economico e culturale: all’allevamento
dei bovini hanno aggiunto
quello dei cammelli, una volta disprezzati,
insieme ai loro pastori.
Oggi i borana contano 4-5 milioni
di persone, in maggioranza stanziate
in Etiopia; 90 mila circa vivono in
Kenya, concentrati nei distretti di
Marsabit, Moyale e Isiolo, con altre
comunità sparse fino al fiume Tana e
al distretto di Garissa.
La sopravvivenza nel semideserto
non è facile: a volte la pioggia si fa attendere
per anni; negli ultimi decenni
solo sei volte è caduta in abbondanza.
Ogni anno essi sono costretti
a spostare le loro mandrie di capre,
pecore, bovini e cammelli da un luogo
all’altro, fino a 100 km di distanza,
in cerca di pozzi e nuovi pascoli.
Varie carestie hanno reso i borana
sempre più dipendenti dagli aiuti umanitari,
una situazione aborrita da
questo popolo orgogliosamente abituato
alla propria autosufficienza.

«PACE BORANA»
Il termine borana significa «amico,
persona gentile». Il peggiore rimprovero
a una persona che si comporta
male è: «Non sei borana!».
La coesione etnica è il massimo ideale, che va sotto il nome di nagya
borana: pace borana. Di fatto essi sono
un popolo pacifico: la pace all’interno
dell’etnia è un valore sacrosanto
e inviolabile. Ma anche con le
altre popolazioni del Kenya essi mantengono
rapporti cordiali. Ma in passato
si sono verificati scontri sanguinosi
per difendere i pascoli ed episodi
di reciproche razzie di bestiame.
La gestione delle risorse ambientali
è decisa dagli anziani. Quando i
pascoli e le risorse idriche si esauriscono,
una delegazione si reca nei
villaggi che hanno ancora l’acqua per
chiedere il permesso di accedere. In
quell’occasione vengono concordati
il numero di mandrie e il periodo
nel quale è consentito l’accesso.
I borana hanno un grande senso
comunitario: se un membro della comunità
è in difficoltà, tutti gli altri
sentono il dovere di aiutarlo. Per
questo vige tra loro un’assistenza reciproca
su basi quotidiane. Ne è esempio
l’approvvigionamento d’acqua,
elemento vitale per la gente e gli
animali: un lavoro che a volte richiede
decine di persone.
Il rifoimento avviene ogni mattina
dai cosiddetti «pozzi che cantano
». Scavati in un’arida valle, essi penetrano
verticalmente nel terreno fino
a 4-5 metri. Alcuni uomini
scendono nel fondo del pozzo e, immersi
nel fango fino al torace, raccolgono
l’acqua melmosa in secchi
fatti di pelle di giraffa e li passano agli
uomini in bilico su speroni di roccia
lungo le pareti. Raccolta d’acqua
e passamano di recipienti vuoti e pieni
avvengono con tutto il tempismo
e la destrezza di un gioco di prestigio
e con movimenti sincronici ritmati
dal canto.

VIVA LA DEMOCRAZIA
I borana sono parenti stretti dei
gabbra, tanto da assomigliarsi anche
fisicamente: corporatura longilinea,
pelle bruno-rossiccia e volto
asciutto. Le donne vestono un telo
di cotone avvolto attorno al corpo e
un velo sul capo; dopo il matrimonio
si acconciano i capelli con numerose
treccine. Oamenti in alluminio,
ambra e rame, completano
l’abbigliamento in forma di collane,
bracciali e cavigliere. Gli uomini indossano
larghi pantaloni, un telo
sulle spalle e un turbante, tutti in
cotone bianco.
Nella costruzione dell’abitazione
grabbra e borana si somigliano: capanna
a cupola e pianta cilindrica;
con la differenza che i borana coprono
il tetto con paglia e fango; i
gabbra con pelli di animali. Le due
etnie parlano pure la stessa lingua.
Più case formano un villaggio, che
si sposta in accordo con le esigenze
di pascolo. Alle donne spetta il compito
di smontare e ricostruire la casa
nei vari spostamenti.
La società borana è strutturata in
clan patrilineari ed esogamici e in
classi di età (gada); ma il loro sistema
è più complesso e… democratico di
quello gabbra.
Non il singolo né certi uomini soltanto
curano la cosa pubblica, ma
tutti, a loro tempo, esercitano le loro
responsabilità in gradi e classi, dai
«fanciulli sacri», ritenuti portatori di
benedizioni, a quello degli «anziani
sacri», passando per i gradi dei ragazzi
tenuti in casa, i giovani che vanno
a pascolare lontano, i giovani
guerrieri (cusa), i guerrieri veri e propri
(raba), i dirigenti e gli anziani.
Il passaggio da una classe all’altra
avviene ogni otto anni: due di esse
sono festeggiate in modo solenne:
quelli che segnano l’ingresso al sesto
grado d’età, caratterizzato dall’esercizio
del potere, verso i 40 anni, e
l’ultimo grado, l’entrata nella classe
degli anziani sacri. Per l’occasione
tutti gli interessati si riuniscono in
una data località, sempre la stessa;
costruiscono un grande villaggio semicircolare,
attorno a un recinto, in
cui il bestiame viene temporaneamente
tenuto in comune.
I borana hanno una struttura organizzativa
molto attiva: nonostante
le distanze, le informazioni relative
alle leggi dei borana e alle decisioni
prese dai dirigenti, anziani e abba gada
(punto di riferimento per tutti i
borana) vengono trasmesse da una
fitta rete di comunicazioni verbali,
che mantiene in contatto tra loro i
villaggi, anche quelli oltre il confine.

AUGURI E… FIGLI MASCHI
Nella classe dei raba (guerrieri) si
entra verso i 30 anni e dura una dozzina
d’anni: loro compito è quello
della guerra. Per otto anni non possono
sposarsi né avere figli, per essere
liberi nei loro spostamenti. Qualora
ci fossero, vengono abbandonati.
Passati gli 8 anni possono avere
figli, purché siano maschi; ma vengono
allevati fuori casa, finché il padre
non esca dal grado di raba, e sono
affidati ai wata, un gruppo di persone
che vive tra gabbra e borana con
usi e costumi particolari. Se nascono
femmine, vengono abbandonate.
L’infanticidio è ancora oggi praticato,
anche se tale costume sta cambiando:
il sentimento naturale sta
prevalendo sul costume e la prole,
anziché soppressa viene affidata a
persone di differente etnia.
Negli ultimi anni del raba, il guerriero
deve pensare a formarsi una famiglia:
compie numerose visite alla
famiglia della ragazza prescelta, recando
doni in tabacco, caffè o bestiame.
Prima di ottenere il consenso,
egli viene volutamente fatto attendere
per lungo tempo.
Ottenuto l’ok, viene celebrato il fidanzamento;
dopo breve tempo,
sborsati quattro bovini alla famiglia
di lei, seguono le nozze, che si svolgono
in parte nel villaggio della sposa,
in parte in quello dello sposo. A
celebrazioni concluse, la convivenza
dei coniugi ha inizio nel villaggio del
marito. Questi è tenuto a evitare la
suocera.
I bo

BENEDETTO BELLESI




KENYA, AMORE NOSTRO

Corruzione e povertà
Nel paese di Kenyatta e Moi

Il prossimo dicembre in Kenya
ci saranno le elezioni presidenziali.
Esse potrebbero sancire la fine
del lunghissimo «regno» di Daniel Arap
Moi, salito al potere nel 1978, subito
dopo la morte di Jomo Kenyatta,
il «padre della patria».
Il nuovo presidente troverà un paese
con enormi problemi: in primis,
una crescente povertà. Ma anche
corruzione, violenza e la piaga
dell’Aids.

A MOI NON BASTANO
I FENICOTTERI

IL KENYA OGGI politica, economia, società

Daniel Arap Moi, da 24 anni presidente-padrone del Kenya,
tra qualche mese forse lascerà le redini del paese.
Successore di Jomo Kenyatta (il padre della patria),
Moi è riuscito a costruire uno stato politicamente stabile,
ma economicamente e socialmente debolissimo, oltre che
corroso da una radicata corruzione. Le esportazioni
agroalimentari (in mano alle multinazionali) e il turismo
occidentale (spesso devastante) non bastano a sollevare
le sorti di un’economia che non riesce a sfamare
una fetta rilevante dei suoi 30 milioni di abitanti.

A COME AFRICA
Il Kenya non è uno stato africano
soltanto in ragione della sua collocazione
geografica, ma anche e soprattutto
perché dell’Africa presenta
tutti i connotati tipici, in particolare
quelli meno invidiabili: fame,
siccità, deforestazione, malattie,
Aids, corruzione dilagante, degrado
sociale, delinquenza.
Una situazione decisamente diversa
da quella idilliaca (e anche un
po’ patealistica) descritta da Karen
Blixen, la scrittrice danese che
in Kenya visse per 15 anni.
«Intoo a noi – scrive la Blixen
nel suo libro più famoso (La mia Africa)
– s’apriva un paesaggio unico.
A sud, fino al Kilimangiaro, le vaste
pianure della grande zona di caccia;
a ovest e a nord la falda delle colline
che parevano un parco, con dietro
le foreste; più in là, fino al monte
Kenya, la terra tutta ondulata della
riserva kikuyu, lunga più di 150 chilometri,
un mosaico di piccoli campi
di mais, quadrati, boschetti di banani
e terre da pascolo, con qua e là
il fumo azzurrino di un villaggio indigeno,
tutto cucuzzoli, come un
grappolo di tane da talpa».
Chissà cosa pensava della scrittrice
(morta nel 1962, un anno prima
dell’indipendenza del paese) Jomo
Kenyatta, il padre della nazione
kenyana.

C COME COLONIZZATORI
«Gli europei – scrive Kenyatta nella
conclusione del suo libro (pubblicato per la prima volta a Londra
nel 1938 con il titolo di Facing
Mount Kenya) (1) – hanno certo alcune
idee progressiste: l’idea di benessere
materiale, di medicina, di igiene
e di alfabetizzazione che permette
alla gente di partecipare alla
cultura mondiale. Tuttavia fino ad
ora gli europei che hanno visitato
l’Africa non si sono mostrati particolarmente
zelanti nell’impartire
questi elementi del loro retaggio culturale
agli africani, e sembrano pensare
che l’unico modo per farlo sia
con la forza armata e la repressione
poliziesca. Parlano come se per un
africano fosse in qualche modo un
bene lavorare per loro invece che
per sé, e per assicurarsi che goda di
questo privilegio (notare il sarcasmo
dell’autore, ndr), fanno del loro meglio
per portargli via la terra e non
dargli alcuna alternativa. Assieme
alla sua terra, lo spogliano del suo
governo, condannando le sue idee
religiose, ed ignorando le sue concezioni
fondamentali di giustizia e
morale, il tutto in nome del progresso
e della civiltà».
La divisione internazionale del lavoro
ereditata dal periodo coloniale
non solo è rimasta inalterata, ma
è stata addirittura rafforzata dalla
classe dirigente locale dell’era postcoloniale.
Ciò fa sì che il paese continui
a produrre ed esportare materie
prime e prodotti primari e ad importare
prodotti lavorati. In altri
termini, il Kenya, come tutti gli altri
paesi africani, «produce ciò che non
consuma e consuma ciò che non
produce» (2).
L’importante non è dare cibo e sicurezza
al popolo kenyano, bensì rispettare
gli impegni finanziari inteazionali,
che richiedono valuta pregiata
ottenibile soltanto con le
esportazioni. Questa è la conseguenza
di un sistema totalmente
strutturato sui principi neoliberisti
e sottoposto alle rigide direttive della
Banca mondiale e del Fondo monetario
internazionale (3).
Che producono anche altre conseguenze.

M COME MULTINAZIONALI
Come tutti i paesi, anche il Kenya
ha dovuto sottomettersi ad un ricatto,
che è così sintetizzabile: o privatizzate
e liberalizzate il mercato o
non vedrete un dollaro.
Un diktat questo che suona come
musica alle orecchie
delle potenti multinazionali
straniere. Le
principali colture da
esportazione sono il
caffè, il tè e la frutta
tropicale. La produzione
è nelle mani
delle multinazionali,
tutte ben posizionate
in Kenya. Tra le altre
sono presenti la svizzera
Nestlé (caffè) e
l’olandese Unilever
(tè).
Per parte sua, la statunitense Philip Morris non si fa problema
a spingere i bambini verso il
fumo. Si stima che in Kenya il 40%
dei bambini sotto i 14 anni abbia già
cominciato a fumare.
Vale la pena di ricordare l’esemplare
caso della «Del Monte Royal»
(appartenente al Gruppo Cirio di
Sergio Cragnotti), che in Kenya
possiede vaste piantagioni di ananas
(a Thika, in particolare). L’impresa
della multinazionale italiana è al
centro di molte polemiche a causa
delle pessime condizioni di lavoro,
dei salari bassissimi e dell’utilizzo di
pesticidi molto pericolosi.
Nel 1999 il Centro nuovo modello
di sviluppo organizza una campagna
di pressione popolare «Diciamo
“no!” all’uomo Del Monte» per
chiedere condizioni di lavoro più dignitose.
In un primo tempo la Del
Monte nega l’esistenza stessa del
problema, poi riconosce la situazione
e promette di correre ai ripari.
Ma per le società straniere un comportamento
equo verso la popolazione
locale e compatibile con l’ambiente
è lontano dall’essere realizzato.
In Kenya come in tutti i paesi del
Sud del mondo (4).

T COME TURISMO
Il famoso flamingo, il fenicottero
rosa del lago Nakuru, è una delle icone
turistiche del paese africano, ogni
anno meta vacanziera per circa
800 mila stranieri (tedeschi, inglesi,
italiani). Dunque, il turismo è una
buona fonte di entrate per Nairobi?
«Il Kenya – scrive Mario Boccia
(5) -, “la Svizzera dell’Africa”, un
paese “no-problem”, ricco, luogo di
vacanze, è un bluff». Forse i toni sono
esagerati, ma certamente è difficile
poter affermare che nel paese africano
venga praticato un turismo
ecocompatibile e responsabile.
Malindi è ormai una specie di
«club mediterranée» dove la lingua
principale è l’italiano. I parchi e le
riserve naturali che hanno reso famoso
il paese (Masai Mara, Masai
Amboseli, Nairobi National Game
Park, Tsavo Park, Samburu Game
Reserve, Marsabit National Reserve)
rischiano grosso assediati come
sono da bracconieri, mutamenti metereologici
e mancanza di fondi.
Dal 1977 al 1994, il Kenya ha perduto
il 44% dei suoi animali selvatici
(in particolare, gli elefanti per l’avorio
e i rinoceronti per il corno). Le
perdite sono del 53% fuori delle aree
protette e del 30% all’interno.
Dicono: il turismo porta ricchezza.
Ma non si dice in quali tasche
questa ricchezza finisca. Certamente
non in quella dei kenyani. I soldi
del turismo, infatti, vanno in larghissima
parte in mani straniere o in
quelle dell’oligarchia locale: operatori
di viaggi organizzati e safari,
proprietari di alberghi, lodges e
campi, agenzie di charter.

K COME KENYATTA
«L’africano – scrive Jomo Kenyatta
– non è cieco: egli sa riconoscere
questi falsi filantropi e in varie parti
del continente si sta risvegliando in
lui la consapevolezza che un fiume
in piena non può essere sbarrato indefinitivamente
e che un giorno
spezzerà gli argini. La sua capacità
di espressione, finora conculcata, si
sta facendo strada e molto presto
spazzerà via il patealismo e la repressione
che la circondano».
In realtà, sia Kenyatta che il suo
successore Daniel Arap Moi sono
caduti negli stessi «vizi» dei colonizzatori
europei.
Il primo, appena salito al potere
(1963), si preoccupò quasi esclusivamente
della propria etnia (quella
kikuyu) e di sistemare in posizioni
chiave parenti ed amici, senza contare
la responsabilità storica di essere
stato l’ideologo dei Mau Mau,
il cruento movimento indipendentista.
Il secondo ha instaurato un regime
personale che dura ormai da
24 anni.
Su questa struttura politica molto
personalizzata e nepotistica, si inserisce
anche il cancro della corruzione,
finora inarrestabile nonostante
la «Anti-corruption authority» (anch’essa
al centro di scandali e polemiche).
Secondo l’organizzazione
«Transparency Inteational» il
Kenya è tra i paesi più corrotti del
mondo. Nella classifica della corruzione
è preceduto soltanto da Bangladesh,
Nigeria, Uganda e Indonesia
(detto per inciso, l’Italia è il peggiore
tra i paesi industrializzati).
Nel giugno 2000, in occasione di
una delle ricorrenti crisi alimentari,
il presidente Moi fece un appello alla
comunità internazionale perché
inviasse aiuti in soccorso della popolazione
affamata.
Al di là del problema, un militante
di un gruppo per i diritti umani
dichiarò allora all’agenzia Misna (6):
«Con i soldi frodati allo stato da Moi
e dalla sua classe dirigente, il Kenya
potrebbe essere un paradiso felice
per tutti. Per far fronte all’emergenza
fame basterebbe solo che la comunità
internazionale chiedesse a
Moi di tirar fuori dalle banche straniere
ciò che lui e i suoi uomini del
Kanu hanno rubato alla nazione».

M COME MOI
C’è una strana titubanza a parlare
di Daniel Arap Moi come di un dittatore.
Eppure non c’è dubbio che
lo sia, indipendentemente dalla frequenza
con cui indice e vince le elezioni.
Basti guardare a come il presidente
ha sempre calpestato la libertà di
espressione dei mezzi di informazione,
primo obiettivo di qualsiasi
governo dittatoriale (in qualsiasi
parte del mondo) (7).
Ora, dopo anni di incontrastato
dominio, l’anziano presidente (78
anni) dovrebbe ritirarsi dalla scena
che lo vede unico protagonista dal
lontano 1978. Le elezioni presidenziali
dovrebbero tenersi nel dicembre
di quest’anno o nei primi mesi
del prossimo.
Nell’attesa, lo scorso agosto, trascurando
completamente il vicepresidente
George Saitoti (poi licenziato),
Moi ha indicato il suo successore:
Uhuru Kenyatta, figlio di
Jomo Kenyatta, 41 anni, da novembre
ministro per le autonomie locali.
«Moi sta veramente esagerando –
ha dichiarato un missionario a Misna
-. Prima ha detto che voleva posticipare
le elezioni. Poi, vista la reazione
all’interno del suo partito e del
paese, ha scelto il suo successore. Una
persona giovane e inadatta, ideale
per svolgere il ruolo di burattino
dell’attuale capo di stato, che andrebbe
così avanti a controllare il
Kenya da dietro le quinte».

T COME TRIBALE
Nell’agosto 1997 a Likoni, un
sobborgo di Mombasa, ci furono
scontri violentissimi che lasciarono
sul terreno oltre 60 morti e ingentissimi
danni materiali. Oltre un migliaio
di persone trovarono rifugio
nella missione dei missionari della
Consolata (8).
Le cause della violenza furono individuate
nelle rivalità tribali (tribal
clashes), ma risultò evidente che la
gente era stata aizzata da politici locali
per raggiungere fini personali.
In un puzzle etnico come il Kenya
non è difficile fomentare l’odio tribale.
Si pensi alla rivalità tra turkana
e samburu. O a quella tra le tante
tribù della Rift Valley: maasai, tugen,
kipsigis, pokot, marwet e altre
ancora.
Moi e il Kanu utilizzeranno ancora
le rivalità etniche per i loro obiettivi
politici? Ciò è quello che teme il
«Kenya human rights network».
Per questa ragione, l’organizzazione
kenyana per i diritti umani
chiede che venga reso pubblico il
rapporto redatto dalla «Akiwumi
Commission». Questa commissione
si è occupata delle violenze accadute
nel paese africano tra il 1991 e
il 1998. Dall’investigazione effettuata
sarebbero emerse chiare responsabilità
di uomini del governo.
Ad avvalorare questa ipotesi, c’è anche
la scomparsa di testimoni chiave
di quell’inchiesta (come padre
John Anthony Kaiser, missionario
di Mill Hill, morto in circostanze oscure)
o la fuga precipitosa di altri.
Oggi, alla vigilia di un importantissimo appuntamento elettorale,
l’organizzazione chiede che la relazione
della commissione Akiwumi
venga finalmente resa pubblica. Domanda
inoltre con forza che i candidati
alle prossime elezioni si astengano
dal manipolare e strumentalizzare
i sentimenti etnici per i loro
fini politici.

V COME VIRUS
Come in tutta l’Africa, anche in
Kenya il virus dell’Aids fa strage e
mina le generazioni future. Anche
perché i farmaci sono inaccessibili
per la maggior parte degli infettati.
Ma, oltre al virus dell’Aids, vaga
e si propaga un virus ancora più
difficile da estirpare: quello della
violenza, che trova un fertile terreno
di coltura in un paese dove la
crescita della miseria non conosce
recessione.
«A Nairobi – scrive Boccia – non si
può più passeggiare in
centro, uscire da
alberghi recintati
che
sembrano
galere di lusso.
Ma non è
un problema di
“sicurezza”, risolvibile
aumentando
poliziotti pubblici
e privati; è lotta per la
sopravvivenza, legittima
difesa. Circa il 70
per cento degli abitanti
vivono in baraccopoli.
Case di fango e lamiera,
senza luce, acqua, gas,
fogne». Baraccopoli come
Korogocho o Kibera
(9).
«A Korogocho, dove
Dio è difficile da incontrare,
possono uccidere –
racconta padre Alex Zanotelli,
che lì ha vissuto per anni –
per una gomma di bicicletta.
Ma non si accontentano della
tua vita. La fanno a pezzi.
Troppe volte, per uscire dalla
mia baracca, ho dovuto scavalcare
cadaveri sfigurati».
A Kibera, nel dicembre
2001, ci furono almeno 18 morti in
una rivolta scoppiata a causa – pare
incredibile – degli affitti delle baracche.
«A Nairobi – spiega ancora padre
Alex -, 2 milioni di neri vivono
nell’1,5 per cento dell’intera terra.
La maggior parte vive sardinizzata
nelle bidonville dove i ricchi pretendono
l’affitto di quelle putride baracche.
In Africa oggi è meglio essere
gazzelle e leoni. Quelli sono
cacciati qualche volta.
Gli uomini neri
sempre».

NOTE:
(1) Il libro è stato pubblicato in Italia
con il titolo La montagna dello
splendore, Edizioni Jaca Book,
Milano 1977.
(2) Si veda: Aa.Vv., «La qualità della
vita nel mondo» / Social Watch –
Rapporto 2001, Emi, Bologna
2001.
(3) «I tratti essenziali – scrive l’economista
Michele Candotti (in Debito
da morire, Baldini&Castoldi 2000) –
sono (…) il taglio della spesa pubblica,
il licenziamento dei dipendenti
pubblici, la privatizzazione delle
compagnie statali e parastatali. (…)
Ed è credibile che la ricetta antipovertà
sia negoziata da e con quel
governo che ha creato, anno dopo
anno, abuso dopo abuso, la povertà
stessa?».
(4) Al riguardo si veda lo straordinario
volume del Centro nuovo modello
di sviluppo Guida al consumo
critico, Emi, Bologna 2000.
(5) Pubblicato dal settimanale
«Carta» dell’8 agosto 2002.
(6) La scorsa estate l’«Agenzia missionaria
d’informazione» (Misna,
Missionary service news agency) ha
ricevuto il prestigioso premio Saint
Vincent di giornalismo.
(7) Lo scorso maggio il parlamento
kenyota ha approvato il «Books and
Newspapers Act», che sottopone al
controllo governativo libri, quotidianie
e periodici. D’altra parte, i 3 quotidiani
principali – The Standard,
Kenya Times, Daily Nation – da
sempre subiscono la pesante influenza
del governo.
(8) La storia di quelle drammatiche
giornate è stata raccontata da
Missioni Consolata nel dicembre
1997.
(9) «Eccoli, gli abitanti di Kibera.
Arrivano dalle campagne e sveano
lì. Le vittime dello “sviluppo insostenibile”.
Le vittime dei cambiamenti
climatici che hanno prosciugato i
campi spingendoli verso quella città
di pattumiera. Le vittime delle multinazionali
alimentari che acquistano i
terreni dei loro padroni per coltivare
prodotti da vendere all’estero (caffè
e cacao, soprattutto) invece del
grano che servirebbe a sfamarli. Le
vittime dei governi corrotti che incoraggiano
l’abbattimento selvaggio
delle foreste e il commercio abusivo
del legname. Le vittime delle politiche
sanitarie che non riescono a
sconfiggere ancora la malaria, figuriamoci
l’ultimo flagello, l’Aids, che
l’Occidente ormai fa quasi finta di
non conoscere più» (il Venerdì, 23
agosto 2002).
Sulla bidonville di Kibera è uscito a
settembre un film-denuncia, Baba
Mandela, del regista italiano
Riccardo Milani, prodotto con il contributo
del comune di Roma, della
Provincia di Torino, di Legambiente
e Amref.

«PER IL BENE DEL PAESE,
È ORA DI CAMBIARE»

Politica, economia,
società, corruzione,
violenza, Aids, rapporti
con le altre religioni,
ambiente.
Quattro vescovi cattolici
del Kenya, missionari
della Consolata,
parlano della situazione
del paese.
Senza remore, timori
o risposte di comodo.

Torino – Due kenyani e due italiani.
Quattro persone di
diversa età, provenienza, colore
della pelle, con un’importante
caratteristica in comune: tutti e
quattro sono vescovi in Kenya. Ambrogio
Ravasi opera a Marsabit,
Anthony Mukobo a Nairobi, Virgilio
Pante a Maralal, Peter Kihara a
Murang’a. (*)

LA POLITICA
Qual è la posizione della chiesa cattolica
rispetto alla difficile situazione
politica del paese?
Mons. Ravasi: «Lo scorso 28 agosto
la conferenza episcopale del
Kenya, composta da 28 membri
(dei quali 8 sono stranieri appartenenti
a vari istituti missionari), ha rilasciato
una lettera pastorale dalla
quale emerge l’unità della chiesa
cattolica di fronte ai problemi politici,
sociali ed economici del paese.
Siamo molto uniti e, credo di poterlo
affermare, concordi nelle critiche
al governo di Moi e del Kanu,
che ha dimostrato di essere dittatoriale
e deciso a rivincere le elezioni
a tutti i costi. Nonostante il paese
abbia aperto al multipartitismo dal
1992, questa possibilità rimane ancora
sulla carta. Tra l’altro, i partiti
d’opposizione sono divisi e anche
per questo hanno perso le ultime
due elezioni E probabilmente perderanno
pure questa volta.
Per me questo è il momento più
delicato e difficile dall’anno dell’indipendenza.
Il presidente Moi non
può essere rieletto secondo l’attuale
costituzione, ma questa stessa costituzione
è in via di revisione. L’incaricato, il professor YASH PAL
GHAI, dice che non ce la farà a completarla
per dicembre, quando sono
previste le elezioni».
Quindi, si voterà ancora secondo
la vecchia costituzione che favorisce
il Kanu, il partito al potere?
Mons. Ravasi: «Non si sa. Si prevede
uno scontro molto forte che
può anche sfociare in violenza.
L’unica cosa certa è che la popolazione
è stanca di questo potere
corrotto, che per anni ha sfruttato il
paese. Veramente è difficile capire
come faccia a sopravvivere la maggioranza
dei kenyani…».
La chiesa ha preso posizione anche
contro la volontà del presidente Moi
di imporre il proprio candidato…
Mons. Kihara: «Moi è furbissimo.
Vuole Uhuru Kenyatta, figlio di
Jomo Kenyatta, per attrarre i
kikuyu, che in grande maggioranza
(lo so perché anch’io sono kikuyu)
sono contro di lui. E soprattutto lo
vuole per continuare a reggere il
paese: alla guida apparirebbe un
Kenyatta, ma dietro le quinte sarebbe
lui a manovrare. Se così non
fosse, Moi potrebbe avere dei problemi
considerando tutto quello
che ha fatto in questi 24 anni di potere…».
Mons. Mukobo: «Uhuru Kenyatta
non ha alcuna esperienza politica.
Ha sempre fatto il businessman.
Moi prima lo ha fatto ministro, ora
lo ha nominato suo successore. Ma
il nuovo presidente lo debbono scegliere
i kenyani».

L’ECONOMIA
Si dice che globalizzazione sia l’unica
ideologia del mondo odierno.
Quasi una religione che indica l’unica
strada possibile per il benessere
dell’uomo. Che ne dite voi, vescovi
in un paese del Sud del mondo?
Mons. Mukobo: «La globalizzazione
deve rispettare l’individuo e
l’economia locale. Faccio un esempio
concreto: a Nairobi, dove io sono
vescovo ausiliare, si continuano
ad aprire nuovi supermercati, che
però costringono alla chiusura i piccoli
negozi gestiti da gente modesta.
Anche questo è un modo per arricchire
chi è già ricco e impoverire chi
è già povero. Io non nego la possibilità
di fare profitto, ma prima di
tutto guardo alla salvaguardia della
persona.
Con gli africani non funziona né
un capitalismo all’americana né la
ricetta socialista. Credo che occorra
guardare ad esperienze che mecoscolino
pubblico e privato, come
fece Nyerere in Tanzania».
Mons. Pante: «Purtroppo, anche
in Kenya è arrivato un tipo di capitalismo
all’americana, cioè molto
selvaggio. In pratica, funziona così:
i pochi che hanno il potere fanno
quello che vogliono, perché il denaro
è al di sopra della legge. Oggi
si privatizza tutto, dalle scuole agli
ospedali. Le strutture private prendono
sempre più piede, mentre
quelle pubbliche sono un disastro.
Ma per i poveracci (che sono la stragrande
maggioranza) non c’è alternativa,
perché non possono permettersi
di andare nella clinica o
nella scuola privata.
Faccio un esempio, che vedo nella
mia diocesi di Maralal. Qui un
maestro deve lasciare il villaggio dove
lavora per andare a ritirare la paga
e per questo perde almeno una
settimana. In questo modo i ragazzi
perdono molto tempo prezioso.
Quindi, i bambini samburu, già
molto svantaggiati a causa del loro
isolamento, restano sempre più indietro».
Come in tutti i paesi del Sud del
mondo, anche in Kenya ci sono due
tipi di arrivi dal Nord del mondo: chi
viene per aiutare e chi per interesse…
Mons. Pante: «Quelli che vengono
ad aiutare sono i missionari e i
volontari delle Ong, mentre le società
cercano i loro interessi.
Il paese non ha ricchezze nel sottosuolo
e, a ben guardare, ciò è probabilmente
una fortuna. Altrimenti,
ci sarebbero le guerre per il petrolio,
per i diamanti o per altro
ancora, come avviene in altri paesi
a noi vicini.
Ci sarebbe la risorsa del turismo.
Il Kenya è un paese bello e variegato:
c’è il deserto, la savana, le spiaggie,
i parchi. Purtroppo, le società
legate al turismo vengono qui, ma i
soldi normalmente tornano in Italia
o negli altri paesi ricchi.
Comunque, in questi ultimi anni
c’è stata meno gente che è venuta
ad investire in Kenya, a causa di
quell’incertezza politica di cui hanno
parlato i miei confratelli».

L’AMBIENTE
Si è appena chiuso il Summit di
Johannesburg sullo sviluppo sostenibile.
Come tutti i paesi africani, anche
il Kenya deve affrontare un enorme
problema ambientale: inquinamento,
deforestazione, mancanza
di piogge. Com’è la situazione?
Mons. Pante: «Soltanto un quarto
del Kenya è adatto all’agricoltura.
I restanti tre quarti sono savana,
che vanno bene per la pastorizia.
Così ci sono zone molto popolate al
centro del paese. Dove sono io, si
lotta anche per pochi metri di terra
coltivabile.
Il taglio delle foreste è pazzesco:
ormai ne sono rimaste pochissime.
C’è una professoressa kikuyu che si
batte contro tutto questo. Si chiama
WANGARI MATHAI e appartiene al
“Green Belt Movement”, ma purtroppo
la mettono sempre in prigione…
La gente cresce, ha bisogno di terra
e abbatte le foreste…».
Dunque, è un problema di ignoranza
e povertà…
Mons. Pante: «Sì, ma anche di
corruzione. In Kenya, se tu paghi le
bustarelle, scavalchi tutte le leggi. E
non c’è soltanto il problema delle
foreste. I fiumi sono pochissimi e
l’inquinamento dell’acqua peggiora
la situazione.
A Nairobi le macchine sono tutte
fuori legge: rilasciano nell’atmosfera
fumi pazzeschi… Ciò avviene nella
capitale, ma anche nelle piccole
città, inquinate al massimo. Insomma,
il problema dell’ambiente è
molto serio».
Possiamo dire che la terra è in mano
a latifondisti, piuttosto che a piccoli
proprietari?
Mons. Pante: «Certo, c’è poca
gente che ha molta terra e chi non
ne ha affatto. L’interesse privato
prevale sul benessere comune. I ricchi
si accaparrano la terra per investire,
per fare palazzine…
Anche nella nostra zona, dei samburu
è così. Una volta la terra era
proprietà degli anziani, oggi è privata.
Si vedono fili spinati e recinzioni
per ogni dove».
Questo è legale?
Mons. Mukobo: «: «Beh… Il ministero
addetto alla terra c’è, ma il
presidente può venire qui e dire io
ho regalato questa terra a queste
persone perché sono del mio partito.
È così che i politici guadagnano
potere…».

LA CORRUZIONE
Cosa può fare un vescovo di fronte
al problema della corruzione?
Mons. Kihara: «Come vescovi
cattolici dobbiamo gridare e ancora
gridare che non è giusto, non è
corretto perché è contro la legge,
contro la natura, contro l’uomo.
Dobbiamo ricordare ciò che anni
fa lo stesso Kenyatta, il padre della
patria, disse: “La chiesa è la coscienza
del popolo”».
Comportandovi così, voi rischiate
di farvi nemici potenti e pericolosi.
Proprio da poco c’è stato l’anniversario
dell’uccisione di padre Antony
Kaiser…
Mons. Kihara: «Certo, è così. Padre
Anthony morì per aver affrontato
questi problemi. Anche noi
dobbiamo essere pronti a una simile
eventualità».

LE RELIGIONI
Parliamo dei rapporti con le altre
religioni.
Mons. Ravasi: «Parlando delle altre
religioni, c’è innanzitutto il rapporto
con il vasto mondo che segue
le religioni tradizionali. Sono tutte
persone profondamente legate alle
loro tradizioni, ma al tempo stesso
aperte al messaggio evangelico.
Mancano solo i mezzi per raggiungerle,
specialmente quelle appartenenti
a minoranze abbandonate.
Per quanto rigurda le altre religioni
cristiane, c’è stato un cambiamento
radicale di attitudine. Da una
quasi inimicizia tra la chiesa cattolica
e le chiese protestanti
(chiamiamole così, anche se è una
definizione non corretta) siamo oggi
su una buona strada. Ricordo che
mons. Cavallera, mio predecessore,
faticò molto ad entrare nel nord (in
quelle che sono ora le diocesi di
Marsabit e Maralal), perché c’era la
presenza massiccia degli anglicani,
favoriti dal governo coloniale inglese.
Poi venne il Vaticano II che smussò
un po’ questo clima di inimicizie.
In questo momento c’è una atmosfera
di reciproco rispetto con un
tentativo di collaborare su programmi
comuni, dove non c’è un elemento
proprio di una chiesa. Per
esempio, abbiamo collaborazioni
nel campo dell’istruzione e della sanità.
Penso che non siamo ancora al
vero ecumenismo, ma questa è la
strada giusta».
Ci rimane da dire dell’islam…
Mons. Ravasi: «Qui il discorso è
molto diverso.
Ci sono due tipi di islamismo. C’è
quello tradizionale, che è in Kenya
da anni e che ci rispetta, perché ha
visto che la nostra chiesa ha portato
aiuti e favorito lo sviluppo della
gente.
Ma da 10-15 anni è entrato nel
paese anche l’islam fondamentalista
e con questo c’è poco da ragionare.
Sono venuti dall’estero, sono ben
pagati, hanno molti mezzi in mano…».
Da dove provengono questi soldi?
Mons. Ravasi: «Vengono da
Mombasa (roccaforte dell’islam) e
dall’estero: Arabia Saudita, Yemen,
Iraq, Iran, India. Con questi petrodollari
in mano fanno uno sfacciato
proselitismo».
Anche il cattolicesimo fa opera di
proselitismo…
Mons. Ravasi: «È molto diverso.
Il cristianesimo prima si spiega alla
gente, poi si impianta, senza imposizione
o violenza.
Dispiace che nel passato noi siamo
stati accusati di usare le nostre
scuole per spingere quelli che erano
seguaci di religioni tradizionali a
diventare cattolici. Non è stato così.
Noi volevamo farli arrivare ad un
certo livello per poi lasciarli liberi di
valutare il nostro messaggio.
Adesso gli islamici fanno proselitismo
nella maniera più sfacciata.
Come? Ad esempio, pagando.
Tempo fa, sono venuti tre giovani
a trovarmi e mi hanno detto: vescovo,
ci hanno dato 20 mila scellini
(circa 300 euro) per pagare la retta
scolastica e noi abbiamo
promesso di seguire la fede islamica
pur di avere quei soldi per gli studi.
Cosa ne pensi? “Che avete fatto
male, perché avete venduto la vostra
fede”, ho risposto».
È corretto affermare che per un africano
è molto più facile diventare islamico?
Mons. Pante: «Secondo me, sì. È
molto più facile, perché l’islam non
è esigente come la chiesa cattolica.
Si pensi ad esempio alla poligamia
consentita dall’islam, ma non dal
cattolicesimo. E, nel caso dei nomadi
e dei pastori, la poligamia è
molto importante.

L’AIDS
In Occidente si parla meno di
Aids. Ma il problema è rimasto tale
e quale nei paesi del Sud, dove le cure
non arrivano o sono inaccessibili.
Com’è in Kenya?
Mons. Pante: «Purtroppo, il problema
dell’Aids c’è ed è enorme».
Che fa il governo? E la chiesa cattolica?
Mons. Pante: «Il governo fa molta
propaganda al condom (preservativo)
e accusa noi perché non ne
favoriamo la diffusione e l’utilizzo.
Se fosse questa la soluzione del problema…».
Mons. Kihara: «Le statistiche sono
drammatiche: ogni giorno 700
persone muoiono per Aids. E mancano
tutte quelle che sfuggono a
qualsiasi rilevazione. Noi abbiamo
un team di persone che vanno in giro
a parlare del problema dell’Aids.
Quando la gente soffre, la chiesa
deve essere presente per alleviare il
dolore. Qualsiasi sia la ragione di
quella sofferenza…».

(*) L’intervista collettiva è stata raccolta
il 5 settembre 2002.

DAL REGNO DI MALINDI
ALLA DITTATURA DI DANIEL ARAP MOI

800-1400: la costa
Arabi e persiani creano città costiere: Malindi, Mombasa,
Ghedi e altri centri di cultura islamica e di economia mercantile.
1498: i portoghesi
Vasco da Gama e i portoghesi trasformano Malindi in una
base di appoggio delle navi dirette verso l’India.
1500: migrazioni
Iniziano migrazioni di popoli bantu (kikuyu e altre etnie)
che occupano a poco a poco le aree intorno al monte
Kenya, scacciandone i primitivi abitanti (pigmei e altri).
1600-1792: Mombasa
Per quasi 200 anni i lusitani si stabiliscono nella città costiera
di Mombasa.
1890: tedeschi e inglesi
La presenza europea è una conseguenza della Conferenza
di Berlino (1885) e del successivo accordo anglo-tedesco
che definisce le rispettive sfere d’influenza nell’area: ai tedeschi
il Tanganyika, agli inglesi il Kenya e l’Uganda.
1896-1901: ferrovia
Si costruisce la ferrovia Mombasa-Kampala, che favorisce
le comunicazioni e le esplorazioni nell’interno.
1900: occupazione delle terre
Le terre lungo la linea ferroviaria vengono occupate da
coloni europei, cosicché dei quasi 5 mila kmq di terre fertili,
4.200 appartengono a 5 mila europei, mentre un milione
di kikuyu (una delle etnie originarie) occupano meno
di 1.000 kmq, senza che vi sia alcun indennizzo o compensazione
per questo sfruttamento.
1920: masai e kikuyu
Popolazioni masai (pastori d’origine nilotica) e kikuyu si
costituiscono in associazione per rivendicare i loro diritti,
soprattutto contro la riduzione dei territori delle riserve,
l’aumento delle tasse indigene e il taglio dei salari nelle
piantagioni di caffè, sisal e granoturco.
1945-1946: il Kau e Jomo Kenyatta
Sorge, come partito politico riconosciuto, il «Kenya african
union» (Kau). Dopo 15 anni in Europa, rientra in
Kenya Jomo Kenyatta (kikuyu), che viene eletto presidente
del Kau. Inizia la lotta per il raggiungimento dell’autogoverno
e per i diritti sociali.
1947: il movimento dei «Mau Mau»
Parallelo al partito legale sorge un movimento clandestino,
rivoluzionario e culturale denominato «Mau Mau».
1952: repressione coloniale
La rivolta cruenta dei Mau Mau contro i coloni bianchi semina
terrore e morte. In risposta all’escalation di attentati
ad opera del movimento, l’amministrazione coloniale
imprigiona migliaia di kikuyu in campi di concentramento.
Anche Jomo Kenyatta è imprigionato (1953-1961),
in quanto sospettato di far parte dei Mau Mau.
1960: arriva il Kanu
Dopo anni di brutale repressione e stragi indiscriminate
da parte dei governi coloniali, la Kau può tornare alla legalità,
con il nome di Kanu (Unione nazionale africana del
Kenya, che raggruppa kikuyu e luo). Sorge anche un secondo
partito, il «Kenya african democratic union» (Kadu),
orientato verso uno stato di tipo federale.
1963: arriva l’indipendenza
Il 12 dicembre viene proclamata l’indipendenza («Uhuru
») del Kenya, che entra nel Commonwealth britannico.
Kenyatta è eletto primo ministro; «Harambee», «tiriamo
insieme», è il nome del programma per costruire
il paese.
1964: Kenyatta presidente
Il 12 dicembre Kenyatta viene eletto primo presidente,
sconfiggendo Tom Mboya, di formazione cattolica, e Jaramogi
Oginga Odinga, marxista.
1969: delitto eccellente
Tom Mboya viene ucciso in una via di Nairobi. Kenyatta
fa arrestare Odinga, come presunto mandante dell’assassinio.
settembre 1978: da Kenyatta a Moi
A 85 anni, muore Kenyatta, considerato il padre della patria
e ormai divenuto un mito. Gli succede nella carica Daniel
Arap Moi, fino ad allora vicepresidente, appartenente
a un’etnia poco numerosa, i kalenjin.
settembre-novembre 1978: elezioni-farsa
Quando vengono indette le elezioni generali, il partito di
governo, il Kanu, è l’unico autorizzato a presentare candidati
e Moi viene perciò confermato nella carica. Il presidente
lancia una nuova parola d’ordine: «nyayo» (le orme),
per indicare il futuro seguendo gli esempi passati.
1982: fallito colpo di stato
Tentativo di colpo di stato ad opera dell’aviazione con centinaia
di morti e 3 mila arresti. Il presidente Moi indice elezioni
anticipate e si fa rieleggere presidente (1983).
1987-1989: conflitti regionali
Scoppia un conflitto con l’Uganda (fine 1987). Nel settembre
1989 ci sono problemi con la Somalia.
1988: Moi sempre più dittatore
Nonostante la dura politica di risanamento imposta dal Fmi
e dalla Banca mondiale, le elezioni consolidano il potere
di Moi e del Kanu.
Nello stesso anno Moi porta a termine la formazione dello
stato autoritario mettendo il potere giudiziario sotto il
suo diretto controllo ed estendendo i termini della carcerazione
preventiva da 24 ore a 14 giorni, senza necessità
di avviso al giudice.
febbraio 1990: assassinio politico
Robert Ouko, ministro degli esteri e critico feroce della
corruzione a livello di consiglio dei ministri, viene misteriosamente
assassinato.
inizio 1992: arresti di oppositori
L’avvocato James Orengo e l’ecologista Wangari
Maathai vengono arrestati e accusati di
«diffondere voci tendenziose» che attribuiscono al
presidente Moi piani tesi a interrompere il processo
di democratizzazione iniziato nel 1991.
febbraio 1992: un nuovo partito
Viene creato il Partito democratico (Pd),
un nuovo gruppo di opposizione al governo
di Moi, favorevole alla creazione
di un sistema democratico pluripartitico.
dicembre 1992:
quarto mandato per Moi
Arap Moi assume il suo quarto mandato
consecutivo, dopo aver vinto le elezioni generali.
febbraio 1993: ecco l’Fmi
Il governo prepara un piano per la privatizzazione e la liberalizzazione
del commercio estero, che però viene considerato
insufficiente dal Fondo monetario internazionale.
aprile 1994: prestito
Dopo una nuova svalutazione dello scellino (23,47%), la
Banca mondiale ordina il pagamento di un prestito di 350
milioni di dollari.
dicembre 1994: soddisfazioni?
Gli organismi finanziari e i paesi creditori del Kenya manifestano
la propria soddisfazione per la politica economica
e per l’introduzione del multipartitismo.
1995: privatizzazioni
Nairobi annuncia la privatizzazione parziale della compagnia
aerea nazionale e di altre importanti aziende statali.
agosto 1997: scontri a Likoni
A Likoni, sobborgo di Mombasa, avvengono scontri con
decine di morti e ingenti distruzioni. Oltre mille persone
trovano rifugio all’interno della missione dei missionari
della Consolata.
dicembre 1997: quinto mandato per Moi
Con l’opposizione divisa, il presidente Daniel Arap Moi
viene rieletto per la quinta volta con il 40,1% dei voti.
febbraio 2001: processo a New York
Comincia a New York il processo ai quattro musulmani
accusati di aver messo le bombe alle ambasciate Usa di
Nairobi e Dar es Salaam che il 7 agosto 1998 uccisero
224 persone.
febbraio-marzo 2001: siccità e guerra tra poveri
Un gruppo di razziatori samburu uccide 30 pastori borana
e ruba 15 mila capi di bestiame. In marzo razziatori
pokot uccidono 47 allevatori per impossessarsi delle man-
drie. Battaglia anche tra pokot e turkana con oltre 30 vittime.
La prolungata siccità ha esasperato gli animi.
marzo 2001: via i dipendenti pubblici
Il governo Moi fatica a rispettare il programma di ristrutturazione
(cioè di licenziamenti) delle strutture pubbliche.
Nel 2000 erano stati mandati a casa 25.000 impiegati.
Entro il 2002 dovrebbero essee licenziati altri 40.000.
aprile-luglio 2001: la censura di Moi
La polizia chiude la radiotelevisione privata «Citizen». Aveva
aperto due anni fa e si era distinta per l’opposizione
al governo. In luglio vengono incarcerati Asema Muyoma
e David Matende, editore e redattore del settimanale
«Weekly Citizen». Sono accusati di aver diffuso notizie allarmistiche
attraverso un articolo in cui si accusavano funzionari
di polizia di aver partecipato a incidenti di matrice
politica a Nairobi.
14 agosto 2001: respinta legge anticorruzione
Il parlamento respinge la legge anticorruzione. La approvazione
della legge era considerata, dal Fmi, una condizione
per la ripresa degli aiuti inteazionali, interrotti
da un anno. Il Kenya è, da anni, classificato ai primi posti
tra i paesi più corrotti. Nel 2001 in questa poco ambita
classifica era preceduto soltanto da Bangladesh, Nigeria,
Uganda e Indonesia.
12 ottobre 2001: musulmani contro gli Usa
Migliaia di musulmani protestano a Nairobi contro gli attacchi
americani all’Afghanistan nonostante la polizia abbia
vietato le manifestazioni.
4-5 dicembre 2001: gli «affitti» della baraccopoli
Avvengono scontri a Kibera (Nairobi), una delle baraccopoli
più grandi d’Africa (si parla di 700 mila abitanti), a
causa delle proteste per gli «affitti» troppo alti: si contano
almeno 18 morti e migliaia di persone in fuga. Il problema
nasce dal fatto che i proprietari della terra pretendono
un affitto per le baracche…
giugno 2002: rinviate le elezioni?
Daniel Arap Moi e il suo partito vogliono rinviare le elezioni,
previste per dicembre, adducendo come giustificazione
che non c’è tempo sufficiente per approvare la nuova
costituzione, attualmente in fase di elaborazione.
Per le opposizioni si tratta di un ennesimo espediente per
prolungare ancora il mandato di Moi (presidente dal 1978)
e del Kanu (al potere dal lontanissimo 1963).
6 agosto 2002: Moi non molla
Il presidente Arap Moi «sceglie» il suo successore: Uhuru
Kenyatta, 41 anni. Mentre anche all’interno del Kanu si
levano proteste, George Saitoti, attuale vicepresidente,
lancia una propria iniziativa politica.
13 agosto 2002: lotta per la successione
Il ministro dell’ambiente, Joseph Kamotho, viene rimosso
per aver criticato la decisione di Moi di candidare Uhuru
Kenyatta alla presidenza senza una consultazione intea
(sul tipo delle «primarie») al Kanu.
14 agosto 2002: «Decidano gli elettori»
L’arcivescovo di Mombasa, monsignor John Njenga, interviene
nel dibattito politico per auspicare che il nuovo
presidente venga scelto dagli elettori kenyani e non da
Moi.
23 agosto 2002: elezioni a dicembre
Le elezioni generali si terranno a dicembre, indipendentemente
dall’approvazione della nuova costituzione.

Fonti: Atlante Imc, Sulle vie dei popoli, Torino
1993; Aa.Vv., Guida del mondo. Il mondo visto
dal Sud, Emi, Bologna 2002; Nigrizia (a cura di), Un
anno con l’Africa, Emi, Bologna 2002; archivio Misna
(www.misna.org).

PAOLO MOIOLA




Viaggio in Togo: paese del vodoun

Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.
Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.

Storia di un dittatore «dinosauro»
L’INNOMINATO
Da secoli il Togo vive nel limbo della storia (vedi
scheda). Pochi saprebbero indicarne la posizione
geografica; meno ancora ne conoscono la
situazione della gente, violentata da una
dittatura che dura da 35 anni, senza sapere come
e quando potrà liberarsene

I pannelli con la sua faccia ossessionano
il paese; spille e distintivi
con la sua immagine sono
su tutti i petti d’impiegati governativi;
nugoli di donne lo accolgono
danzando ogni volta che visita un
villaggio; la sera, la televisione racconta
come ha speso la giornata…
Parlando con la gente, però, il suo
nome non lo sento pronunciare mai.
Anche i più coraggiosi usano i pronomi:
lui, costui, quello lì, quello là.
I sostenitori lo chiamano: timoniere,
padre della nazione, salvatore
della patria; i più prudenti: vecchio,
dinosauro; gli avversari gridano: assassino,
bufalo, elefante, lupo mannaro,
demonio di Pya, suo paese natale,
nel nord del Togo.
«Lui» è Gnassingbé Eyadéma, da 35
anni presidente del Togo, il più longevo
dittatore di tutti i paesi dell’Africa
post-coloniale. E resterà ancora
a lungo sulla scena, secondo diplomatici
e analisti politici.

NAZIONE ALLO SFASCIO
«Radio e televisione presentano la
situazione del paese come la migliore
che possa esistere – afferma un
missionario, che per prudenza non
nominiamo -; “lui” rassicura che tutto
va bene. Ma la realtà è differente:
la povertà impera; manca il lavoro e
la gente sopravvive col piccolo commercio;
la terra disponibile è ancora
molta, ma rende poco, per arretratezza,
siccità o troppe piogge; maestri
e funzionari statali hanno stipendi
da fame, arretrati fino a 5-6
mesi e non tutti retribuiti».
In tali condizioni, non ci si può
aspettare che gli insegnanti siano
motivati e le scuole funzionino: quelle
elementari sono in tutti i villaggi,
ma il tasso di analfabetismo è al
50%, tra le donne soprattutto.
Il rendimento scolastico è in caduta
libera. Nelle superiori i programmi
non sono svolti per intero e, all’esame
di maturità, la percentuale dei
promossi non supera il 10%; in alcuni
licei il tasso è zero. I giovani ripetono
per più anni, finendo d’iscriversi
all’università a 30 anni. Molti abbandonano
gli studi e cercano di
scappare in Europa o America, perché
il paese non garantisce un avvenire
alla sua gioventù.
Il paese è ricco di fosfati; ha industrie
di cemento; produce cotone,
caffè, cacao; ma nessuno sa dove vadano
a finire i proventi di tali risorse,
poiché ormai tutto è privatizzato.
«È stato privatizzato anche l’acquedotto
– aggiunge il missionario -.
L’acqua potabile si paga; chi non può
permettersela attinge ai fiumi, con
deleterie conseguenze per la salute».
La gente non protesta?
«Resistenze e proteste sono frequenti
e nella legalità – continua il
missionario -. Uno sciopero generale,
protratto per molti giorni, ha paralizzato
il paese. Lomé, per esempio
sembrava una città fantasma: tutto
era chiuso e nessuno per strada. Per
ora il popolo è vincente, perché ha
grande forza di sopportazione; sa che
la violenza genera violenza. La pazienza
della gente rasenta il fatalismo;
vorremmo che avesse più iniziativa
e, da parte nostra, bisognerebbe
impegnarsi di più nell’opera di
coscientizzazione: non si può parlare
molto, altrimenti quello là…».

IL COLONNELLO
Di etnia kabyé, nato nel 1935, dopo
un breve curricolo scolastico
Etienne Eyadéma diventò sotto ufficiale
dell’esercito francese e militò
per 12 anni sotto tale bandiera in
Dahomey (attuale Benin), Algeria,
Niger e Indocina. L’esperienza militare
ha supplito alla mancanza di formazione
scolastica, facendo di lui un
grande lavoratore, che si corica a
mezzanotte e si alza alle 4 del mattino.
I vicini lo dipingono affabile, disponibile
all’ascolto, grande intrattenitore
che racconta fatterelli. Tutte
doti abilmente sfruttate per farsi
una buona reputazione all’estero e
interporsi come uomo di mediazione
in vari conflitti africani: Biafra,
Ciad, Niger e Congo (Zaire).
Scampato a vari incidenti e attentati,
veri o presunti, si è costruito
un’aureola d’immortalità
e la gente lo crede dotato di
poteri occulti. A tali credenti
egli dice che, a dargli
forza, c’è un «solo marabutto:
il caro popolo
togolese».
Eyadéma militava
ancora nell’esercito francese il 27
aprile del 1960, quando il Togo, terzo
paese a sud del Sahara, dopo
Ghana (1957) e Camerun (gennaio
1960), raggiunse la piena sovranità.
Artefice dell’indipendenza fu
Sylvanus Olympio, di etnia ewé del
sud, nazionalista moderato, vero
creatore del Togo moderno.
Il presidente, però, sottovalutò
le tensioni tra nord
e sud del paese: le popolazioni settentrionali, da lui definite
petits nordiques, si sentirono trascurate.
E quando, nel 1963, rifiutò d’integrare
nell’esercito nazionale 600
soldati, quasi tutti kabyé del nord, reduci
dal servizio sotto la bandiera
francese, il colonnello Eyadéma ne
approfittò per fare un golpe militare:
Olympio fu freddato mentre cercava
di rifugiarsi nell’ambasciata americana.
Eyadéma rivendica ancora a sé tale
assassinio, anche se altri dicono
che sia stato un soldato francese a
sparare al presidente.
Eyadéma fu il primo a innescare la
danza macabra di colpi di stato militari
che, in breve tempo, avrebbero
consegnato tanti paesi africani a dittatori
senza scrupoli come lui.
Promosso generale dell’esercito,
nel 1967 Eyadéma capeggiò un altro
colpo di stato, incruento, e si autoproclamò
capo dello stato.

IL DITTATORE
In due anni Eyadéma instaurò un
regime autoritario: fece confluire i
movimenti operai in un’unica federazione
sindacale; abolì i partiti politici
e fondò il suo: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
Nei paesi confinanti erano in corso
rivoluzioni marxiste (Ghana, Burkina
Faso e Benin); ma egli rimase legato
all’Occidente, pur senza rompere con
la Corea del Nord. E ne fu largamente
ricompensato con aiuti militari dai
francesi e benevolenza da Washington
e vari governi europei, che chiusero
gli occhi sui suoi eccessi.
Ciò non gli impedì qualche sterzata
nazionalista: nel 1972-76 nazionalizzò
la produzione ed esportazione
dei fosfati. Emulando l’amico Mobutu,
dittatore dello Zaire, si erse a
paladino dell’«autenticità»: ordinò ai
togolesi di rimpiazzare i nomi europei
con quelli africani e lui stesso
cambiò Etienne in Gnassingbé; costruì
uno dei più pervasivi culti della
personalità, circondandosi di uno
stuolo di leccapiedi e di donne festanti
in abiti tradizionali.
Nel 1974 uscì indenne da un incidente
aereo, da lui pubblicamente
attribuito a un complotto di «imperialisti
» stranieri, e diventò più irrazionale
e imprevedibile.
Per una decina d’anni (1970-80)
l’incremento del turismo e l’aumento
del prezzo dei fosfati fecero esplodere
un boom economico che meritò al
Togo l’appellativo di «Svizzera africana
». Eyadéma cavalcò il miracolo
per varare una nuova costituzione
(1979) che sanciva il presidenzialismo
e, manco a dirlo, fu eletto presidente
per sette anni.
La pacchia finì nel 1981: il prezzo
dei fosfati si dimezzò e la recessione
economica mondiale ridusse drasticamente
il turismo europeo; il deficit
della bilancia dei pagamenti fece
schizzare il debito estero a un miliardo
di dollari.
Per avere altri prestiti, Eyadéma dovette
adottare le misure imposte dagli
organismi finanziari mondiali:
congelare i salari, ridurre le spese statali,
aumentare le imposte fiscali, privatizzare
le aziende pubbliche e licenziare.
Il debito estero aumentava
e l’economia continuò a decadere.
Sindacati e movimenti di opposizione
alzarono la testa con scioperi
e pubbliche proteste. Ma alle elezioni
del 1986, il presidente fu rieletto
per altri sette anni col 99,95% dei
voti.
Di fronte al plebiscito fasullo, l’opposizione
scese di nuovo in piazza.
Nel settembre dello stesso anno un
gruppo di esuli in Ghana riuscì a entrare
nel palazzo presidenziale e in
un campo militare di Lomé. Ci furono
morti da ambo le parti; Eyadéma
stesso sparò parecchi colpi. Ma a salvarlo
furono 200 paracadutisti francesi,
prontamente inviati dal Gabon
e Centrafrica.
Il dittatore continuò a disfarsi degli
oppositori con ogni mezzo illecito,
finendo regolarmente sulla lista
nera di Amnesty Inteational.

SPERANZA STRANGOLATA
Finita la guerra fredda (1989), la
Francia cominciò a mollare Eyadéma
e fece pressione perché aprisse il paese
al multipartitismo, come stavano
facendo altre ex colonie francesi.
Per mettere in cattiva luce i sistemi
pluralisti, la televisione di stato
mostrava scioperi e violenze; ma ottenne
l’effetto contrario: all’inizio
del 1991 le forze favorevoli alla democrazia,
in maggioranza ewé e mina
del sud, iniziarono scioperi e tumulti,
repressi brutalmente: 28 corpi
furono ripescati nella laguna di
Lomé e scaricati sulla gradinata dell’ambasciata
americana.
Di fronte alle pressioni estee e
intee, Eyadéma dovette concedere
libertà di stampa, liberare i prigionieri
politici e convocare una Conferenza
nazionale sovrana (Cns), come
era avvenuto l’anno prima in Benin,
per decidere l’avvenire del paese.
Aperta nel giugno 1991 e presieduta
da mons. Philippe Kpodzro, vescovo
di Atapkamé, poi di Lomé, la
Cns spogliò il dittatore d’ogni potere,
formò un governo di transizione, guidato
da Kokou Koffigoh, già presidente
della Lega per i diritti umani, e
istituì l’Alto consiglio della repubblica
(Atr), massimo organo legislativo,
sempre presieduto dal vescovo.
Ma i militari disertarono subito
l’Assemblea: non ci stavano a perdere
i privilegi e sentirsi rinfacciare torture,
assassinii e carneficine. Quando
fu deciso lo scioglimento del partito
unico (Rpt), essi sequestrarono
e umiliarono i membri dell’Atr finché
non si rimangiarono il decreto; la
settimana seguente presero in ostaggio
il primo ministro, obbligandolo a
formare un governo d’unità nazionale,
cioè con uomini di Eyadéma.
Tattiche intimidatorie e mini colpi
di stato continuarono per tutto il
1992, costringendo Koffigoh a continui
rimpasti governativi, secondo
gli umori del dittatore. Diversi leaders
dell’opposizione subirono attentati,
tra cui Gilchrist Olympio, figlio
di Sylvanus e capo dell’Unione di forze
per il cambiamento (Ufc). Prontamente
ricoverato a Parigi, si salvò.
Più volte Koffigoh chiese alla Francia
di difendere la democrazia; ma
questa non mosse un dito, pur avendo
300 paracadutisti nel Benin, pronti
a evacuare i 3.500 connazionali
ancora in Togo.
In un anno Eyadéma riacquistò
quasi tutto il potere. Sindacati, organizzazioni
politiche e partiti d’opposizione
lanciarono uno sciopero
generale a oltranza, durato nove mesi:
la guardia presidenziale uccise un
centinaio di manifestanti; migliaia di
togolesi fuggirono in Ghana e Benin.
Eppure la Cns è stato un evento
storico: ha permesso alle forze democratiche
di emergere, guardarsi in
faccia; ha fatto il processo al regime,
costringendolo a gettare la maschera;
ha attirato sul paese l’attenzione
della comunità internazionale.
Inoltre la Cns ha varato la nuova costituzione
(1992), fissando la durata
del mandato presidenziale a cinque
anni, rinnovabile una sola volta:
un cavallo di Troia in mano alle forze
democratiche, che possono mobilitarsi
per esigee il rispetto.

FARSA CONTINUA
Ma le elezioni presidenziali del
1993, da tenersi secondo le regole
della nuova costituzione e sotto gli
occhi di osservatori africani e occidentali,
furono una farsa: il principale
oppositore, Gilchrist Olympio, fu
squalificato dalla competizione per
un cavillo burocratico; altri due candidati
si ritirarono. Gli osservatori tedeschi
e americani tornarono a casa;
restarono quelli francesi e del Burkina
Faso e avallarono le elezioni «democratiche
»: il dittatore fu eletto col
96,5% di suffragi; solo un terzo degli
aventi diritto si recò alle ue.
Le elezioni parlamentari del 1994
furono preparate da coprifuoco e sparatorie
giornaliere; ciò nonostante,
l’opposizione ottenne la maggioranza:
su 78 seggi, 34 andarono al Comitato
d’azione per il rinnovamento
(Car), guidato da Yao Abgoyibo, 6 all’Unione
democratica togolese (Udt)
di Edem Kodjo, 38 al partito di Eyadéma.
Ma il dittatore riuscì a dividere
l’opposizione: affidò a Kodjo la formazione
del governo con il suo partito
(Rpt) e il Car fu messo fuori gioco.
Di fronte alle frodi elettorali e violazioni
dei diritti umani, nel 1994 la
Comunità Europea, Stati Uniti e organismi
finanziari mondiali esclusero
il Togo da aiuti e prestiti. Eyadéma
cominciò a stringere rapporti col
Giappone, Arabia Saudita, Emirati
Arabi, Kuwait, Iran, Cuba…
Le elezioni presidenziali del 1998
si svolsero all’insegna «della legge
del terrore, in un clima d’impunità»
secondo Amnesty Inteational, che
portò davanti all’opinione mondiale
centinaia di uccisioni di oppositori e
testimoni. La rivelazione fece imbestialire
il dittatore, costretto ad accettare
una commissione d’inchiesta
internazionale.
La vittoria del dittatore arrivò con
la «frode sistematica», parole del Dipartimento
di stato americano: la
conta delle schede fu bloccata, quando
apparve chiaro che Eyadéma stava
perdendo; la commissione elettorale
fu costretta a dare i numeri: 52%
ad Eyadéma, 34% all’Udt, 9,5% al
Car: un altro plebiscito non era più
credibile.
Inutili furono le contestazioni, disperse
con pallottole e gas lacrimogeni.
Le elezioni parlamentari del
1999 furono boicottate da Car e Udt
e il partito di Eyadéma ottenne quasi
tutti i seggi: 78 su 81. Il governo
fu affidato ad Agbéyomé Kodjo, tuttora
in carica.

TOGO: STATO DI TERRORE»
Ora tutto sembra in pace, ma la povertà
aumenta di giorno in giorno. La
gente è stanca di protestare o, piuttosto,
è terrorizzata. L’opposizione è
imbavagliata: il suo leader principale,
Yao Abgoyibo, è appena uscito di
prigione; molti dirigenti di partiti sono
in esilio; altri cambiano ogni notte
domicilio; continuano la caccia ai
«democratici» e le sparizioni.
Per rientrare nelle grazie dell’Occidente
Eyadéma ha promesso di anticipare
le elezioni presidenziali al
2001: l’anno è passato e nessuno sa
dire se e quando si terranno. La scadenza
naturale è il 2003; si spera che
non si ricandidi: la Costituzione non
permette più di due mandati.
«Lo sanno tutti – afferma un oppositore
-. “Quello là” vuole restare al
potere fino alla morte e tenterà di farlo.
Vuole far credere al mondo che il
Togo è diventato democratico; ma
non è neppure uno stato a partito
unico: è un paese di un uomo solo, di
una famiglia sola. Con un esercito di
12 mila uomini ben pagati, per il 75%
kabyé, che lo riconoscono come unico
capo tribù e due figli in posizioni
chiave, addestrato in ogni tattica di
repressione da istruttori nordcoreani,
è difficile immaginare un rapido e pacifico
cambiamento».
«Più impensabile sarebbe una rivoluzione
– spiega un missionario -.
Il partito del presidente, che continua
a essere unico, è sempre in campagna
elettorale, con menzogne e
insulti all’opposizione e marce di sostegno
al dittatore. Gli stati confinanti
non hanno interesse a destabilizzare
il paese: Benin e Burkina
Faso sono governati da militari puri;
il Ghana è democratico, ma il suo
presidente è stato appena eletto e
accetta il Togo così com’è. Dell’opinione
internazionale il regime se ne
infischia, vomitando insulti da mattino
a sera, specialmente contro Amnesty
Inteational: si è permessa di
dire che “il Togo è uno stato di terrore“,
che esercito e polizia sono la
vera minaccia per la popolazione».
«Anche in Occidente ci sono troppe
forze interessate a lasciare le cose
come sono – aggiunge un altro
missionario -. Il giorno in cui perdesse
il potere, Eyadéma sarebbe messo
sotto accusa, trascinando sul banco
degli imputati potenze e governi stranieri
che lo hanno sostenuto».
Intanto a chi gli domanda se presenterà
per la terza volta la sua candidatura,
Eyadéma risponde che «rispetterà
scrupolosamente la Costituzione
». Ma quale? Il primo ministro
Kodjo getta pietre nello stagno, ventilando
la possibilità di cambiarla, per
dare al suo padrone altri cinque anni
di potere, e il parlamento ha tutti i
numeri per farlo.
Tale cambiamento, tuttavia, sarebbe
una sfida alla Comunità Europea,
che condiziona i suoi aiuti alla ripresa
della democrazia nel paese. Un altro
mandato presidenziale «si tradurrebbe
in un suicidio nazionale – afferma
l’americano Chris Fomunyoh,
direttore degli Affari africani presso
l’Istituto democratico nazionale – e
sarebbe terribile per la regione, per il
Togo e per il continente».

Superficie: 56.785 kmq.
Popolazione: 5,1 milioni di abitanti; è composta da 37 gruppi
etnici; i predominanti sono ewé-mina44%, kabyé27%,
gurma16%, tem4%, kebu3,8%, ana( yoruba) 3,2%, bianchi
0,3%. I brasileños(ex schiavi tornati dal Brasile) costituiscono
una «casta» molto influente sul piano economico e politico.
Lingua: francese (ufficiale) e vari idiomi etnici.
Istruzione: alfabeti 51%; maschi 67%; femmine 35%.
Religione: culti tradizionali 50%; cattolici 24%, musulmani
15%, protestanti 7%.
Capitale: Lomé.
Partiti politici: Raggruppamento del popolo togolese (Rpt), partito
unico fino al 1991; Unione democratica togolese (Udt); Comitato
d’azione per il rinnovamento (Car).
Forma di governo: repubblica presidenziale; presidente è Gnassingbé
Eyadéma dal 1967; primo ministro Koffi Sama dal 27-
6-2002, dopo la rimozione di Agbéyomé.
Moneta: franco C.F.A. (1 euro = 640 C.F.A.).
Debito estero: 1.448 milioni di dollari.
Crescita annua Pil: -1% (1998).
Economia: agricoltura con la produzione per il fabbisogno locale
(mais, miglio, riso, manioca, fagioli, arachidi e frutta) e
per l’esportazione (cotone, cacao, caffè, palma oleifera, cocco).
Minerali: fosfati, di cui il Togo è tra i primi paesi produttori
ed esportatori del mondo. Industrie chimiche, petrolchimiche,
tessili, alimentari e cemento.

Scheda storica politica e religiosa
12°-16° sec.: varie etnie si stabiliscono nell’attuale Togo: kabyéa
nord; ewé, mina, guinlungo le coste.
1470: navigatori portoghesi esplorano le coste dell’Africa occidentale
e iniziano il commercio dell’oro e prodotti esotici.
1482: costruzione del forte a La Mina (Elmina, Ghana).
16°-18° sec.: compagnie commerciali inglesi, olandesi, francesi
e danesi cacciano i portoghesi e monopolizzano il commercio degli
schiavi: Togo e Dahomey prendono il nome di «Costa degli
Schiavi».
1737-1771: la Società dei fratelli moravi (Giacomo Protte) opera
in Costa d’Oro e Togo.
19° sec.: abolizione dello schiavismo: famiglie di afro-brasiliani ritornano
in Togo.
1827: la Società evangelica di Basilea opera tra le popolazioni a
est del Volta.
1842: creazione del vicariato delle due Guinee. Metodisti ad Aneho.
1847: la Missione di Brema fonda missioni nell’interno del Togo.
1860: creazione del vicariato del Dahomey.
18 aprile 1861: primi missionari della Sma sbarcano a Ouidah.
1884: congresso di Berlino: le potenze europee si spartiscono l’Africa
in zone d’influenza; sorprendendo inglesi e francesi, i tedeschi
firmano un trattato di «protezione» col re togolese: per 20 anni sviluppano
infrastrutture e coltivazioni scientifiche.
1886: i padri Moran e Bauquis avvelenati.
1892: creazione della prefettura apostolica del Togo, affidata ai
missionari tedeschi dello Spirito Santo: il loro arrivo segna
la nascita ufficiale della chiesa togolese.
1914: il vicariato del Togo è elevato a prefettura apostolica.
Scoppia la prima guerra mondiale e il Togo è occupato
da inglesi e francesi.
1916: missionari tedeschi dichiarati prigionieri politici,
poi espulsi.
1918: la Società delle Nazioni (oggi Onu) affida due
terzi del Togo alla Francia, la parte occidentale all’Inghilterra.
1921: il Togo francese è affidato ai missionari di Lione
(Sma).
1923-45: mons. Cessou vescovo di Lomé.
1937: erezione della prefettura di Sodoké.
1939-45:2a guerra mondiale: soldati togolesi
nell’esercito francese.
1945: nascita di partiti indipendentisti:
Comitato dell’unione togolese (Cut) e
Partito togolese del progresso (Ptp).
1946: dal regime di mandato a quello
di tutela: il Togo diventa Territorio
d’Oltremare, con proprio parlamento e
deputati a Parigi.
1955: istituzione della gerarchia in Togo:
Lomé diventa arcidiocesi e Sodoké
diocesi.
1956: Togo diventa Repubblica autonoma:
esponente del Ptp, tendenze neocolonialiste.
1958: vince le elezioni Sylvanus Olympio, leaderdel Cut, ewédel
sud, indipendentista moderato.
27 aprile 1960: il Togo ottiene piena indipendenza. Olympio avvia
riforme nazionaliste, attirandosi le ire dei francesi. Si aggrava la tensione
con le etnie del nord.
1962: mons. Dosseh consacrato primo vescovo togolese di Lomé.
1963: colpo di stato guidato da Eyadéma; Olympio deposto e assassinato.
Grunitzky ritorna dall’esilio e guida il nuovo governo.
1964: mons. Atakpah, primo vescovo togolese di Atakpamé.
1965: mons. Bakpessi, primo vescovo togolese di Sodoké.
1967: nuovo golpe(incruento) di Eyadéma, che si autoproclama
capo dello stato e instaura un regime dittatoriale.
1969: movimenti operai riuniti in un’unica Federazione sindacale;
abolizione dei partiti politici e fondazione del partito unico: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
1970-80: nazionalizzazione della produzione ed esportazione dei
fosfati e processo di «autenticità» togolese; inizia il miracolo economico,
che merita al Togo il nome di «Svizzera dell’Africa».
1979: nuova costituzione instaura il presidenzialismo: Eyadéma
eletto presidente per sette anni.
1981: crollo del prezzo dei fosfati e recessione internazionale provocano
crisi economica e crescita del debito estero.
1986: Eyadéma presidente col 99,95% dei voti. Tumulti di sindacati
e movimenti di opposizione con scontri e morti.
Eyadéma è salvato dai paracadutisti francesi.
1989: la Francia preme per aperture democratiche.
1991: serie di scioperi e tumulti repressi nel sangue.
Eyadéma è costretto a concedere varie libertà
democratiche.
1991-92: convocazione della Conferenza
nazionale sovrana che avvia il processo democratico
e vara una nuova costituzione, sotto
la minaccia d’intimidazioni, attentati e mini
colpi di stato militari.
1993: elezioni farsa: Eyadéma eletto col 96,5%
di voti.
1994: elezioni parlamentari: l’opposizione ottiene
la maggioranza dei seggi, ma Eyadéma riesce
a imporre il suo governo. Comunità Europea,
Usa e organismi finanziari tagliano aiuti
e prestiti al Togo.
1998: votazioni presidenziali all’insegna di
brogli e terrore: il dittatore vince con il 52%
dei voti.
1999: elezioni parlamentari boicottate dai
partiti di opposizione: Eyadéma ottiene
quasi tutti i seggi in parlamento. Per rientrare
nelle grazie dell’Occidente il dittatore
promette di anticipare le elezioni presidenziali
al 2001: promessa non ancora
mantenuta.

Una chiesa nel cuore della società
PIÙ VOLTE RINATA
Ufficialmente iniziò nel 1892,
ma i precedenti tentativi di evangelizzazione
non sono da trascurare.
L’opera dei missionari ha forgiato
la società togolese, che ancora oggi
guarda alla chiesa come segno
di speranza, per una rinascita
nella giustizia e riconciliazione
nazionale.

Per oltre quattro secoli la storia
del Togo rimase legata a quella
della «Guinea», regione tra il
Senegal e l’equatore, esplorata dai
navigatori portoghesi a partire dal
1470. Per meglio commerciare oro e
prodotti esotici, essi stabilirono vari
insediamenti, ma scartarono le coste
del Togo, prive di porti naturali. Nel
1482 costruirono il forte a Elmina, poi
a Keta (Costa d’Oro, oggi Ghana) e a
Ouidah (Dahomey, oggi Benin).
L’espansione del cristianesimo era
una priorità dei conquistatori portoghesi.
Da ogni viaggio portavano a Lisbona
giovani «guineani» che, dopo
essere stati istruiti, venivano ricondotti
in patria per diffondere la fede
cristiana tra i connazionali. Gli insediamenti
portoghesi erano, quindi,
anche centri missionari, ma è difficile
dire fino a che punto tale irradiazione
abbia toccato il Togo.
0
LA COSTA DEGLI SCHIAVI
Un cronista di quei tempi, Diego
d’Alvarenga, racconta che a Elmina,
nel 1503, «furono battezzati il capo
di Afouto, 6 ufficiali e 100 persone».
Nel 1634 Propaganda fide assegnò
ai cappuccini inglesi l’evangelizzazione
della Costa d’Oro; 10 anni dopo
arrivò a Roma la notizia del battesimo
del capo di Komenda e altri
principi. Poi i calvinisti olandesi presero
Elmina e cancellarono ogni traccia
cattolica.
Nel Dahomey, a est del Togo, i cappuccini
bretoni fondarono una missione
a Ouidah nel 1644; ma gli stregoni,
sobillati da mercanti inglesi e
olandesi, incendiarono la cappella e
i missionari dovettero scappare. Sedici
anni dopo arrivarono i cappuccini
spagnoli, richiesti dal re d’Arda al
sovrano di Spagna, ma furono cacciati
dai portoghesi. Ritentarono nel
1674 tre domenicani francesi: stavano
per convertire il capo di Ouidah,
ma i mercanti di schiavi montarono
la testa ai locali e i missionari morirono
sulla costa, forse avvelenati.
L’evangelizzazione era impossibile:
la tratta degli schiavi portava ad
identificare cristianesimo e schiavismo;
gli schiavisti, indigeni ed europei,
non permettevano che i missionari
turbassero i loro affari. E dovevano
essere enormi, se la regione tra
Keta e Lagos fu per secoli conosciuta
come «Costa degli Schiavi».
I primi a portare il cristianesimo
tra le popolazioni del Togo furono i
missionari protestanti: il loro eroismo
merita tanto di cappello.
Iniziò la Società dei fratelli moravi
con Giacomo Protte, un mulatto
nato in Costa d’Oro da padre danese
e madre africana. Dopo aver studiato
a Copenaghen, nel 1737 fu inviato
a convertire i suoi paesani; quattro
anni dopo toò in Olanda; nel
1757 e 1769 tentò altre due imprese
solitarie. Nel frattempo fu raggiunto
da altri 5 fratelli, tre dei quali scesero
nella tomba nel giro di due mesi.
Nel 1770 altri quattro missionari raggiunsero
i due sopravvissuti: l’anno
dopo morirono tutti e sei senza lasciare
traccia.
Nel 1827 i missionari della Società
evangelica di Basilea arrivarono nel
forte danese di Christianborg. Per
fuggire al clima micidiale della costa,
si concentrarono nell’interno del paese
e cominciarono ad evangelizzare le
popolazioni ad est del Volta.
Nel 1842 i metodisti si stabilirono
a Lagos, Ouidah e Aneho, grazie a ex
schiavi americani, tornati ai paesi
d’origine. Tra i missionari metodisti
si distinse Thomas Freeman, pastore
infaticabile: di padre africano e madre
inglese, fu educato a Londra; in
due riprese (1843 e 1854) visitò tutta
la Costa degli Schiavi, spingendosi
nell’interno del Togo.
Nel 1847 la Società missionaria di
Brema (Germania) si unì agli evangelici
di Basilea. Stabilito il quartiere
generale a Keta, evangelizzarono
la popolazione ewé a est del Volta e
fondarono varie stazioni missionarie,
distrutte dalle guerre e puntualmente
ricostruite; esplorarono le regioni
di Atakpamé e Anfoin, nel cuore del
Togo. Nel giro di 40 anni si succedettero
circa 100 missionari, 54 dei
quali falciati da febbri malariche.

TEMPI EROICI
Con l’abolizione dello schiavismo,
la Costa degli Schiavi vide nascere le
prime comunità cattoliche, formate
da famiglie di afro-brasiliani (Olympio,
de Souza, da Silveira, Santos,
Campos, Sacramento, Paraiso) che
avevano abbracciato il cristianesimo
durante la schiavitù ed erano tornate
nelle terre di origine: mercanti intelligenti,
diventarono l’élite del Togo
e Dahomey.
Nel 1835 Vanessa de Jesus fece costruire
una cappella ad Aneho, la prima
in terra togolese. Distrutta da un
incendio, fu ricostruita da un gruppo
di bahiani, guidati da Joaquim
d’Almeida. Preti portoghesi venivano
da São Tomé per amministrarvi i sacramenti:
il primo battesimo in Togo
porta il nome di Marcos Francisco da
Massa e la data del 1844.
A quel tempo, il Togo era inglobato
nell’immenso vicariato apostolico
delle due Guinee, creato da Propaganda
fide nel 1842, da cui fu ritagliato,
nel 1860, il vicariato del Dahomey
(tra il Volta e il Niger) e affidato
alla Società delle missioni africane di
Lione (Sma). Il 18 aprile 1861 sbarcarono
a Ouidah i primi due missionari,
l’italiano Borghero e lo spagnolo
Feandez.
Senza trascurare i cristiani brasiliani,
i missionari Sma evangelizzarono
i nativi: nel 1963 battezzarono i primi
due togolesi; 10 anni dopo si stabilirono
ad Agoué, in territorio togolese,
e si spinsero nell’interno del
paese, fino a Atakpamé.
Nel 1892 il vicariato fu smembrato
in due prefetture, l’una con sede a
Lagos, l’altra ad Agoué, avendo per
confini i fiumi Ouémé e Volta. Due
anni dopo (1884) il Togo diventò
protettorato tedesco e, con la firma
di accordi con inglesi e francesi, cominciò
ad avere confini più definiti:
tra i fiumi Mono e Volta.
Intanto i missionari francesi continuarono
ad avanzare nell’interno, accolti
a braccia aperte dal cecuziente
re Abasa: all’inizio del 1886, i padri
Moran e Bauquis, fondarono ad Atakpamé
la prima vera stazione missionaria
del Togo. I due padri non stavano
nella pelle per la gioia, ma dovettero
fare i conti con gli stregoni,
che cercarono di avvelenarli insieme
al vecchio re. Dopo vari tentativi, ci
riuscirono (vedi riquadro). Nell’agosto
del 1887 la missione fu abbandonata
e totalmente saccheggiata.

PIONIERI E STRATEGHI
Intanto l’amministrazione tedesca
impose nelle scuole l’insegnamento
della lingua del padrone, pena la
chiusura delle missioni. I missionari
di Brema e Basilea giocavano in casa;
cattolici e metodisti dovettero
correre ai ripari.
La congregazione di Propaganda fide
eresse il territorio del protettorato
a prefettura apostolica del Togo,
e la affidò alla Società del verbo divino
(Svd), la più grande congregazione
missionaria tedesca: era il febbraio
del 1892, data ufficiale della
nascita della chiesa togolese.
Il 27 agosto dello stesso anno, 2
preti e 3 fratelli erano a Lomé e si misero
subito al lavoro; il 18 settembre
era pronta la cappella; il 20 dello
stesso mese apriva la scuola con 25
alunni; il 25 ottobre iniziava il catecumenato;
a natale i primi battesimi.
Alla fine del 1893, la relazione inviata
a Propaganda fide così riassumeva
i 15 mesi di lavoro: 3 missioni
con 5 preti, 8 fratelli e un volontario
laico; 135 alunni nelle scuole di
Lomé, Adidjo e Togoville; 150 cristiani
e 160 catecumeni; battezzati
50 adulti e un migliaio di morenti.
Le cifre non danno conto dei missionari
falciati da malaria e vaiolo, o
costretti a rimpatriare a pochi mesi
dall’arrivo. «Tutti malati! Stop. Aiuto!
» gridava il telegramma del prefetto
al superiore generale nel giugno
1896. Ma dalla casa madre, almeno
nei primi anni, arrivano pochi
soldi e tante critiche: si parlava d’infantilismo,
ambizioni e sprechi, anche
se, per sopravvivere, i missionari
si arrangiavano con artigianato e
agricoltura.
Anche sul campo abbondavano le
spine. Il manipolo di cristiani afrobrasiliani
trovati in Togo vivevano
«nelle condizioni dell’Antico Testamento
– scriveva il prefetto, padre
Schäfer -; molti sono tornati alla poligamia;
ma sono ben disposti verso
i missionari». Più dura era la lotta
con gli stregoni, che proibivano di
mandare i ragazzi a scuola e tentarono
di avvelenare un missionario.
Inoltre, bisognava sgomitare per
farsi largo tra i protestanti, arrivati
decenni prima. Il governo fu costretto
a dividere il territorio in zone
d’influenza e proibire invasioni di
campo. Solo nel 1913, i padri poterono
spingersi nell’estremo nord.
Autentici strateghi, i missionari tedeschi
si stabilirono nei centri popolosi,
mercati e incroci di vie di comunicazione.
Poiché il mondo degli
adulti resisteva alla penetrazione del
vangelo, a causa dell’attaccamento
alla religione tradizionale (vodoun e
feticismo) e poligamia, essi concentrarono
gli sforzi sui giovani, seminando
il paese di scuole primarie,
agricole e professionali.
Alla formazione umana e religiosa,
i verbiti univano lo studio di lingue
e culture locali, traduzioni e pubblicazioni
di libri religiosi. Studiarono i
problemi più spinosi, come la poligamia,
prospettando soluzioni audaci:
dare almeno il battesimo ai poligami
più aperti ai valori del vangelo.
I fratelli, spesso in numero superiore
ai padri, innalzarono le strutture
materiali (case, chiese, cappelle,
scuole e cattedrale di Lomé) e si immersero
nella formazione scolastica,
sfoando maestri, artigiani e catechisti.
Altrettanto preziosa, nella formazione
femminile, fu la presenza
delle suore, arrivate nel 1897.
Tale strategia lungimirante si dimostrò
vincente: la maggioranza dei
battezzati e famiglie cristiane nascevano
sui banchi di scuola. In 20
anni la chiesa in Togo era impiantata
e consolidata. Nel 1914 essa contava
quasi 20 mila battezzati, 6.425
catecumeni e 1.235 matrimoni religiosi;
47 padri, 15 fratelli e 25 suore
erano distribuiti in 15 missioni, attendevano
a un numero impressionante
di stazioni periferiche e gestivano
198 scuole con 8.463 alunni e
228 maestri e catechisti. C’erano più
alunni nelle scuole cattoliche del Togo
che in tutte le colonie francesi
dell’Africa occidentale.
«Se i tedeschi fossero rimasti, oggi
tutto il Togo sarebbe cattolico»
sospira un missionario italiano con
lunga esperienza nel paese.

SECONDA NASCITA
Con lo scoppio della prima guerra
mondiale (1914), il Togo fu occupato
dalle truppe inglesi e francesi, prima
vittima del conflitto. Inizialmente
tollerati, ma con le ali tarpate da
restrizioni d’ogni genere, i missionari
tedeschi vennero dichiarati prigionieri
politici nel 1916 e, nel giro
di un anno, erano tutti fuori del paese:
padri e fratelli deportati in Inghilterra,
le suore rimpatriate.
Per quattro anni i vescovi della Costa
d’Oro e Dahomey presero in consegna
il vicariato e inviarono alcuni
missionari per tenere aperte alcune
missioni e scuole. Finita la guerra, i
verbiti cercarono di ritornare nelle
amate missioni, ma Parigi e Londra
non ne vollero sapere. Nel 1921 Propaganda
fide affidò la parte francese
ai missionari di Lione; quella amministrata
dagli inglesi fu annessa al vicariato
di Keta.
La chiesa togolese cominciò a riprendersi,
ma molto lentamente: i
missionari arrivavano col contagocce,
sempre insufficienti a coprire tutte
le opere avviate dai verbiti: nel
1958 il numero dei missionari era di
poco superiore a quello del 1914.
Nonostante ciò, la chiesa togolese
sperimentò una nuova nascita, grazie
al sacrificio del personale missionario
e alla lungimiranza del vicario,
mons. Jean-Marie Cessou. Egli continuò
lo sviluppo delle scuole, aprì
nuove missioni nel centro e nord del
paese e, per neutralizzare l’influenza
islamica, facilitò la creazione della
prefettura di Sodoké (1937).
Grande merito di mons. Cessou fu
la promozione delle vocazioni indigene.
Nel 1922 fu ordinato il primo
prete africano nella zona britannica;
6 anni dopo un togolese nella zona
francese. Alla sua morte (1945) il vescovo
lasciava 23 preti europei e 4
togolesi, 26 suore e 292 catechisti,
191 scuole e 13 mila allievi, 88 mila
cristiani e 200 chiese e cappelle.

CHIESA MAGGIORENNE
Dopo il secondo conflitto mondiale,
che aveva richiamato sotto le armi
i missionari più giovani, arrivarono
una quindicina di congregazioni
maschili e femminili di diverse nazionalità
e la chiesa togolese fu rivitalizzata.
Furono promesse numerose
associazioni, confrateite religiose
e istituzioni varie: collegi, seminari,
noviziati di suore indigene, per rispondere
ai venti nuovi che soffiavano
sulla società del Togo.
Nel 1955 il vicariato di Lomé fu
elevato ad arcidiocesi e la prefettura
di Sodoké a diocesi; pochi anni dopo
la chiesa cominciò a passare nelle
mani della gerarchia togolese: nel
1962 Robert Dosseh fu consacrato
vescovo di Lomé; due anni dopo Beard
Ogouki-Atakpah guidava la diocesi
di Atakpamé; l’anno seguente
Chretien Bakpessi quella di Sodoké.
Il Togo è stato definito «figlio primogenito
della chiesa». Non è retorica.
Con le solide strutture e organizzazioni,
qualità delle scuole, formazione
di quadri ed élites, strutture
sanitarie e ospedaliere, opere agricole
e idrauliche, sociali o di beneficenza
sviluppate prima e dopo l’indipendenza
(1960) la chiesa cattolica
ha modellato la nascita e la crescita
della società togolese.
Nel 1958, per esempio, alle votazioni
per il parlamento della Repubblica
autonoma, 37 deputati su 46 e
8 ministri su 10 erano cattolici, tra
cui il primo ministro, Sylvanus Olympio,
padre del Togo indipendente.
Oggi, su una popolazione di circa 5
milioni di abitanti, la chiesa conta
quasi un milione e mezzo di cattolici
(25%) e 65 mila catecumeni, 7 diocesi
guidate da altrettanti vescovi autoctoni,
oltre 300 preti diocesani
(erano 170 nel 1990) e 200 seminaristi,
160 religiose di origine straniera
e più di 400 religiose autoctone,
appartenenti a una trentina di istituti
missionari; quattro istituti locali
che contano oltre 300 suore.

SFIDE DEL TERZO MILLENNIO
Nell’ultima visita ad limina (1999),
i vescovi togolesi hanno sentito dal
papa queste parole: «Auguro che una
vera solidarietà si manifesti tra le
diocesi, attraverso una ripartizione
adeguata di personale apostolico,
che permetta di aiutare generosamente
quelle più povere».
Di fatto, la chiesa del Togo sembra
spaccata in due: al sud è ultracentenaria,
tradizionalista e clericalizzata,
ricca di clero, suore e risorse finanziarie;
al nord è appena cinquantenne,
povera d’organizzazione e totalmente
dipendente dalla chiesa universale
in quanto a personale e aiuti
materiali. Il cammino verso la solidarietà
della «chiesa famiglia», ideale
del sinodo per l’Africa, in Togo è
ancora ai primi passi.
La sfida più lacerante viene dalla situazione
politica e sociale del paese.
Se all’inizio della dittatura la chiesa
si era appiattita sulle posizioni del regime,
scegliendo il male minore, ben
presto ha recuperato il suo ruolo profetico:
nel 1976 il vescovo di Atakpamé
fu costretto a dimettersi per
aver osato criticare il dittatore. Questi
diede ordine all’esercito d’impedie
la consacrazione del successore,
mons. Kpodzro: il giorno prima
dell’ordinazione fu cambiato il luogo
e i soldati arrivarono alla fine della
cerimonia. Ma il vescovo rimase sequestrato
a Lomé per cinque anni,
prima di entrare nella sua diocesi.
Nel passaggio alla democrazia la
chiesa c’era: comunità cristiane e preti
erano contro la dittatura e mons.
Kpodzro fu chiamato a guidare la
Conferenza nazionale (1991-92). Il
prestigio che gode nella società togolese
è uno stimolo in più per impegnarsi
nella promozione della giustizia
e riconciliazione nazionale.
Alcune lettere pastorali presentano
diagnosi inequivocabili dei mali della
società: paura, violenze, vendette,
corruzione, impunità. «Come missionari
– afferma uno di essi – vorremmo
dai vescovi un po’ più di interventismo
in occasione delle elezioni, nel
campo sociale e dei diritti umani».
La chiesa rimane una spina nel
fianco del regime, che reagisce con
meccanismi diabolici e, per tagliarle
l’erba sotto i piedi, strizza l’occhio alle
sètte, massoneria, Rosa Croce e
mondo islamico soprattutto.
Presenza percettibile solo nel centro-
nord, l’islam è passato dal 5% del
1960 all’11% nel 1970, al 16% nel
2001. Da un decennio si assiste a una
fioritura di moschee, centri islamici
e scuole coraniche in tutto il paese,
soprattutto da quando il Togo è diventato
membro dell’Organizzazione
della conferenza islamica nel 1997.
Tale adesione non è disinteressata:
i paesi islamici aprono la borsa dei loro
petrodollari; in compenso, il regime
concede spazio ai musulmani nella
stanza dei bottoni, amministrazione
e uso di radio e televisione.
«L’islam fa breccia anche tra i più
poveri – afferma mons. Kpodzro -.
Promesse di denaro e promozione sociale
sono forti tentazioni per farsi
musulmano. Malgrado tutto, la chiesa
intrattiene buone relazioni con i
musulmani. Ma come arginare tale
offensiva legata essenzialmente alla
potenza del denaro?».
Alla domanda il vescovo di Lomé
ha già trovato la risposta: nella sua
diocesi ha aperto la «Scuola cristiana
della fede», che opera su tre direttive:
formazione dei laici, studi biblici
e Forum fede e vita, destinata a
incontri e dibattiti ad alto livello sulla
dottrina sociale della chiesa.
«C’è bisogno di una rinascita nella
catechesi, sia a livello popolare, per
aiutare i cristiani a difendersi dall’aggressività
delle sètte e dell’islam,
sia a livello di élites cristiane, poiché
hanno una cultura religiosa rudimentale.
Con la nostra “Scuola” vogliamo
dare loro una formazione dottrinale,
spirituale e morale, per avere
una classe dirigente ancorata ai
valori cristiani e pienamente impegnata
nella promozione della pace,
giustizia, bene comune e un’autentica
democrazia. E che Dio ci aiuti!».

PRIMI MARTIRI

Due donne stavano raccogliendo legna.
Sbadatamente raccattarono
frasche di un albero sacro. Era un crimine
meritevole di morte, anche se
commesso inavvertitamente: furono
avvelenate. L’una morì, l’altra fu portata
ai missionari, che riuscirono a salvarla.
Gli stregoni le diedero un’altra
porzione di veleno; e i missionari la salvarono
una seconda volta.
I fattucchieri erano infuriati: quei due
stranieri erano più forti di loro. Il sabato
santo del 1886 li avvelenarono, non
si sa come, insieme al re. Questi morì
all’istante; i missionari se la cavarono;
ma erano così indeboliti che dovettero
andare a riposarsi sulla costa.
Toati ad Atakpamé, padre Moran
si guadagnò la simpatia di alcuni
capi e stregoni, distribuendo regali, e
ottenne il permesso di esercitare la medicina.
Per qualche mese i missionari
furono lasciati in pace. La gente accorreva
alla missione, disertando le
pratiche feticiste, provocando rabbia e
gelosia tra vari fattucchieri.
Questi studiarono i movimenti dei missionari
e videro che, ogni giorno, un ragazzo
andava a comperare una zucca
di vino di palma per i padri; avvicinarono
il mercante, avvelenarono il vino
e raccomandarono al ragazzo di non
berlo, perché sarebbe stato un furto.
Appena i missionari bevvero il vino,
sentirono subito gli effetti del veleno.
Presero immediatamente dei rimedi e
vomitarono anche l’anima: era il 7
agosto 1887. Padre Bauquis si salvò;
ma padre Moran spirò tra atroci contorsioni,
senza medico e senza prete,
poiché il confratello era troppo debilitato
per assisterlo. Aveva solo 28 anni.
I nemici della missione avevano raggiunto
lo scopo: un missionario morto
e l’altro in fin di vita. Padre Bauquis dovette
ritirarsi sulla costa, dove morì nel
1891.
Nel 1939 si venne a sapere che il
calice di padre Moran era stato
usato come feticcio in una festa pagana
ufficiale. I missionari lo reclamarono
energicamente. Ma i fattucchieri ricorsero
di nuovo ai veleni. Il vescovo
dovette ritirare i preti perché non rischiassero
la vita.
La storia riemerse nel 1951: per l’ordinazione
del primo prete di Atakpamé
i giovani gli offrirono un calice «per
cancellare l’onta dell’avvelenamento di
padre Moran».

Vodoun: religione tradizionale del Togo
NEL MONDO DEI GRI-GRI
Per capire una cipolla bisogna sfogliarla. Così il
vodoun: non esistono definizioni; per comprenderlo
bisogna guardare le sue manifestazioni.

Gli europei li chiamano feticci; i locali tolegba (spirito
del paese); è una testa di terra, con occhi spalancati,
piantata al suolo. Impossibile non notarli: sono posti ai
crocicchi, all’entrata dei villaggi e nei luoghi più frequentati.
A Fiata ce ne sono due a poca distanza: uno accanto
alla strada, protegge il paese; l’altro nel mercato, sotto una
pianta, aiuta la gente a fare buoni affari.
Spesso ci si imbatte in tempietti, altarini, simulacri, oamenti
e altri feticci di vario genere e forma: tutti simboli
del vodoun, la religione tradizionale praticata dalla
maggioranza della popolazione del Togo e del Benin.
«In principio Mawu (Dio) viveva fra gli uomini – racconta
un mito degli ewé -. Il cielo era così basso che
lo si poteva toccare con la mano. Un giorno una donna stava
cuocendo la polenta e, non potendo girare il mestolo
perché il cielo era troppo vicino, s’indispettì e gettò la polenta
contro il cielo. Mawu si arrabbiò e disse: “D’ora in poi
non voglio più stare fra gli uomini!”. E tirò su anche il cielo».
Mawu, il Dio creatore e trascendente, è inteso lontano e
irraggiungibile, impassibile alle preghiere e vicende umane:
ma per compensare il suo allontanamento, affida la cura
della creazione a divinità minori: i vodoun. Il termine,
infatti, nella lingua fon (Benin) significa «cosa misteriosa,
nascosta, sacra», tra le popolazioni togolesi «messaggero
del profondo». Tale parola sta a indicare, quindi, l’insieme
delle forze da cui dipende l’uomo, nel bene e nel male,
e la religione che ne deriva.
Nessuno sa quanti siano i vodoun; i più informati dicono
che possono essere quasi duemila. I più antichi e importanti
sono identificati
con le forze della natura (fulmine,
vaiolo, mare, terra, foresta,
animali, serpenti), altri
si rifanno a personaggi
storico-mitici e antenati; ne
esistono di modei, inventati
per far fronte a potenze
occulte (magia e violenza) e
ottenere favori «immediati»:
protezione, benessere o maledizioni
per i nemici.
I vodoun cosmici e degli
antenati hanno propri templi
e conventi, sacerdoti, sacerdotesse
e adepti, ai quali
vengono trasmessi i relativi
poteri. Tale iniziazione dura tre anni: novizi e novizie apprendono
tutto lo scibile e la saggezza religiosa ricevuta
dagli antenati: storia, leggende, miti, erbe medicinali e arte
divinatoria… una vera e propria enciclopedia orale.
Nella natura e nella vita umana non si muove foglia che
il vodoun non voglia. Esso, di per sé non è né buono
né cattivo: tutto dipende dal comportamento dell’uomo.
Perciò i fedeli, attraverso giochi divinatori, devono conoscere
il proprio destino e imparare come comportarsi e soprattutto,
mediante preghiere e danze, sacrifici animali e
libagioni di olio di palma, offerte di farina di mais e altri
doni di vario genere, devono convincere i vodoun a elargire
favori e protezione.
I vodoun, inoltre, sono «energie vitali» presenti dappertutto
e che si concretizzano in diverse forme del regno
animale, vegetale e minerale. Tale forza vitale può essere
controllata, aumentata o diminuita mediante offerte e sacrifici.
Più le offerte sono abbondanti, più le divinità hanno
forza e migliori sono le loro intenzioni; se esse diminuiscono,
i vodoun s’indeboliscono.
Tale interdipendenza tra
l’uomo e le forze cosmiche e
ancestrali presenta una visione
altamente positiva
dell’universo: il mondo è
un’immensa manifestazione
del sacro, mistero «tremendo
e fascinoso», che permea
tutta l’esistenza quotidiana;
la relazione tra vita e pratica
religiosa è così stretta che
rende impossibile stabilire
una netta divisione tra sacro
e profano.
I l mondo visto dal vodoun
è solidarietà, unità, totalità,
eloquentemente tradotto in simbolo dal serpente che
si morde la coda; ma presenta pure aspetti patologici. Lungo
le rive del Volta, in Ghana, per esempio, esistono vari
templi in cui vivono le trokosi o schiave di Tro: donne che,
fin da bambine, sono state offerte alla divinità in riparazione
di colpe commesse dai genitori; in pratica sono proprietà
dei sacerdoti e passano la loro vita in stato di schiavitù,
soggette a ogni genere di abuso.
Inoltre, i confini tra religione e magia sono incerti; anzi,
spesso entrano in cortocircuito. Mentre la religione cerca di
onorare e propiziarsi la divinità, la magia cerca, con precisi
e vincolanti rituali, di sottomettere al proprio potere spiriti
e forze della natura e sfruttae la potenza per provocare
effetti benefici (magia bianca) o malefici (magia nera).
Tutto dipende dagli addetti ai lavori: indovini, curatori,
maghi, stregoni, uomini e donne, che praticano
la magia con abilità, turlupinando la gente. Non
per nulla la popolazione del Benin chiama il bokono
(sacerdote di fa, lo spirito dell’oracolo) awono: bugiardo.
Un esempio di magia nera è il chakata, chiamato «fucile
africano»: serve ad avvelenare o a infiggere nel corpo
della vittima, distante anche vari chilometri, chiodi,
aghi, sassi, lamette, pezzi di vetro e simili, provocando
atroci dolori, fino alla morte. Per prevenire
o liberarsi da simili disgrazie, si ricorre a stregoni
più potenti, capaci di diagnosticare il maleficio
e rimuoverlo con medicine, incantesimi, sacrifici,
dietro lauta ricompensa.
Esistono anche mezzi fai-da-te: amuleti o grigri.
E sono innumerevoli. Si può richiederli
agli stregoni: basta pagare. Ma li si può
comprare anche al mercato:
sono di ogni forma e grandezza,
pezzi di legno o di ferro,
statuette di creta, tutti decorati
da piume, denti di rettili, pesci
e uccelli. Per farli agire basta pronunciarvi
una formula oscura e il gri-gri è confezionato,
pronto da portare a casa.
I primi missionari videro nel vodoun una religione politeista,
simile a quella dell’antica Roma, opera del diavolo,
e come tale da combattere frontalmente, bruciando
feticci e distruggendo idoli e altarini. Oggi il loro atteggiamento
è cambiato: i vodoun non sono dèi, al pari di
Mawu, ma semplici creature; non più lo scontro, ma la cristianizzazione
degli aspetti cultuali più significativi.
Ne è un esempio il santuario della Madonna del Lago,
costruito nel 1973
a Togoville, cuore
del feticismo. Qui
risiede il capo dei
sacerdoti vodoun, il
quale ha rappresentato
la religione
tradizionale africana
all’incontro interreligioso
di preghiera
per la pace,
tenuto ad Assisi nel
1986. Qui la gente
viene per sottomettersi
a riti di purificazione
individuali
e collettivi.
Oggi il tempio
mariano è diventato
santuario nazionale,
meta di pellegrinaggi
provenienti da tutte le
parti del Togo: così la purificazione
continua, ma in senso cristiano.
Nel febbraio 1993, Giovanni Paolo
II, in visita al Benin, incontrò i
capi del vodoun e, nel suo discorso,
insistette sulla «necessità del
dialogo tra tutti i credenti in
Dio». I vescovi presenti masticarono
amaro, timorosi
che le parole papali potessero
accrescere la confusione
tra i cristiani, già così
facili a conciliare le due
religioni.
Alcuni cristiani, infatti, si
comportano come tali la
domenica; ma nelle case
conservano i soliti feticci e
amuleti; varie donne sgranano
il rosario inginocchiate davanti
alla Vergine; poi si abbandonano
alle danze più sfrenate in
preda alla possessione. Non sono
pochi coloro che si fanno contemporaneamente
cristiani e musulmani,
considerando Allah e Cristo
alla stregua dei vodoun
tradizionali. Non si sa mai: se
uno non funziona si ricorre all’altro.

RESTITUIRE DIGNITÀ
Da una decina d’anni, le Figlie di S. Gaetano sono
presenti in Togo e, secondo il loro carisma, si
occupano «dei più poveri tra i poveri», curando
ammalati, assistendo handicappati, aiutano la
gente a camminare con le proprie gambe.
Èancora scuro a Fiata, ma la
gente è già in strada per recarsi
nei campi, sfruttando le
ore fresche del mattino. Quando il
sole è alto e il caldo troppo forte, lavorare
diventa più faticoso. Anche il
guardiano della casa delle suore è già
in azione: pulisce il cortile, annaffia
i fiori, apre il portone che immette al
dispensario e subito si forma la lunga
fila di pazienti.
I PIÙ POVERI TRA I POVERI
È così ogni mattina. Suor Fatima,
brasiliana, responsabile della direzione
del dispensario, comincia ad
accogliere i malati e, coadiuvata da
suor Alfonsa e un’infermiera locale,
riempie le schede sanitarie, ascolta
le sofferenze della gente, prescrive e
distribuisce medicine. Malaria e
malnutrizione infantile sono le patologie
più frequenti, insieme alle
infezioni e malanni vari causati dal
clima tropicale e dalla miseria. Negli
ultimi tempi si è aggiunto il flagello
dell’Aids.
Il dispensario è la prima struttura
che le Figlie di San Gaetano, arrivate
in Togo una decina di anni fa,
hanno costruito per rispondere al
loro carisma: amare «i più poveri tra
i poveri». E la povertà è visibile e
tangibile, scolpita nel viso di bimbi
scheletriti soprattutto.
La struttura è semplice, ma dignitosa
ed efficiente, attrezzata per sfidare
le necessità della gente e le precarietà
della situazione del paese: un
sistema di pannelli solari, realizzato
di recente, permette ai frigoriferi di
conservare vaccini e medicine deperibili,
anche quando la rete elettrica
nazionale non funziona; il che
capita spesso.
L’elettricità solare ha reso possibile
attivare un laboratorio di analisi.
Lo hanno organizzato Donato ed
Elena Calocero, due volontari torinesi
che, ottenuto un anno di aspettativa
dall’ospedale delle Molinette
di Torino, hanno montato le strutture,
messo in funzione il laboratorio
e passato le consegne a suor Innocence,
infermiera togolese della
stessa famiglia gaetanina.
Fiore all’occhiello di tutta la diocesi
di Aneho, il dispensario di Fiata
è un’autentica testimonianza di
carità e la gente vi accorre con fiducia,
sia perché vi trova le medicine di
cui ha bisogno, sempre scarse o inesistenti
nelle strutture statali, sia perché
si sente trattata con amore e rispetto
della propria dignità.

I CIECHI VEDONO
GLI ZOPPI CAMMINANO…

Tra i poverissimi le missionarie
hanno incontrato gli handicappati,
con alle spalle storie di degrado ed
abbandono, come quella di Ekoué
Kankoé. Colpito da malformazione
congenita, orfano di madre, rifiutato
dal padre passato in seconde nozze,
il ragazzo conduceva una vita
randagia quando fu scoperto dalle
suore: si trascina a fatica con mani e
piedi; incapace perfino di tirare l’acqua
dal pozzo, era sopravvissuto
grazie alla compassione della gente
e qualche furtarello.
Dopo aver rintracciato un cugino,
che lasciò la scuola per assisterlo all’ospedale,
le suore provvidero a farlo
operare. Quando Ekoué ritoò
al villaggio, la gente non credeva ai
propri occhi, vedendolo ritto sulle
proprie gambe; il padre rimase impietrito,
in un misto di stupore e
rabbia, e continuò a ignorarlo.
Per alcuni mesi il cugino lo portò
a scuola sulle spalle, finché il ragazzo,
con la forza di volontà, riuscì a
recarvisi da solo, con l’aiuto delle
stampelle. Nel frattempo, gli fu trovata
una sistemazione in una famiglia
che, oltre ai propri figli, si prende
cura di quattro orfani.
Oggi Ekoué frequenta la quinta
elementare; nella nuova famiglia ha
trovato la gioia di vivere e ottenuto
tutti i documenti di un normale cittadino.
Anche Yawo Missadjo, detto Tata,
è stato rifiutato dai genitori, ma
è stato accolto da una zia. «È il pri-
mo dramma degli handicappati –
continua suor Luciana -: i genitori li
considerano un castigo divino, una
vergogna da tenere nascosta il più
possibile; quando non sono abbandonati
a se stessi, tali figli vengono
affidati a nonni o zii».
Per 16 anni Yawo non aveva alzato
le mani da terra più di un palmo.
Ma riusciva a fare qualche lavoretto,
intrecciando la paglia. Sottoposto
all’operazione, è riuscito a rimettersi
in piedi. Quindi fu iscritto
alla scuola di alfabetizzazione, ma
con scarso successo: riesce appena
a scrivere il suo nome. Ma ha molte
doti pratiche e alcuni stregoni lo
hanno ingaggiato per fare collane e
altri oggetti artigianali; con i guadagni
riesce a badare a se stesso, anche
se per rinnovare gli apparecchi ortopedici
dipende ancora dall’aiuto
della missione.
Gloria Kankoé è cieca dalla nascita.
Anche lei abbandonata dai genitori,
è stata raccolta dalle suore e
affidata a un istituto per non vedenti,
dove ha imparato a impagliare sedie,
fare stuoie e tappeti. Ha incominciato
a studiare e già maneggia
una macchina da scrivere braïlle.
Il caso di Missan Afli fa eccezione:
fu il padre in persona a portare
la figlia alla missione, quando seppe
che le suore si prendevano cura degli
handicappati. L’esempio delle
suore ha risvegliato in lui l’amore
paterno, offrendo tutta la collaborazione
possibile per restituire alla
figlia la sua dignità.
La bambina camminava con mani
e piedi, ma l’attenzione delle suore
e l’amore del padre le hanno dato
tale forza di volontà per reagire
al suo handicap, finché è
riuscita a camminare senza bisogno
di alcuna operazione. Nonostante
una mano ancora gravemente menomata,
ha imparato a scrivere. La
domenica, mentre procede danzando
in processione con le offerte
della messa, non manca di dare una
sbirciata alla suora, per esprimere la
felicità di camminare come le compagne.
Storie di «ciechi che vedono e
storpi che camminano» ce ne sono
altre 130, racchiuse in un faldone
che suor Luciana sfoglia con la reverenza
dovuta a un messale. Sono
schede con fotografie scattate prima
e dopo l’operazione, dati anagrafici,
situazioni familiari, progressi di
riabilitazione, resoconti contabili,
relazioni aggiornate e spedite regolarmente
al Lilian Fonds, un’associazione
olandese che si occupa del
recupero di handicappati.
«È un lavoro che assorbe energie
fisiche e mentali – confessa sorridendo
suor Luciana, responsabile
di fronte all’associazione dei progetti
di recupero -. Ma procura soddisfazioni
impareggiabili: rimettere
in piedi questi infelici significa reintegrarli
nell’umanità, restituire loro
la dignità umana. Oggi, nel raggio
30-40 km, non si vedono più handicappati
chiedere l’elemosina per
strada. Alcuni di essi hanno raggiunto
la piena indipendenza».
È il caso di Ekoué Gakpea: rimesso
in piedi, ha imparato a fare il sarto;
ha ricevuto una macchina da cucire
e con il suo lavoro mantiene se
stesso e tutta la famiglia. Anzi, è diventato
tanto esperto di macchine
da cucire che va in giro ad aggiustare
quelle degli altri.

MANAGER DELLA…
PROVVIDENZA

Fino a quando non è raggiunta la
piena autonomia, il processo di riabilitazione
è lungo e faticoso: bisogna
seguire caso per caso, controllare
se gli apparecchi sono in buono
stato o troppo stretti, riportarli all’ospedale
per eventuali riparazioni
o adattamenti.
Speciale attenzione è rivolta alle
famiglie degli handicappati, per esigere
la loro collaborazione, specialmente
quando i figli incontrano delle
difficoltà, rifiutano gli apparecchi
ortopedici, si buttano per terra e ritornano
a una situazione peggiore
di quella precedente l’operazione.
«Il mio lavoro consiste nel cornordinare
iniziative e progetti – continua
la missionaria, sentendosi quasi in
colpa per mancanza d’umiltà -. Va-
do a visitare i genitori solo quando
essi rifiutano di essere coinvolti nel
recupero dei figli. Il grosso del lavoro
è fatto da collaboratori, due
uomini e due donne, che scovano i
casi più pietosi, visitano regolarmente
i 130 ragazzi e ragazze, ne seguono
da vicino il processo di riabilitazione
e fanno i rapporti sulla situazione.
Uno dei collaboratori è il mio
braccio destro: battezzato otto anni
fa insieme a tutta la famiglia, macina
chilometri e chilometri, sostenuto da
fede granitica e tanta passione per gli
handicappati, che mi sembra di toccare
con mano la misericordia del Signore
per questa popolazione, povera
e sofferente da fare pietà».
Un’altra iniziativa intrapresa dalle
suore è quella delle adozioni a distanza.
Anche questa attività è racchiusa
in grossi faldoni e gestita da
suor Luciana. «L’adozione dura cinque
anni – spiega la missionaria -: oltre
500 adottati ne hanno beneficiato
e concluso il ciclo elementare; altre
900 sono ancora in corso. Spesso
devo fare le ore piccole per compilare
e aggioare le schede degli
adottati e inviare relazioni ai padrini
e madrine sulla situazione dei figliocci».
Il lavoro più delicato consiste nel
vagliare i casi da aiutare, poiché tutti
sono poveri, ed evitare di creare
dipendenze e, soprattutto, gelosie
tra le famiglie del villaggio. In questo
campo i collaboratori africani si
rivelano indispensabili: una bianca
darebbe troppo nell’occhio. E se la
cavano da veri 007, sia nello scoprire
le reali situazioni familiari, sia nell’evitare
la curiosità dei vicini, sia
nello scattare le fotografie senza che
gli interessati se ne accorgano.
Inoltre, non si parla mai di «adozione
», affinché i genitori non avanzino
pretese, ma il denaro viene distribuito
in tre rate annuali, sotto
forma di prestiti, aiuti di emergenza
o pagamento diretto alla scuola dalla
quale gli alunni sono stati cacciati,
perché i genitori non hanno pagato
la tassa scolastica.
Secondo il sistema proposto dalle
Figlie di San Gaetano, la cifra di
adozione è assai modesta (100 mila
lire, ora portata a poco più di 80 euro);
sbriciolata in tre rate, appare ancora
più esigua, ma non in Togo,
dove tali briciole equivalgono allo
stipendio mensile di molti maestri
di scuola elementare.

A PICCOLI SOGNI
Dopo il ciclo elementare, non c’è
speranza di continuare gli studi: le
tasse per accedere alle scuole superiori
e liceali sono proibitive. Ragazzi
e ragazze cercano di imparare un
mestiere e, magari, mettersi in proprio.
Per realizzare tale sogno occorre
prima di tutto avere un diploma,
senza il quale è impossibile ottenere
la licenza dal governo, e i soldi per
procurarsi strumenti e materiali.
Quando un falegname del luogo,
diplomato in Nigeria, ha presentato
a suor Luciana il progetto di avviare
una falegnameria, con scuola
per giovani apprendisti, e le hanno
chiesto una spinta per avere attrezzi
e rifoirsi di legname, la missionaria
non ha saputo dire di no: ha
scritto alla Caritas di Montegranaro
(Ascoli Piceno), suo paese di residenza,
e sono arrivati alcuni macchinari
e i fondi necessari.
Les Olivieres, così si chiama la
nuova società, è in piena attività: costruisce
e vende mobili di vario genere
e dimensione, preparano assi e
travi per fabbricare case. Mentre i
tre falegnami che gestiscono tale iniziativa
si guadagnano da vivere onestamente,
i quattro giovani imparano
il mestiere e, alla fine dei due anni
di apprendistato avranno il
diploma e potranno realizzare il sogno
di mettersi in proprio.
Ma poiché l’appetito viene mangiando,
suor Luciana ha presentato
alla Caritas marchigiana i progetti
per allargare la società con officine e
relativi corsi di formazione per elettricisti,
fabbri e meccanici. «Les Olivieres
si appoggiano ancora su di me,
ma spero che presto diventino autonomi
e camminino con le proprie
gambe», conclude la missionaria.
Un progetto diventato autonomo
è quello dei mulini per aiutare le madri
di famiglia. Il processo è molto
semplice: un gruppo di donne hanno
chiesto un prestito per comperare
il frantornio, costruire la struttura
muraria, acquistare granoturco, manioca,
palme da olio; una volta macinati
questi prodotti vengono ven-
duti al minuto; il ricavato viene diviso
in v

Benedetto Bellesi




I CUMULI DELL’ODIO

«Sembra che in Terra Santa sia stata dichiarata guerra
alla pace! Ma la guerra nulla risolve, né servono
ritorsioni o rappresaglie…
Cristo impegna noi, suoi discepoli
a rimuovere ogni causa di odio e vendetta
»
(Giovanni Paolo II, Pasqua 2002).
«Un tempo i cardinali si chiudevano in conclave e
non uscivano finché non avevano eletto il papa.
Facciamo la stesso con Arafat, Sharon e Bush:
che non escano senza aver sottoscritto prima
la pace
» (Susan George, Missioni Consolata,
dicembre 2001).

«No, non siamo perfetti»

Gerusalemme, 28 settembre 2000:
Ariel Sharon sale sulla «spianata delle moschee» (per i palestinesi)
o sul «monte del tempio» (per gli israeliani).
È la goccia che fa traboccare il vaso, per l’ennesima volta.
Però «questa volta» non scatena solo l’«intifada» delle pietre,
ma attacchi terroristici a pioggia, con autobombe e «kamikaze»,
ai quali l’esercito israeliano risponde con carri armati, assedi alle città, stragi.
Da ambo le parti le vittime sono troppe.
È dal 1948 che il «nodo israelo-palestinese» attende di essere sciolto…
Nell’ultima «tragedia annunciata» alcuni scrittori israeliani
ci sorprendono, positivamente, per la loro lucidità intellettuale.

a cura di Silvana Bottignole

Alcune voci rappresentative di
scrittori d’Israele hanno fatto
conoscere all’Italia una
letteratura rigogliosa e sorprendente.
Infatti, negli ultimi 10 anni, sono
state tradotte nella nostra lingua oltre
100 opere di una quarantina di
scrittori israeliani.
Come spiegare questa esplosione
creativa in Israele, un paese poco più
grande del Piemonte? E che cosa
raccontano gli scrittori? Come vivono
i drammi del passato e del presente,
pesanti macigni per il popolo
della «terra santa» e per tutta l’umanità?
A Torino gli autori Batya Gur, Etgar
Keret e Dorit Rabinyan, presentati
da Elena Loewenthal (esperta di
letteratura israeliana e editorialista di
«Tutto Libri» per La Stampa), ci
hanno resi partecipi degli ideali, dei
drammi e delle speranze del popolo
d’Israele, ispiratore dei loro racconti.
Loewenthal ha inquadrato il fenomeno
letterario d’Israele con alcune
magistrali pennellate, capaci di introdurci
in un paesaggio «dai toni
cangianti».
«La letteratura israeliana – ha affermato
Loewenthal – è una letteratura
militante accanto alla storia, che
critica anche la storia stessa. Da tanti
anni lavoro per amore di questa
letteratura. Nei primi tempi, allorché
proponevo agli editori italiani
opere israeliane, mi accorgevo che
per loro si trattava di un corpo alieno
che non destava nessun interesse,
se non uno sguardo sbigottito.
Adesso la letteratura israeliana è entrata
nel circuito dei lettori italiani in
tutta la sua varietà e i suoi colori cangianti».
«Vorrei evocare la strana nostalgia
che si prova quando si ascolta o si
legge di Israele: una nostalgia che
prende anche chi non c’è mai stato,
come pure chi è già lì. Rapporto strano,
che forse deve qualcosa a questa
lingua, dalla storia e dal cammino
lunghissimo, che provoca una sensazione
intraducibile, una nostalgia
allegra, vivace».
Perché Israele, così piccolo, abbia
una produzione letteraria così varia
e significativa è, per alcuni versi, un
mistero; e, come tutti i misteri, è utile
per porsi delle domande.
«Nella bibbia sta scritto: “Non ti
farai alcuna immagine – dice Dio all’uomo -”.
Questo comandamento
ha implicato moltissimo sul piano
della storia, della coscienza di sè e
del rapporto della cultura e lingua
ebraica con il mondo che ci circonda.
Come è noto, l’arte figurativa ha
avuto scarsa eco e produzione nel
mondo ebraico. Ritengo che la sua
comunicazione sia fatta esclusivamente
di parole. Come con il cielo si
comunica attraverso la parola (e non
con la contemplazione e il silenzio),
così l’ebraismo comunica da sempre
con il mondo attraverso le parole».
Le suggestioni, i simboli e i significati
dell’ambiente esterno vengono
manifestati e trovano spazio sulla pagina.
La letteratura israeliana rappresenta
un modello forte di rapporto
con il paesaggio; e la sua descrizione
avviene più attraverso le
parole che l’arte figurativa. La pittura
e la scultura stanno arrivando in
Israele; però la scrittura ha una tradizione
millenaria.
«Il gioco dei contrasti è una caratteristica
forte e una grande dote della
letteratura; ambientata in uno spazio
geografico ridotto, offre numerose
immagini geografiche. Si va
dalla vita in kibbutz
(con prati quasi all’inglese, che declinano
verso il Mediterraneo dalle
spiagge selvagge) al deserto lunare
ed impalpabile di Giudea e la depressione
del Mar Morto».
«Gli autori spaziano con le loro
descrizioni: si passa da un ambiente
rurale e quasi atavico, come quello
nei libri di Shalev, al mondo urbano,
suburbano e metropolitano in cui
nuota Etgar Keret; dalla periferia
delle città alla vita di provincia in
tante altre località, come quelle scelte
da Yehoshua per rappresentare
Haifa, che sente i vizi e le virtù della
città provinciale. Ci sono boschi, deserti,
mari. C’è una varietà di orizzonti
che fa sì che le culture diverse,
approdate in terra d’Israele, incontrino
quelle europee e quelle che
stanno emergendo.
Dorit Rabinyan, una delle scrittrici
più rappresentative, ci trasporta in
un Israele che proviene dall’ebraismo
orientale, ma inserito in un contesto
islamico o arabo».
«Questa letteratura – ha detto ancora
Loewenthal – ha la capacità di
dilatare il paesaggio e fae vivere
ogni sfumatura, offrendoci orizzonti
geografici e dell’anima estremamente
ampi».

GUR: «LA MIA PATRIA
NEL BENE E NEL MALE»

Nata a Tel Aviv
nel 1947, Batya
Gur ha pubblicato
il suo primo romanzo
poliziesco
a 39 anni e non
ama che i suoi
scritti siano definiti
«di evasione». Gur abbraccia le teorie del poeta
W.H. Holden, che dichiara: «Le
persone leggono romanzi polizieschi
non tanto per scoprire il “colpevole”,
ma per rafforzare il loro senso di
innocenza». Perciò «sappiamo che
il romanzo poliziesco è tipico delle
società coloniali con una mutua colpevolezza
nazionale».
La scrittrice israeliana con molta
franchezza dichiara: «Ho condotto
un’esistenza parallela a quella dello
stato d’Israele (creato nel 1948). Sono
nata e cresciuta quando fu fondato
e ho creduto nel suo “ben sperare”
per offrire un “giusto focolare”
agli ebrei. Non posso dire di
essere anti-sionista e non posso affermare
che sia stato tutto un grande
sbaglio o qualcosa del genere.
Israele è la mia patria nel bene e nel
male. Nella fase attuale sta più dalla
parte del male.
Quando parlo di colpa nazionale,
penso al fatto che si desiderava creare
un movimento socialista con ideali
di purezza per coltivare il suolo della
“terra santa”, e iniziare una società
giusta ed uguale. Questo è stato fatto
con così tanti peccati e così terribili
eventi che non ha permesso a
questa forma pura di vivere, a causa
della colpa nazionale.
Il mio romanzo poliziesco Omicidio
nel kibbutz, per esempio, è stato
ambientato in questa società chiusa
d’Israele per investigare su un delitto.
Il libro, scritto nel 1990-91, è
emerso inconsciamente dal desiderio di erigere un “monumento” ad
un fenomeno che si stava estinguendo
o distruggendo: il nuovo stato
d’Israele iniziava a diventare colonialista…
Penso che, se avessi scritto
il libro 10 anni prima, sarei stata
crocifissa nello stato d’Israele, perché
la società del kibbutz rappresentava
il 10% del paese ed era considerata
la parte migliore dell’ideologia:
rappresentava i grandi ideali
di uguaglianza, di parità tra i generi,
di giustizia. Tutto questo si è realizzato
nei kibbutz dagli anni ’50 sino
all’inizio degli anni ’90.
Non ho mai vissuto in un kibbutz,
ma non si può vivere in Israele senza
visitare e conoscere un kibbutz,
perché ha veramente riassunto tutti
i desideri e i grandi ideali che hanno
ispirato quella società chiusa. I nuovi
sviluppi nello stato d’Israele hanno
trasformato i kibbutz in una coice
senza contenuti.
Da quando il libro è stato scritto
ad oggi il kibbutz è in bancarotta. Da
un punto di vista ideologico si è trasformato
in un ente privato: si pagano
salari ai dipendenti, la gente nel
kibbutz può acquistare i propri appartamenti
e deve pagare il cibo nel
refettorio. Quando scrissi il libro si
era solo all’inizio di questo processo.
Ho, perciò, raccontato come i bambini
dormivano insieme, accuditi da
una governante, e come erano cresciuti
insieme, lontani dalle famiglie.
Ho cercato di raccontare come si
sentivano. Il libro è un confronto tra
la vecchia e la nuova generazione
della società dei kibbutz».

KERET: «LA PACE È BUONA,
LA GUERRA È…»

Anche Etgar Keret
è nato a Tel
Aviv nel 1967 (generazione
successiva
a Batya Gur).
Scrive per la televisione
israeliana
e lavora per la Tel
Aviv University
School of Film. Ci ha raccontato come
nascono i suoi racconti, a detta
dei critici, pervasi da «ironia corrosiva
». «Il tempo tra il risveglio
(quando ancora ci si deve lavare la
faccia) e la tazza di caffè è il periodo
in cui molte delle mie storie hanno
luogo. Momenti in cui uno si ritrova
tra l’essere una persona normale,
pronta ad andare al lavoro, ed un
pezzo di argilla che il Signore volle
trasformare senza molto successo in
un essere umano.
Le ragioni si trovano nel fatto che
il Dio degli ebrei non ha una forma
corporea, al contrario di Gesù che si
può vedere. Da questo discende tutta
una cultura astratta. Anche il sionismo
(2), conosciuto da bambino,
è stato per me un’ideologia astratta,
difficile da sentire: mi è sempre sembrata
piena di contraddizioni e di
grande ansietà per gli scampati dall’olocausto.
Tutti i nostri libri per ragazzi erano
pieni dei grandi eroi d’Israele; ce
n’era uno in particolare, Danet
Dean (parlo del 1950-60), che era
speciale. Era un personaggio eroico
che lottava sempre per la sopravvivenza
di Israele ed aiutava il suo paese,
spiando le nazioni arabe o salvando
bambini dall’essere rapiti. Ma
aveva una particolarità: era invisibile.
Credo non per caso. Per tantissimi
bambini israeliani come me, la figura
letteraria ideale è stato appunto
un personaggio invisibile:
nessuno sapeva com’era fatto.
Tanti della mia generazione si trovano
a far parte di una società che è
stata plasmata da un’ideologia; ma
tale ideologia ci è diventata invisibile,
come il personaggio a cui accennavo
prima. Per lo più la società
sembra fare riferimento al grosso
buco di una ciambella. A partire da
tale buco, noi cerchiamo di ricostruirci
un’identità e un futuro per
mezzo di strumenti di alta spiritualità
(come lo studio della bibbia) o
cose pratiche e pragmatiche (come
risolvere i problemi del Medio
Oriente).
Alcuni scrittori, come Dorit ed io,
cercano di ricostruire qualcosa del
nostro passato. Infatti siamo nati e
vissuti in una nazione che ha preso
la sua gente da paesi diversi e, ciò facendo,
ha sradicato le persone. I
nonni di Dorit sono immigrati dalla
Persia; i miei nonni sono immigrati
in Israele dalla Polonia dopo la seconda
guerra mondiale. Ciò ha comportato
uno sradicamento, oltre che
un trasferimento, un’immigrazione.
Dorit Rabynian in Spose persiane
racconta, con successo, una storia
che si svolge in un paese straniero,
ricollegandola attraverso le generazioni
femminili alla sua storia personale.
Io non ho altrettanto successo
nel tentare di ricostruire il mio passato,
ma penso di riuscire a raccontare
il presente. Nella Poetica di Aristotele
si legge che l’arte dovrebbe
imitare la vita così com’è. La vita è,
però, assai più complessa di qualsiasi
manifesto politico.
Anni fa scrissi un racconto (pubblicato
da un giornale), ambientato
nei territori occupati, che descriveva
lo scontro violentissimo tra un
soldato israeliano ed un palestinese.
Ricevetti moltissime lettere, in cui i
lettori mi accusavano delle cose più
varie ed estreme: uno mi ha accusato
di essere un estremista di sinistra,
affetto da una sindrome di odio verso
se stesso; un altro mi ha accusato
di essere un estremista di destra, un
fascista.
Ora il fatto che ci fosse questa diversità
di interpretazioni, per me, è
stato un complimento. Si può, perciò,
scrivere un racconto provando
empatia per un personaggio o per
un altro. Se in Israele facessimo così
nella vita di ogni giorno (cioè simpatizzare
e fare propria in parte la
causa dell’uno, ma anche dell’altro),
non saremmo arrivati al punto in cui
siamo. È stato scritto che l’arte ha
due ruoli: estraniare ciò che ci è familiare
e renderci familiari a ciò che
ci è estraneo.
Frasi ovvie come “la pace è buona,
la guerra è brutta e non bisogna
farla” sono slogan da scrivere sugli
adesivi che si appiccicano sui paraurti
delle auto. La verità è che ci
sono tante storie che si possono raccontare,
inviando al lettore un messaggio
altamente morale, sovente assai
più pragmatico di quello che è
contenuto in qualsiasi manifesto politico».
ETGAR KERET: Mi manca Kissinger
(Theoria 1997); il racconto La triste
storia della famiglia Nemalim in
«Nuovi narratori israeliani» (Theoria
1998); il racconto Paride e Venere,
in «Amori, raccontati dai più
grandi narratori israeliani» (Stampa
Alteativa 1999)

RABINYAN: «NOI
ISRAELIANI IMMIGRATI…»

Dorit Rabinyan,
nata nel 1972 a
Kfar Saba da una
famiglia emigrata
dall’Iran, vive a
Tel Aviv. Ha
scritto due romanzi,
un libro
di poesie e la sceneggiatura
di un
film per la televisione. Con il romanzo
Spose persiane, in cui rievoca
le sue radici iraniane, rivela una
forte empatia con il mondo arabo.
«Noi israeliani non abbiamo solo
un passato glorioso, ma anche un
presente terribile; lo dobbiamo affrontare
ogni volta che ci sediamo al
computer per scrivere le storie che
vengono dal nostro cuore. Le brutte
notizie, trasmesse ogni giorno dalla
radio e televisione israeliana, non
sono una gabbia, ma solo un momento
di quel male che viene fatto
da anni contro un altro popolo in cui
tutti quanti noi viviamo immersi.
Noi non siamo in una gabbia; ma il
senso di colpa continua a ferire chi,
come noi, non ha muscoli irrigiditi
della coscienza.
La nostra scrittura è veramente in
contrasto con quella della generazione
di Batya Gur e il messaggio inculcato
a quella generazione: il messaggio
sulla creazione dello stato di
Israele, che voleva essere il centro
verso cui far convergere gli immigrati
provenienti da tutto il mondo,
pretendendo però che si adeguassero
per essere degni di essere chiamati
israeliani.
Per me (e credo di interpretare il
pensiero di Keret) scrivere è cercare
di rifiutare la pretesa del sionismo
di creare una figura ideale di ebreo,
per restare invece noi stessi
per quanto possibile:
senza dover
per forza convergere e sentire di doverci
uniformare, ma restare la voce
di una minoranza che si esprime.
Non tutti devono per forza essere
israeliani perfetti per appartenere a
questo paese. Voglio anche pensare
che sia possibile per noi appartenere
ad Israele, pur restando noi stessi.
Siamo israeliani fatti in un modo
diverso, forse alternativo».
DORIT RABINYAN: Spose persiane
(Neri Pozza 2000)

Elena Loewenthal ha terminato
la presentazione degli
scrittori commentando:
«Tutti gli israeliani fanno parte di
uno sradicamento, eccetto Yehoshua,
che si sente una pianta e non
uno sradicato, perché appartiene alla
generazione del paese.
C’è pure la coscienza, più o
meno vasta, che lo sradicamento
è la condizione della
sopravvivenza. Ogni
israeliano sa che, se il
padre o il nonno o egli
stesso non fosse stato
sradicato (vuoi dalla Persia,
vuoi dalla Polonia, vuoi
dal resto del mondo), non esisterebbe
più. Questo senso di
essere dei sopravvissuti, anche
a due o tre generazioni di distanza
dagli eventi storici più diversi
(non mi riferisco soltanto
alla shoa/olocausto), è parte di un
comune destino ebraico, che è quello
di essere comunque tutti dei sopravvissuti.
Primo Levi ci ha raccontato quale
groviglio emerge, nella coscienza
di ciascuno di noi, quando si tenta
di esplorare il senso di essere dei
“sopravvissuti”. Tutto questo si riflette
nella letteratura israeliana, anche
a distanza, in forme e rifrazioni
estremamente varie con i risultati
che vediamo.
Non vorrei, però, che si creasse
nel lettore che si avvicina per la prima
volta alla letteratura israeliana un
equivoco: pensare che qualunque libro
proveniente da Israele non contenga
altro che la profonda lacerazione
della coscienza, dovuta al fatto
di vivere in un paese come questo.
Questa letteratura è grande, anche
a prescindere da quello che si è costretti
a vivere ogni giorno: entrare
magari in un supermercato e… non
uscie vivi, perché un kamikaze si
butta dentro ed ammazza numerose
persone.
La letteratura israeliana è (forse
anche per questo e a prescindere da
questo) una grande letteratura, ricca
di diversità e pluralismo. Non a
caso ho parlato di “paesaggi cangianti”,
di varietà di toni, di colori e
orizzonti che regalano alla letteratura
una varietà ed un impegno piuttosto
unici. Ci troviamo di fronte a
scrittori capaci di riflettere criticamente
sulla realtà che li circonda».

(1) Kibbutz: insediamento di un gruppo
israeliano con i beni in comune.
(2) Sionismo (da Sion): movimento politico-
culturale all’origine della nascita
del moderno stato di Israele. Antisionismo
e antisemitismo non coincidono.

NON COMBATEREMO PIÙ
QUESTA GUERRA

Noi, ufficiali e soldati di riserva della Forza di difesa di Israele,
siamo cresciuti con i principi del sionismo, del sacrificio e del
dono per il popolo di Israele; abbiamo sempre servito in prima linea
e siamo stati i primi a terminare qualsiasi missione, leggera o
pesante, per proteggere e rinforzare lo stato di Israele.
Noi, ufficiali e soldati di combattimento, abbiamo servito Israele
per tante settimane. Ogni anno, a scapito delle nostre vite, abbiamo
operato da riserve in tutti i territori palestinesi occupati e abbiamo
ricevuto ordini
che non hanno niente
a che vedere con la sicurezza
della nostra
nazione, ma mirano
solo a mantenere il
controllo sul popolo
palestinese.
Noi abbiamo visto
con i nostri occhi il
prezzo di sangue che
questa occupazione
esige da entrambe le
parti.
Noi sentiamo che gli
ordini ricevuti nei territori
palestinesi distruggano
ogni valore
assorbito crescendo
in questa nazione.
Ora noi sappiamo che
il prezzo, pagato all’occupazione,
è la
perdita di umanità da
parte della Forza di
difesa di Israele e la
corruzione dell’intera
società locale.
Noi sappiamo che i
territori occupati non
sono Israele e che gli
insediamenti sono destinati
ad essere evacuati.
Pertanto dichiariamo
che non combatteremo
più la
guerra degli insediamenti. Non dobbiamo continuare a combattere
al di là dei confini di Israele del 1967, con lo scopo di dominare,
espellere, affamare e umiliare un popolo intero.
Continueremo il servizio nella Forza di difesa di Israele in ogni
missione utile alla sua salvaguardia. Ma le occupazioni e oppressioni
non servono a questo scopo e noi non avremo più parte alcuna
in esse.
Dichiarazione del 16 marzo ’02, sottoscritta da 451 soldati (6-05-’02)
Testo (in ebraico e inglese) apparso sul sito
www.seruv.org.il

S. Bottignole Francesco Beardi D. Casali




Simmetria fatale

Lei opera nell’ebraismo italiano dall’età di 15 anni; si riconosce nel movimento
«Shalom Achshav» (Pace adesso); è segretaria di redazione di «Ha-Keilà»
(La comunità), giornale ebraico, edito a Torino.
Lui, consulente aziendale, è agnostico in seguito alle tragedie
che hanno colpito la sua famiglia durante le «leggi razziali» (fascismo);
è impegnato nel dialogo interculturale.
L’opinione di Alda Segre e Franco Debenedetti, ebrei di Torino.

Signora Alda e signor Franco, voi
contate numerosi parenti in
Israele. Come vivono e come vivete
l’attuale dramma del paese?

Alda: con il terrore che succeda
la tragedia. Quando avviene un attentato,
non telefono più, perché è
inutile… I parenti in Israele divergono
dalle mie idee politiche; quelle
poche volte che ci telefoniamo,
discutiamo. In Israele alcuni conoscenti
(che credevano nella strategia
di «Pace adesso») oggi concordano
con la politica di Ariel Sharon,
perché esasperati dal terrore
quotidiano.
Franco: c’è forte preoccupazione
per i giovani che hanno già fatto il
servizio militare e che, tuttavia, possono
essere richiamati nell’esercito.
Però ammiro le loro famiglie, perché
vivono la precarietà quasi con
normalità, continuando a lavorare.
Gli ebrei hanno patito la «shoa»
(olocausto), che ha coinvolto anche
le vostre famiglie. Esiste oggi
un serio pericolo di un ritorno all’antisemitismo?</b<
Alda: il pericolo esiste, anche se
non nelle dimensioni della «shoa»;
questo perché c’è lo stato di Israele
e le comunità ebraiche nel mondo si
sono rafforzate. È da temere l’antisemitismo
politico-religioso: gli attacchi
contro gli ebrei in Francia
(circa 400 in 20 giorni) sono eloquenti.
Vi sono pericoli anche in
Russia, Polonia, Germania. In Italia
noi ebrei ci sentiamo tutelati dallo
stato; però non siamo tranquilli.
Franco: con la globalizzazione si
possono diffondere, ad enorme velocità,
delle informazioni fittizie sugli
ebrei: informazioni che influenzano
negativamente i comportamenti
di molti «che non sanno».
Esiste anche il pericolo di un antisemitismo
verso persone che non
hanno niente a che fare con lo stato
di Israele. Il privilegiare immagini
virtuali (non fatti) genera sentimenti
ostili con conseguenze imprevedibili.
Ciò serve politicamente a qualsiasi
estremista (nazisti, integralisti
musulmani o di altro credo), per acquisire
un forte ascendente su masse
insoddisfatte, per gestie le frustrazioni
al fine di ottenere potenza
e ricchezza. Servono capri espiatori,
colpiti e criminalizzati indiscriminatamente
senza alcun presupposto
razionale.
Ecco un esempio: «Un signore
cammina nella civilissima Parigi dei
Champs Elisées tra fiumi di turisti;
porta una borsa di plastica con il disegno
del candelabro rituale, presa
in una boutique del Marais. Tre magrebini
sui 15 anni, i capelli rasi, lo
affiancano, sputano per terra e gridano
“sporco ebreo!”, guardando-
lo dritto negli occhi. Poi il più giovane
gli torce la guancia sinistra ridendo
come un matto. I passanti distolgono
lo sguardo. Un plotone di
giapponesi non si accorge di nulla.
La polizia non c’è. Potrebbe ora arrivare
uno che ha votato per Le Pen
e godere dello spettacolo…».
In altri casi e momenti si sono colpiti
i curdi, gli armeni e gli stessi palestinesi…
Il 15 aprile a Roma si è celebrato
l’«Israel day». È stata una marcia
che ha rivendicato il diritto di esistere
per Israele. E che dire della
Palestina?

Franco: la Palestina ha ogni diritto
di essere uno stato.
Quanto all’«Israel day», non sono
stato affatto d’accordo con la marcia.
Marce del genere alimentano l’antisemitismo
e vengono manipolate:
così si confonde, ad esempio, «israeliano
» con «ebreo»; il che è grave.
Gli ebrei che hanno preso parte
all’«Israel day» l’hanno fatto sotto
l’impulso di emozioni; dovrebbero
ragionare di più. Però non sono
estremisti, come è apparso in tivù.
Alda: il diritto dei palestinesi di
avere uno stato è fuori discussione.
Ma sono manovrati dai paesi arabi
vicini e sono vittime dei loro stessi
musulmani.
La risoluzione dell’Onu 181 del
29 novembre 1947 prevedeva la divisione
della Palestina in uno stato
ebraico e uno stato palestinese. Gli
ebrei l’hanno accettata, mentre gli
stati arabi l’hanno rifiutata, convinti
di «poterli buttare in mare» in pochissimo
tempo. Da qui è cominciato
il dramma dei profughi palestinesi.
Poi si sono compiuti errori da par-
te sia degli israeliani che dei palestinesi.
L’«Israel day» è stata una risposta
sbagliata (manipolata da Giuliano
Ferrara) alla manifestazione per la
pace che si era svolta a Roma, aperta
da palestinesi vestiti da «kamikaze
», e con mons. Capucci sul palco;
tanto che i sindacati, DS e Margherita
si sono allontanati dal corteo.
Abbiamo bisogno dell’apporto di
persone, non coinvolte emotivamente,
in grado di dire a ragion veduta
«questo è giusto» e «questo è
sbagliato»: persone che non sfruttino
né Israele né Palestina a loro uso
e consumo.
Pertanto ne consegue un dialogo
fra sordi.

Spesso sì.
In tale contesto come valutate i
«kamikaze» palestinesi e le rappresaglie
di Sharon?

Franco: il binomio kamikaze-rappresaglia
in psicologia si chiamerebbe
«simmetria»: tutti vogliono avere
ragione. Allora c’è una sovrapposizione
continua, che non finisce mai.
Purtroppo in Israele manca un
anti-Sharon, come Yitzhak Rabin.
Egli fu il generale che vinse tutte le
guerre e stava per vincere pure quella
della pace; fu ucciso da un cretino
su commissione di estremisti
israeliani o arabi. Data la «simmetria
», Rabin era scomodo a tutti.
Quanto ai «kamikaze» suicidi che
uccidono innocenti, essi sono manipolati;
la colpa non è loro, ma di chi
li manda al macello. Siamo di fronte
ad un completo lavaggio del cervello
per fini religiosi.
Alda: i «kamikaze» riguardano
un problema politico-religioso. Sono
dei «disgraziati» manovrati: mi
spaventano per la mancanza di rispetto
verso la vita umana, da parte
loro e delle loro famiglie.
Se non c’è rispetto per la vita, dove
si va a finire?
Signora Alda e signor Franco, è
possibile uscire, una volta per sempre,
dal conflitto Israele-Palestina,
che perdura da oltre 50 anni?

Alla domanda, scontatissima, gli
intervistati ammutoliscono abbassando
lo sguardo con un triste sorriso.
Poi…
Franco: secondo la mia formazione
ingegneristica (quindi limitata),
penso che bisogna uscire dalla simmetria.
Ciò dipende dagli Stati Uniti
e dai grandi stati arabi. Però dubito
che ne escano facilmente.
Ma che intende, signor Franco,
per simmetria in questo caso?

Rispondo mostrandole
un disegno: sono
due biciclette unite,
che pedalano
in direzione opposta;
rappresentano
Israele-Palestina
e Stati Uniti-
Stati Arabi.
Tuttavia mi auguro
che sorga un nuovo Rabin,
oppure che entri in scena un
nuovo e forte stato catalizzatore…
Nella simmetria giocano le grandi
forze di potere. Israele e Palestina,
da soli, non possono sciogliere il nodo
che li strangola.
Signora Alda, il nodo israelo-palestinese
non si può proprio sciogliere?

Ne abbiamo parlato anche nella
nostra comunità ebraica di Torino.
E un oratore diceva: «È difficilissimo
uscire dal conflitto, perché si è
di fronte a due individui… che hanno
entrambi ragione».
E si ricade nella simmetria.
Purtroppo!… Ma il ritiro di Israele
dai territori occupati non giova
molto ai palestinesi, perché si trovano
senza lavoro, senza infrastrutture
e con pochissime possibilità di
sviluppo. Questa è stata già una grave
colpa di Yasser Arafat e del suo
entourage: nei loro territori bisognava
per prima cosa creare scuole,
ospedali, posti di lavoro. Si parla dei
profughi di Jenin: da circa 30 anni
sono tali! A Gerico l’autorità palestinese
ha costruito un casinò, frequentato
anche da israeliani danarosi.
Francamente, troppo poco!
I leaders palestinesi non incarnano
l’idea di uno stato democratico,
dove tutti i cittadini possono e devono
esprimersi. I palestinesi hanno
ogni diritto e possibilità di farlo,
senza essere in balia di qualche potente
stato arabo.
D’altro canto, Israele stesso è a sovranità
limitata… E anch’io, come
Franco, sogno un nuovo Rabin per
vincere la battaglia della pace.

La tattica del «souk»
«Mi sia consentito – ha detto ALDA SEGRE al termine dell’incontro rivolgendosi
all’intervistatore – aggiungere tre osservazioni. La prima: mi ha stupito,
positivamente, che lei abbia parlato di Israele e non di “terra santa”. Per
noi, ebrei, questo è l’approccio giusto. Parlare di “terra santa” può portare a speculazioni.
Seconda: non so fino a che punto le nostre idee su Israele possano interessare
gli italiani: stando ai mass media, essi sono più interessati alla chiesa
di Betlemme, alla Madonna che è stata colpita, ai frati che fanno la fame, ecc. E
si dimentica il dramma dei palestinesi che stanno intorno.
Ultima considerazione: dobbiamo guardarci dal voler risolvere il “problema palestinese”
con la mentalità europea, mentre in loco predomina quella araba. L’arabo
si comporta diversamente; usa la tattica del souk (mercato): si annuncia il
prezzo, che poi viene scontato una, due, tre volte… A mio parere, la mentalità
del mercato ha danneggiato anche Arafat nelle sue scelte politiche».

Integralismi alleati
«Anch’io aggiungo qualcosa – ha affermato FRANCO DEBENEDETTI -. Quale
migliore alleato potevano trovare i potenti integralisti islamici se non il piccolo
e miope Sharon?».

Francesco Beardi




DOSSIER: mutilazioni genitali femminili


Circa 130 milioni di donne, soprattutto nel sud del mondo,
sono sottoposte a scioccanti mutilazioni: l’operazione si pratica su
bambine in tenera età. Un atto contro i diritti dell’integrità della
persona. Una sua manipolazione. E la denuncia è doverosa.


Persone in
corpo e anima

Lo scrisse
su Missioni Consolata, nell’aprile 1996, la ricercatrice Anna Bono.

La piaga
riguardava allora 80 milioni di donne, mentre oggi ne investe 130 milioni.
Il dato al rialzo è dovuto a maggiori informazioni acquisite negli ultimi
anni: informazioni non facili, trattandosi di un tabù.

Nel giugno
1996 il Tribunale di Washington riconosceva che l’escissione, ad esempio,
è una persecuzione: quindi motivo sufficiente per concedere asilo alle
donne che lo richiedono.

In Italia
le mutilazioni femminili sono vietate,in base all’articolo 5 del Codice
civile e agli articoli 582 e 583 del Codice penale.

Missioni
Consolata ritorna sul tema con un dossier, perché ritiene che la sua
conoscenza sia fondamentale per debellare la piaga. È una violazione dei
diritti umani.

Secondo la
teologia morale cristiana, «l’uomo è unità»: di qui l’importanza anche del
corpo-soggetto. La persona si apre al mondo attraverso il corpo. Ma, se
l’individuo è corpo, è pure vero che non si identifica con esso. «Il
soggetto umano è il proprio corpo e tuttavia più del proprio corpo»
(Tullio Goffi, Problemi e prospettive di teologia morale, Queriniana,
Brescia, 1976, p. 335).

In nome di
una presunta supremazia (complici tradizioni culturali discutibili),
l’uomo può trattare i suoi simili da oggetto. A fae le spese sono spesso
le donne. Donne ferite, nel corpo e nella mente, anche attraverso le
mutilazioni genitali. Una gravissima manipolazione.

Non
l’unica oggi.

Francesco
Beardi


Storie
drammatiche sulla propria pelle

 E
non sei più come prima


 «Io urlavo come un animale al macello… Non permetterò
mai che le mie figlie possano subire un torto simile» (Aisha). «Sono stata
cucita con spine senza anestesia. La ferita mi bruciava» (Basma). «Ci
hanno dato dei regali: ma con quello che abbiamo patito non sarebbe
bastato tutto l’oro del mondo» (Fatima).

Prende
fiato Aisha, una bella ragazza somala di 30 anni, mentre inizia il suo
racconto percorrendo, a ritroso nella memoria, i ricordi di un evento
traumatico. «Avevo otto anni – continua -, stavo giocando a pallone con
alcune amiche e cuginette, in mezzo alla strada, davanti alla casa di mia
nonna. All’improvviso arrivò correndo mia sorella, Zahra, che disse:
“Vieni, dài, stiamo per essere infibulate…”. Era felice. Ci avevano
detto che era un grande evento e che, per l’occasione, avrebbero ucciso un
pollo e ci avrebbero offerto dei dolci. Quindi mi alzai e, felice, corsi
via con lei. Entrammo in una casa poco distante, dove abitava una vecchia
levatrice. Toccò per prima a mia sorella, di un anno più grande di me. La
donna, con l’aiuto di mia madre e mia nonna, fece stendere la sorella su
una stuoia. Io rimasi nella stanza a fianco, seduta per terra, silenziosa,
come paralizzata. La sentii urlare. Il suo dolore mi sembrava atroce: mi
entrava nelle orecchie e mi impediva di respirare. Ero terrorizzata. Una
violenta ribellione si impossessò di me. Feci per fuggire.

Non capivo
bene che cosa stesse accadendo, ma certamente, regali o no, non volevo
soffrire. “Non voglio più essere cucita” gridai con quanto fiato avevo in
gola. Ma la nonna mi afferrò stretta e, aiutata da una vicina, mi adagiò
su un materasso. Poi si sedette dietro di me e mi tenne aperte le gambe,
come in una morsa. La vecchia ostetrica aveva terminato il lavoro di
ricucitura. Mia sorella ora se ne stava quieta, come un animale ferito,
senza forze e senza volontà, sulla stuoia ancora insanguinata.

Era il mio
tuo. Sentivo crescere la disperazione e la rabbia. In ginocchio, di
fronte a me, la vecchia mi guardava sicura e severa. Con un esperto colpo
di coltello mi tagliò la clitoride e le piccole labbra, senza anestesia.
Allora non si usava ancora; ora sì, in ospedale, dove l’infibulazione è
praticata dai medici.

Furono
minuti indescrivibili: il coltello grondava sangue, mentre io urlavo come
un animale al macello; non capivo perché mi stessero facendo quel male.
Mia madre e mia nonna mi rassicuravano dicendo che stavo per diventare una
donna, che avremmo festeggiato tutti insieme l’evento, che erano
orgogliose di me, della sorella e che, qualche anno dopo, avrei potuto
sposarmi e fare dei bambini.

“Sposarmi?
Fare figli?” domandavo a me stessa mentre mi tagliavano, e pensavo ai
giochi lasciati per strada… Mi cucirono con ago e filo, lasciando
un’apertura sottile per far defluire l’urina e il sangue mestruale. Poi mi
lavarono e disinfettarono con erbe e unguenti. Infine mi legarono le gambe
strette tra loro e mi portarono a casa della nonna, insieme a mia sorella,
dove rimanemmo immobili, distese su stuoie, per due settimane. “La ferita
si deve rimarginare bene – ci spiegarono -; altrimenti, quando
partorirete, si lacererà”.

In quei
giorni arrivarono familiari, parenti e amici a congratularsi con noi.
Portarono dolci e doni, ma a me non interessava nulla: ero mortificata e
scioccata. Mia sorella sembrava invece gradire tutte quelle attenzioni; si
sentiva importante. Io ero piena di rabbia: “Mai – mi ripetevo –
permetterò che le mie figlie possano subire un torto simile”.

Pochi anni
dopo, fui data in moglie ad un uomo molto più vecchio di me… La notte
delle nozze avrei voluto morire. Provai un dolore atroce. Per il marito,
invece, fu un grande onore, una prova di virilità, avere rapporti con una
sposa così cucita. È anche una sicurezza sulla sua fedeltà: con chi altri
potrebbe mai tradirlo?

Rimasi
incinta. Andai in ospedale a Mogadiscio. Là mi aprirono per farmi
partorire, e mi ricucirono. Avevo 14 anni e avevo appena terminato le
scuole. All’età di 18 arrivai in Italia con mia sorella…».

Da 12 anni
Aisha vive in Piemonte con delle connazionali e si prende cura della
figlia. Il marito è in America a lavorare.

A
Mogadiscio ha frequentato, finché ha potuto, scuole italiane, come la
maggioranza delle sue coetanee benestanti, e in Italia si è laureata in
medicina, mentre lavorava come assistente domiciliare per anziani. La sua
attività più importante è quella di sensibilizzare le sue connazionali,
giovani mamme e ragazze, contro la pratica delle mutilazioni genitali,
affinché quelle giovani vite non debbano patire torture atroci in nome
della tradizione e del controllo dell’uomo sulla donna.

Una donna
grossa mi bloccava tra le sue gambe, mentre mi bendavano gli occhi con un
foulard nuovo. Mi hanno operato senza anestesia (sono solo 20 anni che
hanno iniziato ad usarla, ad operare su tavoli e a chiamare un’ostetrica).
Sono stata cucita con le spine. La ferita mi bruciava. Mia madre mi ha
lavata con acqua calda. Dopo aver scavato una buca per terra e deposto
della carbonella con delle erbe che producevano fumo, mi hanno fatta
appoggiare sopra per disinfettare e seccare la cucitura, che è diventata
scura. Ho contratto un’infezione, perché mi sfregavo la ferita: sono stata
male per un mese, avevo la febbre…».

Nonostante
il ricordo ancora vivo della sofferenza causatale da tale pratica, Basma
si dichiara pronta per lo stesso intervento: sua figlia è stata infibulata
e vorrebbe che anche le nipoti seguissero la tradizione.

Per
Fatima l’esperienza non è da ripetersi. «Sono stata circoncisa a sette
anni, insieme ad una sorella di nove. Altro che festa! Quel giorno ho
subìto uno shock che non dimenticherò più. Sono stata operata senza
anestesia, senza niente. Ho sofferto moltissimo. Eravamo sette bambine da
sei a nove anni; c’erano le figlie dei vicini di casa, nel tempo di
chiusura delle scuole. Le donne si erano dette: “Facciamo ciò che dobbiamo
fare, perché le ragazze sono ormai grandi”.

Hanno
chiamato una donna anziana e siamo state operate in una casa vicina. La
prima ad essere sottoposta ai ferri è stata la più piccola, mentre noi
guardavamo terrorizzate, in lacrime. La mamma era fuggita, perché non
voleva sentire i nostri pianti.

Mi
hanno deposta nuda su un tavolo grande, mentre tre donne mi tenevano
legate mani e piedi. Non ho visto con che cosa mi hanno tagliata, se con
un coltello o una forbice (si nascondono gli strumenti, perché la pratica
incomincia ad essere criticata). Mi hanno asportato la clitoride e le
piccole labbra. Poi sono stata cucita con filo, perché eravamo in città, e
non con spine, come avviene in campagna. Il dolore è durato ben sette
giorni. Sono rimasta con le gambe legate (dalla vita fin sotto le
ginocchia) per due settimane. Non si può mangiare… Io sono riuscita a
fare pipì, mentre a mia sorella (che non l’ha fatta per tre giorni) si è
gonfiata la pancia. Ha sofferto di più, perché era più grande.

Mamma e
papà, una volta guarite, ci hanno dato dei regali: ma con ciò che abbiamo
patito non sarebbe bastato tutto l’oro del mondo a consolarci! Per fortuna
non sono sorte infezioni, perché papà ci portava tintura di iodio e
antibiotici.

Prima
dell’operazione correvo, giocavo a pallone, ma dopo non l’ho più fatto.
Mia madre mi diceva sempre: “Attenta, ora sei diventata grande, ti
strappi!”.

Non ero
più libera. Non era più come prima. Mi hanno lasciato un buco
strettissimo. Prima del contatto con l’uomo, le mestruazioni erano molto
dolorose. I primi rapporti sessuali mi hanno fatto schifo. Poi è andata un
po’ meglio».

 



Il parere medico sulle mutilazioni

 Igiene?

C’è ben altro!

 «L’infibulazione
è un rapporto tra schiava


e padrone, dove, in accordo a schemi primitivi,

si dona
tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è zero. Esse non valgono
nulla» (dott. Mascherpa).


«È un rito iniziatico: la donna rimane un oggetto e, nello stesso tempo,
viene allontanata da lei ogni tentazione» (dott. Bracco).



E le conseguenze sono clamorose.


 Abbiamo interpellato il dottor Franco Mascherpa, medico presso la clinica
ginecologica universitaria di Torino, a suo tempo impegnato in Somalia,
sulle mutilazioni genitali femminili.


Dottore, cosa s’intende per mutilazione sessuale femminile?


«Attualmente sono circa 130 milioni le donne che hanno subìto pratiche di
mutilazione sessuale. Sono interventi laceranti, che si effettuano sui
genitali estei delle bambine prepubere.

Sono
possibili tre tipi di operazione. La più diffusa è quella sudanese o
faraonica (infibulazione), che risulta la più mutilante e dà origine a
tanti problemi medici e psicologici. Essa consiste nell’asportazione della
clitoride e delle piccole labbra, nella cruentazione (con incisioni
verticali, scaificare) della parte intea delle grandi labbra, della
parte mediana della vulva e nella cucitura delle labbra. Le tecniche di
sutura sono diverse: nelle zone rurali si possono usare spine di acacia,
tenute insieme da fili di cotone.

La
clitoridectomia (escissione) è meno diffusa: prevede l’asportazione della
clitoride e della parte superiore delle piccole labbra. La ferita non
viene mai suturata, bensì tamponata con erbe. Le bambine vengono fasciate
con le gambe strette.

La
sunnah (circoncisione), diffusa nei paesi arabi, ma anche in Somalia) è
una pratica meno cruenta della clitoridectomia: comporta minori
conseguenze permanenti sul piano fisico. Consiste, nei casi più radicali,
nella asportazione di una parte della clitoride. Nelle varianti minori
vengono prodotte piccole ferite superficiali nella regione paraclitoridea.
Lo scopo di tale pratica è di produrre una fuoriuscita di sangue.
Solitamente viene utilizzato un coltello rituale, oppure una lametta da
barba. Vengono anche impiegate sostanze anestetiche.

Dopo
l’intervento, le gambe delle bambine vengono saldamente legate con fasce
all’altezza delle caviglie, delle ginocchia e delle cosce, e mantenute in
questa posizione per dieci giorni, durante i quali seguono una particolare
dieta. Talvolta cospargono la ferita con una sostanza a base di incenso e
mirra, che ritengono svolga un’azione antisettica e cicatrizzante.

Un
altro aspetto del fenomeno è la reinfibulazione post partum. Una
missionaria mi raccontò che, in Somalia, la praticavano alle donne che
avevano appena partorito per evitare tensioni familiari».

Come
sono considerate le donne non circoncise?

«In
Somalia le donne non circoncise sono ritenute orfane, meticce e fanno di
mestiere le prostitute: questo perché perdono dignità, valore sociale ed
economico; non sono più sposabili e hanno perciò poche speranze di
sopravvivenza. In un paese povero come la Somalia, infatti, le poche
risorse sono legate alla presenza di un uomo. Le donne, se non c’è un
maschio a fianco che abbia qualche attività commerciale, da sole non
possono sopravvivere. Per la stessa ragione vogliono essere sempre
incinte: il marito, che ha mogli sparse qua e là, è più propenso ad
andarle a trovare spesso e portare loro da mangiare. Se la donna è
sterile, rischia di non ricevere mezzi di sussistenza».

In
Occidente consideriamo affascinanti le somale: la loro bellezza, la
fierezza e la sensualità del portamento sembrano giustificare tale
considerazione. Ma come vivono il rapporto con il proprio corpo?

«In
Somalia, come ginecologo e sessuologo, ho cercato di capire come le donne
si rapportavano alla propria sessualità: l’unica risposta che ne ho
dedotto è che essa ha una pura funzione riproduttiva. La loro grande
sensualità non è genitale, perché da quegli organi ricavano solo molto
dolore. Dal punto di vista ginecologico, hanno sempre mal di pancia e
problemi vari. Per loro il benessere non è vivere bene la sessualità nel
matrimonio, bensì avere un marito che le mantenga.

Le
bambine di soli cinque anni, che sanno di essere infibulate, aspettano con
ansia il momento di passaggio all’età adulta. Se una ragazzina grandicella
non ha ancora subìto tale operazione, viene emarginata dal gruppo di
amiche.

Il
corpo della somala è un corpo doloroso. Infatti i racconti sui primi
rapporti sessuali sono agghiaccianti, traumatici: lei si presenta a lui
“cucita”. Sono poche le mogli che, d’accordo con il marito, si fanno
scucire. In genere lui vuole constatare di persona che lei sia chiusa. La
regola è quella del grano di mais: se passa un grano è ben cucita. Da quel
foro fuoriescono urine e mestruazioni, ma con gran ristagno di liquidi.

Al
momento della penetrazione sorgono i problemi: la cucitura deve essere
aperta o con il pene o un oggetto qualsiasi (un coltello, una lametta, la
parte superiore di una lattina di coca-cola).

L’atto
sessuale, più che un rapporto intimo, è un gesto di valorizzazione sociale
delle velleità maschili: io, uomo, la posso penetrare anche se è
difficilissimo. È una prova, mentre alla donna è richiesta una
superverginità. Spesso questa ha il primo rapporto in modo strumentale,
non naturale: vetri, coltelli, forbici, frammenti di latta che lacerano le
suture. Una donna facile da avere è vista come una prostituta, con
sospetto. Una donna non infibulata può essere ripudiata immediatamente. Se
il marito non riesce a deflorare la moglie, può sempre dire di aver
sposato una donna ben cucita, quindi di grande moralità.

In
Somalia si porta ad estreme conseguenze questo aspetto antropologico: “io
sono così preziosa che sono inaccessibile; però quando mi conquisti mi dai
tutto”. È un rapporto tra schiava e padrone, in cui, in accordo a schemi
primitivi, si dona tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è
zero. Esse non valgono nulla.

Se
l’orgasmo femminile è seducente per l’uomo in un contesto occidentale, è
superfluo, negativo, privo di interesse in società maschiliste e sadiche.
“Perché una donna mi deve sedurre? Faccio io quello che voglio di lei.”
Innamoramento, amore non esistono. La donna è un mezzo attraverso il quale
l’uomo realizza la propria discendenza.


Comunque, a livello sessuale, donna e uomo hanno strategie diverse: la
prima deve essere prudente, poiché ne può conseguire una gravidanza; il
secondo invece cerca di sedurre più donne possibile, perché la poligamia è
la forma di famiglia più diffusa nel mondo (come numero di culture, non di
persone). In Occidente si espleta attraverso numerosi rapporti
extraconiugali, che coinvolgono l’80% delle persone».

Ci sono
donne somale che chiedono di essere deinfibulate perché sono fidanzate ad
italiani?

«Dove
sono? Si sposano solo tra loro. Da me arrivano donne con complicazioni
mediche… Un somalo non sposerebbe mai una connazionale, anche se
infibulata, arrivata qui molto tempo fa, perché pensa che abbia ormai
assunto la mentalità occidentale. Tutte le donne che hanno avuto
“contaminazioni” con l’Occidente non si sposano più».

Tutte
le giovani somale in Italia sono qui sapendo che perdono la possibilità di
trovare marito?

«Se non
trovano subito un fidanzato somalo, con il passare del tempo perdono la
propria accettabilità sessuale».

 


 Abbiamo brevemente intervistato anche il ginecologo Roberto Bracco.


Dottore, in certi contesti culturali l’infibulazione è considerata
un’usanza igienica, che rende più bello e pulito il corpo della donna.
Cosa ne pensa?


«L’infibulazione non è una pratica igienica. In tutti i casi che ci sono
capitati, quando abbiamo riaperto la ferita, abbiamo trovato l’assenza
totale di igiene. L’urina e il sangue mestruale ristagnano all’interno
della cucitura».

Come
intervenite?


«Introduciamo una pinza a becco e tagliamo i punti. In certi casi è
necessario operare con anestesia totale».

Come
definire allora l’infibulazione?

«Un
intervento mutilante che, dal punto di vista sanitario, non ha nulla di
igienico. È un rito iniziatico: l’asportazione della parte erettile della
donna. La clitoride, infatti, ha la stessa struttura anatomica dei corpi
caveosi del pene; rappresenta il centro del piacere sessuale femminile,
che viene così ad essere mutilato. Se in un rapporto di coppia si toglie
alla donna la parte di piacere, essa rimane un oggetto e, nello stesso
tempo, viene allontanata da lei ogni tentazione. Il controllo dell’uomo è
così veramente efficace.

La
circoncisione femminile, praticata alle donne egiziane, è invece più
blanda e permette loro di avere una vita sessuale normale.

Nei
casi estremi si può intervenire chirurgicamente con una plastica delle
piccole labbra».

 

La
pratica delle mutilazioni genitali femminili può comportare delle
complicazioni mediche immediate e a lungo termine.


Nell’immediato: shock post-operatorio, infezione locale, setticemia,
tetano, emorragia, lesioni delle vie urinarie e della regione perianale,
ritenzione di urina e infezioni urinarie…

A lungo
termine: proliferazione fibrosa del tessuto, cisti e ascessi, malattia
infiammatoria pelvica, ritenzione di sangue nella vagina e cavità uterina,
defibulazione cruenta al momento della deflorazione e del parto, parto
distocico, fistole vagino-vescicali e rettali post partum, rapporti
sessuali difficoltosi e dolorosi, infezioni uro-genitali ricorrenti…


mancano ripercussioni psicologiche: paura e angoscia infantile,
lacerazione in infanzia/età adulta, senso di inevitabilità del proprio
destino, senso di inferiorità sociale, morale e spirituale della
condizione femminile, disturbi della sfera sessuale, restringimento di
interessi e perdita di intraprendenza, senso di offesa alla propria
integrità psico-fisica, caduta di autostima, malattie mentali (nevrosi
cenestopatica, stati depressivo-reattivi).

 


I dati riportati sono stati desunti dalla ricerca della professoressa
Silvana Borgognini Tarli, docente di antropologia all’università di Pisa,
e della dottoressa Elisabetta Marini, ricercatrice in scienze
antropologiche, pubblicata dalla rivista «Sapere», maggio-giugno 1994.

 

 



Altre dichiarazioni e precisazioni

 Tra
dovere



e vergogna

 


Alia: sono stufa di sentirmi chiedere se approvo o meno l’infibulazione e
se la ripeterei sulle mie figlie… Mariam: l’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna; è una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci…Giovanna: i seni, i glutei e altre
parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse altrettante
forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al maschio o
di tenersi il marito?

 

Alle
donne somale dà spesso fastidio l’interesse dell’Occidente verso
l’infibulazione: sentono una ingerenza nella loro vita, nelle loro
tradizioni, nei loro corpi.

Alia,
studentessa somala, dichiara: «Noi non andiamo a sindacare sulle abitudini
sociali, sessuali o estetiche delle donne europee. Sono fatti loro, come
la tradizione dell’infibulazione è affare nostro. Sono stufa di sentirmi
chiedere se approvo o meno questa usanza e se la ripeterei sulle mie
figlie. L’Occidente non può sempre esportare i suoi valori e il suo
modello di vita agli altri paesi. Credo che ogni popolo vada lasciato
libero di scegliere il suo modello di sviluppo e di seguire le proprie
tradizioni, senza per questo essere accusato di barbarie o di inciviltà».

Di
opinione differente si dimostra Mariam, mediatrice culturale presso uno
sportello sociosanitario di Torino: «Sono contraria alla pratica delle
mutilazioni genitali, anche se l’ho subìta e non me ne vergogno, come
invece accade ad alcune mie connazionali. È parte della nostra cultura e
non c’è da vergognarsene. Anche sul termine “mutilazioni” non sono
d’accordo. Si può condividere o meno l’uso di tale pratica, ma non credo
che si tratti di una mutilazione. Certo, i danni causati sono molti. Da
noi infatti arrivano donne infibulate, che hanno sviluppato seri problemi
clinici e hanno timore di essere visitate, ma anche madri che chiedono
consigli sulla scelta di fare infibulare (o circoncidere) le proprie
figlie.

In
Somalia tutte le bambine sono sottoposte a tale intervento. Vengono
preparate dalle madri ad accettare ciò che dovranno subire come un momento
importante nella loro vita: è un “rito di passaggio” che si manifesta
anche attraverso la festa, i regali e l’aspetto gratificante del
riconoscimento pubblico. Le mamme chiedono alle figlie di non esteare
dolore e pianto, perché altrimenti disonorano la famiglia: infatti la
parte coinvolta del corpo è “vergognosa”, e non può essere menzionata. Il
dolore, dunque, va nascosto, segregato, represso.

Alcuni
fanno ricoverare le proprie figlie in ospedale, affinché l’operazione sia
eseguita in modo corretto e igienico; altri si rivolgono a “mammane”, che
tagliano senza anestesia e in condizioni sanitarie pessime. In entrambi i
casi, tuttavia, la ferita rimane: nel corpo e nella mente. Ed è difficile
da rimarginare. Crescendo sorgono grossi problemi ginecologici, che si
manifestano soprattutto durante i rapporti matrimoniali, la gravidanza e
le mestruazioni. Le donne, qui in Italia, hanno paura di farsi visitare:
temono di essere scucite. A Firenze opera un medico somalo, che con il
laser deinfibula coloro che glielo richiedono.

Prima
della notte di nozze, qualche donna accetta di farsi scucire per evitare
lacerazioni e sofferenze eccessive; ma la maggioranza rifiuta tale
pratica, temendo il giudizio negativo del marito. Si dice che venga a
mancare la sensibilità femminile durante il rapporto sessuale; non è vero.
Ad essere asportata è solo la parte superiore della clitoride. Io ritengo,
comunque, che noi donne abbiamo il dovere di ribellarci a questa pratica.
Dobbiamo dire “no”. Dobbiamo porre fine a tale cultura.

Prima
della guerra civile, il presidente Siad Barre (1) aveva promosso una
campagna contro l’infibulazione, ma con il conflitto tutto è andato
perso…

Le
donne somale in Europa, ad esempio, si pongono il problema se fare
tagliare o meno le proprie bambine e pensano: “Adesso siamo qui e tutto va
bene. Ma, se torniamo nel nostro paese, cosa accadrà alle nostre figlie?
Verranno prese in giro dai coetanei, additate come prostitute e non
troveranno mai marito“.

A
Torino le donne somale sono oltre un migliaio, e sono poche quelle che si
rifiutano di ricorrere all’infibulazione. È sentita come un retaggio
culturale da mantenere.

Io non
l’accetto. Che senso ha? Perché mai è necessaria? Nel passato era forse
usata come una sorta di “cintura di castità”… L’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna. È una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci».

 


 Abbiamo avuto pure l’occasione d’incontrare Giovanna Zaldini, di origine
somala, vicepresidente dell’Associazione torinese Alma Terra.

Ci sono
famiglie, in Italia, che richiedono di infibulare le proprie figlie?

«A
Torino non sono mai state registrate, finora, richieste di
infibulazione/circoncisione.

Chi ha
scelto di emigrare in Italia ha pure scelto di mettere in discussione le
proprie origini e tradizioni, diversamente da chi è stato costretto a
lasciare il proprio paese a causa della guerra. Questa seconda tipologia
di persone si sente più sradicata e non è in grado di operare scelte
contro la propria cultura e tradizione… In ogni caso, se in Italia vi è
stata richiesta di infibulazione, non troverà risposta da parte dei
medici.

Il
problema più evidente è quello delle conseguenze sulla salute delle donne
già infibulate. A livello sanitario nazionale, permane ancora una grande
impreparazione nell’affrontare casi di pazienti infibulate e nel prestare
loro soccorso e cure adeguate. Quando, ad esempio, in ospedale arrivano
delle partorienti infibulate nessuno pensa di scucirle prima del parto. Il
personale sanitario ricorre automaticamente al taglio cesareo.

Inoltre
le donne giovani non si sottopongono a visita ginecologica per paura del
dolore, ma anche perché si vergognano e non si sentono capite dai medici.
Qualcuna ha raccontato di avere provato molto disagio, perché si sentiva
studiata, osservata.

Anche
per questa ragione va posta molta enfasi sulle nefaste conseguenze
cliniche di tale pratica e sulle ragioni che spingono certi poteri ad
infibulare le proprie donne; così facendo, sottopongono queste ultime ad
umiliazioni e mortificazioni ulteriori.

In
Occidente si parla di “mutilazioni” sessuali. Già! Ma i seni, i glutei e
altre parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse
altrettante forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al
maschio o di tenersi il marito? Altrimenti se ne cercherebbe una più
giovane, più bella o più “nuova”…

Il
comune denominatore tra “noi” e “voi” resta sempre la sottomissione al
desiderio maschile. Abbiamo tutte subìto un lavaggio del cervello. Siamo
dipendenti dagli uomini, in un modo o nell’altro, a livello sociale,
economico, psicologico.

Per una
donna somala non essere infibulata significa non trovare marito; per una
occidentale non possedere un bel seno vuol dire non essere neanche
guardata. Per la paura di non trovare un uomo che le sposasse, nel mio
paese erano le bambine stesse a chiedere alle mamme più liberali di essere
cucite.

In
Somalia, durante il 1986-90, è stata portata avanti una campagna di
sensibilizzazione contro l’infibulazione, che non ha inciso molto.
Tuttavia, la massiccia emigrazione porterà per forza al confronto con
altre culture e al cambiamento di mentalità nei confronti di questa
pratica.

Se si
supera l’età più a rischio, che va fino a 12-13 anni, le ragazze saranno
fuori pericolo e le mamme avranno un alibi per evitare loro l’intervento.

Presso
gruppi somali, residenti all’estero da lungo tempo, si è visto come il
fenomeno dell’infibulazione si stia trasformando in un’azione puramente
simbolica, iniziatica (pungere la clitoride in modo che fuoriesca del
sangue), finalizzata alla purificazione».


Come dire: l’incontro fra culture diverse può essere liberatorio.

 

(1)
Siad Barre, presidente-dittatore, fu al potere in Somalia dal 1969 al
1991.

 

 


Mutilazioni
sessuali femminili nel mondo

Sono
circa 130 milioni le donne che, nel mondo, hanno subìto mutilazioni
sessuali: circoncisione (clitoridectomia), escissione, infibulazione.

La
circoncisione consiste nella rimozione del prepuzio della clitoride; tale
pratica, nei paesi arabi che la eseguono, è chiamata anche «sunnah».


L’escissione prevede la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole labbra (interamente o in parte), ma lascia intatte le grandi
labbra e il resto della vulva.


L’infibulazione è la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole e grandi labbra, la sutura delle due estremità della vulva (viene
lasciata una piccola apertura per permettere al flusso dell’urina e del
sangue mestruale di scorrere).

 

Queste
pratiche mutilatorie sono largamente diffuse in Africa, Asia, Mondo Arabo,
America Latina ed Europa.

n
Africa: nella costa occidentale, dal Camerun alla Mauritania, nelle zone
centrali e nel Ciad, nel nord dell’Egitto, in Kenya e Tanzania
(circoncisione ed escissione), in Mali, Sudan, Somalia, Etiopia e nel nord
della Nigeria (infibulazione).

n Asia:
Filippine, Malesia, Pakistan e Indonesia (tra i gruppi musulmani).

n Mondo
Arabo: Emirati Arabi Uniti, Yemen del sud, Bahrain, Oman.

n
America Latina: la circoncisione femminile è praticata in Brasile, in
Messico e Perù (presso gruppi di origine africana).

n
Europa: a causa della numerosa presenza di immigrati provenienti dai
sopracitati paesi, il fenomeno delle mutilazioni genitali, dall’antichità
dov’era sepolto, è ritornato alla luce e interessa una vasta fascia di
donne e bambine straniere. Una nuova tendenza, al riguardo, è stata
introdotta da ricchi africani che portano le loro figlie in Europa per
sottoporle a circoncisione, sotto anestesia e in condizioni
igienico-sanitarie migliori di quelle presenti nei loro paesi.

(cfr.
«The circumcision of women. Strategy for eradication», Zed Books ltd,
London).

 


E il
nostro paese?

 L’
Italia è interessata al fenomeno, insieme al resto dell’Europa, anche se
non è possibile risalire a dati certi e reali: certamente esistono casi
(forse qualche centinaio), dal 1992 ad oggi, di bambine, figlie di
immigrati, che hanno subìto mutilazioni sessuali nel nostro paese o in
patria. Quando i genitori non decidono di accompagnarle al paese
d’origine, le piccole vengono operate qui, in cliniche private o in case,
dove medici italo-somali o personale paramedico eseguono l’intervento.

Per
un’infibulazione la famiglia giunge a pagare oltre 1.000 euro. L’età delle
bambine si aggira tra 5 e 12 anni.

Molto
più alto è, invece, il numero di donne straniere, residenti in Italia, che
sono state sottoposte, anni addietro e nel paese d’origine, a
circoncisione o infibulazione.

Oggi
qui, in terra di immigrazione, manifestano varie patologie, fisiche o
mentali, o semplicemente profondo disagio psicologico.

 

 



Infibulazione: è possibile cambiare?

  

Di
questa pratica, delle sue origini, motivazioni e degli strumenti per
sradicarla totalmente dall’uso comune in molte aree dell’Africa, si è
occupato il seminario internazionale «Mutilazioni dei genitali femminili.
Una questione di relazioni tra uomini e donne», organizzato nel giugno
scorso a Torino, presso il Centro internazionale di formazione, dall’Aidos
(Associazione italiana donne per lo sviluppo). Numerosi gli interventi di
esperte africane (giuriste, psicologhe, medici, sociologhe e
antropologhe), da anni impegnate in prima fila nella lotta contro il
fenomeno.

«ll
nostro intento è quello di promuovere scambi di informazioni e conoscenze
fra le associazioni africane ed occidentali – ha detto Cristiana Scoppa,
dell’Aidos e una delle organizzatrici del corso – e di fornire strumenti
formativi e didattici per facilitare l’opera di prevenzione nei villaggi e
nelle città dell’Africa.


Cerchiamo di aiutare a sviluppare una consapevolezza sulle motivazioni
personali, non solo sociali e tradizionali, alla base del radicamento di
tale pratica. È solo prendendo coscienza di sé, del proprio ruolo di
donna, del proprio valore e dei modelli familiari di appartenenza
(centrati sul controllo della donna da parte del clan familiare maschile)
che è possibile apportare un cambiamento a tradizioni antiche e radicate.

Un
altro aspetto altrettanto importante è quello dell’informazione
nell’ambito sanitario: medici e infermieri, infatti, sempre più spesso in
Italia e a Torino, si trovano di fronte a donne infibulate o escisse, in
procinto di partorire, ed è impensabile che possano operare alla rimozione
della sutura al momento delle doglie. Bisogna intervenire prima,
altrimenti si creano lacerazioni o complicazioni gravi e tanto disagio,
sia per le pazienti sia per i medici».

 

Il prezzo … della
sposa

Le
mutilazioni genitali femminili (mgf) hanno radici lontane e ancora oscure.
Qualcuno le fa risalire ai faraoni di Egitto (circoncisione faraonica),
altri all’antica Roma (in-fibulare, chiudere con fibbia: è l’usanza di
applicare ai genitali estei maschili o femminili fermagli o anelli per
evitare i rapporti sessuali).

Molti
sono gli studi sull’argomento, a livello sia antropologico-sociologico sia
medico-scientifico, che tuttavia non hanno scalfito il silenzio e il
disagio che gravitano attorno a questo diffusissimo fenomeno.

 Scrive
Carla Pasquinelli nella ricerca «Antropologia delle mutilazioni dei
genitali femminili», curata dall’Aidos (Associazione italiana donne per lo
sviluppo): «Dietro questo silenzio ci sono molte cose: c’è un mondo di
donne chiuso su se stesso, un mondo di interni, sospeso tra l’attesa e il
timore di togliare via una parte del corpo delle proprie bambine nel corso
di cerimonie di cui per secoli le madri sono state le grandi registe, e
c’è un mondo esterno, un mondo di uomini che si mantiene estraneo e
distante, e che però su questo disciplinamento dei corpi femminili ha
fondato le proprie strategie di potere. A tenere insieme e dare coerenza a
questi due mondi così distanti tra loro c’è una pratica cruenta, che
stringe in una morsa tutta la fascia dell’Africa subsahariana, e che
costituisce l’espressione simbolica di un complesso sistema economico e
sociale di strategie matrimoniali diffuso in maniera capillare in tutta
l’area.

Si
tratta di un meccanismo di dominio fondato sul prezzo della sposa, cioè
sul compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della
futura moglie in cambio di una donna illibata, il che vuol dire circoncisa
(escissa o infibulata che sia), pronta a rispedirla al mittente e a
riprendersi il compenso versato… se la donna non è operata come si deve.
Il valore di una sposa dipende infatti dalla sua verginità e le mgf sono
una forma di protezione che inibisce nella donna desideri e tentazioni di
rapporti prematrimoniali, ma che soprattutto la preserva e la difende da
violenze e stupri».

 

Fra
tanta incertezza circa l’origine del fenomeno delle mutilazioni genitali
domina una certezza: l’islam non ha nulla a che vedere con la diffusione
in territorio africano di questa antica pratica ad esso antecedente.

Scrive
ancora Carla Pasquinelli: «L’attribuzione che spesso viene fatta
all’islam… è probabilmente dovuta alla facilità con cui si è saputo
adattare al tessuto tradizionale conformandosi al modo di vita locale.

La sua
penetrazione, infatti, è stata resa possibile dalla presenza nelle culture
africane di alcuni elementi (come le strutture patrilineari e la
concezione di Dio fondata su un forte senso di dipendenza), che ne hanno
favorito l’accettazione, permettendogli di radicarsi nel tessuto
tradizionale molto più di quanto non siano riuscite a fare le varie chiese
cristiane che si sono impegnate alcuni secoli più tardi
nell’evangelizzazione del continente africano…

Questo
diverso atteggiamento della religione islamica e di quella cristiana si
riflette anche nella percentuale di donne sottoposte alla mutilazione dei
genitali nei due contesti. Le cifre parlano chiaro: mentre in area
cristiana (dove predomina la clitoridectomia) le percentuali oscillano tra
il 20 e il 50, in area islamica (in particolare nel Coo d’Africa, dove
l’infibulazione è di rigore) si toccano punte che vanno dall’80 al 100%.

Con il
tempo l’identificazione dell’islam con la tradizione indigena non ha fatto
che rafforzarsi, a tal punto che è stato il maggior responsabile della
diffusione delle mutilazioni genitali femminili fuori dell’Africa,
esportandole tra l’altro in Indonesia e Malesia».

 

Bibliografia

– The
circumcision of women, a strategy for eradication (a cura di Olayinka
Koso-Thomas), Zed Books Ltd, London


Antropologia delle mutilazioni dei genitali femminili, una ricerca in
Italia (a cura di Carla Pasquinelli), Aidos


Special needs of ritually circumcised women patients (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein – Evelyn Shaw), in «Jognn, principles & practice»


Figlie d’Africa mutilate. Indagini epidemiologiche sull’escissione in
Italia (a cura di Pia Grassivaro Gallo), Editrice L’Harmattan Italia, 1998

– Nous
protégeons nos petites filles (a cura de la «Prefecture d’Ile-de-France»)

– Il
corpo offeso, in «Sapere», 1994

– The
sexual esperience and marital adjustment of genitally circumcised and
infibulated females in the Sudan (a cura di Hanny Lightfoot-Klein), in
«The Joual of sex research», 1989


L’histornire de Fatoumata (a cura di «Campagne pour l’éradication des
mutilations génitales féminines»)


Mutilazioni dei genitali femminili. Una questione di relazioni tra uomini
e donne, diritti umani e salute (convegno), Torino, luglio 2001, OIL


Figlie d’Africa mutilate, anche in Italia (convegno), Torino, febbraio
1999


Infibulazione tra diritti umani e identità culturale (a cura del CSA,
Centro Piemontese di Studi Africani, Associazione Frantz Fanon, Istituto
Avogadro), Torino 1998


Pharaonic circumcision of females in the Sudan (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein), in «Medicine and Law», 1983


Observation ethnopsychiatrique de l’infibulation des femmes en Somalie (a
cura di Michel Erlich) in «Terrain Ethnologique»

– La
lunga marcia delle donne contro l’infibulazione, in «Tam Tam», 1995

– Waris
Dirie, Fiore del deserto. Storia di una donna, Garzanti Editore, 2000


L’excision hors la loi (a cura di Karine Sidibe), in «Le Temps de
l’Afrique noire», novembre 1996

– La
salute delle donne e le mutilazioni sessuali: un problema della società
multietnica (a cura di Elisabetta Cirillo), in «Politica del Diritto»,
marzo 1992

Angela Lano




IL BUON SAMARITANO… COMUNISTA

Ho letto «la parabola di Luca».
Pensate che il vostro mensile
sia letto da imbecilli? No. La parabola
del buon samaritano è stata
stravolta da GIANCARLO TELLOLI, proponendo
come esempio un comunista.
L’autore della lettera conosce forse
molto poco di quanto è successo
in Russia dal 1917; non conosce o fa
finta di dimenticare cosa sta facendo
oggi la Russia, zitta zitta, in Cecenia,
massacrando un popolo che
chiede solo l’indipendenza. Peccato
che Missioni Consolata non scriva un
articolo (naturalmente onesto) sulla
situazione cecena!
Caro Giancarlo, senza guerra, sotto
il comunista Stalin furono uccisi
e torturati milioni di persone: legga
il libro da poco pubblicato sul «comunismo».
Mi stupisco che Missioni
Consolata pubblichi lettere come la
sua, che io definisco demente, e non
quelle che dicono la verità.

Quante lettere sono state cestinate
da Missioni Consolata? In che cosa consisteva
la loro verità?… Alla Cecenia la
nostra rivista ha dedicato ben due dossiers,
scritti da B. BALESTRA, esperta di
problemi russi: documentano una tragedia
di enormi proporzioni, con atrocità
commesse dai soldati russi e dai
guerriglieri ceceni (Missioni Consolata,
marzo 2000 e marzo 2001)… Abbiamo
pure denunciato l’invasione sovietica
dell’Afghanistan (Ivi, dicembre 1989).
«Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gerico»
(Lc 10, 30). Ma a Kabul…

GIOVANNI VIOTTO