Storie di barboni e volontari

BARTOLOMEO NON HA LE CHIAVI

ERA UNA SERA D’INVERNO
Alcolisti, malati di mente, ex-carcerati, malati di Aids e da qualche anno anche tossici e immigrati. Il mondo dei «senzafissadimora», meglio conosciuti come «barboni», è sempre più popolato. E sempre più difficile da gestire.

QUANDO ESMERALDA URLAVA
Sul finire degli anni ’70 appartenevo
a una parrocchia che gestiva
una mensa in cui andavano a mangiare
i poveri. Lì mi occupavo di anziani
e malati. Un giorno, andando
in Fiat (dove lavoravo come operatore
sociale), mi imbattei in una
donna. Era sporca, vestita malamente,
scalza, scarmigliata e urlante.
E la gente, vedendola, scappava.
Quello che più mi colpì non era
tanto lo stato della donna, ma proprio
il vedere che la gente scappava.
E allora, mi chiesi, dovrei scappare
anch’io? Mi avvicinai sorridendole.
Lei smise di gridare. Disse di
chiamarsi Esmeralda. Le domandai
perché gridasse e lei mi rispose in
piemontese: «Grido al mondo la
mia disperazione». L’accompagnai
in un bar a mangiare qualcosa e mi
raccontò la sua storia di donna dimessa
da un ospedale psichiatrico.
Poi, assieme, facemmo uno strano
itinerario: dalla stazione di Porta
Nuova alla mensa del Cottolengo,
dove incontrammo tante persone
come Esmeralda.

BARTOLOMEO
AVEVA 54 ANNI

L’associazione «Bartolomeo &
C.» è nata 23 anni fa, precisamente
in una notte d’inverno del 1980. Andavamo
in giro a fare la ronda, cioè
a cercare i nostri amici barboni e
perché non gelassero portavamo loro
panini, coperte e roba calda.
Quella sera non trovammo Bartolomeo
al suo solito posto, nella
stazione di via Fiocchetto. Così cominciammo
a cercarlo, fino a che
arrivammo nel centro storico di Torino
in via Conte Verde, vicino al
Duomo, dove sorgeva una casa diroccata
nella quale Bartolomeo
qualche volta si rifugiava.
A un certo punto inciampai in un
mucchio di cartoni e nylon e, mentre
cercavo di rialzarmi, vidi spuntare
un piede. Allora chiamai i ragazzi,
togliemmo i cartoni e sotto
trovammo il cadavere assiderato di
Bartolomeo. Bartolomeo aveva 54
anni. Noi che non avevamo ancora
scelto un nome per il nostro gruppo,
quella notte decidemmo di chiamarci
«Bartolomeo & Compagni».
Quell’evento fece definitivamente
maturare in noi la scelta di continuare
a cercare queste persone
chiamate popolarmente «barboni»,
aiutandoli in primis conquistando
la loro fiducia e poi elaborando dei
programmi per loro. Ad esempio la
reiscrizione anagrafica, in modo tale
che potessero riacquistare un’identità,
visto che molti di loro erano
stati «cancellati» dall’anagrafe e
vivevano nel totale anonimato.
Chiedemmo alla polizia ferroviaria
il permesso di transitare in stazione,
per contattare la gente che di
lì transita. Aprimmo un ufficio all’interno
della stazione centrale, poi
affittammo alcune stanze, dove collocammo
i malati di mente e successivamente
i malati di Aids.
All’epoca a Torino i dormitori
erano molto pochi, alcuni in situazioni
davvero allucinanti. La città
allora non garantiva quasi niente e
quindi cominciammo a rompere le
scatole al sindaco del tempo, Diego
Novelli, che si rivelò sensibile a
queste problematiche, tanto che mi
chiamò ad andare a lavorare all’ufficio
per i «senzafissadimora», nato
nel 1981. Poi venne aperta la casa
di accoglienza di via Marsigli a cui
fecero seguito tanti altri interventi
sul territorio.

L’AUMENTO
DEI «NUOVI POVERI»

Nel 2001 alla porta della Bartolomeo
& C. hanno bussato 220 nuovi
casi. La stragrande parte sono
maschi (90,53%), l’85,26% disoccupati,
il 3,16% occupati e l’11,58
pensionati. Sono malati di mente,
malati di Aids, immigrati, alcolisti,
ex-carcerati, qualche transessuale.
Il 52,41% sono single, circa il 30%
divorziati o separati, ma il 10% è
sposato. Gli analfabeti sono solo
l’11%, mentre il 45% ha fatto la
scuola media e il 15,26% le superiori.
Sotto il profilo dell’età prevale
la fascia che va dai 30 ai 60 anni
(circa il 60%) ma stanno crescendo
i giovanissimi e gli anziani.
Soprattutto i nuovi poveri hanno
poco a che vedere con i barboni tradizionali.
Il panorama è molto cambiato.
Il barbone tradizionale, il
classico «clochard», è quello che dà
meno problemi, ma sono rimasti
davvero in pochi. In questi ultimi
anni ci troviamo di fronte a persone
molto più giovani e sempre più
«sballate» psicologicamente. Tossici
molto più cattivi, arrabbiati; gente
carente di valori, che ammazza
per un nonnulla. Assistiamo all’aumento
dei sieropositivi, dei tossicodipendenti,
di quelli che abusano di
droga e alcornol.
Troviamo residui di vecchia immigrazione
meridionale che si associano
agli extracomunitari, delinquono
insieme, danno vita a
clan. I vecchi barboni vivono sempre
peggio, spiazzati dai nuovi poveri,
che magari rubano loro il sacco
a pelo e le scarpe. La caratteristica
di questa nuova povertà è
proprio l’assoluta mancanza di valori:
vogliono tutto subito.
C’è gente davvero difficile, magari
con più problemi: buca, batte
e beve. Poi c’è il problema dei malati
sieropositivi e quelli in Aids
conclamato. Casi cronici in cui la
prevenzione non serve più ed è
molto difficile fare capire loro la
necessità di seguire una serie di
norme.

PRECIPITARE
NELLA POVERTÀ

Abbiamo persone che vivono da
barbone ma senza esserlo, persone
che provengono da famiglie disgregate;
e poi immigrati. Decine e
decine di casi di persone normali
precipitate nella povertà. Le cause
sono molteplici, spesso disgregazione
familiare. Gente di buona famiglia,
che però in famiglia non si
ritrova più.
Abbiamo incontrato un ragazzo
di 16 anni che diceva di non sentirsi
giovane: «A casa nessuno mi parla,
nessuno mi vede e nessuno mi
ascolta». Il padre sempre in giro
per lavoro, la madre pure lei assente,
impegnatissima tra bingo, canasta
e amiche. E lui che fa? Non sta
in casa, è pieno di problemi, i genitori
gli danno tanti soldi, ma non sa
come usarli e così viene da noi ad
elemosinare la merenda per poter
parlare.
C’è un signore di mezza età, che
faceva l’agente di scorta a un importante
uomo politico, poi un
giorno molla tutto, lavoro e famiglia,
per approdare a Torino a fare
il barbone. Ora è stato recuperato,
è diventato un operatore della Bartolomeo
& C.. Fa le commissioni e
aiuta me e i volontari.
Esistono anche i poveri da usura.
C’è una donna di sessant’anni, che
faceva la manager e aveva parecchi
attici. Poi l’usura l’ha devastata fino
a condurla sul lastrico. L’esaurimento,
l’insorgere di problemi
mentali, il baratro. Oggi è riuscita
ad avere una casa popolare. Si è rimessa
in quadro, ma vive sempre
con il terrore di rincontrare i suoi
ricattatori. Ci siamo sempre occupati
non solo di assistenza, ma di
promozione. I risultati li abbiamo
avuti grazie a interventi efficaci che
hanno permesso a queste persone
di ristabilirsi psicologicamente e
che adesso ci aiutano a lavorare con
gli altri.
Noi pratichiamo la filosofia del
«dare la canna da pesca e non il pesce». Ai nostri assistiti offriamo dei
lavoretti e, quando hanno qualche
soldo, li accompagniamo in banca
per aprire un conto, imparare a gestirsi,
non spendere più di quello
che hanno, ecc… Hanno bisogno di
essere supportati e seguiti. Hanno
difficoltà ad alzarsi al mattino, a rispettare
i tempi. Ma se una persona
ha problemi di mente, non può
stare nei tempi perché è fuori del
tempo.
Quando vediamo che una persona
ha delle potenzialità, allora la
collochiamo nelle case e, quando
sono in grado di gestirsi da soli, allora
li aiutiamo ad ottenere una casa
popolare, il lavoro se si può, in
modo tale da conquistare una certa
autonomia.

QUEL CADAVERE
NELLA CELLA FRIGORIFERA

Alla vigilia di Natale del 2001 fui
chiamata dall’ispettore di un commissariato
di zona, perché avevano
in frigo una persona da 12 giorni e
non sapevano chi fosse. Così andai
alle celle mortuarie dell’ospedale
delle Molinette.
Aveva 35-40 anni. Lo avevano
trovato morto d’infarto davanti al
supermarket delle Molinette e ancora
non erano riusciti a dargli un’identità.
Colpisce vedere che in una
città pullulante di fermenti positivi,
si possa morire nell’anonimato. C’è
gente che se ne va, in silenzio. Sono
tutti «caduti» sul fronte della nostra
indifferenza.
A Torino ci vuole una casa di
pronta accoglienza, aperta 24 ore su
24, gestita dal Comune e dai volontari
insieme. Un luogo che possa essere
un punto di riferimento per
tutti quelli che di giorno e di notte,
se hanno freddo, possano stare lì a
giocare a carte, a farsi la barba, ad
usufruire di una certa rete di servizi.
Questo posto oggi non esiste.
Le persone continuano a girare da
un dormitorio all’altro. C’è gente
che non ha un luogo dove andare
per cambiarsi e lavarsi. Uno dei nostri
va a stendersi le mutande nel reparto
dialisi dell’ospedale Mauriziano!
E poi non c’è continuità sui
casi.
Se una persona viene accolta dal
Comune o dai servizi per l’emergenza
freddo, dopo tre mesi questa
va fuori e più nessuno la segue. Se
non è in grado di pagarsi una pensione
per dormire o se non è in grado
di comprarsi da mangiare, come
fa? L’intervento oggi non è adeguato
ai bisogni delle persone.

DALLA PARTE
DEGLI «ULTIMI»

A queste persone manca la casa e
il lavoro, ma anche tutta una vita
di relazione: non sanno come vivere
il tempo «libero» e, quando sono
in crisi di identità più profonda,
mancano dei referenti che siano in
grado di gestire questi momenti,
aiutandoli ad avere ancora voglia
di vivere, curarsi, riacquistare
un’autonomia. Troppe volte queste
persone non trovano risposte.
Ogni giorno alla «Bartolomeo &
C.» arrivano persone che ci interpellano
come pugni sullo stomaco.
Penso allora a tutti coloro che riempiono
le sedi dei partiti, delle chiese,
delle associazioni e mi chiedo come
mai così tanti tra loro sono prigionieri
di chiusure mentali e
pregiudizi. Penso a quanto disagio
in meno ci potrebbe
essere, se ci fosse meno
burocrazia nell’applicazione
delle leggi.
Oggi si parla molto di
qualità della vita, ma attorno
a noi si respira
ancora troppa intolleranza
verso i problemi
degli «ultimi». Non è
solo colpa dello stato.
Ogni cittadino dovrebbe
avere il coraggio di
guardare in faccia la realtà,
perché tutti siamo in colpa
se il disagio aumenta. E come
aumenta!

NON RIMANERE
SPETTATORI

Non bastano le scelte politiche,
sociali, culturali, se
non c’è la scelta e una risposta
dentro noi stessi.
Non fare da spettatori, ma
chiedersi cosa stiamo facendo
concretamente per gli altri. Il
nostro è un tentativo quotidiano
fatto di limiti, ma anche di
atti concreti di condivisione.
Che cosa ha fatto Cristo per
gli emarginati? Cristo nasce
da emarginato, le prime persone
che incontra sono i pastori,
non i re. Chiude la sua
vita tra i ladroni.
Noi che lo vogliamo seguire
dobbiamo vederlo e scoprirlo
negli altri. Signore, quando ti
abbiamo visto? Tu eri nell’alcolista,
nel malato di mente,
in quell’amico che si buca…
Se il nostro fratello non ce
la fa da solo a portare la
croce, noi abbiamo il dovere
di aiutarlo.
È ora di smetterla di essere
spettatori. Occorre
diventare protagonisti attraverso
il nostro impegno
concreto e quotidiano.

UN RIPARO, UNA PANCHINA, UN BICCHIERE DI VINO
di Enrica, volontaria della «Bartolomeo & C.»
Al mattino Bartolomeo viene svegliato da svariati
fattori: la voce di un passante, la pioggia
che s’insinua tra le sue coperte, un clacson di
un’auto, l’abbaiare di un cane. Per lui le operazioni
del risveglio sono velocissime. È sufficiente alzarsi
in piedi e sistemare le proprie cose, preparandosi
a… spostarsi.
Bartolomeo difficilmente ha un luogo di lavoro da
raggiungere, raramente delle occasioni fisse d’incontro
con altri. Bartolomeo non ha bisogno di portare
un orologio al polso.
La sua giornata ha come sole tappe costanti i pasti.
Bartolomeo sa che, per poter fare colazione, può
recarsi dalle suore o in altro luogo ove viene somministrata
tra le 8 e le 9. Per avere un piatto di pasta
bisogna andare invece in corso «buonappetito»
tra le 12 e le 13, mentre la tazza di latte serale viene
servita in via «buonanotte» dalle 19 alle 20.30.
Se ha fame, si recherà in quei posti a quelle ore. Se
non ci andrà nessuno se la prenderà con lui.
Durante il resto della giornata Bartolomeo vaga
per la città. Gli incontri con i compagni di strada
sono solitamente casuali. Bartolomeo si reca ai
giardini, perché sa che lì può trovare
il suo amico e bere insieme un bicchiere
di vino di poco costo, comprato
nel supermercato. Se non c’è
da bere, forse potranno fumarsi una
sigaretta. Tuttavia, se quel giorno
Bartolomeo non andrà ai giardini,
nessuno lo cercherà né si preoccuperà.
Nel suo girovagare egli può trovare
un quotidiano abbandonato su una
panchina e trascorre un po’ di tempo
nella lettura. Se è fortunato, può
commentare le vicende politiche
con un’altra persona, appena conosciuta
su quella stessa panchina.
Qualche volta, se ha contatti con i
servizi sociali, Bartolomeo va dall’assistente
sociale. Nella sua mente
le cose pratiche occupano uno
spazio piccolissimo. Tutto il resto è
lasciato… a che cosa? Proviamo ad
immaginare. Bartolomeo osserva le
cose che capitano: la lite tra due
persone, l’incidente stradale. Dentro
di sé le commenta.
Bartolomeo ricorda il suo passato,
forse ha trascorso anni diversi, nei
quali la sua giornata era simile a
quella di una persona «normale»,
con una casa e un lavoro. Forse li
rimpiange, forse no.
Bartolomeo presta una grande attenzione
al cielo, ai mutamenti meternorologici.
Per lui è importante che
non piova.
Èsera ormai. Bartolomeo stende
le sue coperte in un luogo riparato.
Se fa molto freddo deve bere
del vino, forse molto vino, altrimenti
per lui è impossibile prendere
sonno. Riesce a crearsi un suo
spazio, con le sue cose tutte ammassate
attorno a lui e alla fine …
si addormenta.

Lia Varesio




Storie di barboni e volontari

COSÌ VICINI, COSÌ LONTANI
Incontrare, conoscere e aiutare i «senzafissadimora»
non è facile. La loro realtà è fatta di fame, freddo,
malattia, solitudine. Ma quando l’obiettivo è raggiunto,
la soddisfazione è veramente irripetibile.

LA SOLIDARIETÀ
COME DENOMINATORE

Svolgo l’attività di volontaria alla
«Bartolomeo & C.» da parecchi
mesi, ed è un’esperienza meravigliosa
dal punto di vista umano.
Grazie ad un’introduzione graduale
ed attenta, non ho avuto esperienze
traumatizzanti. Sicuramente
sto imparando a conoscere realtà a
me sconosciute, anche se vecchie
come il mondo e più diffuse di
quanto non si creda.
Sono venuta in contatto con un
mondo fisicamente così vicino al
nostro, eppure così lontano. È vicino
perché lo incontriamo nelle stesse
strade del centro dove ci rechiamo
a fare shopping, al cinema o al
ristorante; al tempo stesso è così
lontano, perché presenta problemi
di fame, freddo, malattia e solitudine,
che neppure immaginiamo.
Essere volontari alla «Bartolomeo
& C.» è un’esperienza di amicizia e
scoperta reciproca, sia nei rapporti
con gli altri volontari che in quelli
con gli utenti. I rapporti con gli altri
volontari sono improntati alla disponibilità
e all’avere un denominatore
comune: la solidarietà. Il rapporto
con gli utenti è segnato in
prima battuta dalla curiosità reciproca
e subito dopo dall’affetto, dal
sentire che siamo importanti gli uni
per gli altri. E come tutte le esperienze
di volontariato, si riceve molto
di più di quello che si dà. Alle volte
un sorriso ed uno sguardo ripagano
la levataccia al «Bivacco»
(nome della casa di accoglienza,
ndr), la domenica mattina: ci si è alzati
presto ma ne valeva la pena.
Ho conosciuto G. al pranzo organizzato
a Foo di Coazze il
giorno di Pasqua. Ero seduta a tavola
con lui. Mi ha confidato di essere
un ex-alcolista, e per questa sua
condizione di «ex», che aveva faticosamente
raggiunto dopo molto
tempo, non avrebbe toccato il vino
a tavola.
Mentre G. mi parlava delle sue
esperienze, mi ha confidato di aver
scritto un libro di poesie, durante
gli anni bui trascorsi in manicomio.
Alla fine della giornata, quando ci
siamo salutati, mi ha promesso che
mi avrebbe regalato una copia del
suo libro. Il sabato successivo è arrivato
in via Sacchi con il libro impacchettato
in una carta a fiori con
un nastro rosa, e un bigliettino di
accompagnamento: un’immagine
che non dimenticherò mai.
Nel libro ci sono i momenti più
bui di quegli anni della sua vita:
paure, amori non ricambiati e tanta
solitudine. Poi, quando gli si è dischiuso
davanti un mondo diverso,
fatto di amicizia e solidarietà, è stato
come un raggio di sole in una
giornata scura.
Per quanto mi riguarda, ancora
una volta, ho avuto la dimostrazione
che facendo volontariato si riceve
più di quello che si dà. Come l’affetto
di una persona quasi sconosciuta.
PAOLA C.

PRIMO: NON GIUDICARE
Nella nostra società orientata al
successo, al profitto, ai risultati immediati,
esistono persone (e non sono
poche) che lottano per ottenere
una brandina in un dormitorio, un
piatto di pasta in una mensa, un
paio di scarpe e un paio di pantaloni
usati in un centro di accoglienza.
In questi anni di volontariato alla
Bartolomeo ho scoperto un mondo
nuovo, quello sopradescritto, composto
dagli ultimi, dai dimenticati,
dagli emarginati, da coloro che possono
contenere tutti i loro beni materiali
in una borsa di plastica.
Come ogni realtà nuova va scoperta,
non guardandola furtivamente
dall’esterno, ma immergendosi
in essa: parlando con i senzafissadimora,
mangiando con loro,
ascoltandoli.
Dal contatto con loro ti accorgi
che dietro al degrado fisico, all’abbandono
delle convenzioni sociali,
si nasconde una persona, con le sue
emozioni, le sue giornie, i suoi dolori,
i suoi desideri, la sua capacità di
sorridere, di riflettere, di entusiasmarsi.
In una parola, la sua voglia
e volontà di vivere.
Forse la vita con loro è stata dura
o forse sono stati loro eccessivamente
duri con la vita: comprendere
ciò è difficile, il più delle volte impossibile.
In ogni caso non è nostro
compito giudicarli per quello che
hanno fatto, ma accoglierli per
quello che sono.
È così che può uscire una carica
inesauribile di umanità, uno stimolo
alla vita che raramente si trova altrove.
PIERO
RESTITUIRE SPAZIO E TEMPO
Tra le molteplici attività della
«Bartolomeo & C.», esperienza
fondamentale è l’ospitalità nottua
presso il «Bivacco», casa di accoglienza
dotata di 20 posti letto
destinati ad un’utenza maschile. Si
tratta di una struttura privata, gestita
unicamente da volontari. Gli
ospiti, dopo un colloquio preliminare,
sono inseriti in un ambiente
dove possono ricevere un ricovero
notturno, provvedere all’igiene personale,
consumare il pasto serale e
la colazione, cambiare e lavare gli
abiti, ricevere la visita di un medico
e seguire le terapie necessarie, lasciare
in deposito un numero limitato
di bagagli, accedere a sale provviste
di attrezzature ricreative dove
incontrare gli altri utenti e trascorrere
in loro compagnia la serata.
Il Bivacco, tuttavia, non rappresenta
solo un indispensabile servizio
finalizzato all’emergenza, ma un
primo passo verso la ricostruzione
di un’identità personale, perduta
nella deriva sociale di cui la persona
senzafissadimora è stata protagonista.
La mancanza di un reddito,
l’esclusione sociale, l’estraneità
agli stili comportamentali della cultura
dominante hanno infatti come
conseguenza non solo l’assenza o la
perdita di una casa intesa come edificio
fisico o materiale (protezione
da agenti estei, punto di rifoimento,
luogo di reperibilità), ma il
venire meno della propria identità
nello spazio e nel tempo.
Nel procedere verso l’emarginazione,
lo spazio urbano vissuto dal
senzafissadimora si limita alla mappa
dei luoghi anonimi ed impersonali
dove egli mangia, riposa o
aspetta un aiuto. Ciò produce una
capacità di orientamento dettata
unicamente dalla ricerca di una sopravvivenza
minimale, ma contemporaneamente
costituisce nel territorio
cittadino un punto di riferimento
residuale o alternativo all’abitazione.
Anche la prospettiva temporale si
contrae. L’unica dimensione disponibile
è il presente, l’unico margine
d’azione è la reazione immediata alle
provocazioni del momento, il futuro
non è altro che il susseguirsi di
situazioni alla cui costruzione il soggetto
non si sente chiamato a partecipare.
Il Bivacco diventa allora un luogo
concreto dove la persona può
sperimentare ruoli o relazioni altre
rispetto a quelle della strada, recuperare
la propria storia in un ambiente
disposto all’ascolto, frequentare
uno spazio di socializzazione
contrapposto alla misantropia
od al ripiegamento su di sé, riavvicinarsi
agli affetti spesso soffocati
dalla diffidenza o dall’opportunismo
che caratterizzano la sua esistenza
quotidiana.
L’accoglienza al Bivacco è quindi
centrale, perché ci offre la possibilità
di non limitare il nostro intervento
alla distribuzione di beni o a
prestazioni di tipo assistenziale; essa
pone le basi di una progettualità
che possa aprire ai nostri amici la
dimensione del futuro, a loro troppo
spesso negata.
PAOLA O.

Una testimonianza da Volgograd (Russia)
LE PATATE DI MIKAIL, IL FUNERALE DI NINA
Storie di barboni raccontate da un volontario della «Giovanni XXIII».
di Marco Giovannetti
Volgograd. È la veglia della notte di pasqua. La
chiesa è quasi piena e alla fine di ogni lettura il
sacerdote invita i fedeli a testimoniare come Dio sia
presente nella loro vita. Fino a quel momento solo
qualche timido tentativo, forse banale e scontato.
Mi giro, guardo Mikail che mi strizza l’occhio. Poi
si alza e comincia a parlare.
È un giorno qualunque e Mikail sta per andare al
lavoro, ma una telefonata di un amico gli comunica
che c’è la possibilità di avere delle patate. Mikail
è confuso, pensa e ripensa. La sua famiglia ha bisogno
di quelle patate, ma il rischio è quello di tardare
al lavoro. Mikail decide di mettere al primo
posto il bisogno della sua famiglia, di suo figlio, di
sua moglie, ma non sa che questo lo stato non glielo
perdonerà. Così si avvia in auto, a fianco la moglie,
dietro il figlio e lo zio, davanti a sé la tragedia.
Mikail ha un incidente, i passeggeri muoiono tutti.
Mikail è l’unico a rimanere vivo; sarà poi lo stato
ad ucciderlo.
Mikail non è colpevole, l’incidente è casuale, ma
questo allo stato non interessa. Sarà giudicato per
il ritardo al lavoro. La condanna: 15 anni di prigione.
Mikail ha perso tutto. Scontato il carcere, si reca
dai genitori, l’unico legame familiare rimasto, ma
nel corso di quei 15 anni sono morti e nessuno si
era mai preso l’incarico di comunicarglielo. Da quel
momento in poi la sua vita sarà sulla strada.
Non ha più nulla, né affetti, né casa. Ha perso la dignità
e la fede. Mikail non crede più in Dio: se Dio
esistesse, non permetterebbe tanta sofferenza; è
impossibile, non può essere. Mikail è sicuro: Dio
non esiste.
In chiesa, il silenzio. Mikail ripete che Dio non esiste
e davanti a questa storia nessuno si permette
di ribattere. Forse anche il sacerdote si rende conto
che dire a Mikail «Dio ti ama», non basta.
Mikail continua il suo discorso. Parla del nostro incontro
ed io mi commuovo. Non ce la faccio a trattenermi.
Parla della dignità ritrovata, della famiglia,
del rispetto, della speranza… Guarda dritto
il Cristo inchiodato e dice: «Ora so che Dio esiste».
È questa la pasqua qui a Volgograd, nel
sud della Russia, dove sono tre anni che
vivo come volontario della «Comunità
papa Giovanni XXIII».
Quante storie, quanti volti, ognuno
importante, unico, irripetibile.
Sguardi, sorrisi, pianti, lutti, speranza,
impotenza, tutto custodito nel profondo
del cuore, come una ricchezza inestimabile.
Ho il ricordo nitido di ogni incontro anche
se è durato pochi minuti, intensi, forti…
come un pugno allo stomaco. Ho visto
tanti amici morire. Molte volte il pezzo
di strada fatto insieme è stato verso la morte.
La fatica di sopportare quei momenti di silenzio,
fatti solo di uno sguardo in cui ti dici tutto. Per certe
cose le parole non servono, come con Nina.
Quante volte ci siamo guardati ed io ho capito che
tu non avevi più voglia di lottare, ma mi chiedevi di
accompagnarti verso la morte, in maniera dignitosa,
da essere umano.
Che fatica, cara Nina. Che fatica accettare la tua
rassegnazione, che male mi ha fatto pensare che
forse era ormai troppo tardi. Proprio tu che sbandieravi
il tuo essere «barbona» con orgoglio davanti
a tutti; tu che accostavi quella condizione a parole
come libertà, scelta, felicità. Sempre accompagnata
dalla tua amica bottiglia, che però non è
stata in grado di farti sentire amata, ma ti ha aiutato
a dimenticare, a non pensare che tu, quella vita,
non l’avresti mai scelta.
Ricordo il giorno del tuo funerale. Eri bellissima, ti
avevamo vestita come a te piaceva e non solo, per
te si sono aperti quei cancelli che ti hanno visto viverci
davanti per 15 anni. Mai ti avevano permesso
di entrare in chiesa: a te era vietato, non ne eri
degna.
Ma forse, nel giorno più bello della tua vita, il Signore
ha fatto capire a tutti che siete voi ad aprirci
il Regno ed io l’ho capito nel momento in cui eravamo
dentro alla chiesa ortodossa, cattolici e ortodossi
vicini, insieme, uniti da te, angelo di Dio,
dalle ali sporche e l’abito stracciato.
Veglia su di noi, cara Nina, insieme a tutti coloro
che ora vestiti di Luce, ci guardano da Lassù.
Sono questi gli incontri qui a Volgograd, quando
andiamo in strada a portare un panino con un
thé caldo e a condividere la vita di persone emarginate,
sbattute fuori dalle mura di questa società.
La nostra casa, che si trova fuori città, in un quartiere
povero, non ha mura che dividono. Al contrario,
accoglie chi vuole condividere con noi un
po’ della propria esistenza.
Ora siamo in 8 e la nostra vita è
molto semplice. Siamo una famiglia
un po’ particolare, ma ci vogliamo
bene. I nostri passi sono
molto lenti. Per noi il ritorno ad
una vita «normale» è lungo: l’uso
del sapone, del bagno, rispettare
gli orari. Ma ciò di cui
siamo veramente fieri è che ci
abbracciamo, ci chiamiamo
per nome, ci prendiamo per
mano e camminiamo insieme
con la speranza di arrivare, prima
o poi, a varcare i confini di
una terra dove regni la giustizia
e dove ogni cuore si possa
sentire accolto e riscaldato.

Lia Varesio




Inchiesta sui nomadi: giudizi, pregiudizi, realtà

«VIA DI QUI SPORCHI ZINGARI!»
Probabilmente sono ancora meno sopportati degli «extra-comunitari». Sono gli zingari, una popolazione dalla storia misteriosa e affascinante, che a causa
delle proprie modalità di vita non ha mai avuto un’esistenza facile. Disprezzati, rifiutati, guardati con sospetto.

Torino, campo nomadi dell’Arrivore.
È quasi l’alba del
17 gennaio 2003. Il campo è
immerso nel silenzio della notte, fa
freddo. Tutto è buio quando ad un
tratto irrompono i fari delle macchine
dei vigili urbani. Sanno già
dove andare e cosa fare.
Da giorni stanno pedinando la famiglia
di Romeo e Asnnia Ahmetovic
per procedere all’arresto.
Da giorni questa gente non dorme
al campo, ma qua o là, per le vie
della città, immersi nel gelo invernale.
Stanotte si erano concessi una
pausa che gli è stata fatale.
Colpevoli! Di che? Colpevoli di
nulla, ma senza documenti di riconoscimento,
quindi anche privi del
permesso di soggiorno. Eppure sono
una tranquilla famiglia rom: madre,
padre e cinque figli. Profughi
scappati dalla Bosnia a causa della
guerra. Vivono di elemosine o rivendendo
al Balón (un noto mercatino
di Torino, ndr) oggetti che recuperano
dalle nostre immondizie.
La loro vita sta tutta in quel carretto
contenente povere cose che
permettono loro di tirare a campare.
Sono quindi vittime due volte.
Vittime della guerra e vittime di
un’altra guerra più silenziosa e strisciante:
quella che la legge Bossi-Fini
ha scatenato sul territorio italiano.
Al campo si diffonde la voce:
– Li hanno presi.
– Sì, li hanno proprio portati via.
– Cosa ne faranno?
Prima sosta in questura. Ventiquattro
ore dopo escono con la loro
condanna: 5 giorni di tempo per
uscire dall’Italia.
Se li «ribeccano» il loro destino è:
il «Centro di detenzione temporanea
» di corso Brunelleschi, poi l’estradizione.
Mentre per i figli minorenni
è previsto l’inserimento in
una comunità, cioè la separazione
dal nucleo familiare (un modo molto
strano di difendere i diritti dei
bambini).
Tutto questo senza un’accusa valida,
senza aver commesso alcun
reato. Non hanno né rubato, né ucciso.
Papà e mamma vogliono bene
ai loro figli come qualsiasi altro genitore.
Ma questa è la legge. Questa
è la legge Bossi-Fini (e questo, nell’opinione
di chi scrive, è razzismo…).
D’ora in avanti gli episodi di questo
genere saranno sempre più numerosi.
Naturalmente avvolti nel silenzio
di chi non sa o non vuole né
sapere né vedere.
Il campo dell’Arrivore si trova alla
periferia di Torino, nei pressi
della località «basse di Stura».
Un terreno assolato, con pochi alberi
dove d’inverno fa molto freddo
e d’estate troppo caldo.
I torinesi per lo più ignorano la
presenza di queste persone; nei casi
peggiori manifestano nei loro
confronti aperta ostilità.
«Gli zingari sono sporchi, puzzano,
non lavorano, rubano». O, addirittura,
«ci danno fastidio per il
fatto stesso di esistere». Luoghi comuni
o mezze verità?
Per arrivare al campo, si percorre
una strada tutta buche. Alla fine,
dopo una curva, ecco comparire
tante «casette» e roulottes. Tutt’intorno
c’è fango, mentre spessi e
densi fumi circondano le abitazioni.
Questo è un campo-laboratorio:
gli uomini si guadagnano da vivere
con lavori di demolizione (per fare
questo spesso è necessario bruciare
dei metalli). Le donne, invece, con
l’aiuto di assistenti sociali, hanno
organizzato in un container un micro-
nido. Qui, in cambio di un piccolo
compenso, guardano i bambini
anche di quelle tra loro che hanno
trovato un’occupazione (magari
attraverso le «borse-lavoro» del comune)
in città.
Nel campo vivono circa 60 famiglie
rom, per lo più profughe dalla
Bosnia a causa della guerra.
La prima cosa che vedi recandoti
là sono i bambini che spuntano
immediatamente, come dal nulla,
appena ti vedono comparire.
«Chi sei?» subito ti domandano.
«Sono un’amica di Carla e Rita» (le
due sorelle suore che condividono
la loro vita, abitando lì in una roulotte;
vedi articolo successivo). Questo
li rassicura. Così ti dicono dove
lasciare la macchina, poi ti danno
l’ok e ti trotterellano intorno per
farti mille domande e raccontarti di
loro.
«Guarda cosa so fare» dice la più
piccoletta ed ecco una capriola dopo
l’altra. Poi ti mostra le caramelle
che ha in mano: «Ma se me ne dai
una delle tue è ancora meglio».
Ecco, i bambini rom sono così:
spontanei, giorniosi, sorridenti, socievoli.
Sono i più piccoli, perché i
grandi sono a scuola, tra breve
giungeranno con il pulmino. È un
servizio del comune per favorire la
scolarizzazione (alcuni giovani nomadi
ora svolgono il lavoro di accompagnatori
dei bambini o di mediatori
tra la scuola e le famiglie).
Eccoli, infatti. «La scuola non mi
piace – dice la più grande -. Un po’
ci vado, un po’ non ci vado perché
è tutto chiuso, si lavora sempre, non
si va mai fuori in giardino». «A
scuola manca l’aria…» aggiunge
un’altra.
Più difficile è avvicinare gli adulti:
sfuggono agli estranei o ti trattano
con opportuna cortesia.
«Tu qui – sembrano dirti – sei
un’estranea» e per un breve arco di
tempo vivi ribaltata la loro condizione.
Mi aggiro per il campo. Le donne
si affacciano curiose dalle loro
abitazioni. Tra loro c’è chi tiene
molto alla tradizione: è Fatima.
Mi concede di varcare
la soglia della
sua casa tenendo
le scarpe (loro
le lasciano
sempre fuori
dalla porta perché solitamente le
abitazioni sono rivestite di tappeti).
Sono giustificata perché sono estranea
alle loro abitudini ed ospite.
Entrando sorge spontaneo un senso
di riverenza.
La sua abitazione è «sontuosa»,
rivestita di drappi colorati e tappeti,
sullo sfondo s’intravede anche un
altarino di padre Pio. Con il suo
abito tradizionale e i suoi giornielli Fatima
sembra una regina. Sta preparando
un pollo per la cena: un’operazione
semplice e apparentemente
rude, eppure tutti i suoi gesti
denotano una signorilità non comune.
Il campo dell’Arrivore è stato
inizialmente scelto (erano gli
anni ’70) come area abitativa
per poche famiglie, circa una
decina.
In seguito il campo si è ingrandito:
sono arrivate nuove
famiglie, in particolare a
seguito della guerra nella
ex-Jugoslavia. Molti rom
hanno dovuto fuggire e
sono giunti qui in Italia
senza avere un posto
dove stare, senza cittadinanza.
Il campo andrebbe
migliorato: occorrerebbe
apportare
modifiche al terreno,
risistemare i
servizi igienici, ridare
nuova dignità
al luogo.
Tuttavia, esso è
situato sulle rive
del fiume Stura
dove un ambizioso
progetto
di riqualificazione
del quartiere,
situato
tra corso Giulio
Cesare e
corso Vercelli,
prevede: zone alberate, piste
ciclabili, nonché la realizzazione di
un parco fluviale. Questo progetto
quindi non prevede la permanenza
abitativa dei rom nel campo dell’Arrivore.
Per risolvere il problema
una delibera del 1999 ha individuato
un’area ad hoc per loro, in via
Germagnano.
Il progetto prevede la costruzione
di circa 16 casette bifamiliari in
muratura dotate di servizi, con un
po’ di terreno intorno e anche, come
«fiore all’occhiello», una costruzione
più ampia per le feste.
Allora c’è da chiedersi: dove sta il
«piccolo neo» di questo progetto?
Il problema è… il luogo. Un luogo
in cui nessun altro vorrebbe abitare.
L’area di via Germagnano, infatti,
si trova al centro di una zona
in cui stanno la tangenziale (quindi
i gas di scarico saranno tutti per i
nomadi), la ferrovia, due canili
(questo significa latrati continui
giorno e notte). Ma non basta.
Davanti all’ingresso del campo
una strada a scorrimento continuo
ha indotto i rom a chiedere una recinzione
per tutelare i loro bambini.
E, ciliegina sulla torta, ad appena
1 km di distanza c’è la discarica
dalla quale si sprigionano fumi e gas
tossici.
Neanche il canile voleva venisse
costruita quest’area in quanto ciò
avrebbe limitato lo spazio accessibile
ai cani e, in difesa del medesimo,
è stato detto (con involontaria
ironia) che «quella zona non è adeguata
nemmeno per i cani».
Inoltre, la costruzione del campo
crea tensioni fra gli abitanti della zona,
già scontenti di dover convivere
con il campo dei sinti di via Lega.
Visitandolo inoltre ci si rende
conto che le casette sono di piccole
dimensioni, se pensiamo che una
famiglia nomade di solito è assai numerosa.
Lo spazio circostante risulta
assai limitato.
Il problema sembra senza possibilità
di soluzione in quanto il progetto
è già stato deliberato ed è in
corso di attuazione. L’area si prevede
ultimata per il novembre
2003. Quindi, per il 2004 i rom verranno
effettivamente trasferiti qui
(se, nel frattempo, l’applicazione
della legge Bossi-Fini non avrà già
attuato per molti di loro l’estradizione…).

Il caso di Torino è emblematico
per capire la condizione dei nomadi.
Per riflettere su quanto sia
necessario fare per raddrizzare la
rotta e favorire l’integrazione e la
convivenza con queste persone.
I diritti proclamati dalla Dichiarazione
universale di Ginevra del
10 dicembre 1948 parlano chiaro
(diritto alla vita, alla salute , al cibo,
all’abitazione, alla dignità…) e sono
rivolti a tutti gli esseri umani
«senza distinzioni di razza, sesso,
età, religione…» (articolo 1 e 2 della
Dichiarazione). Questa proclamazione,
che è stata un grande
evento storico, è allo stesso tempo
una conquista continua per la quale
tutti quanti noi dobbiamo lottare
al fine di promuovere e rendere
effettivi tali diritti per ciascun essere
umano. Anche per chi, come i
nomadi, non vuole omologarsi al
nostro stile di vita e per questo è disprezzato, rifiutato o comunque
guardato con sospetto. Questo è il
nocciolo della questione zingari: la
difficile convivenza con il resto della
popolazione che non li vuole, li
rifiuta. Per questo spesso le politiche
dell’ente locale, nel vano tentativo
di accontentare tutti, finiscono
per operare scelte che vanno, ancora
una volta, a scapito dei più deboli,
di chi non ha voce, di chi non
è rappresentato da nessuno.
Non si può non sottolineare che,
nel linguaggio corrente, «zingaro»
è una parola razzista come «negro»,
«vù cumprà», «barbaro», ecc.
Spesso nel parlare quotidiano si
usano espressioni del tipo: «una casa
di zingari», per dire che è disordinata;
«essere come uno zingaro»,
cioè vestito male e sporco; «ti faccio
portare via dagli zingari», per
dire che sono cattivi (come l’«uomo
nero»).

UN POPOLO
SENZA VINCOLI,
«PADRONI»
E AMICI

DALL’INDIA ALL’EUROPA (1400)
Qualcuno li ha chiamati i «figli del vento»
perché il popolo zingaro è un popolo che
non ha vincoli né confini riconosciuti (stato,
caste sacerdotali, norme giuridiche, tribunali).
Vive della sua libertà e nella sua concezione
del tempo che è principalmente basato
sul presente e fortemente condizionato
dal nomadismo.
La loro cultura è sempre e solo stata trasmessa
oralmente da una generazione all’altra
attraverso leggende, consuetudini
che si svolgono durante le veglie intorno
al fuoco, come abitualmente le varie famiglie
sono solite fare, specie nei momenti
di festa.
La loro è una storia principalmente scritta
da altri, avvolta nel mistero, un rompicapo
anche per storici e studiosi.
L’origine del nome «zingaro» (o «zigano») deriva
probabilmente dal termine greco «athingano» cioè
«intoccabile» attribuito ad una sètta proveniente dalla
Frigia (regione storica dell’Asia minore), oltre che
a maghi ed indovini.
Le origini geografiche degli zingari sono state individuate
nel nord dell’India. Da qui si spostarono verso
la Grecia e l’Europa sud-orientale intorno all’anno
1000 d.C., si presume a causa dell’espansione islamica
o forse per una carestia. La loro lunga
migrazione attraverso l’Asia e l’Europa si svolse con
una lunga sosta in Persia (circa due secoli): dalle lingue
di questi paesi acquisirono i tratti della loro lingua,
il romanés. L’arrivo in Europa e in seguito nei
vari paesi europei si ebbe intorno al 1400.

PERSEGUITATI
Proprio il carattere sfuggente e misterioso di questo
popolo ha dato origine a pregiudizi, atteggiamenti
di ostilità e rifiuto che sono confluiti anche in vere e
proprie persecuzioni. Tutti i paesi europei adottarono
nei loro confronti, come minimo, bandi di
espulsione. In Francia vennero pressoché estinti. Di
fatto il nomadismo divenne una perenne fuga.
Nel secolo XVII li troviamo nelle Americhe deportati
come schiavi. Durante la seconda guerra mondiale
l’opera di sterminio di Hitler li condannò (come
gli ebrei) al genocidio (non meno di 500 mila zingari
vennero ammazzati).
Il loro principale torto è sempre stato quello di non
costituire uno stato, non avere una rappresentanza
diplomatica, non fare riferimento ad una terra chiusa
da confini.
Così essi sono divenuti nell’immaginario collettivo
dei «gagè» (termine con cui gli zingari definiscono
coloro che non appartengono al loro popolo) degli
untori, propagatori di malattie, ma anche degli inafferrabili,
primitivi, trasgressivi, ladri, delinquenti,
fattucchieri.
Non si riesce quindi a distinguere se queste opinioni
siano il frutto di uno stile di vita corrispondente a
questi termini oppure se gli zingari abbiano finito col
comportarsi ed agire nel modo con il quale essi venivano
identificati.
Una ricerca condotta in Inghilterra su un campionario
di letteratura per ragazzi (libri scritti negli ultimi
170 anni) rileva che in essa gli zingari sono rappresentati
come figure disprezzate, e si confermano
i pregiudizi ricorrenti. Così pure raramente la letteratura
ed il cinema deviano da questa visione stereotipata.
Recentemente il regista Emir Kusturica ci ha proposto
alcuni film («Gatto nero gatto bianco» e «Il
tempo dei gitani») in cui si evidenzia il mondo colorato,
fantastico e «fuori dagli schemi» dei gitani, trasmettendoci
la loro cultura fatta di: sogni, sangue,
barbare passioni che lasciano intravedere una umanità
ricca di vitalità.

IL RUOLO CENTRALE DELLA FAMIGLIA
Tratto culturale che accomuna e caratterizza tutti gli
zingari è il non riconoscimento della gerarchia salvo
quella che deriva dall’anzianità, dall’essere padre o
madre di famiglia o dall’essere reputato saggio.
La vita degli zingari è incentrata sulla famiglia allargata
attorno alla quale si organizza la vita comunitaria
ed è con essa che vengono prese le decisioni più
importanti quali spostamenti o insediamenti.
Attualmente si sta verificando una sempre maggiore
sedentarizzazione nei campi sosta, questo crea a
volte divisioni e smembramento del gruppo familiare
modificando così l’organizzazione tradizionale.
La famiglia singola ha un’importanza minore, anche
se è il matrimonio che segna l’ingresso nella comunità
degli adulti.
All’interno della famiglia esiste una divisione netta
dei ruoli tra uomini e donne ed è la famiglia che si
occupa principalmente dell’educazione dei figli con
ritmi e modalità propri.
La scuola è vista come un qualcosa di esterno ed
estraneo e per quanto le amministrazioni comunali
e le organizzazioni di volontariato si adoperino da
diversi anni ai fini di favorire al massimo l’integrazione
scolastica di questi bambini, essa resta un luogo
frequentato in modo discontinuo e talvolta conflittuale.

ROM, SINTI, CAMMINANTI
Il popolo zingaro o nomade (come impropriamente
viene chiamato in quanto il nomadismo è ormai assai
limitato: quasi tutti questi gruppi vivono da anni
in campi di sosta stabili) si suddivide a sua volta in
diversi sottogruppi di cui i principali sono: sinti, rom,
camminanti.
Gli zingari chiamano sé stessi «rom» che significa
uomo o anche marito (plurale «roma»). Donna si dice
«romnì» (plurale «romnia»). Attualmente la popolazione
zingara è stimata intorno ai 10-12 milioni
di individui sparsi nel mondo (6 milioni in Europa).
In Italia ci sono attualmente 100 mila zingari: 70 mila
di cittadinanza italiana e 30 mila di provenienza
jugoslava.
SINTI
I sinti sono il gruppo di gran lunga maggioritario. Sono
presenti in Piemonte fin dal XV secolo. I mestieri
sono incentrati da sempre sullo spettacolo viaggiante
(circhi, giostre, acrobati, giocolieri, musicanti) e altre
forme di lavoro meno diffuse quali la fabbricazione di
cesti in vimini, impagliatura di sedie, vendita porta a
porta, lettura della mano, questua.
ROM
I rom sono divisi in numerosi gruppi con caratteristiche
anche molto diverse tra loro. Provengono dall’Europa
centro-orientale: Romania e regioni della ex-
Jugoslavia (Macedonia, Montenegro, Bosnia, Serbia).
Con molta approssimazione possiamo dire che i rom
si dividono in due grandi gruppi: «karakhané» di religione
musulmana, «daxikané» di religione cristiana-
ortodossa.
In questi ultimi anni, sono aumentati i rom «profughi» a causa della guerra nelle regioni della ex-Jugoslavia.
Inoltre, vi è stato un consistente arrivo di
rom rumeni dal 1998.
CAMMINANTI
È una popolazione nomade per gran parte dell’anno,
principalmente insediata in Sicilia. Esercitano
piccoli commerci ed offerte di prestazioni artigianali
a sostegno dell’economia domestica.
Hanno le origini e la residenza nella Sicilia orientale,
in particolare nelle città e province di Siracusa,
Messina, Catania; cospicuo il gruppo che si autodefinisce
«camminanti di Noto».
Sostengono di avere sangue zingaro nelle vene. Riconoscono
di avere «origini sinte», ma ci tengono a
distinguersi dagli altri zingari in quanto il nomadismo
è praticato solo nella buona stagione, mentre in
autunno – inverno vivono in luoghi in cui hanno edificato
case confortevoli.

FONTE DI DISTURBO E DI CONFLITTO
L’impatto tra la cultura di questo variegato popolo
e la società attuale, dominata dal modello tecnologico,
ha dato origine ad una forte crisi d’identità.
Gli zingari presenti alla periferia delle nostre città finiscono
per essere vissuti come fonte di disturbo e
di conflitto sociale. L’attuale bisogno di sicurezza da
parte dei cittadini accentua questi problemi così essi
divengono spesso il capro espiatorio dei problemi
esistenti.
Spesso anche le amministrazioni comunali più attente
ai loro problemi non riescono a fornire risposte
adeguate e soddisfacenti, rispettose delle esigenze
di vita del popolo zingaro. Per questo è fondamentale
il ruolo assunto da diverse organizzazioni di
volontariato che svolgono, in modo difficile e delicato,
un ruolo di mediazione ai fini di favorie l’integrazione.
Tuttavia, mai come ora l’esistenza degli zingari è in
pericolo. Sono un popolo sempre più emarginato,
deprivato della propria identità e ridotto in condizioni
degradanti anche a causa delle rapide trasformazioni
sociali le quali non consentono di adeguare
alle nuove esigenze i moduli tradizionali della loro
cultura.

Silvana Vergnano




Inchiesta sui nomadi: giudizi, pregiudizi, realtà

SUORE, SORELLE, ZINGARE
Vivono in una roulotte in un campo alla periferia di Torino. Con i nomadi condividono
i problemi della quotidianità e della sopravvivenza. Questa è la storia di due sorelle
che dal 1979 hanno scelto di mettere la loro vita di donne e suore al servizio di gente
che non conta e che anzi viene considerata inferiore, deviante, fuorilegge.

«Condividere la vita degli
ultimi, dei più poveri,
della gente comune».
Questa è stata la spinta iniziale che
ha condotto due sorelle, Carla e Rita,
suore della congregazione di san
Luigi di Alba, ad abbandonare la
vita abituale per dare sempre più
concretezza alla loro vocazione.
Dal 1979 vivono in una roulotte
alla periferia di Torino. Acqua e
servizi sono rigorosamente fuori, al
freddo. Il calore lo produce una
stufa (per la quale occorre procurarsi
gioalmente la legna), ma anche
i tanti visi allegri e sorridenti
dei bambini, che ogni attimo si affacciano
alla porta e irrompono
dentro: per avere una carezza, parlare
un po’, mangiare un dolce, vedere
chi c’è.
Mitezza, cordialità, fratellanza è
quanto avverti incontrandole. Se ti
fermi a parlare con loro un gran
senso di pace e serenità ti inondano,
perché questo è il loro abituale
stato d’animo che emerge anche
nei momenti difficili.
Queste due semplici suore hanno
compiuto una scelta coraggiosa,
non facile e, spesso, impopolare,
che motivano così.
«La ragione profonda della
nostra vita con i rom e
i sinti, sta nell’incarnazione
di Gesù, in tutto simile a noi
fino alla morte; sta nella parola di
Dio.
Nella lettera ai Filippesi è scritto:
“Cristo Gesù, pur essendo di
natura divina, non considerò un tesoro
geloso la sua uguaglianza con
Dio, ma spogliò sé stesso assumendo
la condizione di servo e divenendo
simile agli uomini…”.
È la parola di Dio che ha ispirato
l’inizio del nostro cammino, che
si è fatta carne nella nostra quotidianità,
e ancora oggi ci sostiene
specie quando la resistenza nel
quotidiano si fa più pesante, incomprensibile
e assurda anche a
noi stesse; quando verrebbe voglia
di tentare altrove, questa parola ci
fa sentire più forte il legame con il
nostro popolo, un legame che non
si può spezzare facilmente.
Noi crediamo fermamente che la
vita religiosa non è un ruolo, né
principalmente un ministero, ma
un carisma, un dono che Dio fa alla
sua chiesa, e come tale lo vogliamo
accogliere senza etichette o apparati
che di fatto separano dalla
gente.
Vita religiosa come profezia, suppone
una scelta di luogo, di persone,
di stile. Abbiamo scelto rom e
sinti e le persone legate alla loro vita;
i campi sosta, le strade talvolta
le cose e i luoghi in cui queste persone
vivono. Ci poniamo lì come
un poco di lievito che nel silenzio e
nel segreto fermenta la pasta.
Come in punta dei piedi condividiamo
la loro vita, ci accogliamo
e ci stimiamo vicendevolmente con
simpatia. La nostra vita non è fatta
di grandi attività e impegni pastorali.
I problemi e gli impegni sono
quelli della quotidianità e della sopravvivenza.
Una quotidianità fragile, imprevedibile
e semplice, ma nello stesso
tempo solenne e festosa come
non è facile trovare nella nostra cultura
fatta più di concetti e idee
astratte.
Potrà sembrare una perdita di
tempo lo stare in accampamento
più silenziose che loquaci, più titubanti
che sicure, più discepole che
maestre; essere lì non come benefattrici,
ma come sorelle, quasi come
bambini che apprendono la lezione
della vita, dell’ospitalità proprio
da persone da molti
considerate inferiori, devianti, fuorilegge.
Pensiamo che non si parli solo
con la parola, ma anche ascoltando
la parola che sta all’interno del silenzio,
che ci insegna a porgere l’orecchio,
ad aprire gli occhi per vedere
ciò che sale dal basso e riconoscere
nei gesti concreti della vita,

tanti luoghi in cui Dio opera e si rivela,
e scoprire anche e soprattutto
l’acqua viva che disseta.
Si impara in questo lento e lungo
ascolto a non fare di nessuno, nemmeno
dei poveri, un mito (cogliendo
tutto senza spirito critico), ma
viceversa a vedere il bello e il meno
bello come parte costitutiva della
natura umana.
Così, cammin facendo, siamo
state condotte dalla vita allo stile
della debolezza, di chi “non fa udire
in piazza la sua voce e non spegne
il lucignolo fumigante”, di chi
si china per adorare e anche per
raccogliere i “semi del Verbo”
sparsi anche nella cultura rom, per
scoprire i germogli che crescono:
come donne ci sentiamo particolarmente
chiamate a raccogliere la
vita in tutte le sue espressioni e a
proteggerla, coltivarla e celebrarla.
Partendo da una posizione di
piccolezza e fragilità, imparando a
riconoscere la nostra debolezza,
possiamo accettare anche quella
delle nostre amiche e amici per farla
nostra come ha fatto il Cristo,
perché la trasformi in storia di misericordia
e di salvezza.
Questo diventa per noi un linguaggio
per dire l’amore di Dio ed
il suo sogno di fare del mondo una
famiglia più fratea e più giusta;
tutto questo, poco a poco, produce
in noi dei solchi profondi che ci
fanno intravedere un Dio un po’
diverso da quello che pensavamo
di conoscere, e ci fa anche meno sicuri
sul luogo in cui è nascosto il tesoro
di cui parla il vangelo.
Il Dio che si incontra in questo
luogo non è più il Signore onnipotente
e forte, ma piuttosto il Dio
dell’incarnazione, della passione e
della resurrezione.
E anche il nostro cammino spirituale
è debole e fragile così come si
presenta la vita di coloro che non
contano e sono ai margini.
Ci accorgiamo ogni giorno che è
necessario cambiare i nostri schemi
mentali, lasciarci convertire e
porci in un continuo atteggiamento
di preghiera, di supplica, di perdono,
di pace e di ringraziamento
per averci fatto dono di stare qui.
Lo stare davanti a Dio con loro e
anche a nome loro, è quanto di più
grande possiamo fare. Questo è il
nostro stile: quello di sederci accanto,
di camminare insieme, con
la nostra umanità, e vedere nell’umanità
il luogo della presenza di
Dio e i frutti dello Spirito».
ATorino la questione del momento
è lo spostamento del
campo nomadi dall’Arrivore
a via Germagnano. Carla e Rita
mi dicono che anche loro hanno
cercato di far capire l’inadeguatezza
del nuovo campo.
Secondo le due suore luigine sarebbe
meglio risistemare il campo
dell’Arrivore dove i rom sono già
abituati a vivere. Pensano che occorra
partire da loro, rispettare le
loro scelte; al tempo stesso, è assai
importante responsabilizzarli, richiedere
il loro impegno (per
esempio, nella cura e mantenimento
del campo).
Occorre cercare (come in parte
si sta facendo) di dar loro gli strumenti
adeguati ai fini di favorie
l’integrazione. Le borse-lavoro, ad
esempio, sono una soluzione parziale
spesso utilizzata principalmente
per ottenere il permesso di
soggiorno.
Le istituzioni pubbliche dovrebbero
andare maggiormente ad incentivare
le reali potenzialità di
queste persone. Ad esempio, puntando
a favorire lavori che facciano
leva sulle loro capacità artigianali.
Anche l’idea di far vivere gli zingari
all’interno delle case popolari
a Carla e Rita (che al campo continuano
a vivere) appare come una
scelta pilotata o un po’ forzata.
Spesso le persone obbediscono
per paura che il campo venga
sgomberato e poi non si sappia più
dove andare.
L’ipotesi, già proposta anni fa, di
consentire l’abitazione in vecchie
cascine potrebbe essere la soluzione
ideale in quanto rappresenta
una via intermedia fra l’alloggio vero
e proprio e il campo. La cascina,
infatti, consente di mantenere la vita
comunitaria del clan (accendere
il fuoco la sera, fare le feste, le cene
comuni, ecc.) e permette di sentire
ancora vivo quel senso di libertà
che è insito nello spirito nomade.

«PER LORO ESISTE L’OGGI»
Incontro con il professor Secondo Massano,
responsabile dell’«Opera nomadi» di Torino.

Ex preside, oggi in pensione, il professor Secondo
Massano a riposo non lo è affatto, essendo
impegnato quotidianamente nella sede dell’Opera
nomadi di Torino.
Il suo impegno è rivolto non solo a raccogliere e documentare
la storia e la cultura zingara, ma soprattutto
a schierarsi in prima persona per difendere
i diritti di questa gente.
Ha iniziato ad essere loro amico dai tempi della
scuola, girovagando per strade, mercati, campi sosta
con l’intento di convincere le famiglie zingare
sull’importanza di mandare i loro figli a scuola. Ancora
oggi continua a spendere molte energie per
realizzare un servizio di mediazione e integrazione
dei bambini zingari nelle scuole.
Nelle giornate di lavoro presso la sede dell’associazione
il compito principale del professor Massano
è quello di ascoltare i nomadi quando vengono
ad esporre i loro problemi. Per
tutti ha un gesto affettuoso, un incoraggiamento
paterno, foendo
quando occorre anche un piccolo aiuto
materiale.
Conosce bene queste persone e ne sa
distinguere i lati positivi, ma al tempo
stesso non nega i loro difetti.
Sul problema dei luoghi dove accogliere
i nomadi, il professor
Massano risponde: «Noi come Opera
nomadi avevamo cercato di portare
avanti la possibilità di consentire l’insediamento
dei nomadi in vecchie cascine.
Purtroppo, il progetto si è perso
per strada.
Una soluzione al problema credo sia
favorire la scelta di andare a vivere nelle case popolari.
Ormai molte famiglie ne fanno richiesta e
già diverse hanno fatto questa scelta.
Senza dubbio non è facile per loro che amano vivere
liberi, in grandi spazi, a stretto contatto con il
resto del clan. Naturalmente la scelta delle case
popolari implica tutta una serie di responsabilità
cui queste persone sono poco avvezze: avere un lavoro
fisso, rispettare le regole, tempi di pagamento,
avere un minimo d’istruzione.
I nomadi infatti tendono a vivere nel presente, al
massimo c’è un passato. Per loro esiste l’oggi, forse
il domani. Non pensano al futuro, non sono abituati
a programmarlo, ad organizzarsi in funzione
di esso. Per questo è fondamentale continuare l’opera
di mediazione, seguirli, affiancarli, responsabilizzarli.
Per anni la nostra città ha rappresentato un modello
sia per quanto riguarda la gestione dei campi,
sia per l’integrazione scolastica dei nomadi».
Al responsabile dell’Opera nomadi chiediamo un
parere anche sul problema della diserzione scolastica
provocata dall’entrata in vigore della legge
Bossi-Fini.
«Il comune di Torino – risponde Massano – ha fatto
e fa molto per loro tramite l’Ufficio stranieri e l’Ufficio
mondialità in particolare per quel che riguarda
l’educazione ed integrazione dei bambini nelle
scuole.
L’alfabetizzazione dei nomadi è importante anche
al fine di tutelae la storia e la cultura. Diversamente
esse rischiano di perdersi poiché fino ad ora
sono state tramandate solo oralmente.
Si spendono tanti soldi per mandare i bambini nomadi
a scuola e da metà gennaio si sta registrando
un netto calo delle presenze nelle scuole. Che vergogna
essere in questa situazione a causa di una
legge!».

«LASCIATECI VIVERE!»
Non hanno molte esigenze. Si accontentano di avere un posto in un campo della
periferia. Spesso sono sporchi perché fanno lavori che gli italiani non vogliono fare. Oggi molti zingari non dormono più nelle loro abitazioni. Hanno paura che vengano a portarli via. Con la legge Bossi-Fini, la vita è diventata una fuga quotidiana. Dicono: «Lasciateci vivere!». Ma per vivere è necessario il… «permesso di soggiorno».

«Sono una profuga – racconta
Fadila -, arrivata a Torino da Banja
Luca. Dopo aver abitato al campo
dell’Arrivore, sono passata nelle
case popolari. Sono senza lavoro e
per mangiare vado a vendere robe
vecchie nei mercatini. Oggi, purtroppo,
molti di noi debbono scappare
perché sono senza il permesso
di soggiorno».
VOIKAN
«Stiamo scappando da troppo
tempo – dice Voikan -. Credo sia
giunto il momento di dire “Basta!”.
Usciamo sulle strade e ci definiscono
“zingari”. Senza guardare da
dove veniamo, di quale cultura siamo
portatori, quale religione abbiamo.
Io ho sbagliato a suo tempo a non
sostenere la proposta di legge che
mirava a riconoscere il nostro popolo
come minoranza etnica (dicembre
’92; la proposta di legge
presentata da Rifondazione comunista
non ha mai avuto seguito,
ndr)».
FRANCESCO
«Io sono sinto – racconta Francesco
-. C’è un nostro campo sul
Sangone. È lì da trent’anni, ma non
risulta inserito in nessun piano regolatore.
Si pensa che tanto noi
possiamo vivere comunque.
Non è così. Noi siamo persone
come le altre: viviamo e respiriamo
come voi. Per questo vi chiedo:
“Lasciateci vivere! Lasciateci abitare
dove stiamo. Siamo tutti nomadi
a questo mondo».
JONKO JOVANOVICIL
«Mio figlio – racconta Jonko, vicepresidente
dell’associazione Aizo
– è nato nel 1981; non conosce i
furti; ha fatto le scuole e pratica
sport. Ora, dopo i 18 anni, non può
più giocare al calcio perché è straniero.
Ma che cosa sono i nostri figli?
Senza diritti, anche se sono nati
qui. Il lavoro? Ma come posso trovare
un lavoro se lo stanno togliendo
anche agli operai della Fiat?
Noi siamo a Collegno e possiamo
affermare con orgoglio che ogni famiglia
ha dato il suo contributo per
il campo. Paghiamo i servizi come
tutti.
Quando vediamo arrivare una
pattuglia di vigili, ci tocca abbassare
la testa, perché non abbiamo il
permesso di soggiorno. Io sono entrato
in Italia con documenti validi
e ora mi tocca vivere così. Con paura
e vergogna».
PATRIZIA
«Mi piacerebbe vivere in una casa,
perché è pulita e confortevole.
Non occorrerebbe più spaccare la
legna per scaldarsi.
Provengo dalla ex-Jugoslavia, ma
sono nata qui. Ho il permesso di
soggiorno, ma molti altri non ce
l’hanno. Così scappano. Scappano
quando arrivano i vigili. Scappano
mattina e sera. Con i bambini. Vanno
a dormire nelle macchine.
Così è la nostra vita. Solo scappare.
Marisa e Franco hanno fatto la
carta come apolidi, ma secondo me
hanno fatto male perché così non
sono più di nessuna nazionalità.
Hanno fatto questa scelta, perché
era un mese che scappavano.
Qui al campo dell’Arrivore è bello
perché attorno ci sono i prati. Se
soltanto sistemassero i bagni, staremmo
bene. Se tutto fosse a posto,
io preferirei restare qua dove sono
nata».
ZAIM
«Io abito in una casa, ma non sono
contento. Quando l’ho vista, ho
detto: “Non la voglio”. I funzionari
mi hanno risposto: “La devi
prendere per forza, altrimenti ti togliamo
il permesso di soggiorno”.
Mi hanno messo in una casa per
forza. Adesso vengo al campo di
giorno a lavorare. Nella casa vado
solo di notte, per dormire. Perché
non mi piace? Perché io sono cresciuto
qui in mezzo ai campi.
Con questa scusa dei permessi di
soggiorno, ci fanno scappare via.
Così più persone scappano meno
persone hanno da sistemare…».
GIULIANA
«Non è giusto dare il permesso di
soggiorno soltanto ad alcuni, escludendo
altri.
Se tu vieni qui la sera vedi bambini
scalzi, nudi. Non mangiano
più pasti caldi. Scappano in continuazione.
Non dormono da 20
giorni nelle loro abitazioni. Scappano
per le strade. Scappano dai
vigili e dalla polizia. Non è giusto.
Se siamo nati qui almeno lasciateci
stare. Io sono nata in Italia, a Brescia.
Sono 27 anni che sono qui all’Arrivore
e ho quattro figli.
Lavoro come le altre donne tenendo
i micro-nidi. Aiutate da assistenti
sociali, guardiamo i bambini
delle altre donne quando queste
vanno a chiedere l’elemosina o a lavorare
e non possono portarsi i
bambini con sé. Lavoriamo in un
container. Ma ora purtroppo
questo lavoro non c’è più
perché sono tutti scappati».
FATIMA
«Non vogliamo ritornare nel nostro
paese, dato che là non abbiamo
più niente: né terra, né casa, né cibo.
Io ho il permesso di soggiorno,
ma tanti qui sono senza. Gli italiani
disoccupati non lo sono per colpa
degli zingari. Gli zingari si occupano
di cose che agli italiani non interessano.
Qui, ad esempio, gli uomini
lavorano il ferro e il rame. È un
lavoro che gli italiani non fanno
perché ci si sporca sempre. Ci sono
60 famiglie in questo campo. Io è 16
anni che sono ferma qui, ma altri lo
sono da più tempo: 20-27 anni. Noi
paghiamo tutto: luce, acqua. Non
paghiamo il terreno, ma se ci chiedono
di pagarlo per rimanere qui lo
facciamo. Io ho quattro figli, che lavorano
nella demolizione. Hanno la
licenza e pagano le tasse. Cosa chiediamo?
Solo una cosa: vivere».

SPARITI!
Scuola / Gli «effetti collaterali» della legge Bossi-Fini

Sì, da circa metà gennaio i bambini nomadi della mia scuola
(circoscrizione 6 di Torino) sono spariti. Strano. Infatti
è proprio in inverno che noi insegnanti ne rileviamo la
maggiore frequenza. Come si spiega questo fenomeno?
I bambini non sono rintracciabili ai soliti recapiti. Anche i responsabili
del servizio di cornordinamento non ne sanno nulla. È
però facile immaginare che non frequentano più la scuola perché
le loro famiglie sono prive del permesso di soggiorno e pertanto
cercano di rendersi irreperibili per evitare di essere prese
e cacciate dall’Italia. Questo è un grave «effetto collaterale»
prodotto dall’applicazione della legge Bossi-Fini.
Il dispiacere circola tra tutti noi – insegnanti, educatori e volontari
-, che abbiamo lavorato per favorire l’inserimento nelle
strutture educative del popolo nomade.
In questi anni si era fatto molto per l’integrazione scolastica e
come insegnante debbo ammettere con piacere che il servizio
funzionava piuttosto bene.
COME FUNZIONA (O FUNZIONAVA)
I bambini vengono accompagnati a scuola da mediatori. L’Ufficio
mondialità funge da supporto e cornordinamento del servizio
ed è a disposizione delle scuole per ogni richiesta d’informazioni,
chiarimenti, accertamenti.
Nella mia scuola inizialmente non è stato
facile far accettare la presenza dei
bambini nomadi. In partenza vi erano
forti rigidità sia da parte del personale,
che dei genitori. Talvolta anche da alcuni
insegnanti.
I pregiudizi, i timori sono spesso più forti
della nostra stessa volontà di superarli
e ci condizionano. Gradualmente però
le divergenze si sono appianate e vi è stata
un’accettazione affettuosa di questi
bambini da parte di tutta la comunità
educante.
Questa è la riprova che sono i nostri pregiudizi
a bloccarci. Il contatto a tu per tu
fa scoprire il diverso come altro da sé, ma
allo stesso tempo uguale, quindi portatore
come noi di bisogni, ma anche di ricchezze.
Specialmente gli operatori, incaricati della
cura di questi bambini dal punto di vista
igienico, hanno progressivamente superato
le loro paure e istintivamente sono
scattati in loro atteggiamenti matei
e protettivi.
E i bambini tra loro? Questo ostacolo è
stato uno dei primi ad essere superato.
Anche perché i bambini non posseggono
ancora (per fortuna) tutte le sovrastrutture
mentali di noi adulti.
C’è stata qualche difficoltà iniziale: i
bambini si guardavano quasi a scrutarsi,
avvertivano istintivamente qualcosa di
diverso da loro e si evitavano. Poi la simpatia,
la giovialità e giocosità nomade
hanno favorito l’integrazione. Così anche
Patrizia e Bruno sono diventati parte
del gruppo. Noi insegnanti fatichiamo sempre un po’ a far
comprendere le regole della vita scolastica ai bambini nomadi,
abituati ad una vita molto libera e all’aria aperta, ma debbo dire
che le nostre fatiche sono state ampiamente ripagate dai risultati.
DOV’È FINITA PATRIZIA?
Patrizia, ad esempio, si è inserita molto bene ed ha interiorizzato
meglio di altri bambini i comportamenti positivi, le regole
della vita comunitaria, ed esige da noi insegnanti che nulla ci
sfugga di tutte quelle cose che la fanno sentire uguale ai compagni
(grembiulino, bavagliolo, pantofole, capelli in ordine…).
Ha acquisito il concetto di ordine, un comportamento corretto
a tavola, esprime interesse ed iniziativa creativa durante le attività
didattiche.
Ora che stava per avviarsi alla scuola elementare si mostrava
desiderosa di apprendere la scrittura. Scrivo al passato perché
Patrizia non è più presente a scuola e non sappiamo nulla di lei.
È forte il dispiacere che proviamo noi insegnanti nel vedere interrotto
un lavoro educativo che avrebbe certamente favorito
un inserimento positivo e costruttivo di questi bambini in una
società che sarà sempre più multietnica.

Silvana Vergnano




Attraversando l’isola-continente dell’Australia

SOTTO LO SGUARDO DEI CANGURI
«Vagando in solitudine
ho conversato
con me stesso,
e queste sono
le mie parole»
(da una ballata australiana).

Un paese di compagni (o quasi)
Gli aborigeni vi risiedono da circa 40 mila anni.
Ma alla fine del 1700 la loro esistenza viene sconvolta per sempre.
L’Australia diventa specialmente bianca, grazie allo sbarco
di alcune centinaia di galeotti e soldati agli ordini del re d’Inghilterra.
Oggi le cose stanno mutando:
primo, perché ai pronipoti dei criminali si sono aggiunti nuovi immigrati;
secondo, perché gli aborigeni dicono: «Questa terra è innanzitutto nostra!».

È un’isola-continente… In un articolo
corposo apparso su Time
(25 settembre 2000), in occasione
delle olimpiadi di Sydney, lo
scrittore e critico d’arte Robert Hughes,
australiano, residente da circa
30 anni negli Stati Uniti, ha evocato
i pregi e difetti dell’Australia come
soltanto un nativo può fare.
Contrariamente a quanto tutti hanno
pensato, i giochi olimpici non sono
stati per gli australiani l’occasione
per richiamare l’attenzione su di
essi, un evento per diventare sempre
di più come gli americani. Nonostante
la forte tradizione sportiva, l’importanza
dei giochi è stata inferiore
a quella di altri avvenimenti.
Non esiste per gli australiani, sia
realisti sia idealisti, il coinvolgimento
nella teoria dell’«eccezionale».

LAICI E «PAGANI»
La colonizzazione dell’Australia
iniziò con lo scarico di criminali britannici.
La differenza con la colonizzazione
americana fu profonda, perché
l’avventura nelle terre degli indios
si tramutò quasi in un’impresa
religiosa, una missione per liberare il
mondo dal peccato e creare il paese
di Dio. Invece, di fronte agli «australiani
», non c’era alcuna aspettativa
morale, ma nemmeno un‘angosciosa
delusione.
Ancora oggi gli australiani tendono
ad essere «pagani»: accentuano
l’etica del piacere in ogni
aspetto della vita; lo fanno, forse,
perché favoriti dalla natura, dal delizioso
clima delle coste (dove vive il
90% della popolazione), da una cucina
raffinata e da superbi vini; sono
esaltati dalla possibilità di praticare
sport in condizioni ottimali (lo spettacolo
della sabbia dorata e dei surf
che battono le onde è seducente).
La cultura è estremamente laica.
L’istruzione statale è eccellente e
nessun sussidio è dato alle scuole
confessionali. La predicazione sulla
«vita eterna» è debole e inascoltata,
malgrado qualche piccolo
effetto sui giovani a causa dell’influenza
culturale americana… Le
elezioni politiche costano pochissimo,
e non è necessario essere ricchi
per finanziarsi la campagna elettorale.
Non esistono scandali che rivelino
l’ipocrisia di apparire in pubblico
diversi dal privato.
Il maschio australiano, come il protagonista
del film Crocodile Dundee
(l’uomo della selva, con il tipico cappello
in testa, il volto abbronzato e
spesso deturpato dal melanoma, provocato
dall’eccessiva esposizione all’ultravioletto),
non coincide con la
realtà. L’«australiano tipo» è un giovanottone,
buon lavoratore (ma senza
stress), con moglie e due figli, un
mutuo per pagare il bungalow di mattoni
(il più vicino possibile alla spiaggia),
il tosaerba, il computer. I bambini
incontrano il canguro solo allo
zoo, o come vittima della strada.

AMICI SENZA DIFFERENZE
Alcune caratteristiche dell’australiano
moderno derivano dal suo passato,
quando i nonni vivevano nella
foresta e i bisnonni erano galeotti deportati
dall’Inghilterra.
Il valore riposto nell’amicizia, per
esempio, ebbe inizio nel duro mondo
delle colonie penali, continuò nel faticoso
lavoro in foresta come allevatori,
pastori, tosatori. Avere un amico
significava sopravvivere e tradirlo
essere meno di un uomo: questo era
il teorema della vita coloniale. Le sue
tracce sono ancora molto vive oggi.
Mate (compagno) è la parola più
comune; gli australiani riescono a ficcarla
in ogni situazione, e per questo
tutto il mondo li prende in giro. Tuttavia
è bello sapere che esiste un
continente dove il termine più usato
è «compagno», perché sottintende
uno stile di vita rilassato e aperto,
degno di essere esportato ovunque.
Un’altra espressione comune
è no worries
(non c’è problema).
La gente la
usa pure per dire
«prego».
Il rovescio
della medaglia
è costituito
dall’avversione
ad ogni forma
di élite: un’avversione
che è
pregiudizio, assurda
negazione dell’abilità,
intelligenza e competenza
incluse nel funzionamento
di ogni società.
In Australia le classi esistono (anche
se spesso si afferma il contrario)
fin da quando i «nati liberi» si sono
opposti ad abbandonare la loro posizione
di superiorità sugli ex condannati
e i loro figli. Però una sorta di
miopia intellettuale produce un’indifferenza
(che sovente rasenta il disprezzo)
verso chi si distingue per i
risultati raggiunti. Unica eccezione è
lo sport, vera religione dell’isola-continente.
Di conseguenza l’Australia non ha
mai onorato i suoi scrittori, pittori,
musicisti e intellettuali, che sono per
lo più sconosciuti all’estero. Soltanto
l’arte aborigena contemporanea
suscita qualche attenzione
oltremare; ma questo è da
inserire nel fenomeno della
rivalutazione di ogni «arte
tipica», da tempo comune
a tutto il mondo.
I sofisticati milionari di
Inteet di oggi non sono
molto diversi dai loro
antenati, minatori, nella
corsa all’oro di Ballarat del
1851. Lo stile di produrre
ricchezza contiene la convinzione
che la superiorità è fortuna,
e il gioco ne è la metafora
perfetta. Gli australiani,
infatti,
sono fra i più accaniti
giocatori
del mondo.

LA REGINA,
NONOSTANTE TUTTO

Oltre che culturalmente, l’Australia
è oscura anche politicamente: raramente
occupa spazi di rilievo sui quotidiani
stranieri. In definitiva gli australiani
si comportano abbastanza
bene, non hanno avuto guerre civili,
non sono stati invasi (però ci sono
solo andati vicino durante la seconda
guerra mondiale a causa dei giapponesi),
sono carenti di scandali politici
e corruzione, non costituiscono
una minaccia per alcuno, né sconvolgono
il mondo economico con i loro
interessi.
Non provano risentimento verso la
Gran Bretagna, colonialista, che li ha
costretti ad esportare lana e grano a
basso costo, e hanno pagato un pesante
pedaggio di uomini durante la
prima guerra mondiale: il più alto di
tutti gli alleati sia in proporzione ai
soldati che alla popolazione.
Capo di stato è il sovrano d’Inghilterra,
appartenente ad una ricca casata
anglo-germanica conosciuta come
Windsor. Il re governa tramite il
governatore generale, non eletto dal
popolo, che può abolire qualsiasi legge
emanata dal governo australiano,
addirittura dimetterlo e indire nuove
elezioni (avvenne nel 1975).
Nonostante tale anacronistico regime
di tipo coloniale, il referendum
del 1999 si è pronunciato a favore
della monarchia inglese, contro ogni
pronostico (si prevedeva il 70% per
la repubblica). Una logica strana ha
portato il 54% dei votanti a ritenere
più vantaggioso e democratico avere
come capo un ricco sovrano straniero
e ritenere, al contrario, insicuro un
presidente australiano sostenuto da
un governo eletto dalla base: e questo
sempre per la scarsa considerazione
nei riguardi dei «migliori».
I monarchici hanno vinto non perché
gli australiani siano particolarmente
devoti alla regina, ma perché
fra i repubblicani hanno prevalso le
divisioni e non vi è stato accordo sul
tipo di repubblica da appoggiare e
sulle modalità del sistema elettorale.
L’Australia è inoltre povera di simboli.
Si vorrebbe cambiare la bandiera
nazionale, eliminando da essa
il jack dell’Unione, ma non c’è accordo su un nuovo stemma. Le stesse
mascottes delle olimpiadi sono state
banali. A parte il canguro o il koala,
l’Ayers Rock (la più straordinaria
pietra del mondo), la barriera corallina,
l’Opera House di Sydney e
l’Harbour Bridge, si stenta molto a
fissare un’identità culturale.
Eppure gli australiani, così antielitari,
vogliono personaggi da ammirare.
«Se non abbiamo la regina, chi
possiamo rispettare?…»: si ripeteva
nella campagna elettorale del 1999.
Però un decreto del 1986 definì
la Gran Bretagna «paese straniero» e i vincoli economici con questo
paese, seppure non trascurabili, stanno
perdendo importanza rispetto a
quelli con il vicino nord-asiatico.
È dunque questione di tempo: la
monarchia in Australia finirà, come
la stessa Elisabetta II ha ammesso
durante la sua ultima visita all’indomani
del referendum pro o contro la
monarchia. L’anglo-australiano, leale
verso il re, ha tenuto fino a mezzo
secolo fa, quando il 90% degli australiani
era di discendenza inglese.

IMMIGRATI E ABORIGENI
L’infausto provvedimento, secondo
il quale nessun asiatico o discendente
da neri poteva stabilirsi in Australia,
fu abbandonato nel 1960.
Ora l’immigrazione fa il suo corso
e interi sobborghi di Sydney sono enclaves
del sud-est asiatico. Superata
l’iniziale xenofobia e il disagio per le
mescolanze etniche, nel paese si sta
affermando l’idea di multiculturalità
in versione australiana. Sono soprattutto
i più giovani a concretizzare tale
parola, altrove fonte di fumosi discorsi.
Essi capiscono, in modo istintivo,
che il desiderio di avere uguali
possibilità di affermazione riguarda
anche gli immigrati, compresi quelli
di colore diverso.
Fin dagli anni ’50 nella politica australiana
lo spettro era il comunismo:
si temeva un sovvertimento; il «pericolo
rosso» era efficacemente agitato
dai politici conservatori a proprio
beneficio. Oggi anche questo è passato,
e l’Australia sta affrontando un
altro tema scottante: l’identità e i diritti
degli aborigeni, nonché il dovere
di rievocare una storia cupa e crudele.
Circa il 2% dei cittadini è aborigeno:
390 mila persone su 20 milioni;
una piccola minoranza senza
poteri economici, politici e culturali.
Non ci sono aborigeni ricchi, proprietari
di giornali o a capo di compagnie.
Su 224 membri del parlamento
di Camberra, solo uno è negrito.
L’influenza aborigena viene
esercitata (soprattutto attraverso comitati
e tribunali) con l’aiuto di
bianchi illuminati.
Questo è un fatto notevole, considerato
che i bianchi, dal momento in
cui si stabilirono colà nel 1788, iniziarono
una guerra non dichiarata di
conquista e, contemporaneamente,
negarono agli aborigeni ogni diritto.
Furono cacciati dalle terre dei loro
antenati dai coloni, e uccisi se opponevano
resistenza; molti altri morirono
di malattia o di dolore.
Ma le previsioni sulla loro totale
estinzione furono disattese. Allora la
politica fu diretta, con ogni mezzo,
verso l’assimilazione al potere dominante.
Gli aborigeni furono raccolti
in missioni, rette per lo più da pastori
protestanti, dove veniva loro insegnato
il vangelo e le abitudini dei
bianchi per prepararli a lavori umili,
soprattutto come domestici.
Nel 1910 fu introdotta una vergognosa
politica: sottrarre i bambini
aborigeni alle loro madri per assimilarli,
come orfani, nella società bianca,
privandoli del nome e della possibilità
di rivedere i genitori.
Gli aborigeni non furono citati nella
costituzione australiana del 1901
e, fino al 1962, non ebbero diritto di
voto nelle elezioni federali. Oggi diversi
australiani considerano ancora
gli aborigeni un branco di ladri fannulloni
e rifiutano di ricordare quanto
hanno sofferto nel passato, affermando
che gli australiani odiei non
hanno alcuna responsabilità.

QUARANTAMILA ANNI FA
Gli aborigeni sono un popolo antichissimo.
I loro antenati colonizzarono
l’Australia del nord, arrivando
dal mare circa 40 mila anni or sono.
Al tempo dei primi contatti coi bianchi,
nel 18° secolo, erano circa 500
mila, divisi in tante tribù. Seminomadi,
raccoglitori e cacciatori, conoscevano
il fuoco, usavano bastoni,
pietre e poco altro, con uno sviluppo
tecnologico inferiore a quello dell’Africa
o dell’America Latina.
Ma la loro cultura orale tradizionale
è straordinaria. I loro miti sono stati
tramandati per millenni con sorprendente
continuità e coerenza, come
è documentato dalle loro pitture
murali, simili a quelle di altre grotte
(Altamira, per esempio), ma di decine
di migliaia di anni più antiche. Tali
immagini mostrano come lo spirito
della morte è continuamente assorbito
dalla terra per riciclarsi in nuovi
esseri.
La terra, quindi, per gli aborigeni
è assai di più di un appezzamento
di terreno; la terra è teologia e
identità; non possedee significa
essere nessuno; la terra è l’elemento
chiave nella lotta per i loro diritti.
È occorso molto tempo per portare
i tribunali e il governo ad ammettere
che gli aborigeni possedevano la
loro terra prima dell’arrivo dei bianchi
e che la teoria della terra nullius
non era legalmente valida. Ciò è avvenuto
nel 1992, quando un membro
del clan Merian, nel nord, ha sostenuto
con successo di fronte alla
corte suprema che la sua gente era
là prima dei bianchi e che gli antichi
diritti di proprietà non erano mai venuti
meno.
Le conseguenze sono state immediate
ed esplosive, perché ingenti giacimenti
di minerali (compresi i ricchi
depositi di uranio dell’emisfero sud)
giacciono nel loro territorio. Quasi un
migliaio di rivendicazioni di terra, che
coprono il 50% della superficie dell’isola-
continente, aspettano la decisione
dei tribunali, mentre ogni giorno
ne vengono presentate altre. Questa
valanga di richieste ha causato
una paralisi burocratica. Pochi gruppi
aborigeni accettano mediazioni da
bianchi.
Inoltre non c’è accordo fra loro sull’uso
della terra; alcuni gruppi ritengono
che le terre tribali sono sacre e
non devono essere sfruttate; altri sono
favorevoli allo sfruttamento delle
miniere senza condizioni. Poi c’è il
problema di dimostrare l’originaria
proprietà, poiché solo in rarissimi casi
esiste un documento stilato dopo
che iniziarono le registrazioni. Spesso
la rivendicazione è una semplice
affermazione (autocertificazione),
fatta da aborigeni che addirittura vivono
in un’area completamente diversa.
Questo fa infuriare gli allevatori
australiani, i cui ranches sorgono su
terre di cui non hanno la proprietà,
ma solo la concessione dalla corona
britannica. Infatti la sola esistenza
di una debole rivendicazione di terra,
da parte di un aborigeno, può vanificare
un prestito dalle banche e limitare,
quindi, le possibilità finanziarie.
Perché allora non dare credito
ai bianchi che rivendicano un loro
spirito di unione alla terra, proprio
come gli aborigeni?
Questi ed altri problemi, nonostante
la moderazione dei leaders
aborigeni e la buona volontà
di tanti bianchi, sono lontani
dall’essere risolti. È il compito dell’Australia
nel nuovo millennio, per
diventare definitivamente una grande
nazione.

Anni significativi
1788: giungono i primi britannici e stabiliscono una colonia
penitenziaria a Botany Bay. Gli aborigeni, che popolano
il territorio da circa 40 mila anni, vengono espropriati
delle terre e ridotti in schiavitù.
1830: sono circa 60 mila i galeotti deportati in Australia
(ladri, marinai disertori, oppositori irlandesi, ecc.); devono
lavorare per i proprietari terrieri europei. Le colonie
penali sono anche valvole di sfogo per le tensioni sociali,
generate dalla rivoluzione industriale in Gran Bretagna.
1890-1900: l’urbanizzazione è coronata da uno sviluppo
industriale accentuato, specie a Sydney e Melboue.
I flussi immigratori cambiano la società: nascono una classe
media rurale e una ricca borghesia.
1901: sei colonie britanniche (Nuovo Galles del sud, Victoria,
Australia meridionale, Australia occidentale, Queensland
e Tasmania) si costituiscono in stati indipendenti.
1911: dall’unione delle colonie indipendenti e da altri territori
nasce l’Australia odiea con il nome di «Commonwealth
of Australia». Segue un periodo di prosperità
economica.
1939-45: durante la seconda guerra mondiale cadono
circa 30 mila australiani e 65 mila sono feriti. I rapporti
con il Regno Unito si indeboliscono. Garanti della sicurezza
diventano gli Stati Uniti.
1951: alleanza tra Australia e Stati Uniti, che negli anni
’70 coinvolge il paese nella guerra del Viet Nam danneggiandone
l’immagine a livello internazionale.
1967: referendum che riconosce agli aborigeni il diritto
di cittadinanza. Ma restano sempre discriminati.
Anni ’80: su 100 mila abitanti, i carcerati bianchi sono
67 e gli aborigeni 775, di cui due al mese muoiono. Amnesty
Inteational conferma (1987).
1983: le compagnie minerarie (interessate a diamanti e
uranio) lanciano una campagna contro gli aborigeni; i loro
diritti sulla terra lederebbero gli interessi della nazione.
1995: test nucleari francesi sull’atollo di Mururoa. L’Australia
interrompe i rapporti diplomatici con la Francia.
1999: un referendum popolare decide, con la maggioranza
del 54%, di mantenere la regina Elisabetta d’Inghilterra
a capo dell’Australia… Il paese guida le forze dell’Onu
per pacificare Timor Est.
2000: in occasione delle olimpiadi gli aborigeni protestano
per i soprusi patiti nei secoli. Molti australiani auspicano
una riconciliazione nazionale.
2002: dopo il rifiuto del governo conservatore di John
Howard di accogliere 400 naufraghi afghani (settembre
2001), le Nazioni Unite aprono un’indagine.

Il paese oggi
Superficie: 7.741.220 chilometri quadrati. È il gigante
del continente Oceania.
Popolazione: 20 milioni. I due terzi sono discendenti di
britannici e un terzo è costituito da immigrati asiatici, latinoamericani
ed europei. Gli aborigeni sono circa 390
mila e sono trattati come cittadini di serie B.
Capitale: Camberra (350 mila abitanti). Economicamente
le città più importanti sono Sydney e Melboue,
entrambe con oltre 3 milioni di persone.
Ordinamento dello stato: monarchia parlamentare, con
un governatore generale (designato dal re d’Inghilterra) e
un primo ministro. Due i maggiori partiti: conservatore e
laburista.
Lingua: inglese.
Risorse economiche: ingenti in ogni settore.
?¡ Settore primario: abbondanti i cereali, specie frumento.
Si segnalano anche canna da zucchero e cotone. Importante
l’allevamento di ovini (il paese è il primo produttore
al mondo di lana).
?¡ Settore secondario: il sottosuolo è ricco di minerali (oro,
petrolio, carbone, ferro, lignite, piombo, rame, ecc.). Tra
i «minerali strategici» c’è l’uranio.
?¡ Settore terziario: si esportano prodotti
industriali e agricoli (il paese è il primo
esportatore di carbone, il secondo di lana,
il terzo di frumento).
Il turismo è incoraggiato da convenienti
tariffe aeree e da una buona organizzazione.
Indicatori sociali: l’istruzione è obbligatoria
da 6 a 15 anni; previdenza e assistenza
medica sono gratuite; il servizio
militare (con uomini e donne) è facoltativo.
Reddito annuo pro capite: 20.950 $
USA, inflazione 1,5%; disoccupazione
7,2% (dati del 1999).
Religioni: prevale il cristianesimo, con i
protestanti pari al 42% e i cattolici al
28%. Minoritari sono i cristiani ortodossi,
buddisti, musulmani, ebrei.

NATA SULLA ROCCIA
Le origini dell’Australia dei bianchi

Verso la fine del 1700 l’impero britannico fondò una colonia penale
nel Nuovo Galles del sud, per risolvere il problema del sovraffollamento
delle carceri in patria. Nel gennaio 1788, dopo otto mesi di difficile
navigazione, una flotta di 11 navi gettò l’ancora nella baia di Sydney,
così chiamata dal nome del segretario britannico per le colonie, lord Sydney.
Un gruppo di 1.200 persone (galeotti e soldati con famiglie al seguito)
costituì il primo insediamento bianco del paese. I primi edifici in legno
sorsero lungo alcune sporgenze rocciose naturali e per questo furono
chiamati «The Rocks».
Nel giro di qualche decennio, mentre le deportazioni penali diminuivano,
lo sviluppo rapidissimo dell’allevamento delle pecore (con il conseguente
ricco commercio della lana) incominciò a richiamare anche coloni
liberi.
Nel 1829 fu nominato un governatore, ed ebbe inizio anche la vita
politica. Presto si incominciò ad usare la locale pietra arenaria e sorsero
edifici commerciali, ritrovi ed altre abitazioni. Per oltre un secolo «The
Rocks» furono il crocevia di mescolanze di umanità, ricchi e poveri, galeotti,
militari e coloni provenienti soprattutto da Inghilterra, Irlanda e altri
stati europei, ma anche da Cina ed Estremo Oriente.
Con il crescere della popolazione si diffusero anche il crimine e le malattie.
Nel 1900 la peste bubbonica colpì l’insediamento. Un’altra
minaccia si profilò negli anni ’60 da parte di gruppi di costruttori-speculatori,
che avevano progettato di cambiare per sempre l’aspetto de «The
Rocks» innalzando edifici a molti piani. La protesta popolare, che difendeva
l’importanza dello storico sito, prevalse. Oggi a Sydney la gente del
posto e i visitatori possono godere di un affascinante spazio vivibile in
una delle baie più belle del mondo.
I siti storici come il Cadman’s Cottage (la prima residenza bianca fissa
di tutta l’Australia, che ospita ora un piccolo museo), i magazzini Argyle,
la casa del mercante, il palazzo del governatore… sono stati magnificamente
restaurati e ospitano eleganti negozi di artigianato, piccole gallerie
d’arte e musei, caffè e ristoranti.
Passeggiando attraverso vicoli tranquilli o entrando in vecchi cortili,
mentre si scoprono ad ogni angolo scorci del passato, è possibile ascoltare
gratis ogni giorno jazz dal vivo e assistere alle esibizioni di artisti del
teatro di strada o a deliziosi spettacoli e attività per bambini.
Un monumento in pietra arenaria, costituito da tre personaggi in un
unico blocco (colono, militare e galeotto), ricorda la singolare nascita di
questo popolo, mentre girando lo sguardo si profila a pochi passi la sagoma
dell’Opera House, dell’Harbour Brigde e dei modeissimi grattacieli
delle compagnie multinazionali più importanti del mondo.

Silvia Perotti




Attraversando l’isola-continente dell’Australia

Un mosaico affascinante (e crudele)

Le «tessere» sono vescovi rattristati, bambini rubati, immigrati italiani,
medici volanti, guide tutto-fare. E costoni rocciosi, strade interminabili,
foreste, praterie, parchi con fiori smaglianti e timidi canguri.
E gli aborigeni?
Ovunque si balla il «valzer di Matilde».

IN CHIESA E I «BAMBINI RUBATI»
Sydney. Partecipiamo alla messa
nella parrocchia cattolica di St. Canice.
L’altare è in marmo di Carrara,
eseguito dallo scultore italiano «Signor
Primo Fontana» nel 1888. La
St. Canice’ Church, costruita verso il
1880 sul modello dell’omonima cattedrale
di Kilkenny (Irlanda), fu il
primo centro comunitario di ispirazione
cattolica della città.
I canti ci ricordano quelli delle funzioni
protestanti. Alla «preghiera dei
fedeli» sono ricordate anche, con nome
e cognome, le persone particolarmente
bisognose. Dopo l’eucaristia,
vengono serviti dolci, bibite e si
scambiano saluti e notizie.
Il parroco, un simpatico castigliano,
ci informa che i cattolici australiani
non sono organizzati come chiesa,
ma sentono molto l’amore verso
il prossimo e praticano ogni forma
di carità.
I primi cattolici sbarcarono in Australia
nel 1800: erano sacerdoti irlandesi
deportati dall’Inghilterra. Oggi
la presenza della chiesa è notevole
soprattutto nel campo educativo:
sono circa 2 mila le scuole, frequentate
da oltre 600 mila studenti. I vescovi
superano la trentina.
Da un giornale parrocchiale di Sydney
apprendiamo che la chiesa è rattristata
da una decisione della Corte
di giustizia; questa ha respinto la denuncia
di «sottrazione forzata», presentata
da due aborigeni appartenenti
alla stolen generation (generazione
rubata). Sono Loa Cubillo
e Peter Gunner. La coppia ha dichiarato
che, da bambini, sono stati
sottratti con la forza alle loro famiglie
per essere inseriti nel mondo
dei bianchi come addetti a lavori
umili e faticosi. Loa Cubillo e Peter
Gunner si sono appellati al Commonwealth.
I vescovi affermano che, se è vero
che alcuni indigeni permettevano che
i figli fossero loro tolti per ricevere
un’istruzione, questo non fu il caso
di Loa e Peter. Si richiede una risposta
adeguata al dramma, che non
si risolve con indennizzi economici,
bensì con il riconoscimento dei soprusi
commessi.
La Corte ha replicato che, allora, la
legge permetteva ad un funzionario
di prendersi cura di bambini nativi,
quando fosse nel loro interesse, anche
contro la volontà della famiglia.
Però questa non fu la sorte di Loa
e di Peter, vittime di viziose violenze
sessuali nelle case di Darwin, dove
crebbero infelici (anche senza mangiare),
riportando gravi traumi per
tutta la vita. Ma le vittime non hanno
convinto la Corte. Loa e Peter furono
sottratti ai loro genitori rispettivamente
nel 1947 e 1956.
Dalla decisione della Corte di giustizia,
dalle sue motivazioni, dagli
autori della denuncia e dal dibattito
svoltosi in tribunale è emerso un capitolo
crudele della storia australiana,
di cui si è venuti a conoscenza
solo nel 1997, ma che si estende ben
oltre la metà del 20° secolo.

IL SOGNO DEGLI IMMIGRATI ITALIANI
Dopo la prima guerra mondiale,
numerosi giovani italiani incominciarono
a parlare dell’Australia, la
«terra sottosopra», dove il cielo stellato
è all’«incontrario», con vastissimi
territori ancora da conquistare.
Sognavano quell’isola in fondo al
mappamondo, perché laggiù il governo
regalava ricchi terreni a chiunque
avesse il coraggio e la forza di
trasformare la foresta in fattorie,
strade, città. E, per gli appassionati, c’era la possibilità di cacciare dall’alba
al tramonto animali e uccelli
di ogni genere.
Il governo australiano, per evitare
costi sociali, preferiva che gli immigrati
sud-europei avessero un parente
cui appoggiarsi; costui firmava un
documento, impegnandosi a fronteggiare
ogni necessità del nuovo arrivato.
Dai rapporti governativi dell’epoca
si apprende che si favorivano
lombardi, veneti e piemontesi, «più
simili agli anglosassoni, educati, laboriosi
». Siciliani e calabresi erano
graditi solo per la pesca.
Ancora oggi gli anziani agricoltori
del Queensland ripetono che, quando
la canna da zucchero si lavorava
a mano, gli italiani tagliavano il
doppio dei giapponesi e dei maltesi.
Molti hanno fatto fortuna.
I nostri connazionali partivano dal
porto di Genova. Approdati in Australia,
raggiungevano una città appena
sorta, con strade di fango e baracche
di legno, il tetto in lamiera.
Lavoravano a cottimo: si presentavano
all’alba agli ufficiali della Colonial
Sugar Refining, che formavano
gruppi di tagliatori composti da tre
lavoratori esperti, sei nuovi e una
donna per la cucina. Gli ufficiali davano
la precedenza agli inglesi, poi
venivano i neri e gli italiani. Lavoravano
il più possibile.
Gli italiani, appena mettevano da
parte qualche soldo, compravano dei
cavalli, un carro, qualche suppellettile
e partivano verso le terre vergini
da disboscare, molto fertili, dove c’era
solo giungla, serpenti e coccodrilli
nei fiumi. Piantavano la canna, e
morivano di fatica per far vedere agli
inglesi che erano più bravi di loro.
Da un lato un paradiso di libertà,
con la casa dei vicini a mezza giornata
di cammino; dall’altro una vita
piena di insidie, con cicloni che duravano
giorni e giorni trasformando
le valli in laghi e le strade in fiumi.
Case intere venivano spazzate via in
un attimo, se gli uomini non vincevano
questa lotta immane salendo a
decine sul tetto, oppure legandosi alla
vita delle funi, dopo averle fatte
passare intorno alle travi del tetto e
tirandole con tutte le forze.
Le città sorgevano dal nulla, appena
un avventuriero scopriva che la
regione nascondeva giacimenti auriferi;
migliaia di cercatori vi si riversavano
seguendo il profumo della
fortuna. Intanto molti poveri disperati,
giungevano da altre città: non
conoscevano i pericoli del bush e, in
tanti casi, morivano di sete prima
che fosse costruito l’acquedotto per
portare l’acqua da centinaia di chilometri
di distanza.

«PAPPAGALLI» E CANGURI
Per tanti immigrati il sogno australiano
divenne una dura realtà,
che alcuni pagarono con la vita. Oltre
le difficoltà materiali, erano anche
gravi i problemi psicologici,
dovuti a solitudine e paura. Sorsero
così i «dottori volanti» (flying doctors).
La prima base dei «dottori volanti
» sorse a Cloncurry (Queensland)
nel 1928. Disponeva di un telegrafo
a pedale e di un piccolo aereo di tela.
Fu anche istituito un servizio, organizzato
da donne, chiamato «pappagallo
», per far sentire meno la solitudine
con chiacchiere opportune.
Molti ricordano ancora il «dottore
volante» atterrare nel bush e rimuovere
i grumi di sangue dal cervello dei
pazienti con un trapano da legno…
senza anestesia. Oggi la Royal Flying
Doctor Service è una società no profit
con basi operanti 24 ore su 24 con
radio-telefono. Per molti che vivono
in zone remote è l’unico legame con
il mondo esterno; per altri funge da
sistema di supporto, in caso di malfunzionamento
del telefono caricato
con energia solare… Le chiamate possono
essere effettuate per affari o ragioni
di natura sociale, per ordinare
viveri, per consultazioni mediche. In
caso di emergenza, ogni base può coprire
la propria area con evacuazioni
o trasporto all’ospedale in meno di
due ore.
La prima sensazione che si prova,
di fronte al paesaggio australiano,
è quella di uno struggente infinito.
Si viaggia per centinaia di chilometri
su strade rettilinee, senza incontrare
una casa o incrociare un altro
veicolo, intravvedendo in lontananza
dolci montagne arrotondate,
spesso a forma di tronco di cono.
Colpisce l’armonia dei colori: la
terra rossa, i cespugli di spinnifex di
un verde intenso, gli eucalipti (ne
esistono centinaia di specie). Nel bush
(paesaggio selvatico per eccellenza)
sembra che nulla sia lì per caso e
si capisce da dove vengono i miti degli
aborigeni. L’idea che il paesaggio
sia stato creato durante «il tempo dei
sogni» da qualche antenato, per ottenere
un’opera d’arte fatta insieme
alla natura, diventa lampante.
Attraversiamo le prime e sconfinate
praterie, all’apparenza incontaminate.
La guida ci racconta l’aggressione
ecologica che i suoi antenati,
all’inizio del 19° secolo, scatenarono
contro l’ambiente. L’erba non è australiana,
ma fu portata dagli europei
per le loro mandrie di pecore e
mucche; invadente come i coloni, in
poco tempo si sostituì alla vegetazione
originaria. La natura australiana,
isolata dal resto del pianeta per
milioni di anni, non ha potuto difendersi
dalle invasioni arrivate dall’Europa;
il bush originario è in gran
parte scomparso.
Conigli, cani, gatti, maiali inselvatichiti, rospi della canna da zucchero,
mimose africane, calle inglesi e
molte altre specie di animali e piante,
all’apparenza insignificanti, sono
responsabili della distruzione di interi
ecosistemi.
Attraversiamo un campo di calle
selvatiche; il nome australiano di calla
è white death (morte bianca)… Il
celebre evoluzionista Charles Darwin
era in relazione con i Bussel (proprietari
terrieri inglesi), che abitavano
vicino a Perth ed erano appassionati
di botanica. Darwin, un anno,
inviò loro come regalo di natale un
vaso di calle, imbarcandolo senza
speranza per l’Australia. Dopo due
mesi, la piantina, sopravvissuta al
viaggio, fu trapiantata dai Bussel in
riva al Margaret River. In meno di un
secolo le calle hanno spazzato via i
fiori naturali del bush australiano…
Ecco spuntare canguri grigi, marroni,
rossicci: fermi ai lati della strada
ci aspettano incuriositi con le
zampe anteriori raccolte sul petto,
pronti a tornare con un paio di salti
nel bush quando siamo troppo vicini.
Ci sono anche i wallaby (canguri
più piccoli e timidi), graziosissimi.

QUELLA GUIDA STRAORDINARIA
La vita rilassata degli australiani
dovrebbe essere esportata in tutto il
mondo. Un perfetto esempio di questa
Australia è la categoria delle guide
turistiche.
L’affluenza di visitatori è aumentata
in misura straordinaria con effetto
boomerang… data la diminuzione
dei costi e il miglioramento dei
servizi. Le guide sono preparate da
scuole specializzate per i vari tipi di
accompagnamento. La loro caratteristica
è quella di abbracciare molte
competenze. Sui treni la guida opera
anche come bigliettaio e cameriere,
oltre che fornire informazioni su
località e natura; e non è raro che si
infili la tuta e si trasformi in idraulico…
Percorriamo la Great Ocean Road,
una strada tagliata per centinaia di
chilometri nella scogliera ad ovest di
Melboue. Questa strada fu costruita
nel 1932 a ricordo dei soldati australiani
periti nella prima guerra
mondiale. La guida è anche autista
della corriera: una simpatica ragazzona,
che indossa comodi pantaloni
e camicia maschili.
Osserviamo dallo specchietto laterale
il suo volto pacioso, sempre sorridente
e rilassato, mentre parla per
ore al microfono sospeso alla sua altezza:
spiega la storia geologica della
zona, racconta le vicende degli innumerevoli
battelli che sono naufragati
su questa costa… Apprendiamo
che la città di Melboue fu fondata
nel 1846 con la corsa all’oro e che coloro
che venivano in Australia, al di
là dello spirito di avventura o di altri
motivi, da qualsiasi parte provenissero
e qualunque fosse la loro identità
personale, tutti avevano un
unico scopo: fare tanti soldi.
Ci parla delle raffinerie di petrolio
sorte nel 1950 e di come il governo
fece pubblicità in tutto il mondo per
far venire gente che vi lavorasse, della
Ford che arrivò nel 1924 ed è tuttora
molto popolare. Poi passa dalle
notizie sugli sport nazionali a quelle
sugli allevamenti e la tosatura delle
pecore… Da sola ci ha intrattenuti
dalle 8 del mattino alle 9 di sera, guidando
un pullman per centinaia di
chilometri, con 53 persone di tutto il
mondo, su strade strette, tortuose, a
picco sul mare. Ci ha pure servito in
un bosco una merenda con tè e dolci,
stile Australian bush.
Alla sera, ci complimentiamo con
lei per la professionalità, chiedendole
se non sia faticoso un tale lavoro.
«Non particolarmente – è la risposta
-. Ma si tratta solo di due giorni alla
settimana. Gli altri li passo in ufficio».

IL PARCO NAZIONALE «KAKADU»
Il parco nazionale Kakadu si estende
per circa 20 mila chilometri quadrati,
a nord dell’Australia. È al centro
di dispute fra ecologisti e politici
per le miniere di uranio.
Patrimonio mondiale dell’Unesco
per valori naturali e culturali, il
Kakadu comprende quasi tutto il bacino
del South Alligator e nel suo
habitat prospera un’enorme varietà
di piante e di animali, molte delle
quali uniche. Nuove specie continuano
ad essere scoperte. Abbraccia
inoltre luoghi di grande importanza
artistica e archeologica, che riflettono
la ricchezza della plurimillenaria cultura aborigena.
Il parco è diretto da un Consiglio,
composto in maggioranza da aborigeni,
scelti dai proprietari terrieri. È
la realizzazione di un progetto prestigioso,
che contempla la protezione
di un delicato ecosistema di
foreste, fiumi e monti in un’area ricca
di testimonianze preistoriche. Per
esempio: le mangrovie (che altrove
stanno scomparendo per far posto
agli allevamenti di gamberetti delle
multinazionali) contano qui 20 specie,
divenendo un vivaio naturale di
pesci. In questo ambito, da anni, è
attivo un piano governativo con forti
investimenti e il sogno di diventare
leader mondiale.
Nella visita del Kakadu, siamo accompagnati
dalla solita guida tuttofare:
in questo caso un’esile fanciulla,
biologa, esperta di flora e fauna
locale, che da sola ci ha fatti imbarcare,
ha tolto gli ormeggi, ha staccato
il battello con una lunga canna
dalla riva paludosa e acceso il motore.
Ora manovra in stretti passaggi,
si ferma e riparte. Ci fa visitare insenature
particolari. Illustra con competenza
la complessità dell’ecosistema
che stiamo attraversando.
Nella crociera sul fiume East Alligator
siamo, invece, accompagnati
da due aborigeni: uno, più intellettuale,
risponde alle nostre domande
sulla loro situazione; l’altro, più pratico,
ci illustra le loro attività artigianali.
Costeggiamo l’Ahemland, patria
degli aborigeni e dei loro miti. Poniamo
loro alcune domande. Rammentiamo
anche una scena di pochi
giorni prima ad Alice Springs, una vivace
cittadina di 25 mila abitanti. È
sabato: alcuni aborigeni scendono da
un taxi (!) e raggiungono un parco
per aggregarsi ad altri, sdraiati sull’erba;
tutti fumano e per terra vi sono
lattine di birra e bottiglie. Quando
ripassiamo dopo alcune ore, gli
aborigeni sono ancora là; ci fanno
pensare a persone sradicate dal loro
mondo e per nulla inserite in quello
dei bianchi. Ecco il problema.
Fino al 1860 gli aborigeni (chiamati
anche negritos) erano considerati
animali e i bianchi li trattavano
come la selvaggina. Non conoscevano
armi da fuoco, né sapevano difendere
il loro territorio, dal momento
che fra loro non esistevano proprietà
né si dividevano le zone di
caccia. Tuttavia la loro terra, enorme
ed inospitale, li ha salvati dall’estinzione.
Cinicamente qualcuno sostiene che
sarebbe stato più vantaggioso il contrario,
considerato il dramma passato
e presente degli antichi padroni
dell’Australia: infatti il 90% è vittima
dell’alcornolismo e per questo spesso
in carcere; l’80%, senza lavoro, sopravvive
con sussidi governativi. In
media la vita di un aborigeno è di 50
anni, mentre la mortalità infantile è
tre volte superiore a quella dei bianchi…
Ora siamo di fronte ad un giovane
aborigeno, dall’aspetto intelligente,
che si esprime in un buon inglese: ci
espone le difficoltà del suo popolo
con dignità e malinconia, ma dimostra
anche fiducia nel suo spirito d’intraprendenza.
Gli anziani soffrono
molto, perché le loro tradizioni stanno
scomparendo; i bambini vanno a
scuola e studiano l’inglese, perché i
loro genitori capiscono che l’integrazione
nel mondo dei bianchi è l’unico
futuro, pur con la forte volontà di
non abbandonare i fondamenti della
cultura tradizionale.
Alcuni bianchi rilevano nel comportamento
degli aborigeni una certa
ambiguità: da una parte si atteggiano
a vittime e protestano per i loro
diritti calpestati e i soprusi subiti
dalle istituzioni; dall’altra, proprio di
queste cercano di approfittare per ottenere
vantaggi economici dal turismo,
dalla loro arte e da altre forme
consumistiche di guadagno.

BALLANDO CON MATILDE
È notte. Con emozione ascoltiamo
dalla radio Waltzing Mathilda. È
l’inno nazionale ufficioso dell’Australia,
la canzone più popolare: una
malinconica ballata che spesso sostituisce
(anche per clamorose gaffes)
il vero inno nazionale.
Composto e scritto nel 1891, Waltzing
Mathilda è insieme un inno alla
libertà e un grido contro le repressioni
dei girovaghi da parte del potere.
Il titolo «ballare il valzer con Matilde
» assume il significato di affrontare
gli spazi infiniti dell’outback (interno),
ossia il never-never: la terra
che, una volta vista, nessuno più abbandona.
Matilde, infatti, è il nome
che i girovaghi dell’outback avevano
dato all’oggetto più prezioso del loro
equipaggiamento: il sacco-letto portatile,
che veniva arrotolato e legato
allo zaino.
E la mitica Mathilda Highway è la
pista tracciata dagli esploratori che,
guidati dall’irlandese Burke (agosto
1860 – febbraio 1861), riuscirono ad
attraversare il paese da Melboue al
Golfo di Carpentaria. Tutti i componenti
della spedizione (tranne uno)
morirono di sete durante il viaggio di
ritorno. Oggi quella strada è costellata
da decine di placche e piccoli
musei…
Le ultime e struggenti note di «ballare
con Matilde» si perdono sotto le
stelle nell’isola-continente dell’Australia.

(*) SILVIA PEROTTI
ha visitato l’Australia con il marito
Giovanni e i coniugi Francesco
e Paola Rosso. Già insegnante di
fisica nelle scuole superiori, la signora
Silvia è oggi anche presidente
dell’Associazione «Amici
Missioni Consolata» di Torino.

ALCUNE FONTI
– Australian Aboriginal Culture,
Camberra 1998
– Deirdre Stokes, Desert Dreamings
– Calendario Atlante De Agostini
2003, Istituto geografico De Agostini,
Novara 2003
– Guida del mondo 2001/2002 (il
mondo visto dal sud), Emi, Bologna
2001
– Alex Roggero, Australian Cargo,
Feltrinelli, Milano 2000
– Time, 25 settembre 2000
– Aimis (Agenzia di informazioni
missionarie), 1773/92

UN ABORIGENO A ROMA
Su alcuni edifici della «città eterna» vi sono targhe che ricordano i
soggiorni di tanti personaggi stranieri.
Ma degli australiani non vi è
nulla: nulla, per esempio, che indichi
la casa di Raffaello Carboni, celebre
cronista della rivolta di «Eureka
Stockade» (minatori contro
esercito: unica battaglia combattuta
sul suolo australiano). Né si ricorda
dove alloggiò Mary Mackillop,
prima santa australiana.
Però, nel cimitero dei benedettini
presso la basilica di san Paolo, un
appassionato di curiosità storiche
sarebbe contento di sapere che vi è
sepolto Francio Xavier Conaci, monaco,
morto giovanissimo nel vicino
convento nel 1853.
Conaci era uno dei cinque aborigeni
portati a studiare in Italia nella
metà del 19° secolo; poi alcuni
divennero probabilmente missionari
fra la loro gente: quattro provenivano
da New Norcia, nell’ovest
dell’Australia, e uno da Sydney.
Il missionario Rosendo Salvado,
spagnolo e fondatore di New Norcia,
condusse il Conaci in Italia nel
1849. Lasciata la famiglia, percorsero
i 132 chilometri dal monastero
di New Norcia a Perth su un carro
trainato da una giumenta. Pare
che Salvado si recasse in Europa
per raccogliere aiuti per la missione,
e l’aborigeno lo seguì in Inghilterra,
Francia e infine in Italia. Conaci
aveva 12 anni, capelli rossicci,
intelligenza acuta, di cui Salvado
era entusiasta. L’aborigeno scrisse
brillanti commenti sul suo viaggio
in Europa.
Frequentò con profitto la scuola
del convento a Cava dei Tirreni, vicino
a Napoli, ma il clima
umido gli causò
problemi di salute. Così
nel 1853 raggiunse
il monastero di san
Paolo. Non fu una
scelta felice, data l’umidità
e i problemi ai
bronchi. Infatti, dopo
poco tempo, morì.

LA CACCIA ALLA BALENA

«Una notte molti aborigeni si radunarono
nella baia di Encounter
per un rito, ma non avevano il fuoco
per illuminare le tenebre. Allora
invitarono alla cerimonia un potente
uomo, di nome Kondole, perché
possedeva il fuoco. Ma questi, infuriato,
lo nascose ed essi decisero di
prenderlo con la forza. Però nessuno
osava avvicinarsi. Infine un giovane,
Rilballe, scagliò la lancia: ferì
Kondole al collo e gli prese il fuoco.
Tutti gli altri si misero a ridere, ma
furono trasformati in animali. Kondole
corse verso il mare e divenne
una balena. Ora soffia fuori l’acqua
attraverso la ferita del collo» (leggenda
del «tempo dei sogni»)…
Nel 1791 iniziò nel paese la caccia
alla balena da parte dell’equipaggio
del Britannia, dopo aver scaricato
merci e galeotti. Le balene furono
ritenute idonee alla caccia,
perché si avvicinavano alla spiaggia,
galleggiavano da morte e foivano
barili e barili di olio. Si sviluppò così
una vera industria.
Nel 1845 i cetacei, mentre prima
se ne contavano circa 100 mila,
erano quasi estinti: erano così rari
che la caccia fu dichiarata antieconomica
e, in poco tempo, furono
chiusi i centri per la lavorazione
della carne e dell’olio, sorti sulle
coste.
Nel 1931, nell’Australia del sud,
iniziò una campagna di protezione
e, nel 1990, si arrivò alla riserva. Al
presente si contano circa 800 balene:
pesano anche 80 tonnellate e
misurano 17 metri di lunghezza.
Con un po’ di fortuna si possono
ammirare vicino alla costa durante
le migrazioni invernali.

Silvia Perotti




L’università cattolica del MOZAMBICO

UN FIORE NATO SULLA PACE

«L’identità cattolica
comporta assai di più
della recita del breviario
ad un’ora precisa,
della “lectio divina”…»
(padre Filipe J. Couto, rettore
dell’università cattolica
del Mozambico).
«Ho preso possesso
in uno sgabuzzino della
Conferenza episcopale
mozambicana,
con una sedia,
un tavolino
e senza un centesimo…»
(padre Francesco Ponsi,
vicerettore e amministratore
dell’università cattolica).

Scena e retroscena di un grande evento
E non è mancato
un sorso di whisky

L’università cattolica del Mozambico è un evento, un grande evento.
Nasce per volontà dei vescovi come strumento di giustizia, pace e democrazia.
La realizzazione è affidata ad un missionario della Consolata.
Inaugurata nel 1996, il rettore e vicerettore «inventano» poi le facoltà
di medicina e agraria. Meglio: valorizzano un liceo malandato dello stato
e una caserma di guerra. I carri armati sono ancora là…
Oggi l’università conta oltre 2.300 studenti in sei facoltà (economia,
medicina, scienza dell’educazione, diritto, agraria, turismo-informatica)
a Beira, Nampula, Cuamba e Pemba.

FRA DUE LITIGANTI
La guerra in Mozambico impazziva
da anni. E il popolo, esasperato,
«impose» il cammino verso la pace…
Così i belligeranti si ritrovarono
a Roma, presso la Comunità di S.
Egidio, per concertare la fine delle
ostilità. Però le discussioni si protraevano
sterili, interminabili. L’uomo
della strada insorse ancora: «Finitela!
Da oltre un anno e mezzo
mangiate e bevete a sbaffo, mentre
i nostri figli si scannano con i vostri
bazooka».
Nel giugno 1992 le trattative tra i
contendenti Frelimo e Renamo (Fronte
di liberazione del Mozambico e
Resistenza nazionale mozambicana)
erano ad un punto morto. Nel disegno
di ricostruire il paese, la Renamo
rinfacciava al Frelimo l’«asimmetria
regionale», ossia una specie di
colonialismo interno del sud rispetto
al centro-nord.
È possibile firmare l’accordo di pace
anche subito – incalzava la Renamo
-; però le cose continueranno immutate.
Per esempio: i giovani del
nord resteranno esclusi dalla formazione
universitaria; per ottenerla dovrebbero
raggiungere Maputo, dove
esistono tutte le strutture specializzate,
ma dove i nostri giovani non
hanno appoggi familiari o conoscenti.
Per non parlare di strade e trasporti.
Restando così le cose, tutti gli
sforzi di recare democrazia e giustizia
al paese rimarranno frustrati.
In tale contesto, per superare lo
stallo, Jaime Pedro Gonçalves, arcivescovo
di Beira e mediatore fra i
contendenti, lanciò un messaggio:
la chiesa cattolica si sarebbe impegnata
a fondare una università nel
centro-nord del paese. La coraggiosa
proposta sgelò l’ambiente di diffidenza
e recriminazione.
Il 4 ottobre 1992 Frelimo e Renamo
firmarono gli accordi di pace dopo
16 anni di guerra civile, che aveva
prodotto un milione di morti, milioni
e milioni di profughi interni,
devastazioni incalcolabili e aveva seminato
2 milioni di mine. Il paese,
con un reddito annuo pro capite di
soli 63 dollari, era da bonificare e ricostruire
dall’«a» alla «z», materialmente
e socialmente.
Si cominciò anche dall’università
cattolica, proposta da dom Gonçalves a nome dei vescovi del Mozambico.
Il progetto aveva entusiasmato
il presidente della repubblica Joaquim
Chissano. Era piaciuto anche al
papa Giovanni Paolo II.
Ma chi avrebbe posto «mano all’aratro»?

MA LE VIE DEL SIGNORE…
«I vescovi del Mozambico hanno
chiesto a me di mettere mano all’aratro…
». È la schietta affermazione
di padre Francesco Ponsi (*), vicerettore
e amministratore dell’università
cattolica. Con il rettore, padre
Filipe J. Couto, ci accoglie a braccia
aperte nella loro abitazione di Beira,
non facendoci mancare neppure un
pacchetto di wafers e un bicchierino
di Ballantine.
«Però, questi poveri missionari con
il Ballantine in tavola!» abbiamo malignato
mentalmente. Poi, osservando
il loro modestissimo alloggio, ci
siamo subito ricreduti. Biscotti e whisky
erano solo l’espressione di una
ospitalità squisita.
«Per iniziare l’università – racconta
padre Ponsi, in T-shirt bianca e
ciabatte nere nell’afa della sua camera
seminterrata -, il presidente
della Conferenza episcopale mozambicana,
dom Paulo Mandlate, si è rivolto
a vari istituti missionari, che
tuttavia non se la sono sentita di assumere
l’iniziativa. Però padre Franco
Gioda, superiore dei missionari
della Consolata, ha risposto: “Noi,
forse, noi uno che può farcela l’abbiamo”…». Cioè Francesco Ponsi,
docente nel seminario maggiore di
Maputo.
Questi rievoca sorridendo: «Il 1°
luglio 1993, dopo gli esami dei seminaristi
a Maputo, ho assunto l’incarico
in uno sgabuzzino della Conferenza
episcopale… con una sedia,
un tavolino e senza un centesimo».
Sennonché le vie del Signore sono
infinite. Ed ecco che, attraverso padre
Beniamino Guidotti e i professori
Felice Rizzi e Stefania Gandolfi (in
Mozambico a nome della Conferenza
episcopale italiana – Cei), al missionario
furono assegnati 25 mila euro:
non un granché per iniziare una università
da zero. Ma furono un catalizzatore,
come… i cinque pani e due
pesci (di evangelica memoria) che,
miracolosamente, sfamarono oltre 5
mila persone (cfr. Mc 6, 35-42). Infatti,
poi, la Cei donò altri 250 mila
euro per le sedi universitarie di Beira
e Nampula, nonché 200 mila euro
per le case dei professori a Nampula.
Oggi la chiesa italiana garantisce,
ogni sei mesi, 250 mila euro.
Né si scordi il contributo dei vescovi
del Portogallo, pari a 550 mila
euro, da aggiungersi a quello della
società filantropica Gulbenkia (Lisbona)
e della banca tedesca Merkur,
che offrì un prestito senza interesse.
Né è mancato il prezioso «obolo
della vedova», ancora di evangelica
estrazione: si tratta di donazioni di
istituti missionari, diocesi, parrocchie,
solo «offerte-
Couto,
un prestito
banca del
Mozambico Standard Tota (restituiti
con interesse). E gli studenti pagano…
Soprattutto si sta operando con
intelligenza e coraggio per raggiungere
l’autonomia finanziaria. La facoltà
di economia l’ha già conseguita
e quella di diritto quasi.

SUPERATA L’ASIMMETRIA
Il 10 agosto 1996 l’università ha
aperto i battenti a Beira con la facoltà
di economia e con quella di diritto
a Nampula. Il superamento della
temuta «asimmetria» è apparso
subito evidente con le due sedi universitarie
decentrate rispetto alla capitale
Maputo.
Dal 1998 Nampula ospita anche la
facoltà di scienza dell’educazione,
mentre dal 2000 Beira si è arricchita
dell’impegnativa medicina. Di più:
a Cuamba (nella dimenticata provincia
del Niassa), dal 1999 opera la facoltà
di agraria e, dall’anno scorso,
nella pittoresca e nordica Pemba si
studia informatica e turismo.
Complessivamente 2.300 giovani
frequentano l’università: sono cattolici
e musulmani, induisti e protestanti,
agnostici e credenti; appartengono
a sei facoltà, dislocate
in quattro città su una linea di circa
1.500 chilometri. «Cinque nostri
diplomati, dopo la specializzazione
in Zimbabwe e Botswana, operano
già in alcune sedi: uno è cornordinatore
alla facoltà di turismo e sarà
presto affiancato da un altro; il terzo
è direttore aggiunto alla facoltà
di agraria; la quarta persona è una
signorina, che sarà l’amministratrice
della facoltà di medicina, e la
quinta entrerà pure nell’organo direttivo
della medesima facoltà…».
Il vicerettore manifesta legittima
soddisfazione.
Il tutto in soli sei anni, mentre il
paese è ancora sanguinante per le
ferite della guerra civile ed è sottoposto
a drammatiche emergenze,
come l’alluvione di tre anni fa. Ma la
pace opera prodigi. E l’università
cattolica lo è.
«Dopo lunghe e faticose trattative
– annota padre Ponsi – lo stato ha
restituito alla chiesa cattolica alcune
strutture educative nazionalizzate:
come il grande liceo dei missionari
maristi di Beira e quello Nossa
Senhora das Victorias (Madonna delle
vittorie) di Nampula». Durante il
colonialismo erano centri efficienti
di studio; ma alla riconsegna le «crepe
» non si contavano. Oggi quegli
edifici, ristrutturati, sono la sede decorosa
di alcune facoltà.
L’università cattolica è nata con la
«c» maiuscola, al servizio del bene
comune, della giustizia sociale, della
pace… oltre che al servizio di una
professione ad alto livello. Questo è
sancito pure dallo statuto, dopo numerosi
incontri con l’università cattolica
del Portogallo e quella (all’inizio
cattolica) di Durban, in Sudafrica;
per non contare gli estenuanti
negoziati con i ministeri dell’educazione e della giustizia del governo
mozambicano. L’idea che l’università
fosse «per la gente del centro-nord»
si è fatta strada faticosamente tra alcuni
politici del sud.
«Però ce l’abbiamo fatta. Abbiamo
superato l’asimmetria. La nostra università
è la prima organizzazione nazionale
fuori della capitale».
Sembra davvero soddisfatto padre
Francesco, che si concede una pausa
ed accende la pipa.

SPADE IN ARATRI?
La facoltà universitaria che ci sorprende
di più è quella di agraria a
Cuamba: primo, perché è la più povera
ed isolata; secondo, perché sorge
in un’ex caserma di guerra. Sul
fondo, dietro gli edifici, alte erbacce
coprono autoblindo e carri armati,
con uccelli che cinguettano rincorrendosi
e bimbi che giocano. Dalle
carcasse arrugginite sono stati
divelti dei rottami. Per fae zappe
e badili?
… Forgeranno le spade in vomeri
per arare e le lance in falci per
mietere il grano, e i popoli non si
eserciteranno più nell’arte immorale
della guerra: fu il grande sogno di
un poeta sommo, 2.300 anni fa (cfr.
Is 2, 4). La profezia sta avverandosi
nel cuore del Mozambico dalla facoltà
di agraria?
A prescindere dai sogni, la facoltà
avrà un futuro roseo se Cuamba diventerà
un nodo stradale per le province
di Niassa, Cabo Delgado, Tete,
Zambesia e Sofala, province che non
possono ignorare l’agricoltura: un’agricoltura
che deve crescere tecnologicamente
superando la soglia della
zappa. Una agricoltura che, perfezionandosi,
potrà occupare con successo
anche i giovani, arrestando l’esodo
verso le città, cariche di lusinghe
e menzogne.
Ragiona padre Ponsi: «Un figlio di
contadini, diplomato in agraria, se
lo chiudi in ufficio a Maputo, non si
sente realizzato; egli ha bisogno del
campo, di incontrare gli agricoltori,
di vedere le loro condizioni per aiutarli.
Preparare un dottore in agraria
con tali orientamenti è un servizio
all’intera nazione. Intanto, mentre
frequenta l’università, deve accedere
alla biblioteca, al computer… Speriamo
di ottenere presto anche l’accesso
ad internet. Ma non basta conoscere
i problemi; bisogna risolverli
positivamente secondo la cultura locale».
Per venire incontro a tale esigenza
fondamentale, ecco che la facoltà
di agraria ha accettato l’apporto del
Centro di cultura della missione di
Maua, specializzato nello studio dell’etnia
dei macua (cfr. Missioni Consolata,
gennaio 2003).

«MAASTRICHT»
FA LA DIFFERENZA

E le altre facoltà?
Economia raccoglie il numero più
alto di studenti: quasi 800. Il fine è
quello di creare piccoli imprenditori
nei villaggi, capaci di gestire in proprio
un’attività, produrre posti di lavoro:
quindi sviluppo. A tale scopo,
si richiedono minicrediti iniziali, ma
anche fantasia innovativa. Alla facoltà,
i futuri piccoli imprenditori si
sentono spesso ripetere: «Osservate
i venditori del mercato informale nel
centro di Beira. È, come ben sapete,
il Chunga moyo (fatti coraggio). Attingete
da quei venditori (assai meno
istruiti di voi!) idee e costanza».
Ma, ad un tiro di sasso dal mercato
informale, spicca il supermercato
Shoprite: appartiene ad una catena
del Sudafrica. Il nome «shoprite» (il
rito di acquistare) è già un messaggio,
molto equivoco però. Non lontano
s’impone anche «il monumento
alla globalizzazione»: è una gigantesca
bottiglia di Coca-Cola che, da un
basamento circolare in cemento, si
staglia solenne sotto il cielo… La facoltà
di economia è chiamata a remare
anche controcorrente.
Sempre a Beira, un tardo pomeriggio
visitiamo la facoltà di medicina,
con il sole che ne illumina gloriosamente
la facciata. Ci accompagna il
rettore Couto. Una guardia giurata,
in divisa grigio-verde, scatta sull’attenti
al passaggio del «capo»… facendoci sentire noi stessi un po’ importanti.
L’apertura di medicina è merito del
rettore, che ha saputo fronteggiare
resistenze serie. Il Mozambico – si
obiettava – più che di medici necessita
di infermieri; e poi non è equipaggiato
per formare cardiologi, chirurghi…
Ma Couto replicava: puntiamo
prima su medici e, se non ce la
faremo, avremo ugualmente ottimi
infermieri. Ha vinto la scommessa.
Il problema non è solo la preparazione
professionale di medici, bensì
disporre di esperti di sanità in sintonia
(ancora una volta!) con la cultura.
La stragrande maggioranza dei
medici mozambicani lavora a Maputo;
solo un’esigua minoranza accetta
di operare nei villaggi. Occorre invertire
la tendenza.
«Si tratta di creare un “nuovo” medico
di eccellente qualità – spiega padre
Ponsi -, ma disposto a servire i
poveri e dimenticati dalle strutture.
Non per forza deve essere un missionario,
ma con il suo spirito, sì. È necessario
un professionista che, dopo
la laurea, continui a leggere la realtà
in cui vive. Formare professionisti
con una mentalità di ricerca e aggioamento
permanente comporta
una struttura di sostegno, che non si
limita alla facoltà di medicina; implica
che l’università formi medici per
la società e continui ad accompagnarli
con libri, computers e incontri
fra loro via internet e congressi inteazionali…
Esiste pure una medicina
a distanza, che si estende a tutti
i centri di salute dove le comunità
devono essere seguite…».
«La nostra facoltà di medicina deve
essere non solo un luogo dove si
studia, ma anche una sede di scambio
di esperienze: una facoltà che
utilizzi, come metodo di studio, il
problem based leaing (apprendere
partendo da problemi concreti),
già sperimentato in Olanda da 20
anni all’università di Maastricht. Anche
noi l’abbiamo assunto…».
In facoltà incontriamo alcuni docenti,
fra cui padre Elias Arroyo, medico
missionario comboniano messicano,
e suor Donata Pacini, anch’essa
dottoressa comboniana. È poi la
missionaria ad accompagnarci nella
visita a medicina.
Ci soffermiamo davanti ad un murale
naif, che esprime bene l’animus
dello studio nella facoltà secondo il
problem based leaing: partito dal
villaggio, il dottore neolaureato vi
ritorna per servire la comunità secondo
le esigenze e lo stile di vita
locali. All’università studia in gruppo,
ricorre constantemente alla biblioteca
(è necessario quindi conoscere
l’inglese), fa pratica su manichini
anatomicamente perfetti, non
su cavie umane.
La novità del problem based leaing
non è solo di metodo, ma (e soprattutto)
di approccio tra professore
e studente, dove il primo non è il
soggetto protagonista e il secondo
oggetto. Tra i due si sviluppa un rapporto
alla pari, simile a quello della
«maieutica» di Socrate. Nel dialogo,
il grande maestro greco aiutava l’allievo
a cogliere la verità con domande
«curiose»: «Non ti pare che io fossi
nel giusto?… O tu avresti paura
che…?» (Platone, Fedone, passim).

STUDENTI CHE RECUPERANO
Purtruppo non incontriamo studenti,
perché sono in vacanza. Tuttavia
ne salutiamo alcuni in biblioteca.
«Sono in ritardo con il piano di
studi rispetto ai compagni di gruppo
– spiega la professoressa Karin,
austriaca, della facoltà di economia
-. Se non vogliono essere emarginati
dai loro stessi colleghi, devono recuperare».
Sugli studenti si sofferma anche
suor Dominique, delle orsoline italiana,
responsabile dell’immatricolazione
ad economia e impegnata a
Beira nella pastorale della donna. Il
mondo femminile esige soprattutto
rispetto e riconoscimento della propria
dignità. «Quanto alla lotta contro
l’Aids – aggiunge la missionaria –
si punta sulla prevenzione, secondo
il principio dell’amore responsabile.
Il preservativo è accettato come ultimo
mezzo di prevenzione».
Dominique non nasconde la propria
apprensione di fronte al comportamento
di alcune studentesse
universitarie, perché vi sono gravidanze
extramatrimoniali e aborti.
Le consorelle Damiana e Raffaella
insegnano etica, basata sulla dottrina
sociale della chiesa, una disciplina
che caratterizza la «cattolica».
Se condividono la preoccupazione di
suor Dominique, sottolineano anche
i fattori positivi.
«Noi privilegiamo gli studenti poveri
– ci confida suor Damiana -, ma
non escludiamo i ricchi, quasi tutti
appartenenti all’induismo e all’islam.
I musulmani tirano un sospiro di sollievo
quando affermiamo che la religione
non può essere imposta… che
la democrazia non è né comunismo,
né capitalismo, né teocrazia… che
occorre valorizzare la cultura tradizionale,
fondata pure sulla disciplina…
Uno studente della campagna,
mi ha detto: “Suor Damiana, ora non
mi vergogno più di essere figlio di
contadini…”. Io conosco universitari
che dormono in capanne e studiano
al lume di candela. Questi vanno
aiutati».

SOFFERENZE E GIOIE
Qual è il «peso» della chiesa nell’università
cattolica?
«È sufficiente dire che l’università
è della chiesa – risponde padre Ponsi
– : una chiesa esperta in umanità,
che lotta per la giustizia, la pace, il
dialogo e la riconciliazione fra le religioni,
le etnie, i partiti… La gerarchia
ecclesiale si è attirata anche critiche,
perché si assiste ad una certa
competizione tra seminaristi e universitari.
Fino a ieri si entrava in seminario
anche per studiare e poi, magari,
fare strada in politica. Oggi è un
po’ diverso: chi sogna una carriera civile
non entra in seminario. Questo è
positivo. Qualcuno dice che l’università,
proprio perché cattolica, è settaria,
fondamentalista. Non è vero. I
frutti lo dimostrano»…
Siamo sempre nell’afosa stanza seminterrata
di padre Francesco Ponsi,
dove l’abbiamo ascoltato a lungo, ora
in attesa anche della cena con il Ballantine
per aperitivo.
Nel frattempo poniamo al vicerettore-
amministratore dell’università
cattolica il seguente ed ultimo
quesito: «Che cosa ti ha maggiormente
rallegrato e rattristato nella
tua esperienza?».
«Mi ha rattristato lo scetticismo
di alcuni uomini di chiesa, che ci
hanno ritenuti dei matti ridendo alle
nostre spalle. Certo, ci sono stati
dei rischi, ma anche delle opportunità,
che mi hanno fatto toccare
con mano valori evangelici che prima
ignoravo. Come prete missionario,
mi sono trovato in un cammino
di crescita personale e spirituale. Mi
ha rallegrato il fatto che il cammino
sia avvenuto in compagnia di
Gesù Cristo: lo dico però “balbettando”.
Se avessi continuato a insegnare
in una situazione di sicurezza,
non avrei avuto questa esperienza
unica nella vita…».
«Basta con le chiacchiere! La minestra
si raffredda in tavola…». È il
rettore magnifico dell’università,
padre Filipe José Couto, che parla e
comanda.

(*) PADRE FRANCESCO PONSI,
cuneese di 61 anni, missionario
della Consolata, laureato in sociologia
statistica e demografia
a New York.
È docente per otto anni all’università
di Addis Abeba (Etiopia)
e per cinque è in Kenya come ricercatore
nella pastorale dei nomadi.
In Mozambico insegna nel
seminario di Maputo. «Fonda»
l’università cattolica, di cui oggi
è vicerettore e amministratore.

Università cattolica
PERSONAGGI, DATE, LUOGHI, NUMERI
Nel giugno del 1992 l’arcivescovo
di Beira, Jaime Pedro Gonçalves, durante
i colloqui di pace a Roma tra
Frelimo e Renamo, lancia l’idea di
una università cattolica. Dopo l’approvazione
dei vescovi mozambicani,
la realizzazione del progetto è affidata
a padre Francesco Ponsi.
Il 10 agosto 1996 l’università inizia
con due facoltà: economia-amministrazione
a Beira e diritto a Nampula.
Successivamente si aggiungono altre
quattro facoltà:
– scienza dell’educazione a Nampula
(1998)
– agraria a Cuamba (1999)
– medicina a Beira (2000)
– turismo-informatica a Pemba
(2002).
Gran cancelliere: Jaime Pedro
Gonçalves, arcivescovo di Beira.
Rettore magnifico: Filipe José Couto,
missionario della Consolata mozambicano.
Vicerettore e amministratore: Francesco
Ponsi, missionario della Consolata.
I docenti sono 230: i mozambicani
sono il 50%; poi portoghesi, italiani,
spagnoli, brasiliani, austriaci, russi,
messicani, ecc. (religiosi e laici).
Gli studenti sono 2.336 (di cui il
48% donne), così distribuiti per facoltà:
economia-amministrazione
750, medicina 180, diritto 580,
scienza dell’educazione 490, agraria
236, turismo-informatica 100.
Tasse annuali di iscrizione: 500, 750
e 1.000 euro, secondo le facoltà. Alcuni
studenti bisognosi usufruiscono
di borse di studio.
Dall’apertura dell’università, 252
studenti conseguono il bacellierato
(una sorta di laurea breve) nelle varie
facoltà (il 50% donne). Particolarmente
soddisfatti sono i primi cinque
bacellieri in agraria, la facoltà più
povera. L’avvenimento viene festeggiato
anche con una eucaristia, il 28
agosto 2002, presieduta dal vescovo
di Lichinga Luis Ferreira Gonçalves,
che consegna i diplomi.
PER INFORMAZIONI:
Missionarios da Consolata
Avenida Eduardo Modlane 715
CP 544 – Beira (Mozambico)
e-mail: imc.beira@teledata.mz

L’ESEMPIO DI CHISSANO
Don Matteo Zuppi, della comunità di S. Egidio, è stato uno dei mediatori
negli accordi di pace del 1992. Il sacerdote è tornato in
Mozambico nel giugno scorso e ha celebrato a Nampula il 10° anniversario
degli accordi, alla presenza di 2.800 giovani. Ad essi ha ricordato
che la pace non si conquista una volta per sempre, ma si costruisce
giorno per giorno dall’«interno». Dall’«esterno» si può dare una
mano. Ma saranno i mozambicani a dover ricostruire il loro paese.
Parole opportune per una nazione fragile culturalmente e ideologicamente.
Gli anni di indottrinamento marxista e il successivo periodo
hanno minato i valori della società tradizionale. Ora il paese si apre al
futuro senza molti punti di riferimento. I pericoli di prendere la strada
sbagliata sono molti. I politici sono tentati dal denaro facile, dall’arroganza,
dalla corruzione. Il popolo, sentendosi defraudato, può essere
tentato dalla violenza o dall’indifferenza, dalla corruzione a basso livello
e dal furto.
L’attuale presidente Joaquim Chissano ha deciso di non ripresentarsi
alle elezioni del 2004: una decisione lodevole, dato che sono pochissimi
i presidenti africani che lasciano il proprio posto volontariamente.
Il candidato alla successione è Armando Guebuza, storico del Frelimo,
che ha partecipato alla guerra per l’indipendenza al fianco di Samora
Machel. È stato anche il rappresentante del Frelimo durante i
colloqui di pace del 1992.
S iamo ottimisti sul futuro del Mozambico. I mali della nazione sono
una realtà; ma è altrettanto innegabile che questi ultimi anni hanno
rappresentato un importante passo
avanti: la pace è stata mantenuta;
anche se con ritardi, si stanno realizzando
diversi programmi di sviluppo;
i partiti politici stanno imparando la
ginnastica della democrazia; la corruzione,
specialmente se paragonata
a quella di altri paesi, è contenuta
entro limiti tollerabili.
Mozambico, buona fortuna!
JUAN GONZÁLEZ NUÑEZ

Francesco Beardi Lino Carpaneto




L’università cattolica del MOZAMBICO

Intervista con il rettore Filipe J. Couto
Per non essere
accattoni

All’università cattolica abbiamo soprattutto incontrato
padre Filipe J. Couto, rettore magnifico:
nell’arco di 13 giorni ci ha accompagnati in aereo,
auto e treno in tutte le facoltà.
Un pomeriggio a Nampula, all’ombra di un mango,
ci ha rilasciato la seguente intervista.
È troppo poco definire le risposte «interessanti».

Signor rettore, non c’è rosa senza
spine. C’è qualche spina all’università
cattolica?
Nel 1997 c’è stato uno sciopero
generale nella facoltà di diritto, perché
il decano, il vicedecano e tre docenti
portoghesi si erano dimessi. E
questo ad appena un anno dall’apertura
dell’università.
Cos’è avvenuto?
È avvenuto che i suddetti docenti,
non concordando con la linea del rettore,
si sono appellati al gran cancelliere
dell’università, l’arcivescovo
Jaime Pedro Gonçalves. Ma questi ha
risposto: non posso rimuovere il rettore
per causa vostra, e gli interessati
in 24 ore si sono
dimessi. Poi gli studenti,
per evitare ulteriore
caos, si sono schierati con
il rettore.
L’università cattolica è nata per
ridurre l’«asimmetria» rappresentata
anche dall’università
statale di Maputo. Oggi come
sono i rapporti fra i due atenei?
Sono come le mani del corpo: fra
i due atenei c’è collaborazione.
L’università statale considera
quella cattolica un fattore di sviluppo,
che cornopera con il governo
ed altri enti dello stato al bene comune.
E l’università cattolica
non intende staccarsi dal contesto
nazionale: proprio come
una mano nel corpo umano.
La statale opera nel sud
del paese (Maputo e dintorni);
invece la cattolica
lavora nel centronord.
Però l’università
cattolica è presente anche
a Maputo con l’istituto
«Maria, madre dell’Africa», dove si insegna
teologia della vita consacrata
e si tengono corsi
per educatori sociali.
Oggi il Mozambico
necessita di esperti
che sappiano
anche rimboccarsi
le maniche…
Ben detto! Proprio a questo mira
l’università cattolica. Ecco perché si
stabilisce il periodo di studio: da un
minimo di quattro anni ad un massimo
di sette. Poi si deve andare a
lavorare come impiegati statali o nel
settore privato come imprenditori.
Vogliamo che l’università sia legata
al mondo del lavoro in genere: scuole,
negozi, imprese… Una università
aperta anche ad altri paesi: Malawi,
Zimbabwe, Sudafrica, Tanzania.
La «cattolica» è frequentata anche
da protestanti, musulmani,
induisti. Quale clima interreligioso
si respira?
Ieri a Nampula siamo passati davanti
ad una università islamica, che
ha iniziato con una piccola facoltà di
agraria ed economia. Che Allah l’aiuti!
Dobbiamo tenere conto anche di
questa esperienza: per esempio, non
vedo perché qualche nostro professore
non possa insegnare anche in un
centro musulmano.
Allora in che consiste l’«identità
cattolica» dell’università?
L’università si ispira alla dichiarazione
pontificia Ex corde Ecclesiae.
Premesso che in tutte le facoltà si
parla di Gesù Cristo e si insegna etica,
occorre anche ricordare che un
cattolico perde la sua identità se si
isola: in tale caso, non è più cattolico,
ma settario. L’identità cattolica
comporta assai di più della recita
del breviario ad un’ora precisa, della
lectio divina… Hai presente l’esperienza
di san Pietro con Coelio?
Sì, ma ricordala tu ai lettori della
rivista.
Secondo gli Atti degli apostoli (10,
9-30), un giorno san Pietro vede un
lenzuolo con degli animali ritenuti
impuri dagli ebrei osservanti, e una
voce che gli dice: mangia. Ma lui, da
bravo ebreo, risponde: no. E la voce:
tu non devi considerare impuro ciò
che Dio ha creato. Poi Pietro incontra
Coelio, un romano pagano, animato
però dallo Spirito Santo. L’apostolo
dice a se stesso: io non posso
negargli il battesimo solo perché
non è ebreo.
Che c’entra questo con l’identità
cattolica?
C’entra, c’entra! A volte chi vuole
salvare l’identità cattolica è un credente
pigro, chiuso in se stesso, non
aperto alla voce dello Spirito Santo,
e considera impuro ciò che impuro
non è.
Per accedere all’università uno
studente deve pagare ogni anno
da 500 a 1.000 euro, secondo le
facoltà. Non sono cifre alte in un
paese povero?
L’università fa tutto il possibile
per abbassare i costi e venire incontro
agli studenti bisognosi. Ma,
per aiutare, ci vogliono mezzi: l’università
cattolica non ne possiede
molti. Allora ben vengano le borse
di studio! Se la chiesa ha dei soldi,
ben vengano, anche perché l’università
non li trova per strada… E
senza denari, non è possibile comprare
libri, avere buoni professori…
Però mi domando: fino a quando
dobbiamo continuare a dare e dare?
Si raccomanda l’autonomia economica
nel terzo mondo; ma non basta
auspicarla, bisogna farla… Oggi abbiamo
2.300 studenti (che pagano
facendo sacrifici), e si va avanti.
L’università cattolica impressiona
positivamente anche per la
disciplina che vi regna… Qual è
l’atteggiamento di fronte a comportamenti
sessuali che possono
causare sieropositività?
Siamo severi e raccomandiamo il
massimo controllo di se stessi. Tuttavia
il sieropositivo non è escluso
dall’università, ma gli si suggerisce
come curarsi.
Entrando all’università, si richiede
allo studente il test dell’Aids?
Lo si consiglia con tatto. Molti studenti
vi si sottopongono liberamente.
Però i testimoni di Geova, contrari
a trasfusioni di sangue, rifiutano
il test.
Come vedi il futuro dell’università
cattolica?
La speranza è di poter contare su
persone competenti, non fanatiche,
che credono in ciò che fanno: persone
che con la loro presenza diano
un’impronta all’università. L’ho detto
anche al cardinale Saraiva, ex rettore
della pontificia università urbaniana
(Roma), prefetto delle «cause
dei santi». Egli mi ha risposto: questo
è «il» problema di tutte le università
cattoliche.
Inoltre vorrei che all’università ci
fossero più insegnanti seri di etica
che riflettano profondamente.
L’etica dell’«homo ludens» (la
persona che gioca) o quella
dell’«homo faber» (la persona
che costruisce)?
Soprattutto l’etica dell’homo faber.
La Germania, sia in ambito cattolico
che protestante, ha dei consiglieri di
etica, e ritiene che nel rapporto fra
capitale e forza-lavoro la presenza di
tali consiglieri debba essere del 50%
in ambo le parti.
Infine all’università noi dovremmo
avere docenti apartitici, dediti solo
all’insegnamento.
Tu hai sposato il pensiero del
partito Frelimo, ne conosci tutti
i leaders del passato e presente.
Qual è la tua posizione, se l’università
non deve schierarsi con
alcun partito?
Io non sono il segretario di un partito;
lavoro in una università della
chiesa cattolica.
Quindi hai dimenticato la tua
appartenenza al Frelimo!
No!… In Italia a chi ti chiede «per
quale partito voti?», tu giustamente
puoi rispondere che il voto è segreto…
All’università io non faccio
propaganda per il Frelimo. Ma questo
non significa che non abbia una
preferenza di partito. Se la mia posizione
politica non è gradita, i vescovi
mi possono sempre rimuovere.
I vescovi, nello scegliermi come rettore,
non mi hanno detto niente.
Mia Couto ha scritto: «Un tempo,
quando c’era una visita di politici
o stranieri, avevamo l’ordine
di non mostrare un paese mendicante…
Ora invece bisogna mostrare
la popolazione con la fame
e le malattie contagiose. La nostra
miseria sta diventando positiva.
Per vivere in un paese di
mendicanti, è necessario esibire
le ferite, mostrare i bambini con
le ossa fuori».
Rettore Couto, qual è il tuo parere
al riguardo?
Il romanziere Mia Couto colpisce
nel segno giusto… L’università cattolica
non è solo una sfida alla povertà,
ma anche al comportamento
da mendicanti.

LA PERLA
DELLO SVILUPPO

In ricordo di Paolo Carpaneto
Ho visitato il Mozambico con uno scopo: verificare
in loco le strutture, l’impostazione, l’efficienza, la
situazione generale dell’università cattolica (UCM), retta
da due missionari della Consolata, per eventuali borse di
studio a nome di mio figlio Paolo.
Dopo la sua morte (21 ottobre 1996), sorse in mia
moglie Mariuccia e in me il desiderio di prendere qualche
iniziativa per aiutare, in ricordo di Paolo, la promozione
culturale di giovani in paesi in via di sviluppo.
Padre Francesco Beardi ci parlò della UCM, da poco
nata, con l’invito ad attendee gli sviluppi… Maturati i
tempi, il missionario suggerì di recarsi in Mozambico
per capire meglio la situazione. Decidemmo di metterci
in viaggio nell’estate scorsa. E così fu.
All’aeroporto di Torino-Caselle, la prima piccola avventura:
le forbici da barbiere! Padre Beardi aveva riposto
le forbici nel bagaglio a mano; quindi, passando
attraverso i controlli di sicurezza, furono evidenziate dal
metal detector e fatalmente sequestrate. A nulla valsero
le spiegazioni e suppliche del missionario: «Mica sono
un terrorista!». Così le forbici, che da 30 anni lo avevano
accompagnato nei suoi viaggi per il mondo, finirono
in un inverecondo contenitore di oggetti di scarto.
Lascio immaginare la costeazione dell’interessato.
Quali le impressioni sul viaggio e sull’università? Si
possono riassumere in una frase: sono partito con
molte buone intenzioni e sono ritornato pieno di ragionato
entusiasmo.
Buone intenzioni, perché? Forte e profondo è stato
il desiderio di ricordare Paolo in modo duraturo e a certe
condizioni; finalmente si è presentata l’occasione che
rispondeva ai nostri desideri. Ragionato entusiasmo, perché?
Quello che ho visto in Mozambico in generale e nell’università
in particolare è andato oltre ad ogni ottimistica
aspettativa; di qui l’entusiasmo che, quasi con fatica,
ho dovuto razionalizzare.
Cosa mi ha colpito di più? La gente: questi bantu con
le loro tradizioni, la cultura, semplicità e disponibilità al
sorriso, l’affetto verso i missionari e il desiderio di vivere,
quasi a voler recuperare in pace il tempo perduto in
guerra. Altre favorevoli impressioni: l’innata eleganza del
portamento (soprattutto delle donne), la dignitosa povertà,
non miseria (non ho incontrato un solo mendicante,
al di fuori di Maputo; ma – si sa – le capitali sono
sempre crogiuoli dove si fondono gli elementi più eterogenei
e con maggiori difficoltà). Mi ha colpito il ruolo
fondamentale della donna, il rapporto mamme-bambini,
il rispetto di questi verso gli adulti, la consapevole e
composta partecipazione alle celebrazioni religiose.
Mozambico, una nazione veramente in via di sviluppo
con un costante indice di crescita, che si ripercuote
su particolari abbastanza significativi della vita quotidiana.
Un esempio: in alcune zone del nord, considerate le
più arretrate, il numero di biciclette, dopo 10 anni dall’accordo
di pace (4 ottobre 1992), si è quasi centuplicato.
E non sono poche le donne che ne fanno uso.
Ma è l’università cattolica, scopo del viaggio, la «perla
» dello sviluppo in corso. L’università, voluta dai
vescovi mozambicani e realizzata dai missionari della
Consolata (con il coraggio di padre Franco Gioda, allora
superiore, e il duro, costante lavoro di padre Francesco
Ponsi, attuale amministratore e vicerettore), è la prima
organizzazione nazionale con sede fuori della capitale
Maputo. È stata riconosciuta dal Consiglio dei
ministri del Mozambico quale unità autonoma di utilità
pubblica a beneficio della società. Padre Filipe J. Couto,
mozambicano, ne è il rettore.
L’università nasce nel 1996 con tre priorità: è un
mezzo al servizio della pace; è attenta ad evitare gli errori
commessi in altre università; è un’entità universale,
non settaria, aperta a tutti, per formare persone con un
servizio di qualità alla comunità. Non a Maputo, dove già
esiste l’università statale e dove gravita quasi tutta la vita
del paese, ma nel centro/nord, per dare ai giovani di
quelle province, spesso dimenticate, la possibilità di una
valida formazione e iniziare a correggere gli squilibri causati dal potere accentratore della capitale.
All’UCM si respira aria pulita, in quanto regnano ordine,
serietà, competenza, desiderio di far bene. Entrando
nelle diverse facoltà si avverte il senso di responsabilità
e la carica di entusiasmo che anima tutti: il rettore,
i professori, gli ultimi assunti, gli studenti. Tutti
contribuiscono con impegno alla vita e alla crescita dell’università.
Interessante è il coinvolgimento degli studenti nelle
facoltà di medicina, agricoltura e turismo, dove è stato
introdotto dall’inizio il metodo di «apprendimento basato
sui problemi» (problem based leaing): un metodo
che verrà assunto presto anche nelle altre facoltà,
che hanno iniziato con l’impostazione tradizionale.
Secondo l’«apprendimento basato sui problemi», si
assegna un argomento agli studenti (in gruppi di otto),
che lo sviluppano avvalendosi di testi in biblioteca; lo dibattono
fra loro affiancati da un assistente; periodicamente
gli studenti devono rispondere sul lavoro svolto;
nel corso dell’anno il gruppo stesso elimina eventuali studenti
svogliati, di rendimento insufficiente. A fine anno
ogni studente affronta gli esami personali, dove si valuta
l’idoneità al passaggio all’anno successivo. Non esiste
la figura del professore titolare di cattedra.
Il metodo responsabilizza gli studenti, li rende parte
attiva e forma in essi una mentalità di ricercatori, qualità
indispensabile quando, laureati, eserciteranno la professione.
Il successo dell’UCM presso i giovani del centro-nord
del paese è confermato dal numero crescente di presenze
che, nell’anno accademico 2002/03, supera le
2.300 unità con una massiccia partecipazione di ragazze:
quasi la metà degli studenti. Questo è il fatto
che maggiormente stupisce, ma che a sua volta sottolinea
l’evolversi positivo della promozione della donna.
Inoltre, se il corpo accademico è costituito per metà da
personale straniero, l’altra metà è mozambicano, con la
certezza di aumentare il numero nei prossimi anni.
Molte sono le persone di spicco. Basti citare i coniugi
Jan e Frouke Draisma, responsabili della facoltà di
Scienza dell’educazione (Nampula), che hanno rinunciato
alla cittadinanza olandese per naturalizzarsi mozambicani.
Però sopra tutti svettano il rettore, padre
Couto, e vicerettore-amministratore, padre Ponsi: due
personalità diverse e complementari.
Padre Couto è una mente vulcanica lanciata verso il
futuro, prolifico di nuove idee, conosciuto ed apprezzato
in tutto il paese per il suo impegno nella lotta di liberazione
nazionale, con ampie entrature in tutte le direzioni,
sostenitore di una ferma disciplina in seno all’università.
Padre Ponsi, piemontese pacato, figura di gentleman
inglese, con una profonda esperienza di studioso e
docente, amministratore provetto di assoluta affidabilità.
Entrambi animati da una solida fede, da un elevato spirito
missionario, fermamente convinti del valore dell’università
cattolica. È la migliore garanzia per il futuro.
LINO CARPANETO

Francesco Beardi Lino Carpaneto




CONTENTI DELLA PROPRIA IDENTITÀ

Sono contento di essere protestante perché…
Libero…
Come… il gatto?
Perché non prendere un poco più sul serio
i «versetti della gioia» contenuti nella bibbia?

Èfacile imbattersi in cittadini che
si dichiarano contenti di essere
italiani, inglesi o tedeschi…
Non è altrettanto frequente incontrare
persone che si dichiarano felici
di essere cattolici, protestanti o ortodossi…
Ma ci sono!

AFFARE SERIO!
Il famoso teologo protestante,
Jürgen Moltmann, nel volume Dio nel
progetto del mondo moderno (Queriniana
1999), inizia il capitolo intitolato
«Il protestantesimo come religione
della libertà» con questa domanda
personale: «Perché prediligo
il protestantesimo? Perché sono tanto
volentieri protestante?».
E risponde senza esitazione: «Per
motivo della libertà: libertà davanti a
Dio nella fede, libertà della religione
nei confronti dello stato, libertà di
coscienza nei confronti della chiesa».
Già nella prefazione del suo libro, il
teologo si permetteva di riportare la
storiella un po’ ironica di Hans Mayer.
«Al mondo appena nato vennero a fare
gli auguri tre buone fatine. La prima
augurò al bambinello libertà individuale;
la seconda giustizia sociale;
la terza prosperità. Ma sul fare della
sera arrivò la fatina cattiva, per dirgli
che soltanto due desideri potevano
essere esauditi. Così il mondo moderno
occidentale scelse libertà e benessere,
scartando la giustizia. Il
mondo orientale scelse giustizia e
prosperità, scartando la libertà».
L’affare è serio. Ma ciò spiega l’atteggiamento
giornioso di Moltmann.
Ma liberi come? Come il gatto? Che
gioca, è autodidatta, non va a scuola,
non obbedisce a nessuno?

IL GIOCO DI POLLYANNA
A riguardo dei protestanti c’è quel
delizioso romanzo, Pollyanna, scritto
nel 1912 da Eleonora Porter.
Pollyanna è la figlia di un pastore
protestante; rimasta orfana a undici
anni è affidata a una zia, anch’essa
protestante molto rigida. Lei è invece
una bimba serena, piena di vita,
sempre contenta; anche nelle situazioni
poco piacevoli finisce col dire:
«Meglio così».
Suo padre le aveva insegnato il bellissimo
gioco di essere contenta. Un
giorno la bambina lo insegnò anche
al pastore del paese in cui viveva con
la zia, Paul Ford, del tutto sfiduciato
perché la gente non lo seguiva. Aveva
preparato per la funzione domenicale
un sermone più forte del solito
per tentare di scuotere il suo gregge.
Per trovare un po’ di quiete, il pastore
era uscito all’aria libera, con in
tasca il sermone, ruminando sul da
farsi. A questo punto lo sorprese Pollyanna,
che aveva intuito il suo stato
d’animo, e avviò la conversazione.
– Signor Ford, è contento di essere
pastore?
– Se sono contento! Perché mi fai
questa domanda?
– Non so! Ma mi è venuto in mente
mio padre. Anche lui ce l’aveva qualche
volta… ed io gli chiedevo se era
contento di essere pastore. Proprio
come ora lo chiedo a lei.
– E che cosa rispondeva tuo padre?
– Rispondeva di sì, naturalmente. Ma
di solito aggiungeva che non avrebbe
continuato neanche un giorno, se
non ci fossero stati nella bibbia i versetti
della gioia.
– I versetti di che cosa?
– Papà li chiamava così – rise la bambina
-, ma lo so che non hanno questo
nome nella bibbia. Sono tutti
quelli che cominciano con «state
sempre lieti», «giornite nel Signore»,
«cantate canti di gioia». Ce ne sono
tanti nella bibbia. Un giorno papà era
tanto triste e si mise a contarli. Sono
800! Diceva che se Dio si era dato
pena di esortarci per 800 volte a
essere contenti, doveva essere importante.
E furono questi versetti a
suggerirgli l’idea di quel gioco: il gioco
bellissimo di essere contenta.
Tempo fa il card. Ruini, forse in un
momento di scoramento simile a
quello del pastore Paul Ford, scrisse:
«Chiuso il secolo dell’ateismo, si apre
in occidente quello del cinismo: un
avversario forse meno provocatorio,
ma più subdolo».
Quanto agli atei non è raro il caso
di imbatterci in atei soddisfatti e ultra
contenti di esserlo.

Sono contento di essere cattolico perché…
Sono in bella
compagnia
Nella bellezza, «luogo» privilegiato di teofania,
e con una schiera di personalità eccezionali, dai primi
secoli ai nostri giorni, mi fanno sentire a mio agio.

La domanda di Pollyanna al pastore
Ford può essere rivolta ai cattolici
che s’incontrano per strada o in
chiesa: «Sei contento di essere cattolico?».
E lo domando a me stesso.

BELLEZZA A CIELO APERTO
Posso dire di esserlo, anzitutto, come
lo può essere un buon «turista».
Da un punto di vista artistico in Italia
(e non solo) il cattolicesimo splende
per bellezza e a cielo aperto, alla
portata di tutti: una conquista plurisecolare
del regno spirituale di Dio,
perché la bellezza è uno dei «luoghi
teologici» più eloquenti e più facili,
lievito e fermento.
Qui lo spazio fiorisce come un immenso
giardino, con maestosi edifici,
basiliche, cattedrali, campanili
svettanti da tutte le parti. C’è la forza
e semplicità del romanico, gli slanci
e splendore del gotico, lo svolazzare
del barocco… E dentro a questo
svariare di forme non c’è solo il genio
degli artisti, ma l’anima di intere popolazioni
credenti. In certe basiliche,
più ancora nelle loro cripte, si sente
che vi si è voluto dare corpo al silenzio
orante, per rendere più facile la
sensazione della presenza di Dio.
Il poema sacro di Dante, al quale
«han posto mano e cielo e terra», l’arte
sacra pittorica, diffusa come libri
di una biblioteca popolare, la musica
religiosa, comprese le ispirate melodie
del canto gregoriano… sono bellezze
cresciute dappertutto.
Nel Commento alla vita di Don Chisciotte,
quello spirito tormentato di
Miguel de Unamuno (1864-1937)
scrive una pagina incantevole: «Passando
un giorno per León, mi recai a
contemplare la sua meravigliosa cattedrale
gotica, quell’immensa lampada
di pietra, nel cui seno salmodiano
i canonici al suono dolce e grave dell’organo.
Guardando le attorte colonne,
i finestroni dalle grandi vetrate,
per le quali la luce si rinfrange e
diffonde in mille colori, pensai: quanti
desideri silenziosi, muti aneliti,
pensieri reconditi non avranno accolto
le pietre di questo edificio! Quante
invocazioni mormorate o tacitamente
formulate, preghiere, lamenti,
dichiarazioni d’amore, imprecazioni,
rimproveri! Quanti segreti versati nell’ombra
del confessionale!
Se ora tutti questi desideri, aneliti,
pensieri, preghiere, mormorii, invocazioni,
imprecazioni, dichiarazioni,
lamenti e segreti cominciassero a
cantare, soverchiando a poco a poco
la monotona salmodia liturgica del
coro canonico? Se si svegliassero le
voci che dormono nella cattedrale e
prorompessero in un unico canto, la
cattedrale crollerebbe, spezzata dall’impeto
dell’immenso clamore, e le
voci liberate, cercherebbero il cielo.
Ma una cattedrale spirituale sorgerebbe
più aerea e luminosa e insieme
più salda, un immenso duomo che innalzerebbe
colonne di sentimenti diramantisi
sotto la gran volta del cielo
di Dio, un immenso duomo, libero
dal suo peso morto, con le sue arcate
e pilastri ideali».
François René de Chateaubriand
(1768-1848), ferito quasi a morte nel
sentimento religioso dalle negazioni
degli enciclopedisti e sacrileghi orrori
dei sanculotti, scrisse Il genio del
cristianesimo. Pure il «genio del cristianesimo»
cattolico, espresso nell’arte,
chi potrebbe negarlo?

COME UNA LUCE INFINITA
Nel 1885 G. F. Gamurrini scoprì nella
biblioteca di Arezzo la cosiddetta
Peregrinatio Eteriae: diario di una piissima
dama del suo viaggio in Terra
Santa, Egitto, Edessa, compiuto alla
fine del IV secolo e durato tre anni.
Nel suo libro si sofferma a descrivere
anche le liturgie a cui poté assistere
a Gerusalemme. Rimase come
abbagliata dall’«Ufficio della luce»
(licinicon), quando al cadere della
notte, nella grande basilica, tra il
canto dei salmi, venivano accese le
lampade a olio, ed essa esclama: Et
fit lumen infinitum.
Anche questo ha insegnato il cristianesimo:
pregare nella luce anche
al cadere del sole. La luce che s’intravede
attraverso la cruna di un ago
o un’apertura di dieci metri è pur
sempre la stessa luce.

LA VOCE DEI PADRI…
Cosa accadrebbe se, come immaginava
Unamuno nella cattedrale di
León, prendessero voce, tutti insieme,
gli scritti dei cosiddetti «padri
della chiesa»? Jacques-Paul Migne
(1800-1875), operoso e intraprendente
prete francese del sec. XIX, ha
raccolto in 459 volumi gli scritti degli
autori latini e greci.
Quale piacevole cosa poter visitare
questi vecchi amici e intrattenersi
con loro. Oltre che alle opere di Agostino
(ne ha scritti circa 1.030), m’inchino
davanti a quelle di Giovanni Crisostomo
(344-407); con lui saluto
Olimpia, l’avvenente dama dell’imperatrice
Eudossia, ma che era di altra
natura e risplendeva di luce propria.
A lei il patriarca Crisostomo insegnò
a superare le disdette della vita
con la metropathia, senso della misura.
Anche la vita spirituale è come
l’arte: non rispettare la misura è compromettere
la bellezza; anzi la invita
all’euthumia, al cor altum.
Entrando in quella sala devo immancabilmente
passare a salutare
Gregorio di Nissa (332-399). Non farlo
sarebbe uno sgarbo imperdonabile.
Si tratta del fratello minore di Basilio;
aveva un amico importante,
Gregorio di Nazianzio. Non possedeva
l’estro per l’azione del fratello
maggiore, né l’eloquenza chiara dell’amico
Gregorio. Era un pensatore e
un teologo di prim’ordine, discepolo
di Origene.
I due fratelli dovevano molto alla
sorella Macrina, dotata di bellezza
straordinaria, alla quale il padre aveva
scelto un ottimo partito. Ma il fidanzato
muore prima delle nozze, e
lei, come si fosse trattato di un vero
matrimonio, offre al fidanzato defunto
la sua fedeltà, come farebbe una
sposa per il marito partito per un lungo
viaggio. Aiutò in casa la madre
Emmelia nell’educazione dei fratelli e
sorelle. Quando questo compito poté
dirsi esaurito, madre e figlia, accompagnate
dalle loro domestiche, si ritirano
nel Ponto, sulle rive del fiume
Iri, e vi fondano un monastero.
Dopo la morte della madre (373),
Macrina è nominata superiora del
monastero. All’inizio del 380 il fratello
Gregorio, sapendola gravemente
ammalata, le fa visita. Tra fratello
e sorella morente avviene un colloquio
di altissima elevazione spirituale,
che poi Gregorio immortalò in un
libro dal titolo De anima et resurrectione,
trasposizione cristiana del Fedone
di Platone.
Macrina, sul letto di morte, assegna
al fratello il compito di formulare
i dubbi e le obiezioni sull’aldilà, riservando
a sé il compito della confutazione
dei dubbi e difficoltà. Si
tratta dell’eterno problema dell’uomo
di fronte alla morte. «Il bene procede
verso l’infinito». Le eventuali pene
dell’aldilà non possono essere
etee: «Tutte le anime, una volta
purificate, ritornano al loro stato di
perfezione primitiva»; «una volta distrutto
il male, dopo un lungo periodo
di tempo, non rimarrà altro che il
bene. Anche queste nature, infatti,
riconosceranno concordemente la signoria
di Cristo». «Verrà il momento
in cui tutti gli esseri riconosceranno
Dio e toeranno a lui».
Naturalmente Gregorio questo discorso
lo fa a me, quasi in segreto,
quando lo vado a trovare… perché
son cose che occorre dire sottovoce
e in privato.

I FUORI CLASSE
Altro panorama incantato del cristianesimo
primitivo e sfondo di un
cattolicesimo amato, anche se contemplato
da molto lontano, sono i
deserti o laure abitate dai monaci;
distese aride, senz’acqua, eppure
piene di vita.
Si tratta di cristiani che, dal III al
VI secolo, abbandonavano le città per
vivere nei deserti dell’Egitto, Siria,
Palestina, soli o a gruppi, quasi uccelli
in grotte a piombo sul mare.
Il poeta cristiano bizantino, Romano
Melode, nato in Siria alla fine
del sec. V, in molte sue poesie esalta
la vita di questi «fuori classe». Scrive,
ad esempio: «Siate saldi e corroborati
nella fede. Ma tenete il vostro
capo inchinato. Piegate il corpo verso
terra, ma a Cristo guardate in alto
con l’anima. Aspirate e adoperatevi
a ciò con tenacia ad accantonare
la vita quotidiana per trasferirvi
con il pensiero nelle dimore di tutti
i santi, al fine di poter cantare, come
se foste già lassù, l’inno: Alleluia».
C’è anche una meravigliosa
raccolta di sentenze, detti,
proverbi, usciti dalla bocca
di questi asceti del deserto,
ma quasi con le tenaglie,
chiamati apoftegmata,
memorizzati da
molti pellegrini che, da
regioni lontane, si recavano
in quei luoghi
impervi per raccogliere,
magari dopo giorni
di silenzio e dopo aver
invocato quei solitari
a dire loro anche solo
una parola – dic mihi
verbum – che servisse da programma
di vita.
Questi detti sono brillanti, di gustosa
sapienza, e anche pieni di humour
(vedi riquadro).
In seguito il monachesimo si sviluppò
nelle forme più svariate, con
una fantasia imprevedibile. Vita monastica
e vita religiosa non vanno ridotte
a «dottrina»: sono fenomenistorici.
«Non ci sarebbe l’Europa – ebbe
a dire Massimo Cacciari – senza il
monachesimo»; e neppure l’espansione
missionaria.

CRISTIANO O CICERONIANO?
Tra le figure più simpatiche del cattolicesimo,
incontro Girolamo. Ormai
lontano da Roma e monaco a Betlemme,
nel 383-384 scrisse, alquanto
irritato, una lunghissima lettera a
una dama romana, Eustochio, per invitarla
al distacco dal mondo, poiché
«nessuno può camminare tranquillo
in mezzo a vipere e scorpioni».
In questa lettera citazioni bibliche
e principi ascetici s’intrecciano con
bozzetti spassosi di vita vissuta di un
tempo lontano. C’è, ad esempio, questa
descrizione di certi preti e monaci
nella Roma di papa Damaso (+
384): «Mettono ogni cura nel vestirsi
bene e profumarsi; il loro piede non
deve ballare in una scarpa troppo larga;
i capelli arricciati di fresco col ferro;
le dita scintillano di anelli; quando
camminano, per evitare che il fango
inzaccheri le scarpe, vanno in
punta di piedi».
Girolamo è un monaco colto. Ed eccolo
alle prese con se stesso. Si chiede:
«Che c’entra Orazio col salterio,
Virgilio col vangelo, Cicerone con gli
apostoli? A proposito ti voglio raccontare
un episodio della mia dolorosa
esistenza. Ne è passato del tempo
da allora!
Casa, padre e madre, sorella, parenti,
e – questo m’era più difficile –
l’abitudine a lauti pranzi: tutto avevo
tagliato via per il regno dei cieli,
e me n’ero andato a Gerusalemme
a militare per Cristo.
Ma dalla mia biblioteca,
messa insieme a Roma con
tanto amore e tanta fatica,
proprio non avevo saputo
staccarmi.
Povero me! (miser
ego!). Digiunavo e poi
andavo a leggere Cicerone.
Dopo molte notti
trascorse vegliando,
dopo aver magari versato
fiumi di lacrime al
ricordo dei peccati
d’un tempo, prendevo
in mano Plauto. Se talvolta, rientrando in me stesso, aprivo
i libri dei profeti, il loro stile disadorno
mi dava nausea. Era la mia
cecità a impedirmi di vedere la luce,
e m’illudevo che la colpa non fosse
dei miei occhi, ma del sole! (non oculorum
putabam culpam esse, sed solis).
A mezza quaresima, una febbre
acutissima mi penetra nelle ossa. Già
mi preparano i funerali. Tutto il corpo
è agghiacciato. Solo il povero
cuore, tiepido appena, dà ancor qualche
palpito, come se là si sia rifugiato
l’ultimo soffio di vita. D’un tratto
ho come un rapimento spirituale. Mi
sento trascinato davanti al tribunale
del Giudice e mi vengo a trovare tra
un tale sfolgorio di luce che irradia
da ogni parte, che io, sbattuto a terra,
non oso levare in alto lo sguardo.
Mi chiede chi sono. “Un cristiano!”
rispondo. Ma il Giudice dal suo trono
esclama: “Bugiardo! Sei ciceroniano
tu, non cristiano”. Resto di colpo senza
parole. Sotto le vergate (il Giudice
aveva dato ordine di battermi) mi sento
lacerare ancor più dal rimorso della
coscienza.
A lungo ho portato le lividure sulle
spalle. Da quel giorno mi sono
messo a leggere la scrittura con un
ardore che mai ne avevo messo l’eguale
nelle letture pagane».
A riguardo della natura di questo
sogno si è discusso a lungo.
Tra le tante lettere di Girolamo ve
n’è una che riprendo spesso in mano.
È indirizzata a Eliodoro, un amico
che, dopo averlo seguito, abbandona
l’eremo. Girolamo lo prega insistentemente a ritornare, dipingendogli le
giornie spirituali della solitudine: «Ma
che cosa fai nel secolo, fratello mio?
Tu sei più grande del mondo! E fino a
quando ti debbono pesare sul capo le
ombre dei tetti? E fino a quando vuoi
rimanere chiuso nella prigione delle
affumicate città? Credi a me: qui dove
sono io, vedo un non so che più di
luce. E mi pare, quasi deposto il peso
del corpo, di volarmene verso il puro
splendore del cielo. Alzati col pensiero
a passeggiare per il paradiso!».
Eliodoro non ritoerà al deserto.
Diventerà vescovo. Girolamo però l’aveva
ammonito: «Non tutti i vescovi
sono vescovi (non omnes episcopi,
episcopi sunt); non è la dignità ecclesiastica
che fa l’uomo cristiano».
Quale ricchezza in questo monaco
che con i suoi scritti ha attraversato
i secoli. E anche quanta capacità di
affetto e di poesia! La lettera a Eliodoro
così iniziava: «Con quanto amore
e con quanta premura mi sono adoprato
perché potessimo rimanercene
insieme all’eremo, lo sa il mio cuore.
Con quale lamento, poi, con quale dolore
e quali sospiri io ti abbia accompagnato
nella tua partenza, te lo attesta
questa mia lettera, che tu vedi
qua e là cancellata dalle lacrime (quas
lacrimis ceis interlitas)».

SGUARDO ALL’INFINITO
Non è solo pensando a Girolamo,
ma anche ad Agostino (354-430) che
mi sento tanto volentieri cattolico.
Chi infatti volesse comprendere la
chiesa e dare uno sguardo complessivo
al cristianesimo cattolico deve
comprendere Agostino.
Anche se in lui ci sono delle ombre,
rimane una pietra miliare. Difficile
descriverne la personalità e l’influsso;
più difficile ancora sintetizzae
il pensiero.
Mi attrae la frase di chiusura della
Città di Dio, sull’ottavo giorno della
creazione, che è al di là della storia:
«Là avremo finito di lavorare e vedremo,
vedremo e ameremo, ameremo
e loderemo. Ecco ciò che sarà alla
fine senza fine. Infatti, che cos’altro
è per noi la fine se non giungere
al regno, che è senza fine?».
Un interrogativo, quello di Agostino,
che il fiume immenso del monachesimo
mormora di continuo a chi
lo vede scorrere anche solo dalla riva.
Personaggi stupendi: Benedetto,
Domenico, Francesco, Beardo… che
hanno lasciato impronte indelebili
nella storia.
Per la conquista della Bretania, Cesare
impiegò sei legioni. Gregorio lo
fece solo con 40 monaci (596). Una
volta evangelizzati, i monaci irlandesi
e britannici diventarono evangelizzatori
di buona parte del continente
europeo.

SANTI… UMANISSIMI
Domenico pregava anche per i dannati
(ad in inferno damnatos extendebat
caritatem suam). Francesco raccomandava
al frate ortolano di «non
riempire tutto lo spazio di verdure
commestibili, ma di lasciare libera
una parte di terra, perché crescessero
le erbe spontanee, per produrre a
tempo debito i fratelli fiori»: preludio
al Cantico di frate sole, alla natura bella
e benefica.
E che dire della lettera che Francesco,
pochi giorni prima di morire,
dettò per donna Jacopa dei Settesogli,
ricca e nobile matrona romana,
alla quale Francesco era legato da
particolare stima: «A donna Jacopa,
serva dell’Altissimo, frate Francesco,
poverello di Cristo, salute nel Signore
e unione dello Spirito Santo. Sappi,
carissima, che Iddio, per grazia,
mi rivelò che la fine della mia vita è
ormai prossima. Perciò se vuoi trovarmi
vivo, ricevuta questa lettera,
affrettati a venire a Santa Maria degli
Angeli. Se non verrai prima di sabato,
non mi potrai trovare vivo. E
porta con te un panno scuro, in cui
tu possa avvolgere il mio corpo, e i
ceri per la sepoltura».
Dopo il panno nero e i ceri, ci si
aspetterebbe chissà quale altra cosa
importante o altamente spirituale,
come un testamento. Invece: «Ti
prego anche di portarmi quei mostaccioli
(dolci) che eri solita darmi
quando mi trovavo malato a Roma».
Passano i secoli e nella chiesa appare
Ignazio di Loyola (1491-1556).
Erano necessarie forze nuove e metodi
nuovi: fonda la Compagnia in funzione
dell’apostolato, anche missionario.
Uomo certamente di ferro, ma
per nulla tetro, freddo e senza cuore,
ma sorridente, sereno, tenero e affettuoso,
capace d’intrattenere rapporti
«cordiali e cortesi». La Compagnia
è nata così, dall’amicizia.
«Amenemhet contempla la bellezza
del sole» si legge sulla stele del faraone
egiziano. A Roma Ignazio si alzava
presto per contemplare in silenzio,
in piedi e scoprendosi il capo,
il sorgere del sole.
Dopo Ignazio, Vincenzo de’ Paoli
(1585-1660); anch’egli un uomo
nuovo, dalla carità benevola verso i
poveri, che parlava bene di tutti,
«persino del diavolo». Alle sue suore
diceva: «Avrete per monastero la
camera dei malati, per cella la chiesa
parrocchiale, per chiostro le strade
della città, per clausura l’obbedienza,
per grata il timor di Dio, per
velo la santa modestia». «La carità –
aggiungeva – è una gran signora, bisogna
fare quello che comanda». «Se
dovete lasciare l’orazione per andare
da un malato, fatelo. Il vostro dovere
è di lasciare tutto per il servizio dei
poveri».
Fino ai giorni nostri.

L’ALTRA METÀ…
Un capitolo a parte meritano le donne, cristiane e cattoliche. Non solo pensando
a Chiara, Scolastica, Caterina da Siena o Teresa di Gesù, ma a moltissime
altre: a quelle immortalate, come simbolo, dai Dialoghi delle Carmelitane; a Edith
Stein… Donne anche di pensiero.
Non posso dimenticare Ipazia. Siamo ad Alessandria d’Egitto, dove nel 412 inizia
il suo ministero patriarcale san Cirillo: ma comincia in modo caotico, spalleggiato
da partigiani ambigui, monaci turbolenti e dai paraboloni. Quest’ultimi, veri fanatici,
specie di infermieri, accanto ai cantori, fossori e amministratori vari, svolgevano
la funzione di assistenza nella chiesa di Alessandria.
Nel 415 alcuni di questi fanatici trascinano a forza in una chiesa la celebre Ipazia:
le strappano le vesti, la dilaniano con grosse conchiglie taglienti, la fanno a pezzi e
ne bruciano i resti.
Ipazia possedeva una cultura vastissima. Alla morte del padre ne aveva ereditata
la cattedra, per divenire una singolarissima docente di scienze, matematica e filosofia.
Figura d’un candore abbagliante,
bellissima e coerente fino al martirio.
In città era universalmente consultata: «Di
gran lunga superiore a tutti i filosofi del
tempo; perciò tutti gli studiosi di filosofia
da ogni parte correvano a lei» scrive un
certo Socrate, avvocato cristiano, nato a
Costantinopoli nel 408.
Un discepolo della Libia, divenuto poi vescovo
e che mantenne con lei una fitta
corrispondenza, le scriveva: «Possa tu riceverla
(questa lettera) in buona salute,
madre, sorella, maestra».
Poiché Ipazia era in ottimi rapporti con il
prefetto della città, un certo Oreste, la si
riteneva responsabile dell’opposizione
che il prefetto faceva al patriarca Cirillo.
Un fattaccio, che l’imperatore lasciò impunito,
ma che getta ombre nere su Cirillo
stesso.

Sono contento di essere cattolico perché…
Innestato
in Cristo
Molto si è discusso, e si discute ancora, sull’essenza del
cristianesimo: nella teologia cattolica sono affascinato
dalla centralità del Cristo e dal suo «mistero».

Non solo in questi gloriosi e indimenticabili
compagni sta il motivo
più importante del sentirmi tanto
contento di essere cattolico.
Tanto meno ponendomi sulla scia
di quegli autori di metà ‘800 in avanti,
in genere tedeschi, razionali, ipercritici
o anche atei, che dall’alto delle
cattedre universitarie iniziarono a
dissertare sulla vita di Cristo, preoccupati
di scartare quanto non ritenevano
storico.
AUTORI CHE FANNO LE BUCCE
Loro intento era giungere all’essenza
del cristianesimo, solo percorrendo
la via della storia, per individuare,
una volta per tutte, ciò che era
da ritenersi «valido e durevole», il
«nucleo» (ke), distinto dalla «scorza» (schale).
Già nel 1841 Lugwig Andreas Feuerbach
(1804-1872) uscì con un’opera
dal titolo L’essenza del cristianesimo.
Vi tentò in modo più serio Adolf von
Haack (1851-1930). Nel trimestre
invernale 1899-1900, tenne un ciclo
di 16 lezioni a 600 studenti su L’essenza
del cristianesimo, pubblicate
con lo stesso titolo e tradotto in 14
lingue. Secondo Haack, Gesù non
aveva predicato se stesso, né aveva
pensato a una chiesa: unico oggetto
della sua predicazione fu di presentare
Dio come «padre».
Entrò in lizza anche il cattolico Karl
Adam con L’essenza del cattolicesimo
(1924). Come intermezzo, nel 1903,
Est Troeltsch (1865-1923) intervenne
con un altro volume per chiedersi
che cosa si doveva intendere
per «essenza del cristianesimo». Cosa
fosse solo facciata e cosa vera sostanza,
cosa semplice costume e cosa
autentica convinzione. Eventualmente
riducendo tutto a mito.
Si può essere critici verso i critici a
oltranza: Anatole France (1844-
1924), spirito scettico, nel seguire le
lezioni di Loisy, tracciava delle caricature
in margine alle dispense del
corso: in una di esse aveva raffigurato
il Loisy che, a cavallo di un ramo,
menava colpi d’ascia alla radice dell’albero
dei vangeli e un fumetto diceva:
«Ne lascerò sempre a sufficienza
per tenermi».
C’è anche la critica marxista e razionalista:
conosce bene la società
cristiana, ma ignora chi sia Cristo.

CRISTO AL CENTRO
François Mauriac, un romanziere,
nel 1937 scrisse una vita di Cristo,
dove dice: «Leggendo i vangeli, ho
sentito il Cristo respirare e tento di
descrivere il Cristo “interiore”, visto
non con gli occhi della carne, ma con
quelli dello spirito».
Il centro attorno al quale ruota e si
struttura il cristianesimo, e il cristianesimo
cattolico, è Cristo risorto e Signore:
«Se nel tuo cuore credi che
Dio ha risuscitato Gesù dai morti e
con la tua voce dichiari che Gesù è il
Signore, sarai salvato» (Rom. 10,9).
In modo molto icastico, Paolo afferma:
«Mihi vivere Christus est», per
me il vivere è Cristo (Fil 1,21). Per incontrarlo,
l’autore del De imitatione
Christi suggerisce: «Chiudi sopra di te
la tua porta e chiama a te il tuo diletto.
E rimani con lui nella tua cella,
perché non troverai altrove una
pace così grande» (I, 20,8).
Per molte persone è bastato un
semplice versetto del vangelo per impostare
la vita in modo nuovo. Antonio
abate (251-357), poco più che
ventenne, sentì leggere: «Se vuoi essere
perfetto, vai, vendi quello che
possiedi e donalo ai poveri; poi vieni
e seguimi» (Mt 19,21). E lo fece.
Elisabetta della Trinità, per dare un
contenuto al nome che portava, imposta
la sua vita sul versetto di Paolo:
«Perché noi fossimo lode della sua
gloria» (Ef 1,12) e si firma Laudem
Gloriae.
Molti altri si ispirarono a qualche
aspetto della vita di Cristo, dalla nascita
a Betlemme, alla croce. Charles
de Foucauld scrisse: «Guardiamo i
santi, ma non attardiamoci nella loro
contemplazione. Contempliamo
con essi colui la cui contemplazione
ha riempito la loro vita. Approfittiamo
del loro esempio, ma senza fermarci
a lungo, né prendere per modello
questo o quel santo, ma prendendo
da ciascuno chi solo è vero
modello, servendoci così dei loro
esempi, non per imitare essi, ma per
meglio imitare Gesù».

PROSOPAGNOSIA
È una malattia molto brutta: consiste
nel non riconoscere (agnosia) una
persona (prosopon) per quello che è.
Paolo in 2 Cor. 3,17 scrive: «Il Signore
è lo Spirito» (dominus autem
spiritus est). Gesù Cristo, dopo la risurrezione,
è signore e spirito. Per
cui la prosopagnosia consiste nel non
riconoscere Cristo come «signore» e
come «spirito». E si tratta della malattia
più grave in cui possa cadere
un cristiano.
Questo pericolo esiste perché Cristo
è un «mistero».

L’INFINITO NEL FINITO
Il termine mistero è una delle parole
più usate dai cattolici; basta
aprire il Messale della liturgia romana.
Ma è pure una delle parole più inflazionate
e ingarbugliate. Sinonimi
come arcano, problema, enigma, cosa
oscura, inesplicabile, incomprensibile,
segreta… non sempre aiutano
a chiarire.
I vocaboli che più si avvicinano al
significato cristiano di mistero sono
invece segno, sacramento, simbolo.
Al punto che abbiamo un mistero, un
segno, un sacramento, un simbolo
tutte le volte, e ciò avviene quasi
sempre, che abbiamo una forma visibile
di una realtà invisibile (interiore,
spirituale, divina…).
Primo mistero, segno, sacramento,
simbolo è l’uomo stesso, essendo costituzionalmente,
e sotto tutti i punti
di vista, una forma visibile per la
sua corporeità di una realtà invisibile,
che è la sua interiorità, la sua anima,
spirito, dignità, comunque la si
voglia chiamare.
Ugualmente mistero, segno, sacramento,
simbolo sono le parole che
pronunciamo. Lo è il mazzo di fiori o
un dono che offriamo. Lo è la bibbia,
la chiesa, i sette sacramenti. Lo è soprattutto
Cristo, per essere un uomo
con la sua interiorità e il rapporto singolare
e unico con Dio (Uomo-Dio).
Usando una felice definizione di
Agostino, si può dire che il mistero è
«una cosa grande nascosta dentro
una piccola». Il mistero è un nascondiglio.
È l’infinito nel finito, l’assoluto
o il tutto nel frammento, il
santo tra i peccatori, l’amore nel dono
di un fiore, la vita nella morte.
Gesù è mistero quando dice: «Chi
vede me vede il Padre» (Gv 19,9), il
«figlio di Dio» nel «figlio dell’uomo».
Per questo Gesù è il vero padrone di
casa, che estrae dal suo tesoro cose
nuove e cose antiche (Mt 13,52). Come
tale sul monte poté trasfigurarsi,
mostrando quanto di grande ci fosse
in quell’uomo sofferente. La morte fisica
può essere constatata e descritta,
ma l’offrire la vita per… è un’intenzione
e un mistero per l’appunto.

SUPERARE I 4 «SOLUS»
I protestanti insistono sull’aggettivo
«solus». Lo ripetono almeno
quattro volte. Anzitutto Christus solus,
nel senso che Cristo, come afferma
san Paolo, è l’unico «mediatore»
(1 Tim 2,5); anche nel senso che la
Madonna e i santi possono essere ricordati,
ma quanto a invocarli la
scrittura non dice nulla.
Eppure tutto ci dice che Cristo è,
sì, l’unico mediatore, ma che non è
mai da solo, sia perché come «capo»
lo è di un corpo formato da molte
membra, le quali a qualcosa devono
pur servire; infatti formano la Comunione
dei Santi, comunque la si voglia
intendere.
Il secondo solus è riferito alla fede:
sola fides; il terzo riguarda la grazia:
sola gratia. Certamente nel senso che
a venirci incontro, senza alcun nostro
merito, è la misericordia di Dio.
Ma anche qui, grazia e misericordia
di Dio, provvidenza e salvezza
non ci giungono mai allo «stato puro
», ma attraverso la parte estea
che dobbiamo saper aprire e accettare
mediante la chiave o l’apriscatola
della fede.
Il quarto solus è riferito alla scrittura:
sola scriptura, specie il vangelo.
Ed è giusto. Ma anche la scrittura
non è sempre facile da capire.
Inoltre è noto che presso i popoli antichi,
compreso quello ebraico, il
mezzo ordinario di trasmissione non
era la scrittura o il libro, ma la trasmissione
orale. Gli antichi trasmettevano
i fondamenti della propria
cultura con una garanzia di sicurezza
non minore dei documenti scritti.
Tutto sommato a Lutero, come cattolico,
preferisco Erasmo, suo contemporaneo.
Anche se Lutero ed Erasmo
fecero la stessa diagnosi sui mali
del tempo, diversa è però la
terapia: «A chi ha un braccio rotto –
diceva Erasmo a Lutero – per guarirlo
non gli rompi anche l’altro». A Lutero
che diceva: «Dio è Dio», Erasmo
rispondeva: «Dio è buono».

«CONSEGNÒ LO SPIRITO»
Unamuno aveva osservato con sofferenza:
«Terribilmente tragici sono
i nostri crocifissi, i Cristi spagnoli,
morti per sempre, che non risorgono
». Ma dovette ricredersi, contemplando
il Crocifisso del Velazquez (vedi
riquadro).
Osservandolo attentamente scoprì
che, se per il protestante la base è la
giustificazione (come passaggio dal
peccato alla grazia), per il cattolico
è, invece, l’immortalità e la risurrezione
(come passaggio dalla terra alla
vita senza fine). E il poeta spagnolo
conclude il suo libro su Don
Chisciotte con questa profonda intuizione:
«Se la vita è un sogno, lascia
che io la sogni immortale».
La costituzione conciliare Lumen
Gentium non dice che «luce delle
genti» è la chiesa, ma Cristo: «Lumen
gentium cum sit Christus».
Gli evangelisti scrivono che Cristo,
morendo sulla croce spirò: cioè esalò,
diede lo spirito. Solo Giovanni al riguardo
è teologicamente più raffinato:
«E chinato il capo spirò» (Gv
19,30). Ma, a differenza degli altri
evangelisti, usa un verbo particolare,
che in latino è stato espresso con
tradidit spiritum: è il verbo greco paradidomi,
che significa: dare, donare,
consegnare, rimettere. Giovanni
direbbe che Gesù, morendo, fece dono
dello Spirito (Santo), del suo Spirito.
Tutto infatti sarebbe sterile se
così non fosse.
Anzi, stando alla espressione usata
da Paolo, già sopra ricordata (2 Cor
3,17), sulla croce Cristo non solo si
sarebbe trasformato in «luce», ma
sarebbe diventato «spirito». Paolo
scrive: «Il Signore è lo Spirito». In
greco i due sostantivi sono preceduti
dall’articolo e la parola «Spirito»
può essere scritta con l’iniziale maiuscola,
come fa la traduzione ufficiale
della CEI.
Con la morte e risurrezione Cristo è
divenuto non solo un «essere spirituale»,
ma è «lo Spirito». Egli si è
aperto, mostrando la sua vera realtà,
come incenso che bruciando si trasforma
in «profumo». Lo dice ancora
Paolo: «Si è offerto a Dio in sacrificio
di soave profumo» (Ef 5,2). Infatti
in ebraico la radice della parola
ruah-spirito è la stessa della parola
reah, che significa profumo.
Spirito è far cadere sugli uomini
qualcosa che assomiglia a un canto
gregoriano, scrisse Antornine de Saint-
Exupéry. Spirito è la chiave che apre
tutti i misteri, anche quello di Dio.
Sta qui il motivo principale della
mia preferenza per il cattolicesimo,
per questa evaporazione profumata
del Cristo che, come «spirito», può
espandersi più facilmente di un libro
o di qualsiasi proclama.
Lo dice molto bene san Paolo per
me: «Ci sono cose che occhio non vide,
né orecchio udì… Ma a noi Dio le
ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo
Spirito infatti scruta ogni cosa anche
le profondità di Dio. Come è lo spirito
dell’uomo – il nostro spirito – che
ci permette di conoscere le cose più
segrete che ci riguardano, così anche
i segreti di Dio nessuno li ha potuti
conoscere se non lo Spirito di Dio»
(1Cor 2,9ss).
Ed è Cristo che ci ha fatto dono
dello Spirito di Dio e del suo Spirito.
Per cui possediamo Dio in Cristo e
Cristo in Dio, perché tutto è stato ridotto
a Spirito.

STORIA DI UN INNESTO
Possedere o sentire Cristo come
Spirito costituisce per me il punto
centrale del cattolicesimo, la finestra
che mi permette non di tutto capire,
ma di tutto intravedere.
Due esempi, più di tante parole,
possono esprimere questa soddisfazione
del sentirmi cattolico.
Il primo è di uno scrittore greco,
Elias Venezis: racconta come Giuseppe,
un vecchio contadino mezzo cieco,
mostra a un bambino (l’autore) la
delicata operazione dell’innesto.
«Arrivammo sul posto. Giuseppe
posò a terra il fascio di rametti. Prese
a palpare l’arbusto selvatico, per
trovare il punto più adatto per l’innesto.
Trovatolo, levò gli occhi al sole,
fece tre volte il segno della croce,
mormorando una segreta preghiera.
Poi, ormai calmo e sicuro, riportò lo
sguardo all’arbusto da innestare. Con
mano salda intagliò un rametto, togliendone
un pezzo di scorza in forma
di anello. Incise la scorza del rametto
da innestare, lo unì al ramo
dell’arbusto selvatico, lo legò strettamente.
Volse di nuovo lo sguardo al sole e,
tutto tremante, riprese a pregare: “Ti
ringrazio, mio Dio, di avermi permesso
ancora quest’anno di innestare
gli alberi”. Poi, rivolgendosi a me,
mi dice: “Ecco, ragazzo mio, ti consegno
il tuo albero. Amalo come una
cosa che viene da Dio”.
Si trattava solo di un innesto, pensavo;
un pezzo di scorza, un bastoncino,
attaccato a un tronco selvatico:
tutto qui!
Indovinando il mio pensiero, il vecchio
contadino mi dice: “Appoggia
l’orecchio al tronco dell’albero”. Appoggiai
la testa al tronco e lui pure.
I nostri occhi erano così vicini da toccarsi.
Cominciò a sbattere le palpebre,
come se sprofondasse in estasi.
Poi chiuse gli occhi completamente.
– Senti qualcosa? – mi domandò.
– No! Non sento niente.
– Io invece sì! – mormorò lui con
gioia trionfante -. Io però sento… –
toò a ripetermi.
Poi mi spiegò di aver sentito il sangue
(la linfa) del rametto colare lentamente
nel sangue del tronco e mescolarsi
ad esso, che così cominciava
a realizzarsi il miracolo della
trasformazione del tronco selvatico».
Questo racconto è anche la storia
che ogni missionario potrebbe narrare:
poggiando le orecchie al tronco
dell’etnia trasformata in chiesa,
potrebbe sentire che nel vecchio
tronco è colata una linfa nuova.
Il secondo esempio spiega come
sia possibile la trasfusione di una vita
in un’altra; trasfusione non solo di
idee, ma di persona a persona.
Nel romanzo I fratelli Karamazov di
Dostoevskij c’è quella meravigliosa
scena del vecchio staretz Zosimo, visto
ai raggi obliqui del sole che tramonta.
Aveva un fratello, Markel,
morto giovane. Ecco il suo racconto
di quando aveva otto anni.
«Ricordo che una volta entrai da
solo nella camera di mio fratello
(ammalato), mentre non c’era nessuno.
Era una limpida sera; il sole
tramontava e illuminava con un
raggio obliquo tutta la stanza. Vedendomi,
mi fece un cenno; io mi
accostai; egli mi prese per le spalle
con le mani; mi guardò soltanto così
per un minuto: “Su via – disse –
adesso vai a giocare, vivi per me. Io
allora uscii e andai a giocare. Mille
volte, poi, nella vita ricordai tra le
lacrime come egli mi avesse ordinato
di vivere per lui».
È quanto fece Gesù dalla croce e
poco dopo nel cenacolo; alitando sugli
apostoli disse: «Ricevete lo Spirito,
andate…», cioè vivete per me.

Sono contento di essere cattolico…
Anche se…
Una storia seminata di «piaghe» e tradimenti…
Eppure la chiesa rimane sempre il luogo dove,
a furia di «giocare ai santi», lo si diventa per davvero.

Nella storia plurimillenaria della
chiesa cattolica certe cose sono
difficili da digerire: scismi ed eresie,
caccia alle streghe, schiavismo, inquisizione,
colonialismo… Un libro
recentissimo, dedicato a questi crimini,
conclude: «Il sangue scorre a
fiumi nella storia del cristianesimo».
Tra il 1832-1848, Antonio Rosmini
scrisse Delle cinque piaghe della chiesa,
messo all’indice nel 1849. Di tale
condanna, l’arcivescovo di Torino,
mons. Michele Pellegrino, in un Concilio
ormai agli sgoccioli, disse: «È
stata recentemente tolta la condanna
che ha gravato per oltre un secolo
su quel libro di Rosmini. È lecito
domandarsi: se quell’opera fosse circolata
liberamente, non avrebbe
contribuito alla guarigione
di piaghe di cui la
chiesa ha per troppo
tempo dolorosamente
sofferto?».
Stessa cosa si
potrebbe ripetere
per la condanna
del
romanzo Il
santo di Antonio Fogazzaro, uscito
nel 1905 e messo all’indice nel 1906.
In esso il romanziere faceva dire al
«santo», in un confronto drammatico
con il papa, che quattro spiriti maligni
erano entrati nel corpo della
chiesa: spirito di menzogna, spirito
di dominazione del clero, spirito di
avarizia, spirito di immobilità.
Inutile negare o stemperare queste
eventuali colpe. Piuttosto gioverebbe
ambientarle.
Una certa Patricia, dopo una buona
preparazione filosofica, si
laurea in teologia. Si era permessa di
servire la messa. Le
venne assolutamente
proibito
di farlo.
Volle, però, che le dicessero i motivi
veri di questa proibizione. Le venne
detto che in seguito a una riunione
pastorale (a che livello?) si era concluso
che le donne sono «impure»,
perciò devono essere allontanate
dall’altare.
Un’amica della giovane teologa le
chiede: «Ma dopo un fatto del genere
come puoi avere la fede?». Rispose:
«La mia fede sussiste solo nella
certezza che il cristianesimo è qui
tradito da qualcuno!».
La chiesa ha le sue stagioni: è scontato
che siano possibili stasi, involuzioni,
regressi. Nel 1947 l’arcivescovo
di Parigi, card. Emanuele Suhard,
scrisse una lettera pastorale dal titolo
Agonia della chiesa? Il titolo originale
francese è senza punto interrogativo:
Essor ou déclin de l’église.
Abbassamenti di tono o anche
peggio sono sempre possibili. Paolo
VI affermava nei suoi discorsi che il
Concilio Vaticano II non aveva inteso
essere un «uragano» travolgente
né una rivoluzione. Tuttavia avvertiva
che il corpo della chiesa era percorso
qua e là da inquietudine, da
qualche linea di febbre e un po’ da
«spirito di vertigine».
Per amare la mia chiesa, anche
se…, mi è utile riferire la parabola
di Erasmo di Rotterdam (1469-
1536), che Pierre Mesnard traduce in
linguaggio moderno, per meglio indicare
la differenza con Lutero.
«Dai fianchi della sacra Montagna
scaturisce una fonte (termale), così
pura e così salutare che i pregi di tutte
le altre si commisurano soltanto
sulla salubrità di questa. Fontana
unica della salute, da secoli essa ha
attinto sulle rive milioni di pellegrini,
bramosi di ritrovare, grazie ai suoi
effetti miracolosi, la vita autentica.
Ed essi avrebbero senza dubbio rovinato
nel loro entusiasmo tutta la valle,
se una società appaltatrice accreditata,
con tutte le carte in regola, la
chiesa, non avesse fin dall’inizio assunta
la distribuzione e l’impiego terapeutico
delle acque miracolose.
Essa ha captato la sorgente, costruito
uno stabilimento termale,
edificato complessi alberghieri, fatto
venire in numero sufficiente medici
termali, tanto che in cambio di
una modesta decima, i malati sono
ormai accolti e trattati secondo metodi
collaudati.
Ma, durante questi ultimi secoli (è
il rimprovero di Lutero) sembra che
l’istituzione sia un po’ degenerata e
che la compagnia appaltatrice abusi,
per cui i protestanti denunciano la
decadenza radicale della società generante,
reclamano la soppressione
del corpo medico, il diritto di ciascuno
di accedere direttamente alla
sorgente, di bagnarsi a piacere e di
bee fino all’ebbrezza spirituale.
Va da sé che l’assenza di disciplina
trasformerebbe presto la sorgente in
pantano, per non dire peggio…» (P.
MESNARD, Erasmo, la vita, il pensiero,
i testi esemplari, Milano 1971, p.
262).
F accio mio quanto, in modo ugualmente
fantastico, disse il romanziere
Georges Beanos (1888-1948)
in una conferenza tenuta in Algeria
alle piccole sorelle di Charles de Foucauld
nell’autunno del 1947: «Ci sono
bambini che giocano agli adulti.
Potrebbe darsi che a furia di
“giocare ai santi” si finisca col
diventarlo? È buona questa
ricetta? (Beanos riporta
l’esempio di santa Teresa
del Bambino Gesù) come
quello di un ragazzino
che, a furia di far girare un
trenino meccanico, diventa,
quasi senza
pensarci, ingegnere
delle ferrovie o, anche
più semplicemente,
capostazione.
Permettetemi per
un momento che mi
fermi su questo paragone
delle ferrovie. In fondo non lo trovo
così sciocco… Possiamo senz’altro
immaginare la chiesa come una vasta
impresa di trasporti; di trasporti
in Paradiso, perché no? Ebbene, mi
chiedo: che cosa diventeremo noi
senza i santi che organizzano il traffico?
Certo, da duemila anni, questa
compagnia di trasporti ha avuto non
poche catastrofi: arianesimo, nestorianesimo,
pelagianesimo, grande
scisma d’Oriente, Lutero…, per ricordare
solo deragliamenti e scontri
più noti.
Ma senza i santi, ve lo dico io, la
cristianità sarebbe un gigantesco
ammasso di locomotive capovolte,
carrozze incendiate, rotaie contorte
e ferraglia che finisce di arrugginirsi
sotto la pioggia. Nessun treno circolerebbe
più sulla strada ferrata invasa
dall’erba».
In definitiva, prosegue Beanos,
«la chiesa è una casa di famiglia, una
casa patea (Beanos aveva avuto
sei figli, ndr); nelle case di famiglia
c’è sempre un po’ di disordine; le sedie
talvolta mancano di una gamba;
i tavoli sono macchiati d’inchiostro;
le scatole di marmellata si svuotano
da sole nelle dispense».
Nel Diario di un curato di campagna
Beanos è ancora più realista: «Una
parrocchia è forzatamente sporca.
Una cristianità è ancora più sporca.
La chiesa dev’essere una buona massaia,
solida e ragionevole. Ha un
gregge, un vero gregge. È un bestiame
né troppo buono né troppo cattivo:
buoi, asini, bestie da tiro e da lavoro.
E anche caproni. Caproni e pecore.
Il padrone vuole che gli
rendiamo ogni bestia in buono stato».
Èquesta la mia casa di famiglia, di
tutti i giorni, con una moltitudine
di amici e cari ricordi appesi alle
pareti. E poi, come è scritto sull’architrave
di un vecchio palazzo: «Beati
i nostalgici, perché rivedranno le
loro case».
L’Apocalisse ipotizza l’esistenza di
un vangelo eterno, portato da un angelo
e da annunciare agli abitanti
della terra e a ogni nazione, razza,
lingua e popoli (Ap 14,6). Perché
«eterno»? Perché con pagine bianche,
senza figure e senza immagini?
Eteo unicamente se sarà quello che
è, cioè «evangelo» e «buona notizia
». Infatti «alla sera della vita saremo
giudicati unicamente sull’amore
» (CEI, Comunicare il vangelo in un
mondo che cambia, n. 30).

Padre IGINO TUBALDO, missionario
della Consolata, professore in vari
seminari dell’Istituto e diocesani,
è autore di molte pubblicazioni in
campo teologico e storico.

Igino Tubaldo




Reportage dall’Iraq di Saddam

GLOSSARIO DI GUERRA

risoluzione Onu

La risoluzione è una deliberazione
del Consiglio di sicurezza (15 membri, di cui 5 permanenti e con diritto
di veto: Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) delle Nazioni
Unite. Molte le risoluzioni contro l’Iraq, ma molte di più quelle contro
Israele, che tuttavia le ha sempre rifiutate, a partire dalla 242 del 1967
(si veda il saggio di Xavier Baron, I palestinesi, Baldini&Castoldi 2002).

guerra preventiva

Secondo la dottrina sulla
sicurezza nazionale («The National Security Strategy of the United
States») presentata da George W. Bush lo scorso 20 settembre, il governo
di Washington punterà a «difendere gli Stati Uniti, i cittadini americani
e i nostri interessi in patria e all’estero, identificando e distruggendo
la minaccia prima che raggiunga i nostri confini».

embargo

«Le risposte degli stati alle
violazioni di diritti umani, alle minacce alla pace internazionale e
all’illegittimo sostegno a tali minacce, quando vengono realizzate in
termini di embarghi e sanzioni, finiscono per colpire sempre stati ai
margini della comunità internazionale. Inoltre, immancabilmente, finiscono
per essere controproducenti» (Dizionario della globalizzazione, Zelig
Editore 2002). Oltre all’Iraq, tra gli embarghi più noti ci sono gli
embarghi statunitensi nei confronti di Cuba, Libia ed Iran.

terrorismo

«Il terrorismo è il sintomo, non
la malattia. Il terrorismo non ha paese. È transnazionale, un’impresa
globale come la Coca, la Pepsi o la Nike. Al primo segnale di pericolo, i
terroristi possono fare fagotto e trasferire le loro “fabbriche” di paese
in paese alla ricerca di un trattamento migliore. Proprio come le
multinazionali» (Arundhati Roy, Guerra è pace, Guanda 2002).

libertà duratura / Enduring
freedom

Sotto questa sigla, gli Stati
Uniti comprendono tutte le operazioni (soprattutto militari) finalizzate
alla lotta al terrorismo internazionale. Prima operazione di «Enduring
freedom» è stata la guerra in Afghanistan.

stato canaglia / rogue state

Definizione coniata dal presidente
statunitense George W. Bush per indicare tutti gli stati che, secondo gli
Usa, appoggerebbero il terrorismo internazionale. Nella lista sono
inclusi: Iraq, Iran, Corea del Nord, Libia e l’ex Afghanistan dei
talebani.

armi di distruzione di massa

Tutte le armi a cui non si può
attribuire l’aggettivo «leggere». Pertanto, rientrano nell’accezione le
armi biologiche e batteriologiche (batteri, virus, funghi), le armi
chimiche (gas e tossine di vario tipo), le armi nucleari.

uranio impoverito / depleted
uranium

Utilizzato per migliorare la
capacità perforante dei missili, l’uranio impoverito è responsabile di
gravi danni alla salute delle persone (civili e militari) in Iraq e in
Kosovo (e in tutti i paesi dove è stato utilizzato segretamente).

sindrome del Golfo

Con questo termine si intende quel
complesso di malattie gravi e misteriose nella loro eziologia che ha
colpito i veterani statunitensi impegnati nella prima guerra del Golfo. I
casi di sindrome denunciati sono circa 90.000. Oltre alle malattie dei
veterani, molto gravi e sempre più numerosi sono i fenomeni di
malformazioni genetiche tra i loro figli (occhi, orecchie o arti mancanti,
sviluppo abnorme di alcuni organi interni ecc.), che rientrano tra le
possibili conseguenze dell’uranio impoverito sulla salute.

linfoma di Hodgkin

O linfogranuloma maligno.
«Malattia del reticolo dei gangli linfatici, del midollo osseo, della
milza, caratterizzata dall’associazione di un granuloma dall’aspetto
infiammatorio con cellule tumorali» (dizionario medico Larousse). Tra le
persone venute a contatto con l’uranio impoverito (nei Balcani, in Iraq) è
stato accertato un rilevante incremento dei casi di linfoma di Hodgkin.

Paolo Moiola