BAMBINI SCHIAVI: infanzia negata e segni di cambiamento. L’ARCOBALENO SPEZZATO

La nave
africana, carica di piccoli destinati alle piantagioni spinge ad alcune
riflessioni: non solo sul lavoro minorile, ma anche su cammini
possibili,per opporsi a questa situazione. Insieme a Claudia, Daniela,
Arturo, Feliciano… per gridare insieme: «Un altro mondo è possibile!».

La vicenda
dell’«Etireno» (la nave carica di piccoli schiavi apparsa e scomparsa
tempo fa sulle coste africane) ha riportato alla ribalta della cronaca la
drammatica situazione dell’infanzia «negata» nel mondo.

I mass
media – è vero – ci bombardano di statistiche, dati e analisi, ma non si
sente la voce dei protagonisti, dei 250 milioni di baby lavoratori.

Si pensa
ad una merce «particolare»: ragazzini imbarcati per essere venduti come
manodopera. Chi conosce il Sud del mondo sa che è cosa normale per ragazzi
e ragazze dai 12-13 anni lavorare: impiegati nella cosiddetta «economia
informale». Per le ragazze, questo significa di solito fare le domestiche
o le venditrici; per i ragazzi finire a lavorare nelle piantagioni di
cacao, caffè o altre produzioni da export dell’Africa occidentale, non
certo a paga sindacale.

I
rappresentanti dei ragazzi lavoratori africani provenienti da Benin, Costa
d’Avorio, Mali, Senegal e Togo si sono incontrati a Bamako (Mali) nel
novembre 2000, con il sostegno di Enda (la maggiore organizzazione non
governativa dell’Africa francofona) e hanno sottolineato il contesto in
cui può avvenire il traffico di giovanissimi, fuori dalle mitologie sui
«bambini schiavi»: un contesto regionale di migrazioni transfrontaliere di
ogni tipo, in particolare per attività di commercio, spesso assimilabili
alla frode, al contrabbando e altri traffici.

La
povertà, l’insufficienza alimentare, la mancanza di soldi o il costo
troppo elevato per mettere a scuola un bambino (quando la scuola esiste),
un certo sentimento di miseria e abbandono… spingono alla fuga in città.

Compagni
di questi ragazzi lavoratori africani sono i movimenti Nats («Niños
adolescentes trabajadores»), organizzazioni interamente autogestite da
bambini e adolescenti lavoratori, nate nel Perù degli anni ’70 e diffuse,
poi, a tutta l’America Latina ispanofona (ultimamente anche all’India).

Proprio
rivolgendosi ad Alejandro Toledo (dallo scorso 3 giugno presidente del
Perú, figlio di una povera famiglia e per questo a 10 anni già lavorava
come lustrascarpe), i rappresentanti del «Movimento nazionale dei bambini
e ragazzi lavoratori» organizzati del Perù (rappresentanti di ben 12 mila
ragazzi/e), gli hanno rivolto una «lettera aperta»: in essa difendono il
proprio diritto a lavorare in condizioni degne, a poter usufruire di
un’adeguata istruzione ed assistenza sanitaria.

Sul tema
della povertà, i ragazzi chiedono un nuovo piano di azione a livello
nazionale che tuteli gli interessi dell’infanzia e unisca alla lotta
contro la miseria quella per l’eliminazione di ogni forma di sfruttamento
del lavoro minorile. Particolare attenzione viene, inoltre, richiesta alle
esigenze dei bambini delle aree rurali e comunità indigene.

La
«lettera aperta» è stata diffusa da Fabio Cattaneo, presidente
dell’Associazione Italia-Nats (che raccoglie 14 associazioni,
Organizzazioni non governative e Botteghe del commercio equo italiane,
collegate in rete per far sentire la  voce dei bambini di tutto il mondo)
ad un convegno dal titolo: «L’arcobaleno spezzato: dall’infanzia negata
nasce il cambiamento».

In quell’occasione
Maria Teresa Tagliaventi (esperta di lavoro minorile e componente
dell’Associazione Nats) ha sottolineato che «i movimenti Nats hanno la
peculiarità di lottare contro ogni forma di sfruttamento economico dei
minori, pur essendo contrari ad una abolizione del lavoro infantile che
sia globale e aprioristica. I Nats adottano, infatti, l’approccio della
cosiddetta valorizzazione critica, secondo cui il lavoro, quando è svolto
mediante opportune modalità, può essere un mezzo di sviluppo e crescita
del soggetto, anche se si tratta di un bambino.

L’azione
di questi movimenti è incentrata sul miglioramento delle condizioni di
lavoro e l’eliminazione di tutte le  altre forme di sfruttamento economico
del bambino.

È questo
un approccio non convenzionale, che purtroppo, deve fare i conti con
l’ostracismo l’avversione di tutte le principali istituzioni
transnazionali, ministeriali e sindacali.

I Nats
dimostrano con la loro esperienza che il lavoro non serve solo per
sopravvivere materialmente, ma ha anche una valenza sociale nel favorire
lo sviluppo integrale della persona, nello stimolare i rapporti
interpersonali e nel creare identità, cittadinanza e protagonismo; può
quindi diventare strumento di cambiamento delle stesse realtà di
ingiustizia sociale che lo generano.

 

In qualità
di educatore e cittadino solidale, che ha condiviso il cammino con
ragazzi/e a «rischio d’esclusione» a Palermo (i picciriddi scannazzati),
con meninos de rua in Brasile, con ragazzi/e lustrascarpe in Ecuador,
testimonio l’importanza di riconoscere e valorizzare il loro protagonismo
di autogestione, cittadinanza attiva e mutamento dal basso.

Sono
piccoli costruttori di speranza in un mondo impoverito da un’economia, che
accentra nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone la
ricchezza e che esclude masse sempre più grandi dalla possibilità di una
vita umana e dignitosa.

«In una
società che mette al centro il profitto e l’avere, anche noi bambine/i e
ragazze/i diventiamo oggetti e cose sacrificate all’efficienza e alla
competitività del sistema e soffriamo per la fame; siamo sfruttati nel
lavoro precoce. I nostri corpi sono usati e consumati nella prostituzione,
per soddisfare gli adulti. Siamo coinvolti nel traffico e nel consumo di
droga e nelle guerre degli adulti; reclutati come bambini soldato per far
esplodere campi minati; decimati dagli squadroni della morte, siamo
vittime di violenze  persino nel seno delle nostre famiglie» (tratto dalla
«Lettera dei ragazzi/e del mondo», provenienti da Brasile, Ecuador,
Guatemala, Perú, Cameroun, rivolta all’Onu dei popoli radunati ad Assisi
nell’ottobre 1997).

Questo
grido di denuncia è stato lanciato anche durante la carovana «Grido della
speranza» di un anno fa, dove per un mese ho accompagnato 30 ex meninos de
rua che hanno percorso le strade d’Italia per offrire uno spettacolo di
arte e cultura brasiliana, capace di esprimere la forza della frateità:
un’alternativa di cambiamento, che nasce dall’universo dell’infanzia
negata.

Dopo 500
anni, le caravelle approdate in America Latina sono ritornate indietro con
un messaggio di pace e giustizia per risvegliare la vecchia Europa. I
ragazzi invitano i coetanei italiani a partecipare al Giubileo al rovescio
«Pachacutik» (in lingua quechua, «inversione di rotta»), svoltosi nel
gennaio scorso a Rio de Janeiro (nella frontiera della Baixada Fluminense,
dove padre Renato Chiera lotta contro gli squadroni della morte per
difendere i meninos de rua).


Organizzato dall’Associazione internazionale «Noi Ragazzi del mondo», vi
hanno preso parte 134 ragazzi/e, lavoratori nel microcosmo della strada,
provenienti da Ecuador, Perù, Brasile, Guatemala e Italia.

Ricordo
l’ultimo giorno dell’anno a Rio de Janeiro. Ci immergiamo in una folla di
2 milioni di brasiliani, che stanno aspettando il 2001 lungo le spiagge
di  Copacabana. Questo formicaio umano sembra resistere alla furia di un
uragano di pioggia e freddo, davvero anomalo a queste latitudini.

Mi
avventuro tra questi «gironi danteschi», protetti da grattacieli: con la
loro maestosità e ricchezza, vorrebbero costruire un altro muro di Berlino
per difendersi dalla miseria e dalla violenza delle favelas.

Sono in
compagnia di Claudia, «passionaria» ecuadoriana di 28 anni (la mia età),
che accoglie 40 bambini di strada nella Sierra andina; Daniela, un’ex baby
prostituta carioca di 16 anni, «affamata» di carezze; Arturo, intelligente
piccolo lavoratore quattordicenne di Lima e militante nei Nats, che ci ha
raccontato come stanno lottando in Perù contro il debito estero; Marcelino,
un ex ragazzo di strada, sopravvissuto agli squadroni della morte e ora
ottimo animatore di «minori a rischio d’esclusione», che imparano a
gestire i conflitti, scoprire la pace in un Guatemala segnato da oltre 30
anni di guerra civile; Anita, adolescente india dell’etnia quechua che, 5
anni fa, spacciava droga e ora, a 16 anni, fa da mamma ai bambini
abbandonati accolti nella casa famiglia «Cristo de la calle»; Jussara,
«pantera nera» di 29 anni e fiera di essere afrodiscendente, che, pur
provenendo da un quartiere povero, si è laureata e sta aiutando la sua
comunità nell’educazione popolare.

Con
Claudia, Daniela, Arturo, Feliciano, Anita e Jussara formiamo una banda di
pazzi, innamorati della vita, malgrado tutto. Ci stringiamo forte le mani,
ci abbracciamo stretti per riscaldarci col calore dei corpi, con l’energia
della nostra anima. Con la forza della nostra nudità di «piccoli della
terra», ci opponiamo ad un uragano ben più violento e oppressore: il
neoliberismo.

Non
brindiamo con champagne, ma condividiamo i sogni che abbiamo espresso a
madre natura, al Signore della vita.

È una
passione che continua ad accendermi come un fuoco d’utopie inarrestabili:
il piccolo Davide continua a lanciare pietruzze contro il gigante Golia; è
la strategia lillipuziana dei piccoli passi, per indignarci di fronte alle
ingiustizie e costruire un’alternativa all’economia che idolatra il
profitto e mercifica perfino i sentimenti e le relazioni umane.

Anche noi
gridiamo: «Un altro mondo è possibile!». L’abbiamo fatto insieme ai 10
mila partecipanti al Forum sociale mondiale di Porto Alegre e lo faremo in
luglio al G8 di Genova. È la speranza del cammino di coscientizzazione,
liberazione e protagonismo dei ragazzi/e lavoratori nel microcosmo della
strada. Una speranza che non muore.

(*)
Cristiano Morsolin è un educatore che ha lavorato con i ragazzi di strada
di Palermo, del Brasile e dell’Ecuador. Fa parte della Comunità
internazionale di Capodarco (AP).

Cristiano Morsolin




SAN PEDRO (COSTA D’AVORIO): una missione quasi agli inizi. POVERTA’ E FRATERNITA’

Presenti in Costa d’Avorio da pochi anni, i
missionari della Consolata si sono buttati nella nuova impresa con slancio
ed entusiasmo. Anche se le difficoltà sono sempre in agguato e la strada
per superarle è zeppa di imprevisti…

Ma, quando
si arriva nella bidonville di Bardot, nella periferia di San Pedro (il
secondo porto della Costa d’Avorio), ci si rende conto immediatamente che
qui la povertà è, prima di tutto, miseria materiale, mancanza delle cose
più essenziali per vivere, anche se la popolazione ha spesso il senso
dell’umorismo, è intelligente e, soprattutto, è ricca di ospitalità e
sorrisi.

Io non ho
mai vissuto in una bidonville e mi chiedevo quali fossero i bisogni di chi
vive qui, in periferia. Allora ho chiesto a padre Armando Olaya,
missionario della Consolata colombiano, di organizzarmi un incontro con
qualche leader della parrocchia, proprio nel bel mezzo delle casupole e
capanne di Bardot.

Ho posto
due semplici domande: quali fossero i loro bisogni più urgenti e come la
comunità tentasse di rispondervi.

Salute,
prima di tutto

Nel
quartiere di 50-60 mila persone vi sono parecchie cliniche private e,
nella città di San Pedro, anche un ospedale pubblico. Il problema però è
che, in clinica o nel pubblico ospedale, qualsiasi cura è troppo cara per
le possibilità della gente di Bardot. «Le cliniche private possono
iniziare l’attività con una autorizzazione governativa e la maggior parte
di esse cura soltanto piccoli malesseri, piccole ferite» – spiega
Feando.

Qui
bisogna pagare non solo il medico e il suo infermiere, ma anche le
medicine e tutto il materiale che si usa. Ancora prima di essere visitati
da un medico di un ospedale pubblico, bisogna anticipare la somma di 1.000
franchi. Spesso occorre aggiungervi anche una mancia per l’infermiere o il
medico, altrimenti si rischia di aspettare giorni e giorni. Poi bisogna
pagare tutte le prescrizioni.

Claudio,
un professore, racconta che la settimana precedente era stato all’ospedale
con una delle sue sorelle, in preda ad una forte crisi di malaria: in soli
due giorni, le ricette gli sono costate ben 25 mila franchi. In seguito la
sorella è stata ricoverata in una sala comune e lì ha dovuto sborsare 5
mila franchi al giorno_ ma solo per il letto, perché la famiglia ha dovuto
procurare all’ammalata il cibo quotidiano.

Mi
permetto di notare: «Ma, almeno, ricevono tutte le cure?». Bonifacio
aggiunge il suo granello di sale: «Non tutte, perché, per alcuni test e
analisi, i campioni devono essere mandati ad Abidjan, la capitale, a 500
km da qui».

Cosa
potrebbe fare, allora, la comunità di Bardot per superare questa difficile
situazione sanitaria? Tutti sono d’accordo che non ci sono
soluzioni-miracolo. Senza dubbio la strada migliore sarebbe un dispensario
gestito dai missionari, che prestasse le cure ad un prezzo minimo.
Feando aggiunge che, nella parrocchia vicina, le suore hanno un
dispensario e, dal momento che ricevono le medicine dall’Europa, i costi
sono meno elevati. Un altro aggiunge che ad Abidjan ci sono dei grossisti
e vi si possono acquistare farmaci a prezzi accessibili.

«Ma allora
– chiedo io – perché non lo fate questo dispensario?». La risposta (dopo
una risata generale) è che mancano i mezzi. Mi dicono che le offerte in
chiesa, la domenica, non arrivano a 15 mila franchi: il che non basta
nemmeno a pagare il cibo dei due preti della parrocchia.

Nel
quartiere di Bardot, poi, sono molto rari coloro che possono usufruire di
una retribuzione fissa, adeguata e… sicura. La maggior parte ha un
salario minimo e lavora soltanto qualche mese l’anno.

Scuole, tasse
e… prestiti!

Il secondo
ambito dove i bisogni sono più urgenti è quello dell’educazione. Per i
15-20 mila ragazzi di Bardot c’è una sola scuola pubblica e cinque
private. Alla scuola pubblica non è raro vedere 70-80 alunni nella stessa
classe.

Il
presidente del consiglio parrocchiale ha otto figli e mi spiega che spesso
i genitori iscrivono i loro figli e cominciano a pagare le tasse
scolastiche; ma, dopo tre o quattro mesi, il ragazzo viene allontanato
dalla scuola semplicemente perché i parenti non ce la fanno più a pagare.
Tra le spese scolastiche e la pentola di riso, si preferisce il riso!

Ciò vale
soprattutto per le scuole private, poiché in quelle pubbliche (almeno
teoricamente) non dovrebbero esserci spese scolastiche.

È un altro
papà a spiegarmi come nelle scuole pubbliche ci siano le famose
«collette»: se la scuola deve acquistare dei nuovi banchi, si organizza
una raccolta tra i genitori; se la classe necessita di essere ridipinta,
un’altra raccolta; così pure se bisogna acquistare le scope_ Insomma,
qualsiasi acquisto diventa oggetto di raccolta da parte dei parenti. «E
poi – aggiunge un altro – bisogna mettere in conto anche le mance!».

Se è vero
che la scuola cattolica è stata costruita per gli alunni cattolici, non è
normale che i genitori non possano mandarvi i loro figli, a causa delle
spese troppo elevate! Il direttore, interpellato, mi ha risposto che le
tasse erano alte perché gli alunni erano… pochi! Ma gli alunni sono
pochi, perché le spese sono alte. Un bel circolo vizioso!

Un altro
prende la parola: «Se potessimo diminuire le spese per le foiture
scolastiche, non sarebbe già un buon passo nella giusta direzione? Se la
comunità aprisse una cartoleria_». Ma si porrebbe lo stesso problema: la
comunità cattolica di Bardot non ha capitali disponibili per iniziare tale
progetto.

Arrischio
una soluzione «audace»: perché non si tenta un prestito delle banche? La
risposta mi arriva dal solito presidente: «Le banche prestano soltanto
alle persone sicure e che possono pagare; ma gli abitanti della bidonville
di Bardot non lo sono!».

Un
insegnante spiega allora che esiste un programma della «Banca africana per
lo sviluppo»: libri agli studenti, con una cauzione all’inizio dell’anno;
se tornano in buono stato, la cauzione viene rimborsata. Ma questo non
vale per le ragazze!

C’è poi il
problema delle campagne. Qui le scuole non esistono affatto e i ragazzzi,
per studiare, devono andare in città. «Sovente – spiega un giovane papà –
i giovani vivono in condizioni spaventevoli: si trovano un “tutore”
(spesso un parente), che li sfrutta e non solo finanziariamente; per
questo sarebbe utile che la comunità aprisse un foyer, una specie di
pensionato per accogliere i giovani che provengono dalle campagne».

Non
mancano le idee

Così, in
quasi tutte le soluzioni prospettate dalla popolazione, ciò che manca alla
comunità di Bardot è il capitale per realizzare le iniziative. Ma perché
non istituiscono una cornoperativa, una specie di cassa popolare? Uno, che
finora non si era espresso, prende la parola: «Sì, ma nel villaggio di…
il responsabile ha preso la fuga con tutti i soldi dei contadini!».

La
principale obiezione rimane, tuttavia, il fatto che i cattolici di Bardot
sono in numero limitato, probabilmente troppo pochi per costituire una
cornoperativa che renda.

Un giovane
professore interviene decisamente: «Io penso che ciò che manca alla gente
del nostro quartiere sono le specializzazioni. Se non trovano lavoro, è
perché sono manovali da impiegare con il salario minimo e che si
licenziano quando termina il lavoro. Ciò di cui abbiamo bisogno è un
centro di formazione professionale».

Subito due
o tre aggiungono: «È vero: con una formazione intensiva si potrebbero
preparare tecnici in avicoltura in sei mesi. Abbiamo professori
disponibili, ma manca l’equipaggiamento». E un altro commenta: «Da San
Pedro esportiamo legname in tutto il mondo, eppure non abbiamo falegnami,
né carpentieri!».

Tutti sono
d’accordo: c’è bisogno di un centro di formazione professionale. Ma dove
trovare il capitale per comperare l’equipaggiamento e un luogo dove dare
questi corsi?

Conclude
tristemente il presidente: «Vedi, padre Jean (il sottoscritto): abbiamo
molte idee; ma siamo sempre bloccati dalle finanze».

Nella mia
piccola testa ronza, insistente, un’idea: le comunità ricche d’America e
Europa non potrebbero, anch’esse, diventare più fratee e solidali con
gli amici della Costa d’Avorio?

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GLI INIZI

Quando il
vescovo Barthelemy accolse i missionari della Consolata nella sua diocesi,
sognava una magnifica cattedrale, costruita proprio da loro. Il «figlio»,
però, ha deluso le  attese del «genitore».

In questa
loro ultima «impresa» del XX secolo, i missionari della Consolata hanno
voluto, dall’inizio, incamminarsi su sentirneri nuovi, utilizzare metodi
diversi, senza ripetere quelli che molti considerano errori del passato.
Tra l’altro sovente, in Africa, si rimprovera ai missionari di aver
costruito tanti e splendidi edifici, che le chiese locali, però, non sono
capaci di curare e portare avanti.

Così
monsignor Barthelemy è un vescovo senza cattedrale.

Lo spirito
di famiglia è una delle caratteristiche dei missionari della Consolata. Ma
in una comunità dove le generazioni si susseguono rapidamente e
l’inteazionalità mette insieme missionari di differenti culture, non è
sempre facile andare d’accordo.

Nel primo
gruppo di missionari giunti in Costa d’Avorio, vi erano due spagnoli e un
colombiano, un giovane e due già in età matura. L’intesa non è stata
facile: né sullo stile di vita e neppure sui metodi di apostolato. Ma gli
stessi missionari confessano che è proprio nella sofferenza che sono
maturati insieme. E i frutti cominciano a vedersi.

Nella
nuova missione di Sago tutto era da costruire. Siccome nessun missionario
era esperto di edilizia, i superiori inviarono da Roma un fratello
costruttore per i primi edifici. All’inizio del 1998, fratel Pietro
Menegon venne mandato in Costa d’Avorio.

Ma un
imprevisto era in agguato: fratel Pietro, con i suoi 64 anni, avrebbe
resistito ad un clima caldo e umido come quello della costa ivoriana? Dopo
qualche mese, la sua salute cominciò a creare problemi: crisi di malaria
una dopo l’altra. Il fratello fu costretto (ahimé!) a rientrare in Italia.

Però,
nonostante tutte le difficoltà, la missione in Costa d’Avorio non si è
fermata. I padri presenti non si sono scoraggiati. Anzi, il gruppo è
aumentato. E un nuovo centro è stato aperto a Grand-Béréby.


L’evangelizzazione continua più viva che mai.

Jean Paré




BETANIA (COLOMBIA): unico statunitense nella zona smilitarizata. UNO «YANKEE» NEL REGNO DELLE FARC

Per i
guerriglieri è uno yankee: lo tengono d’occhio, ma lo rispettano. Per la
gente è il gigante buono, che rischia la vita accanto agli emarginati,
nella cosiddetta zona smilitarizzata, controllata da guerriglia e
narcotraffico. È padre Van Allen Hager, missionario della Consolata, nato
a Buffalo (Usa) 57 anni fa: alto 1,86, guarda i pericoli dall’alto in
basso, ma con gli occhi fissi al cielo.

Il
gracchiare di un altoparlante rompe il sonnolento pomeriggio di Betania,
uno sperduto paese in riva al fiume Caguán, mentre un gruppo di uomini
puntano scommesse su un’accalorata partita a domino. Poi la voce
fortemente accentata di padre Van Allen Hager, unico cittadino
statunitense presente nella regione controllata dalla guerriglia nel sud
della Colombia, lancia importanti messaggi in spagnolo: è evidente che non
è la lingua imparata da sua madre. «Signore, per amore della mia vita; non
riesco a capire una parola di quanto dice» lamenta uno dei giocatori,
levando le palme al cielo con comica espressione.

ZONA A
RISCHIO

Dopo
cinque anni di lavoro in quest’area maledettamente violenta, dove ci sono
tante anime da salvare e cuori feriti da guarire, padre Hager confessa che
deve mettercela tutta per essere all’altezza del suo lavoro missionario.
Betania, la sua parrocchia, si trova nell’estremo lembo meridionale della
cosiddetta «zona smilitarizzata», un territorio grande come la Svizzera,
che il presidente Andrés Pastrana ha ceduto alle Forze armate
rivoluzionarie della Colombia (Farc) alla fine del 1998. Il paese, famoso
per la sua storia di violenza, è generalmente considerato insicuro perfino
per i più coraggiosi colombiani; immaginarsi per un solitario americano.

Non è
facile, confessa il missionario, occupare un posto in prima linea tanto
eccezionale, a causa del caos creato da guerra e narcotraffico: una
situazione che ha posto la nazione colombiana tra le priorità della
politica estera di Washington in America Latina. Padre Hager è convinto
che i guerriglieri si fidino di lui; ma intanto continuano a tenere
strettamente d’occhio i suoi movimenti. «Sono certo che sanno dove vado e
con chi parlo» dice il 57enne missionario.

Il suo
lavoro è diventato più difficile, e forse più pericoloso, da quando gli
Stati Uniti hanno varato il controverso «plan Colombia»: si tratta dello
stanziamento di 1,3 miliardi di dollari (quasi 5 mila miliardi di lire), 
destinati soprattutto alla famigerata fumigazione delle coltivazioni di
coca, con la conseguente distruzione della produzione agricola
circostante. In questo modo si pensa di colpire le Farc e altri gruppi
ribelli che traggono profitto dal commercio della droga, esigendo
un’imposta sia dai coltivatori di coca che dai narcotrafficanti.

Le Farc,
tradizionalmente nemiche dell’«imperialismo yankee», hanno dichiarato
«obiettivi militari» tutti i consiglieri nordamericani presenti in
Colombia e sono responsabili dell’assassinio di tre indigenisti
statunitensi nel 1999.

Nei raduni
settimanali convocati dai ribelli, la cui partecipazione è obbligatoria,
«essi fanno sempre riferimenti a ciò che i nordamericani stanno facendo
nel paese – continua il missionario -. Dicono che siamo responsabili di
tutto ciò che di sbagliato accade in Colombia. Siamo sempre colpevoli.
Qualsiasi cosa facciamo è sbagliata».

«Ho paura
per la sua vita» dice uno dei giocatori di domino che, come gli altri
paesani, rifiuta di dare il proprio nome, per timore di rappresaglie da
parte dei guerriglieri: questi pattugliano il paese, ma non se ne trova
uno disponibile a fornire una parola di commento.

Tutti i
ribelli sanno della presenza del missionario. D’altronde sarebbe
impossibile non dare nell’occhio: 1 metro e 86 di statura, capelli
d’argento, talare bianca, zaino verde e sbrindellato, è inconfondibile
quando si sposta da un villaggio all’altro, per visitare le 15 comunità
della parrocchia. Ed è sempre in viaggio. Alcune comunità sono
raggiungibili solo per via fluviale, altre richiedono fino a otto ore a
dorso di mulo, sotto il sole implacabile, per sentirneri fangosi e
pericolosi attraverso la giungla tropicale.

Eppure «i
guerriglieri non hanno mai messo in discussione la mia presenza e i miei
viaggi in questa zona – aggiunge il padre -. Posso dire onestamente che mi
è sempre stato riservato un trattamento preferenziale». Esempio tipico di
tale trattamento lo sperimenta nei posti di blocco: i ribelli rinunciano
alle lunghe perquisizioni e interrogatori a cui sono sottoposti tutti gli
altri.

NON SCUOTERE
LA BARCA

La vita
nella zona controllata dalle Farc è un esercizio di attento riserbo e
autocensura, racconta il padre. I capi ribelli hanno proibito di usare
nelle omelie la parola «sequestro». I frequenti rapimenti di uomini, donne
e bambini e relativi riscatti sono giustificabili conseguenze della
guerra, dicono loro e insistono perché si parli invece di «prigionieri».

A chi non
frena la lingua arrivano minacce di morte. È capitato anche a un
missionario di San Vicente del Caguán, capitale della zona smilitarizzata
e controllata dalle Farc: i superiori lo hanno trasferito in un’altra
diocesi, dopo che i ribelli avevano inserito il suo nome nella lista nera.

Alcuni
mesi fa, mons. Romulo Emiliani, vescovo di Darien, in Panama, ha ricevuto
minacce di morte per le critiche contro le incursioni oltre confine dei
ribelli colombiani. A cinque missionari protestanti americani, della
regione sud-orientale del Panama, è capitato di peggio: sequestrati nel
1992, due furono uccisi, dopo essere stati rapiti dalle Farc; degli altri
tre non si sa più nulla; si sospetta che anche questi siano stati portati
in territorio colombiano.

Perché non
capitino cose del genere ai missionari che lavorano nelle sette parrocchie
comprese nella zona smilitarizzata, il vescovo di San Vicente, Francisco
Xavier Munera, ha tracciato l’anno scorso una nuova politica,
raccomandando estrema cautela in ogni dichiarazione pubblica: «Sostieni la
gente meglio che puoi; ma non schierarti politicamente da nessuna parte –
dice padre Hager, citando le nuove norme -. Non scuotere la barca e cerca
di essere neutrale in ogni situazione».

Ma per un
uomo come padre Hager, con alle spalle una reputazione di franchezza e
attivismo radicale, non è semplice osservare tali regole. Negli Stati
Uniti, alcuni anni fa, venne alla ribalta dei mass media nazionali per la
sua partecipazione alla crociata contro l’aborto: guidò veglie di
preghiera e assedi alle cliniche abortiste in varie parti del paese. Un
giorno, in un alterco con il personale di una clinica, asperse gli
impiegati con l’acqua benedetta; uno di essi minacciò di fare causa alla
sua congregazione religiosa, i missionari della Consolata. Il superiore lo
invitò a spostarsi nel sud della Colombia, sperando che si desse una
calmata.

Sorride il
missionario mentre rievoca tali avventure. E aggiunge: «Data la mia
storia, la tentazione di non seguire le nuove direttive è molto forte: mi
è duro non essere là fuori a protestare contro gli abusi che mi tocca
vedere ogni giorno, soprattutto le violazioni dei diritti umani di cui
sono testimone». E aggiunge subito che non sono solo le Farc responsabili
di violenze e atrocità; anche i gruppi paramilitari e le truppe
governative sono altrettanto responsabili.


L’esperienza negli Stati Uniti e i pericoli reali che si affrontano in
Colombia «mi hanno insegnato a moderare i bollenti spiriti. Mi considero
ancora molto attivo; ma qui la partita è totalmente differente».

ABUSI E
PERICOLI QUOTIDIANI

Di abusi
da fare perdere le staffe padre Hager ne ha visti tanti, come quelli
contro i bambini di appena 10 anni, costretti dalle Farc a eseguire lavori
pesanti, arruolati in squadre di operai per costruire strade. In gennaio,
due uomini furono uccisi da banditi davanti alla chiesa, mentre stava
celebrando la messa. Dal momento che solo le Farc possono maneggiare armi
nella zona smilitarizzata, si deduce che l’assassino fu opera dei
guerriglieri.

Il sindaco
del paese è stato condannato a un mese di lavoro forzato, perché si era
lamentato delle interferenze dei comandanti delle Farc nella gestione del
comune. «Ci sono troppi capi» dice padre Hager, citando il sindaco; «il
suo crimine è di aver criticato la rivoluzione» aggiunge, citando i
guerriglieri.

Un altro
caso: una catechista fu costretta da un pistolero ad abbandonare la zona
smilitarizzata insieme al marito e ai figli. Arma in pugno, fu minacciata
di morte, senza altra spiegazione. Il fatto è che un locale comandante
delle Farc aveva messo gli occhi sul loro campicello e la famiglia si era
rifiutata di venderlo.

«La gente
non ha alcuna possibilità di godere il più elementare diritto come
cittadini» conclude il padre.

Mentre una
lunga barca a forma di canoa, carica di una dozzina di guerriglieri
armati, mescolati tra i civili, si avvicina all’attracco, padre Hager
riprende: «Ciò che stai vedendo è una flagrante violazione della legge
internazionale. Come pastori, raccomandiamo alla gente di non salire mai
in una imbarcazione dove viaggiano anche combattenti armati. Quando la
barca passa i confini della zona smilitarizzata, pochi chilometri a sud di
Betania, in qualsiasi momento potrebbero esserci scontri con i soldati
dell’esercito o gruppi paramilitari».

Ma i
pericoli che deve affrontare il missionario non sono solo di natura
militare. Negli ultimi due anni, padre Hager ha avuto violenti attacchi di
malaria, tifo e dengue. Mentre visitava alcuni villaggi, ha riportato
ferite alle gambe e alla schiena per una caduta da cavallo. Oltre a tutti
i pericoli in Colombia, egli è stato testimone di massacri ben peggiori,
mentre lavorava come missionario in Etiopia, dal 1973 al ’78, durante la
rivoluzione che detronizzò l’imperatore Hailé Salassié. «In quattro anni,
ho visto 30 mila bambini uccisi e abbandonati sulle strade, perché i
genitori li ritrovassero – racconta -. Sia qui che in Africa, mi sono
trovato in molte situazioni di pericolo; ma me la son cavata sempre». Poi
aggiunge, con un rapido sguardo al cielo: «Lassù qualcuno mi protegge».

(*) Tod
Robberson è un giornalista dell’Associated Press; questo articolo è
apparso su The Dallas Moing News (Usa) del 2 maggio 2001.

Tod Robberson




HAITI: RITI E PERSONE DI UNA FESTA VUDU’. SODO’ LA CASCATA DEI MIRACOLI

REPORTER DI STRADA

Minute sacerdotesse e corpulenti ragazzoni
emigrati a Miami. Donne gravide e contadini. Colorati ministri di riti
misteriosi. Ogni anno a metà luglio un piccolo villaggio nel centro
dell’isola rigurgita di pellegrini. È la festa della beata Vergine del
Carmelo e degli spiriti dell’acqua.

Quel
giorno, a bordo di un potente fuoristrada, cercavo di raggiungere la
località di Sodò nel cuore di Haiti. In creolo, la lingua del paese,
significa «salto d’acqua» e avrei presto capito il significato di quel
nome.

Da
Mirbalais, sul plateau centrale, mi diressi verso ovest. La strada era
diventata poco più che un sentirnero, l’erba ai lati era alta e la
vegetazione intorno lussureggiante: strano per un paese in cui la foresta
tropicale è stata quasi interamente distrutta. Ogni tanto lo sterrato si
faceva pantano e l’automobile rischiava di restare bloccata nel fango.
Guadato un grosso fiume, grazie alle quattro ruote motrici e alla dovuta
rincorsa, arrivai a Ville Bonheur (letteralmente la città della felicità),
il secondo nome di Sodò. È un villaggio sperduto, non troppo grande e
neppure bello, ma occupa un posto centrale nella «spiritualità haitiana».
Con questo termine intendo quella complessa mescolanza di credenze e fede
che fanno, al tempo stesso, sentirsi cristiani e praticanti del vudù (vuduizanti),
in un sincretismo religioso che solo gli haitiani sanno capire.

Il miracolo e il vudù

Siamo a
metà luglio. Sodò è già piena di pellegrini e con essi mercanti, musici e
prostitute. Nella settimana che precede il 16 arrivano da tutto il paese e
anche dall’estero, per partecipare alla festa della Vyèj mirak (Vergine
del miracolo), Nostra signora del Carmelo.

Era il 16
luglio del 1843 quando apparve la Vergine Maria in cima a una palma. Ma la
chiesa locale negò il miracolo e la pianta fu tagliata. La gente del
popolo però incominciò a venire in quel luogo per pregare e chiedere
miracoli. Il curato decise allora di far sradicare il ceppo rimasto e si
dice che in seguito ebbe un incidente in cui perse le gambe. Nel 1881,
sempre il 16 di luglio, ci fu una seconda apparizione e da allora nessuno
cercò più di impedire il pellegrinaggio.

Ma la Vyèj
mirak è anche, nella religione vudù, il loà Erzuli-freda (Ezili), allo
stesso tempo spirito dell’amore e madre. La mitologia vudù è complessa.
Trae le sue origini da alcuni riti africani (radà, petrò, kongò), ma ha
aggiunto nel corso dei secoli ingredienti tipici haitiani ed è in continuo
divenire. I loà del pantheon vudù sono un’eterogenea schiera di divinità e
spiriti o geni. Vi sono quelli superiori, di origine africana,
riconosciuti da tutti, accompagnati da un’infinità di loà creoli, più
recenti e in continua evoluzione. I loà sono il legame tra il visibile e
l’invisibile e possono entrare nel corpo di un individuo per possederlo.
Sono gli intermediari tra Dio e l’uomo e sono capaci del bene e del male.
I fedeli cercano di propiziarseli per ottenere protezione e i favori più
diversi. Sono comunque tutti creati da Gran Mèt (il grande maestro, ovvero
Dio), per venire in aiuto agli uomini e qualcuno li definisce come angeli
un po’ ribelli. Alcuni, più maligni, vengono chiamati diab, diavoli.
Erzuli-freda è uno dei loà principali. Rappresentata come una bella
mulatta, appartiene al gruppo degli spiriti del mare e impersonifica la
bellezza e la grazia femminili. È civetta, sensuale e ama lusso e piacere.

La chiesa
bianca nel centro di Ville Bonheur è straripante di fedeli, che entrano,
pregano ed escono in un flusso continuo. È difficile riuscire a inserirsi.
Ma questi uomini e donne, ancor prima di venire qui sono stati a
purificarsi nel vero posto magico di Sodò: la grande cascata, il salto
d’acqua, poco lontano dal villaggio.

Verso il salto d’acqua

È la
vigilia della festa. Fin dalle prime ore dell’alba un colorato fiume di
gente crea un continuo andirivieni lungo la stradina sterrata che si
inerpica verso lo splendido santuario naturale. I colori forti degli
houngan e delle mambo – preti e sacerdotesse vudù – in smaglianti abiti
blu e rossi, bianchi e blu, verdi si mischiano a quelli dei contadini,
piedi nudi e cappello di paglia e della diaspora (haitiani che vivono
all’estero), con i loro pesanti braccialetti dorati, occhiali scuri e
vestiti americani. Le persone che vengono in pellegrinaggio a Sodò sono di
tutte le classi sociali e si ritrovano nella stessa settimana in questo
splendido angolo di Haiti.

«Bét sur
bét» (bestia su bestia) urla qualcuno per farsi largo nella folla
cavalcando goffamente un asinello. «Veniamo per pregare la Vyèj mirak,
affinché ci dia salute e fortuna negli affari».

Eddy e
Mariette sono una giovane coppia di Port-au-Prince, capitale di Haiti. Lui
è muratore, mentre lei lavora a casa. Hanno pochi vestiti addosso, ma
portano una borsa di plastica con nuovi indumenti. «Butteremo via questi
abiti durante la preghiera, per metterci quelli nuovi» dice Eddy. È una
purificazione che passa anche attraverso gli oggetti. Raoul Deorcely è di
Leogane, una cittadina a sud est della capitale. Dice di aver diciott’anni
ma sembra più giovane. Va alla preghiera per chiedere la possibilità (o il
miracolo) di poter partire all’estero e trovare un buon lavoro: «In questo
modo sarei in grado di aiutare la mia famiglia qui» ci dice.

Vicino,
una giovane donna urla a squarciagola: «Sto chiedendo alla vergine di
avere un bambino! Sono sposata, ma sto ancora aspettando». «Chiederò di
avere gioia e felicità per tutto l’anno» risponde un uomo di mezza età.

Saturazione dei sensi

Lungo la
strada, in alcuni luoghi, per noi casuali, piccole candele colorate sono
accese e piantate nella terra dalla gente in lenta marcia verso la
cascata. Qui si fermano a pregare un momento, legano un cordino colorato,
accendono il loro lumicino. Poi continuano. L’atmosfera spirituale è molto
forte. I nostri sensi sono tutti sollecitati, quasi saturati. Gli odori
sono intensi e i colori vivaci, quasi aggressivi. C’è chi sta in silenzio
con gli occhi chiusi e chi urla allargando le braccia. Come una striscia
di formiche in movimento verso il formicaio, anche noi immersi nel mezzo,
arriviamo nei pressi del luogo sacro.

In un
piccolo spiazzo dove l’erba è più brillante e l’aria si è fatta umida,
troviamo dei piccoli banchetti di legno, ricolmi di strana mercanzia. Sono
i venditori di oggetti sacri, essenziali nei diversi riti. A fianco dei
biscotti espongono candele di cera colorata: rossa, gialla, nera, cordini
blu e rossi o bianchi e rossi. Sono le offerte delle giovani donne a
Erzuli, la vera regina della festa, o agli altri spiriti dell’acqua. Ci
sono poi bottiglie che contengono strani liquidi ed erbe medicinali.
Talvolta immagini di santi e simboli di loà sono incollati come etichetta.
Speciali frasche sono vendute in gran quantità ai pellegrini di passaggio.
In un cantuccio, sopra a un ceppo, ancora candele accese e alcune anziane
mambo intorno.

Il bagno nella fortuna

La
splendida cascata naturale appare all’improvviso in fondo a una stretta
gola. È incoiciata da giganteschi alberi dalle lunghe fronde, in passato
comuni sull’isola caraibica, oggi una rarità.

Tutto è
immerso in un vapore di goccioline minuscole, che ti avvolge e ti bagna
senza che tu possa accorgertene. Un po’ ovunque si formano i colori
dell’arcobaleno quando un raggio spunta dalla sommità della montagna.
L’acqua spumeggia e poi scorre in piccole conche alla base della cascata,
fino a ridiventare un fiume. La gente sembra ora concentrarsi, cercando un
percorso per arrivare sotto i flutti. Uomini, donne, bambini si spogliano
di tutto, o quasi – mentre la gente della diaspora si riconosce dai
variopinti costumi da bagno – si spingono sotto la potenza dell’acqua che
cade da oltre trenta metri di altezza. Pregano, urlano, si lavano uno con
l’altro. Una donna strofina con le frasche il ventre gonfio dell’amica
gravida. Qualcuno cade in trance e si rotola nell’acqua, sulle rocce
muschiose presenti ovunque. È posseduto da uno spirito. Nella cascata
infatti abitano tutti i loa legati all’acqua. Damballah, il potente
dio-serpente associato ora con l’arcobaleno ora al lampo, a lui sono
dedicati alcuni grossi alberi – anch’essi, come è noto, rifugio dei
serpenti – sui quali i fedeli legano le cordicelle colorate, dopo averle
portate ai fianchi, accendono candele sul tronco e pregano. Con lui Aida,
sua moglie, e gli altri spiriti acquatici. Condividono il luogo di culto
con la vergine del Carmelo in un perfetto sincretismo.

Qui i
fedeli cercano il bagno di chance, una sorta di purificazione (lavaggio
dai problemi) ma anche un’immersione di forza spirituale che fortifica
contro i nemici e le avversità della vita. Si può fare a casa o in un
tempio vudù, ma funziona molto meglio in questi particolari luoghi sacri,
residenze dei loà. Si utilizzano erbe, piante e profumi che piacciono allo
spirito e si chiede la sua protezione. Tutto intorno a noi la gente si
lava con piccoli pezzi di sapone che poi abbandona su una roccia.
«Attenzione: non bisogna portarsi a casa il sapone – spiega una mambo –
lasciarlo sotto la cascata vuol dire lasciare tutto ciò che è male e di
cui volete liberarvi. Se un pellegrino non ha il sapone è meglio che si
lavi senza: se ne raccoglie un pezzo rischia di prendersi tutti i problemi
di chi lo ha lasciato lì!».

Per una
vita migliore

«Prendiamo
un po’ d’acqua in un bidone per mia madre – dice Etienne, un bambino
venuto qui dalla capitale con il suo cuginetto – è a casa malata e noi
siamo venuti qui per pregare per lei». Marie-Jò, una giovane donna dell’Artiboinite
(l’unica ampia pianura del paese, zona di contadini e di riso), viene qui
ogni anno e prega la Vergine (o Erzuli) di allontanare da lei tutti i
problemi. «Chiediamo una nuova casa – sostiene Marie-Héléne, con la sua
amica Louise che ha in braccio un bimbo – siamo di Cité Soleil (la più
grande bidonville di Port-au-Prince, ndr) e abbiamo perso la nostra casa.
Abbiamo tre bambini ognuna e i nostri mariti ci hanno lasciate. Cosa
possiamo fare?».

Mentre
qualcuno si sta rotolando nell’acqua, urlando e piangendo, un’anziana
cerca di uscire dalla folla sotto i flutti. Ha un mucchietto di terra
coperto di muschio nella mano sinistra, «La porto a una malata del mio
villaggio. Penso che la aiuterà». Dietro di lei un uomo corpulento ride e
dice in misto creolo-inglese, tipico della diaspora: «Sono di Okap (grande
città del nord, ndr), ma vivo a Miami. Mi piace venire a questa festa ogni
volta che posso». Va via con un grosso stereo portatile sulla spalla.

Tutt’intorno
luoghi di culto, pieni di candele e gente in preghiera. Sotto la cascata
lo spettacolo è impressionante: una massa di persone, quasi nude, assieme
senza distinzione di classe sociale e luogo di origine, ma ognuno con la
sua preghiera o qualcuno solo per divertirsi. E anche noi, che vuduizanti
non siamo, restiamo rapiti da un’atmosfera di sacralità profonda, che
ancora non riusciamo a capire.

Audétte ha
tre figli da tre papà diversi. Fa la commerciante di strada in capitale ed
è partita da Port-au-Prince con due amiche. Hanno affrontato il viaggio
nel cassone di un camion per raggiungere Sodò e pregare la vergine-loà.
«Mamma Vyèj mirak è una donna, conosce il dolore dei bambini e i problemi
delle donne come lei» ci racconta sotto un rovescio.

Alla
cascata cerca una vita migliore. Mentre si bagna elenca tutte le
difficoltà che l’acqua deve portarsi via: malattie, usura, affitto della
baracca, un marito che ha abbandonato i figli, i problemi con i vicini.
Quando ha finito lascia una moneta per lo spirito dell’acqua. Ora il suo
volto è sereno. Pensa che i suoi problemi siano svaniti ed è tornata a
riempirsi di speranza. In un certo senso, il miracolo la Vergine del
Carmelo, Erzuli e i loà acquatici – in una parola la Vyèj mirak – lo hanno
già fatto.

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Breve vademecum vudù

Vudù (o
vodù): religione sincretica che trae le sue origini dalla spiritualità
africana e si evolve ad Haiti. Da non confondere con il vudù praticato in
paesi come Benin (Dahomey) e Nigeria, da cui si origina, ma si differenzia
per l’evoluzione creola e i legami con i santi cristiani.

Loà: sono
le divinità e gli spiriti del vudù e fanno parte del pantheon vudù. Ne
esistono un’infinità e sono in continua evoluzione. I principali,
riconosciuti da tutti, hanno origini africane; gli altri sono creoli, meno
potenti, ma fondamentali. Gli uomini chiedono ai loà protezione e questi
li «posseggono» durante i riti. I loà sono capaci del bene e del male e
collegano il visibile con l’invisibile. I diab sono gli spiriti cattivi.
Molti loà sono associati a santi cristiani.

Radà,
petrò, kongò e gli altri: i primi due sono i riti principali del vudù
haitiano secondo i quali si classificano i loà. Nel radà si ritrovano
alcuni spiriti del Dahomey; il petrò ha spiriti più vendicativi e
utilizzati nella magia. Il kongò ha origini bantu, prevede sacrifici e
riti più violenti. Esistono altre innumerevoli classificazioni, ma nessuna
universale. Ogni categoria ha ritmi di tamburo, strumenti, danze, profumi
e saluti propri.

Mambo e
hungan: sacerdotessa e prete vudù (questo chiamato anche boko) sono i
maestri dei riti.


Erzuli-freda: spirito della bellezza e della sensualità, ma anche
dell’amore materno. È uno spirito del mare e delle acque. Ha tutte le
caratteristiche di una bella donna ed è associato alla Madonna. Esistono
altre Erzuli, sempre femminili ma con caratteristiche diverse.


Damballah-redo: è il dio-serpente, vive sugli alberi e nei corsi d’acqua.
È una delle divinità più popolari del vudù haitiano. Il colore bianco è
suo simbolo ed è padrone dell’argento. È lui che dà la ricchezza. Sua
moglie Aida-redo: è anch’essa uno spirito acquatico.

Bains de
chance: sono i bagni della fortuna che i fedeli del vudù fanno per
propiziarsi i loà e ricevere grazie e protezione.

Vévé: è il
disegno simbolico che raffigura tutti gli attributi del loà. Viene
tracciato durante le cerimonie per richiamare lo spirito.

Potò-mitan:
oggetto sacro è il palo situato al centro del peristilio e la via dei loà
per scendere, durante i riti, dal cielo alla terra.

Ma.Be.

Marco Bello




RUSSIA: l’esercito dei senzatetto (2). E’ FREDDA LA NOTTE DI MOSCA

In
prossimità delle feste, a Mosca e Pietroburgo i barboni che bivaccano
nelle vie del centro vengono caricati su camion e portati fuori città.
Perché i russi «normali» trascorrano le festività in pace… In
alternativa a questa soluzione, i senzatetto sono rinchiusi per qualche
settimana in «centri di raccolta». Oggi come ieri lo stato non si occupa
dei «bomzh», se non in modo punitivo. Per fortuna, «Medici senza
frontiere», «Caritas» e altre organizzazioni di volontariato fanno il
possibile per alleviare l’esistenza di chi è caduto nel baratro.

All’inizio
del secolo scorso i senzatetto erano circa 150.000 in tutto il paese e
potevano contare su diverse forme d’assistenza, attuate sia dallo stato e
dalla chiesa sia da organizzazioni benefiche private. A Mosca esistevano
diversi ospedali per i poveri, tra cui il famoso istituto Sklifosovskij.
Con la rivoluzione e l’instaurazione del regime sovietico, il fenomeno non
scomparve (al contrario), però non se ne ammetteva l’esistenza (in un
paese socialista non poteva esistere il disagio sociale!). Con il nuovo
codice penale del 1933, non avere una residenza e un lavoro ufficiali
divenne un reato punibile con una reclusione fino a due anni.

La fine
del regime sovietico ha fatto riaffiorare quelle situazioni di disagio,
che per anni erano rimaste relegate nel sottosuolo.

Adesso
essere senza fissa dimora non è più un reato. Tuttavia, l’atteggiamento
dello stato verso i senzatetto non è molto cambiato rispetto ai tempi in
cui erano considerati delinquenti da isolare dalla società. Il pregiudizio
nei loro confronti, condiviso in generale dall’opinione pubblica e
alimentato dai mass media, fa sì che non ci sia da parte delle istituzioni
il tentativo di comprendere il problema e di trovarvi soluzioni adeguate.
Basti dire che, a tutt’oggi, non c’è una legge sui senzatetto, che per lo
stato in Russia non esistono persone ridotte a vivere senza una casa, ma,
tutt’al più, «individui bomzh», da cui la società si deve difendere.

Del 1992 è
un decreto presidenziale a loro riguardo, che s’intitola: «Sulle misure
per prevenire vagabondaggio e accattonaggio». Dopo quasi 10 anni, il
progetto di legge che il governo del 2001 vuole sottoporre al parlamento
s’intitola: «Sulla riabilitazione sociale degli individui che praticano
vagabondaggio e accattonaggio».

Sembra che
il tempo sia passato invano. D’altra parte, se lo stato riconoscesse
l’esistenza del problema, dovrebbe anche far qualcosa per risolverlo.
Invece, ecco cosa si legge in uno studio del ministero del Lavoro e dello
Sviluppo sociale: «Gli individui bomzh che abbiamo interrogato negli
ospedali, nei centri raccolta-smistamento, alle discariche, non desiderano
cambiare il proprio stile di vita. Sono soddisfatti della propria vita e
apertamente disprezzano e deridono le persone che lavorano».

PER FORTUNA,
CI SONO LORO


Fortunatamente, negli anni Novanta, con l’apertura all’iniziativa privata
e la caduta della cortina di ferro, hanno cominciato ad operare sul
territorio russo organizzazioni umanitarie non governative sia russe che
inteazionali, sia religiose che laiche. Tra i primi ad arrivare sono
stati i Medici senza frontiere (MSF), le suore di Madre Teresa, la Caritas.
A Pietroburgo i pionieri sono stati i fondatori dell’associazione
Nochlezhka (Il rifugio), giustamente famosa in tutto il paese.

Oltre ad
assistere materialmente i senzatetto, queste organizzazioni si sono
trovate costrette a difendee i diritti sistematicamente conculcati.

MSF,
inoltre, si è più volte scontrata con le preoccupazioni «estetiche» delle
autorità. Nel 1992 una loro unità medica cominciò ad operare nelle
stazioni di Mosca, ma nel 1993 furono fermati dall’amministrazione
ferroviaria, preoccupata della visibilità che la cosa stava assumendo.
Infatti, la possibilità di ricevere assistenza medica, altrimenti negata,
richiamava un certo numero di senzatetto. Se durante l’epidemia di
difterite scoppiata a Mosca nel 1994, che costituiva una minaccia per
tutta la popolazione, a MSF fu concesso di riprendere l’attività nelle
stazioni, nel 1998 erano in arrivo nuovi guai. In preparazione alle
Olimpiadi dei giovani, l’amministrazione di Mosca decise di ripulire la
città dai barboni e chiuse anche gli ambulatori di MSF nelle stazioni.
Rimase in funzione quello aperto nel cortile dell’ospedale per malattie
infettive. Il posto è più defilato e non dà nell’occhio.

Non si
deve pensare che Mosca venga ripulita solo in occasioni così
straordinarie, come quella di un’olimpiade internazionale. Tali operazioni
si svolgono con una certa frequenza. Tanto per cominciare, in occasione
delle feste.

LE «PULIZIE»
DELLA FESTA

Arrivata a
Mosca alla vigilia dello scorso capodanno, mi sono stupita nel trovare le
vie del centro e la metropolitana sgombre di barboni.

I miei
sospetti al riguardo hanno trovato conferma parlando con gli operatori di
MSF e della Caritas: nella ricorrenza delle feste di capodanno e Natale
(il Natale ortodosso è il 7 gennaio), la città viene sgomberata dai
poveracci, tanto che in questo periodo le organizzazioni umanitarie
registrano un sensibile calo dell’attività. «Di solito abbiamo una coda di
gente che arriva fino in cortile, ma oggi riusciamo a chiudere addirittura
prima del tempo» mi spiegava Elena della Caritas.


Ovviamente, queste operazioni di sgombero vengono attuate alla
chetichella, sebbene possa capitare che se ne venga per caso a conoscenza
attraverso i mass media. Ad esempio, all’inizio di gennaio si è saputo
dalla radio che i comuni confinanti con Mosca si erano lamentati, perché
dalla capitale camion carichi di bomzh erano stati fatti arrivare e
scaricati nelle loro periferie. Alla base di questi trasferimenti c’è un
disegno primitivo: prima che i barboni riescano a riguadagnare la capitale
passano un po’ di giorni, quanto basta perché i moscoviti trascorrano «in
santa pace» le festività. Ma non sempre questi carichi umani vengono
lasciati all’interno di centri abitati. A Pietroburgo i senzatetto,
periodicamente rastrellati nella stazione ferroviaria vengono portati nei
boschi lontano, dalla città, con tutte le conseguenze che si possono
immaginare. A nulla per il momento sono valse le proteste delle
organizzazioni umanitarie, prima fra tutte Nochlezhka.

Nel 1999,
grazie all’intervento di una Tv privata, ha avuto ampia risonanza un
episodio, che altrimenti sarebbe passato inosservato, come tanti altri
simili. Il comando di polizia di un quartiere della capitale decide di
ripulire la zona dalla presenza dei senzatetto. Raccolti e caricati su un
camion, essi vengono portati a una discarica fuori città. Tra loro si
trova anche un uomo senza le gambe. L’operazione si svolge in una fredda
sera di fine estate. Al mattino alla discarica viene trovato il cadavere
del mutilato, che non aveva potuto, come gli altri, cercare un riparo ai
rigori della notte. Qualcuno ha avvertito l’emittente televisiva NTV, che
è corsa sul posto e ha reso il caso di pubblico dominio. Ciò ha spinto la
polizia ad aprire le indagini per individuare i responsabili. Ebbene, i
responsabili sono stati trovati, i loro nomi trasmessi alla magistratura,
ma quest’ultima dopo tre mesi ha chiuso l’inchiesta come se nulla fosse.
Del caso si sta occupando ora Aleksej Nikiforov, cornordinatore del
programma d’aiuti di MSF, il quale ha ottenuto che l’inchiesta fosse
riaperta.

DIETRO LE
SBARRE

Di
professione medico, Aleksej è da tempo impegnato a difendere i diritti dei
senzatetto. «Mi rivolgo alle istituzioni, chiedendo spiegazioni sul loro
operato. Per il momento, questo diritto lo abbiamo ancora. Chiedo, in
sostanza, che gli organi dello stato agiscano secondo quanto è stabilito
dalla legge».

È dura per
un medico districarsi tra i cavilli e i sotterfugi della burocrazia.
All’inizio lo menavano facilmente per il naso, ma poi si è fatto più
accorto. Il suo non è compito da poco. La legge è sistematicamente
ignorata dalla magistratura, che preferisce attenersi alle indicazioni
delle autorità, piuttosto che rispettare la costituzione.

Un
esempio. Ai tempi dell’Urss, quando essere senza residenza era reato, il
ministero degli Intei aveva istituito i cosiddetti «Centri
raccolta-smistamento», che, al di là di tutte le alchimie verbali, erano
in realtà delle specie di prigioni (con la rivoluzione, le carceri furono
ufficialmente abolite, in quanto istituzioni borghesi; comparvero, invece,
i «luoghi di isolamento» o i «luoghi di privazione della libertà»).

Oggi la
legge proibisce di trattenere un cittadino per più di 48 ore, a meno che
su di lui non gravino pesanti sospetti di reato, che motivino un ordine
scritto del tribunale a riguardo. Ciononostante, ogni anno 400 mila
persone vengono trattenute dai 10 ai 30 giorni in questi «centri», perché
prive di documento e registrazione. Gli ordini vengono firmati da
procuratori disinvolti e motivati con la necessità di rilasciare alla
persona un nuovo documento d’identità, il che accade molto raramente. In
realtà questa pratica tradisce la convinzione che i senzatetto siano dei
potenziali delinquenti, da tenere in gabbia il più possibile.

«Essi_
sono causa d’incendi e dell’aumento della criminalità», leggiamo sempre
nella stessa pubblicazione ministeriale, cui ho già accennato sopra.

I
senzatetto entrano ed escono da questi luoghi di detenzione
silenziosamente. D’altronde, quali concrete possibilità avrebbero di
chiedere giustizia? Ma la primavera scorsa uno di loro, appoggiato da
Novyj dom, ha fatto causa alla procura di Mosca. Un giornalista, amico di
Novyj dom, è riuscito a scriverne sul quotidiano Novye Izvestija: «Quest’uomo
ha trascorso più di un anno e mezzo nei cosiddetti centri
raccolta-smistamento, dove veniva rinchiuso a forza “per identificazione e
rilascio dei documenti”. Ne usciva, tuttavia, non con la carta d’identità,
che non riuscivano a rilasciargli, ma con un certificato della polizia. Al
primo controllo documenti, quel certificato veniva stracciato dai tutori
dell’ordine, e “l’individuo bomzh” si ritrovava di nuovo dietro le
sbarre».

Dopo gli
ennesimi 30 giorni di detenzione, «l’individuo bomzh», il signor Lemekhov
ha denunciato il procuratore che ne aveva sanzionato il fermo. Ma il
giudice non si è lasciato impressionare dai riferimenti alla Costituzione
(1993); ha giudicato molto più autorevole quanto sta scritto in un decreto
del presidente Eltsin (emanato alla vigilia della nuova costituzione) e in
una disposizione del ministero degli interni dell’Urss (1970). D’altra
parte, conclude il giornalista, è noto che il sindaco Luzhkov, di propria
iniziativa, ha assegnato un sostanzioso contributo allo stipendio dei
giudici moscoviti.

L’ARBITRIO
SOSTITUISCE LA LEGGE

«Quando
vengono a trovarci i corrispondenti stranieri, dopo un po’ vediamo che il
loro sguardo si appanna. Quello che raccontiamo è per loro così assurdo,
che a un certo punto smettono di seguirci. Chiudono la saracinesca. Anche
noi spesso non riusciamo a capire, ma siamo abituati a convivere con la
follia» mi dice Elena, durante il nostro incontro presso il centro-aiuto
Caritas.

Stiamo
parlando da due ore e si stupisce che io non abbia ancora voglia di
chiudere la conversazione. «Ecco, ad esempio, adesso è un po’ di tempo che
agli uffici passaporti mancano i moduli per chiedere un nuovo documento.
Così tutto è fermo, non si può fare domanda. E anche se si potesse, le
domande dei senzatetto di regola non vengono accettate. Se uno di loro
chiede il rilascio di un nuovo documento, lo si indirizza all’ufficio
passaporti del luogo dell’ultima registrazione, sebbene la legge non lo
richieda. Anche ritornando all’ultimo luogo di residenza ufficiale, le
cose non sono così semplici, perché tutto il processo può richiedere mesi
(per legge, invece, non più di 15 giorni). E intanto, che si fa? Se poi
l’ultimo luogo di residenza era una repubblica ex-sovietica, è la fine».

Per porre
un freno all’arbitrio che regna negli uffici passaporti, MSF e Caritas
distribuiscono ai loro assistiti un foglio da consegnare al funzionario di
tuo, in cui si ricorda che, per legge, chi non ha una residenza ha
diritto a ottenere il documento d’identità là dove soggioa. «Quel pezzo
di carta col nostro timbro sopra è stato pensato per influenzare il
poliziotto – mi conferma Aleksej di MSF -. Qui accade qualcosa solo se hai
qualcuno alle spalle che ti sostiene. È quello che tentiamo di fare».

«COM’È FACILE
AFFONDARE!»

Il centro
Caritas per i senzatetto è stato aperto 7 anni fa. Qui si può ricevere un
pasto caldo, vestiti e scarpe. Ma l’aiuto materiale non basta. Queste
persone sono così disorientate che hanno bisogno di qualcuno che le
indirizzi, le consigli, o semplicemente ascolti le loro storie. Così sia
Caritas che MSF offrono un servizio di assistenza sociale.

«È facile
perdere l’equilibrio con la vita che fanno» incalza Elena, mentre mi
mostra i dati raccolti durante i colloqui con i senzatetto. «È incredibile
quanto si faccia presto ad andare a fondo e quanto difficile sia
rimettersi in piedi. E pensare che il 16% delle persone che vengono da noi
hanno una laurea universitaria. Abbiamo i barboni più istruiti del
mondo!». È vero che qualcuno si è mosso e si sta muovendo per aiutarli;
pasti caldi vengono distribuiti anche presso alcune parrocchie o da
associazioni come l’Esercito della Salvezza. Le Suore di Madre Teresa
hanno una casa con 30 letti, dove raccolgono i più infelici, i più malati;
ma nessun miglioramento radicale si potrà ottenere se non cambierà
l’atteggiamento delle autorità, dei cittadini, dei mass media nei
confronti di chi è stato sbrigativamente segnato con l’infamante marchio
di bomzh.

Biancamaria Balestra




PAKISTAN: il paese islamico è retto da una giunta militare. I FRAGILI EQUILIBRI DI ISLAMABAD

Sorto
soltanto nel 1947, il paese asiatico ha già una lunga storia di conflitti
(interni ed estei), colpi di stato, dittature. La presenza di gruppi
fondamentalisti provoca frequenti scontri tra musulmani sunniti e
minoranza sciita. Ancora peggio stanno i cristiani, privi di tutele,
spesso accusati di blasfemia, reato punibile con la morte. Mentre, a causa
della contesa sul Kashmir, sono sempre molto tese le relazioni con
l’India, esasperate da una folle corsa alla bomba nucleare.

Sembrano
comparse di un film biblico, capitate tutte insieme su questo aereo un po’
macilento. Alcuni hanno un fagotto o un telo ripiegato sulla spalla e
sembrano i pastori del presepe. Uniche donne,  due madri velate di nero e
circondate da uno stuolo di marmocchi. Siamo appena atterrati
all’aeroporto di Karachi e, in attesa di scendere, si sono alzati in piedi
e ora mi scrutano con i loro occhi neri e brillanti. Il naso grande e
aguzzo  sembra un punto interrogativo.

Domani
inizia Eid ul Azhad, la festa islamica che commemora la decisione di
Abramo di sacrificare il figlio Isacco. L’aeroporto è pieno di pakistani
emigrati per lavoro, che tornano in famiglia per qualche giorno. La folla
spinge e strattona senza riguardo, spingendo i carrelli stracolmi di
scatoloni e grossi involti legati con lo spago. Un primo assaggio per noi
della violenza che caratterizza questo paese. Eppure il volo era iniziato
con l’esortazione: Allah uh Akbar, gridato per tre volte, seguito da altre
suppliche incomprensibili. Forse una preghiera. Alla fine ho inteso la
parola fatale: Inshallah! E siamo partiti.

LA DOTE E LE NOZZE COMBINATE

A Karachi
oggi le strade sono tranquille. Passano bus colorati, decorati da pitture
stravaganti con visi di donne e paesaggi montani, coi bigliettai che si
sporgono a chiamare i clienti. Passano «Ape» e camioncini che trasportano
mucche e pecore agghindate di corone di fiori e lustrini, pronte per il
sacrificio. C’è chi sta lavando accuratamente un agnello, chi sta dando
alle bestie l’erba fresca. Ameer mi accompagna in questi primi giorni
pakistani e mi spiega come intende questa festa.

Due
settimane fa ha comprato una capretta: «Le mie figlie devono affezionarsi
all’animale, prima che venga sacrificato. Le cai verranno poi
distribuite ai poveri. Noi non faremo il barbecue, come la maggior parte
dei pakistani. Dopo aver curato e nutrito la capretta per 15 giorni, le
bambine oggi piangeranno, quando arriverà il macellaio a sgozzarla. Questo
è il vero senso del sacrificio».


Rabbrividisco. Comincia così la mia esperienza in Pakistan, che mi porterà
a conoscere aspetti sconcertanti di quello che è un paese confessionale
islamico, fondato nel 1947, dopo la drammatica divisione dall’India.

Quando
esco nelle vie, pare che sia tutto finito: il sangue ha formato pozze
scure nei vicoli, mentre sui marciapiedi si lavora a tagliare in piccoli
pezzi le bestie sacrificate.   Ameer è andato presto in moschea, per la
preghiera, mentre le donne erano a casa a preparare il pranzo. La famiglia
di Ameer, originaria del Rajastan, è di fede islamica da molte
generazioni. I suoi antenati, di stirpe Rajput, si convertirono dall’induismo
seguendo gli insegnamenti dei mistici sufi missionari, provenienti dalla
Persia. Nel ’47 il padre di Ameer scelse di trasferirsi qui. Lasciò tutto
e prese il treno per Lahore, dove trovò condizioni di vita molto
difficili.

«I primi
anni vivevo in una stamberga con altri profughi. Poi mi sposai ed ebbi 10
figli». Munawar è un signore alto e magro, dalla pelle scura e segnata
dall’età, che parla bene l’inglese: «Allora a Karachi c’erano anche i
tram. Tutto funzionava bene, gli uffici pubblici e i trasporti. Oggi
abbiamo solo vecchi pullman privati, che cercano di attirare clienti con
le decorazioni fantasiose. Anche le scuole sono private; quelle pubbliche
non bastano, sono sporche e di basso livello». Parliamo anche del
terrorismo, finanziato dall’India, della guerra senza fine nel Kashmir e
delle armi che arrivano dall’estero.

Padre e
figlio hanno passato molti anni all’estero, anche in Giappone, lavorando
in ristoranti e caffè. Ora hanno una bella casetta e vivono tutti insieme,
nonno, figli e uno stuolo di nipoti. Il pomeriggio lo passeremo da loro,
stretti nel salottino coperto di tappeti, a sorseggiare il tè cremoso al
latte, mentre nel vicolo si sta asciugando la pozza di sangue della bestia
uccisa.

Parliamo
del matrimonio. Ameer ha visto la sposa solo il giorno delle nozze, che
erano state combinate dalle famiglie. «Credo sia meglio così. Sono molto
felice con mia moglie: i genitori sanno quello che è giusto per i figli».
In Pakistan convivono tradizioni islamiche con altre tipiche dell’induismo,
difficili da eliminare: come la dote per le figlie femmine, un peso grave
per la famiglia, che non è prevista nell’islam.

Toerò in
albergo passando dalla via principale, che prende nome dal padre della
patria, quel Jinna che morì di tubercolosi l’anno dopo aver visto
realizzare il suo sogno di un paese islamico libero e indipendente. Sulla
banchina spartitraffico, alla luce del tramonto, un uomo è ancora intento
a preparare la carne, tagliandola minuziosamente, dopo aver fatto a pezzi
la carcassa.

LA BLASFEMIA

«Amiamo
molto la musica e le canzoni napoletane». Conosco Julie e Austen a un
concerto: stasera suona un bravo sassofonista, accompagnato da un
pianista. Scopro che sono tutti originari di Goa.  «Mio padre era medico a
Bombay – mi dice Austen -. Prima della II guerra mondiale si era
trasferito a Karachi, come molti commercianti e professionisti indiani».
La moglie, che veste una camicia e una gonna all’occidentale, aggiunge:
«Siamo cristiani e viviamo in un paese islamico per il 97%, ma non abbiamo
problemi. Nelle campagne del Punjab, presso Multan, sappiamo invece
esserci situazioni molto gravi. I cristiani sono sovente ingiustamente
accusati di blasfemia, soltanto come pretesto per poter togliere loro la
terra». La legge islamica vigente nel paese  prevede la condanna a morte
per questo reato. Basta la testimonianza di 4 musulmani. La parola del
cristiano non conta.

GLI
SCHIAVI DEI GRANDI LATIFONDISTI

Moemjo
Daro è forse la più antica città del mondo. Certamente quella più
sorprendente, per le soluzioni urbanistiche. Edifici di mattoni disposti a
scacchiera e dotati di canalizzazioni per la raccolta delle acque,
palazzi, templi e bagni, tutto dominato dal gigantesco stupa (monumento)
buddista. Dopo 4.500 anni, solo ora il sito corre il rischio di
sbriciolarsi a causa dell’umidità e del sale.

Il
Pakistan ha sete d’acqua e le dighe costruite sull’Indo hanno innalzato la
falda freatica. Il grande fiume, che un tempo passava qui vicino, pare un
rigagnolo ormai, dopo tre anni di siccità. Attraversiamo Larkana, la città
feudo della famiglia Bhutto, con il suo mercato vivace. Si sta
festeggiando un matrimonio e lo sposo si esibisce con una decorazione
vistosa sul petto: un ventaglio di banconote che sembra porti fortuna agli
sposi. C’è chi non ha casa e vive ai margini, sotto ripari di fortuna, nel
centro cittadino, in mezzo ai rifiuti. La carne del sacrificio si sta
seccando, appesa ai fili, tra una tenda e l’altra.

In questa
regione, il Sind, i viaggi non sono sicuri. Ci sono i ribelli, i banditi
che negli anni passati hanno anche rapito alcuni stranieri. «Qui ci sono
ancora gli schiavi» mi sorprende Ameer. «I servi della gleba – continua –
ci sono sempre stati e il regime feudale è ben radicato, in questa zona. I
loro figli faranno la stessa vita, dato che ben pochi di loro possono
andare a scuola e avere la speranza di migliorare. Legati al lavoro dei
campi da generazioni, ricevono dal padrone un poco di cibo per
sopravvivere».


Naturalmente i grandi latifondisti non abitano qui, ma a Karachi, Londra o
nei paesi del Golfo Persico. Ameer aggiunge che ci sono anche i forzati,
prigionieri condannati per crimini comuni, che lavorano in campagna e la
sera rientrano in prigione.

LE
PREOCCUPAZIONI DEL VESCOVO

Polvere,
caldo, mendicanti e tombe. Così si presenta Multan, una città famosa sin
dal medioevo come centro spirituale islamico. Con due milioni e mezzo di
abitanti, ai margini del deserto del Cholistan, è ricca di mausolei dove
riposano i santi mistici dell’islam, tuttora meta di pellegrinaggi.

Siamo nel
Punjab, la regione più fertile del Pakistan, irrigata dai canali e dagli
affluenti dell’Indo. Numerose sono le foaci di mattoni, dove il lavoro è
svolto tutto manualmente, con l’aiuto di muli. Le strade sono percorse dai
carri trainati da buoi e nei fossi asciutti le bufale cercano un po’ di
umidità. Lembi di campagna penetrano anche nel centro storico di questa
città estesissima. Non lontano dall’animato bazar vedo un uomo che munge
una bufala e bambine che preparano le mattonelle di letame da seccare sui
muri. Dopo tre anni di siccità, ora scarseggia anche l’energia elettrica e
in tutto il paese i black out sono la regola.

Oggi è
domenica e la sera vado alla ricerca di una chiesa, nel cantonement, il
verde quartiere coloniale. So che c’è una piccola comunità cattolica, ma è
difficile trovare il complesso del vescovado, nelle strade buie.
Finalmente una croce, un portone che si apre su un vasto piazzale con la
grotta di Lourdes e la Madonna illuminata. Incontro subito il padre
Domenico, una persona aperta, comunicativa, che parla bene l’italiano. Ha
studiato a Roma e ora lavora sul territorio della diocesi , che è la più
povera del paese e ha tanti problemi. Deve essere lui il braccio destro
del vescovo Andrew Francis, che mi accoglie nel suo studio. Purtroppo
abbiamo poco tempo per parlare e domani devo partire. Il vescovo è
contrariato. Ha rinunciato ad un impegno, per potermi parlare, ma ora
insiste: «Devi restare alcuni giorni con noi, per poter testimoniare della
situazione. Voi in Europa dovete sapere i drammi che stiamo vivendo».

Allora mi
scrive un nome, Class (**) e un numero di telefono. Quando sarò a Lahore,
forse avrò tempo per documentarmi.

CRISTIANI SENZA PROTEZIONE

Eiga,
giovane collaboratrice di Class, mi dà le prime notizie sull’attività del
centro. Poi mi accompagna in ufficio, al primo piano di un edificio
anonimo nel centro di Lahore. Mr. Joseph Francis dirige l’associazione,
che si occupa di assistenza legale e accoglienza di donne e bambine che
hanno subìto soprusi e violenze. «La giustizia non esiste, in questo
paese. Con il denaro si mette tutto a tacere».

Mr.
Francis mi spiega che gli aiuti per il centro vengono dall’unione delle
chiese cristiane di Ginevra e dagli Usa. Poi mi presenta una delle giovani
donne che sta ricevendo aiuto. Una ragazza di campagna dal viso
spaventato. Anche lei vittima di violenza, perché cristiana, quindi donna
senza valore e non credibile. Qui i cristiani appartengono ai ceti più
poveri. La conversione avvenne durante i secoli, per opera dei missionari
in India, che riuscivano a convertire i «fuori casta», gli intoccabili,
che trovavano dignità e senso di comunità nella chiesa cristiana.

Nel
dossier che mi viene presentato vedo un articolo del Times. Leggendo le
testimonianze raccolte e pubblicate,  mi rendo conto che la situazione è
veramente tragica.

Nel Punjab,
dove vive la grande maggioranza dei cristiani, la comunità cristiana e
quella islamica sono sempre vissute una accanto all’altra in perfetto
accordo. Solo da alcuni anni  si manifesta un aumento di risentimento,
intolleranza e violenza. Posso solo fare un’ipotesi sulle cause: la
miseria senza speranza che coinvolge ambedue le comunità, e l’ignoranza. I
casi di violenze sono seguiti da persecuzioni che arrivano alla
distruzione di case e chiese delle piccole comunità contadine. I
capifamiglia vengono imprigionati, sottoposti a tortura e accusati di
crimini mai commessi.

Nel maggio
1998 fece scalpore il vescovo di Faisalabad, mons. John Joseph: non
riuscendo ad aiutare uno di questi disgraziati, si suicidò davanti al
tribunale. La sua fu una tragica denuncia contro il regime, che discrimina
i non-musulmani. Nonostante le lettere di protesta spedite al primo
ministro e al Vaticano, il giorno dopo un altro cristiano venne condannato
a morte.

Eppure,
quando il padre della patria Jinnah dichiarò solennemente la formazione
del nuovo stato,   disse: «Potete appartenere a qualsiasi credo, casta o
religione. Potete andare alla moschea o in altro luogo a pregare. Non ci
sarà discriminazione tra le diverse comunità». Oggi invece siamo in piena
crisi. La legge sulla blasfemia è recente. Nel 1986, durante una
conferenza, l’avv. Asma Jehangir, musulmana impegnata in progetti di
riforma, descrisse l’islam come una religione senza icone, nella quale i
credenti hanno un rapporto diretto con Dio. Chiunque, disse, trova la fede
come fece il profeta, nonostante la sua mancanza di educazione.

I mullah
più conservatori si risentirono e l’accusarono di blasfemia, per aver
insultato Maometto, definendolo illetterato. Si mobilitarono affinché il
parlamento modificasse una sezione del codice penale, introdotto dagli
inglesi nel 1860. Nel 1992 si arrivò ad approvare una legge, secondo la
quale «chiunque, con parole o scritti, insinuazioni o reticenze,
direttamente o indirettamente, sminuisce il nome del profeta Maometto,
sarà punito con la pena capitale». Quattro mesi dopo il primo cristiano
veniva condannato a morte.

I
PROFUGHI AFGHANI DI PESHAWAR

La strada
che sale al passo Khyber è sotto di noi, un nastro sinuoso d’asfalto tra
le montagne aride. Prima di partire da Peshawar ho dovuto chiedere il
visto alla polizia tribale della città, che ha giurisdizione nella zona
del passo, a statuto speciale.

Tutti sono
passati di qua. Dai persiani achemenidi ad Alessandro, dal cristianesimo
all’islam, ai mongoli e infine gli inglesi. Anche oggi il traffico
continua. Passano camion, carichi di farina per l’Afghanistan affamato, e
altri mezzi nella direzione opposta, con merce di contrabbando. Le case
sulle pendici dei monti, da entrambi i lati del confine, sono piene di
attività. Si fabbrica di tutto, ma specialmente armi. Siamo fermi in una
curva a tornante, dove due bambini sui 10 anni aspettano con un secchio di
latta. Vi hanno messo qualche vite e bullone di recupero, da vendere ai
camionisti di passaggio. Sono profughi afghani e parlano solo pathan, la
lingua delle tribù che abitano queste montagne.

Anche Khan
è un pathan, ma ha studiato all’università di Peshawar, parla bene
l’inglese e mi può aiutare a capire. La scuola è giù nel villaggio:
profughi e ragazzini ci andranno nel tuo di pomeriggio, per due ore.
«Gli afghani sono persone meravigliose, ospitali e gentili – mi assicura
Khan -; il loro è un paese stupendo. I profughi qui si danno molto da
fare. Sopravvivono senza alcun aiuto, accettando tutti i lavori più duri».

In
effetti, ho visto a Peshawar il vecchio accampamento dei profughi, che
negli anni si è trasformato in un villaggio di casette di fango, costruite
secondo la tradizione. Alcuni, tra gli afghani più furbi, trafficano con
la merce di contrabbando che continua ad entrare nel paese. Roba che viene
anche dal Giappone, dall’Italia o dall’America, che riempie il mercato
«dei ladri» di Peshawar. Sbarca a Karachi e non fa dogana, passando subito
la frontiera a Quetta. Poi rientra nel paese dal passo Khyber.
L’Afghanistan è un paese allo sbando, porto franco, e come sempre in
questi casi, c’è chi  fa molti soldi.

Come il
proprietario della villa che abbiamo visto sulla strada per il Khyber: un
grande parco chiuso da muro di cinta alto con le guardie al cancello. Un
signore della droga che è stato in galera negli USA per tre mesi, ma si è
poi comprato la libertà. Uno che ha offerto al governo la stessa cifra che
il Pakistan riceveva dalla Banca mondiale, per avere le mani libere nei
suoi loschi traffici.

LA
VALLE DELLO SWAT: VERDE, «STUPA» E POVERTÀ

La mattina
il cielo era scuro. Saliamo verso Bahrain e una lama di luce rischiara il
greto secco dello Swat. Uomini e muli stanno lavorando: trasportano sabbia
e sassi del fiume e le loro figure silenziose riempiono il paesaggio. Vedo
che sui monti più lontani è caduta la neve, nella notte. Saliamo, e i
villaggi umidi incollati alle pareti ripide hanno i camini che fumano.

Fa freddo,
per noi che veniamo dal calore del Punjab. Le cime che ci circondano
superano i 6.000 metri. Le case di Bahrain sono addossate le une alle
altre, piccoli cubicoli di legno e fango, scuri e fumosi. La moschea
vecchia ha perso le decorazioni e il portale di legno scolpito, sostituiti
da infissi nuovi, che stonano con il complesso antico. Forse sono stati
venduti ad antiquari stranieri. La gente è calorosa, gentile. Piove e,
dopo qualche incertezza, siamo invitati ad entrare. La povertà della gente
e delle case è impressionante. Questa località è meta di vacanze estive
per i ricchi pakistani di Lahore e Islamabad. Ma la gente vive in
condizioni terribili.

Lo Swat
potrebbe essere un piccolo paradiso, come forse era ai tempi di Alessandro
Magno. Pare che i soldati del grande condottiero si siano fermati qui,
sulla via del ritorno. La prova sarebbero i capelli biondi e gli occhi
chiari di alcuni tra gli abitanti, poverissimi, della valle.

Da qui si
diffuse il buddismo, grazie ad Ashoka, l’imperatore maurya. Qui fiorì
l’arte gandhara e per la prima volta il Budda venne rappresentato in forma
umana, con un sorprendente profilo greco e lineamenti occidentali. Il
regno dei Kushana (1° sec. a.C.) rappresentò un periodo di grande
prosperità e pace, mai più raggiunto. Centinaia di stupa, molti in rovina,
punteggiano la valle, mentre le statue e i rilievi salvati dalle ruberie
riempiono i musei pakistani.

LA
BOMBA ATOMICAE L’INGENUITÀ DEI POVERI

Uno dei
più belli è lo stupa di Shingardhar, che fu costruito in memoria di un
elefante. La leggenda dice che, all’epoca del grande imperatore Ashoka (3°
sec a.C.) qui sostò un principe. Ritornava da un lungo viaggio intrapreso
per portare nella valle dello Swat una reliquia del Budda. Il suo elefante
si ammalò, morì e fu seppellito qui, dove venne poi eretto il grande
stupa.

La casa di
Gulbar si trova accanto al monumento. La moglie e i suoi figli ci
accolgono tra le mura di fango secco. Tutto è lindo e ordinato, nella
povertà. Ci sono le nicchie per le stoviglie e il foo, ma non c’è una
porta. La casa si apre sul cortile che confina con l’antico stupa.  Marwan
è il figlio maggiore, conosce qualche parola di inglese e mi chiede subito
di portarlo in Italia. Con il passaggio di visitatori stranieri, ormai
Marwan ha capito che il mondo non finisce nella valle dello Swat. Una
valle protetta da un passo, il Malakand, che ferma il calore e l’aridità
del Punjab. Una conca verdissima che non soffre la siccità come il resto
del Pakistan. Qui si coltiva di tutto, e tutti potrebbero stare bene, se
non ci fosse miseria e ignoranza.

Le
priorità del governo, oggi, dovrebbero essere educazione e sicurezza. Ma
fino a 2-3 anni fa non se ne parlava nemmeno, di scuole. Gli ospedali
mancano di tutto, e se si vuole essere curati si deve pagare. Il bilancio
delle spese dello stato favorisce, per primi, esercito e armamenti.

Ho visto
uno strano monumento, presente nelle piazze di tutte le città pakistane.
Una montagna in scala ridotta, la copia di un monte del Beluchistan,
diventata famosa nel maggio del 1998, quando è stata fatta scoppiare la
prima bomba nucleare. I pakistani ne sono orgogliosi e questo fa
dimenticare tutto ciò che a loro manca.

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PAKISTAN


 Superficie:  kmq 796.100
   Abitanti:  134,5 milioni
   Capitale:  Islamabad
   Lingua:  urdu (ufficiale), punjabi, singhi, pashto, baluchi,
inglese
   Gruppi etnici:  punjabi (48%), pashtu, sindi, saraiki, urdu
   Religione:  musulmani (95%, in maggioranza sunniti), cristiani
(2%), indù (1,5%)

Forma di
governo:  repubblica islamica a guida militare; il Pakistan è una potenza
nucleare (la prima del mondo islamico e, oggi, la prima retta da militari)


Presidente:  generale Pervez Musharraf, dal 12 ottobre 1999, in seguito a
un colpo di stato che ha spodestato il presidente eletto, Nawaz Sharif; la
Corte suprema ha dato alla giunta militare un tempo limite di 3 anni,
scaduto il quale dovrebbero tenersi le elezioni generali

Risorse
economiche:  l’economia si basa sull’agricoltura (riso, frumento, canna da
zucchero, mais, patate) e l’allevamento (ovini, caprini, bufali); il paese
è un grande produttore di cotone, che alimenta l’industria tessile e le
esportazioni

Problemi
interni:  periodicamente, si verificano violenze tra sunniti e sciiti in
varie città del paese; il Pakistan intrattiene relazioni con l’Afghanistan
dei talebani, i quali sono arrivati al potere con l’indispensabile aiuto
di Islamabad; sempre grave la tensione con l’India per la regione del
Kashmir

Claudia Caramanti




INDIA – Verso l’assoluto

San Giustino (II secolo d. C.) li chiamava «semi del Verbo»: con concetti
e verità presenti in tutte le culture e religioni. Anche nei testi sacri indù incontriamo varie somiglianze con il cristianesimo.

Dio, Allah, Javhè, Brahaman, Ahura Mazdah sono sinonimi? Se è difficile porsi tale domanda, ancora più arduo è dare una risposta. Ma, dal momento che Dio è uno solo, esiste per lo meno il dubbio che l’umanità lo abbia cercato, in modi diversi, nel tempo e nello spazio. Le grandi religioni monoteistiche si sono sviluppate in una area geografica che si estende dal vicino all’estremo Oriente e hanno consolidato il loro sviluppo attraverso millenni.
Senza pretendere di dare una risposta organica al quesito, è sempre utile esplorare i libri fondamentali delle religioni monoteistiche, cercando le verità e i concetti che coincidono o si avvicinano a quelli del Cristianesimo.
È quanto tentiamo di fare spulciando alcuni versi del Bahagava-Gita («Il canto del beato»), un poema scritto in sanscrito, che fa parte di una opera più vasta, il Mahabharata, redatta in un periodo di tempo che spazia dal V secolo a.C. al II d.C.
Il Bahagavad-Gita è un poema filosofico, con preponderanti elementi didattici; si presenta come un dialogo tra la guida spirituale e divina, Krishna, e l’eroe Arjuna che, nell’imminenza di una battaglia definitiva contro i cugini, si pone dei problemi sulle conseguenze delle sue azioni. Tale battaglia racchiude il valore simbolico della lotta tra le forze buone e cattive che si svolge nell’intimo di ogni persona.
Questo libro ha lasciato una profonda impronta nella vita culturale e religiosa dell’India, da essere considerato un testo sacro.

N el poema viene esplicitato il concetto di Brahaman: l’Assoluto, l’Eteo, l’Imperituro, a cui l’uomo deve tendere senza avere la pretesa di comprenderlo. Brahaman è il principio vitale di ogni cosa, la sostanza della conoscenza che, all’interno di una mente ricettiva, ne diventa la saggezza.
Brahaman, infatti, è «l’inizio, la metà e la fine di ogni vita» (canto X, strofa 20). Concetto che richiama l’espressione biblica con cui nell’Apocalisse si definisce il Cristo: «Io sono l’Alfa e l’Omega» (Ap 1,8). «Il mondo dipende da me – afferma ancora Brahaman -, come le perle sono sospese al loro filo» (VII,7).
Nel Bahagavad-Gita viene espresso perfino una verità del credo ebraico-cristiano, anche se non frequentemente utilizzata: il concetto di mateità di Dio: «Io sono il padre e la madre di questo mondo, io lo mantengo e lo purifico» (IX,17).
Seguendo i precetti adeguati, l’anima raggiunge la saggezza e sarà salvata: nella credenza indù ciò significa che essa sarà in grado di uscire dal ciclo delle reincarnazioni. «Chi raggiunge la suprema perfezione, raggiunge anche me; per una tale anima pura non c’è più l’afflizione della rinascita» (VIII,15).
Quindi è già esplicito il concetto salvifico insito in Brahaman, cui ogni uomo deve aspirare e tendere.
Tale salvezza non è raggiungibile con la logica, perché a un certo punto non è possibile dare risposte su argomenti religiosi; occorre, invece, un altro atteggiamento: quello della fede. Non è il potente a raggiungere la salvezza, ma il fedele: nella sua umiltà questi non è mai respinto, anche quando si presenta in forme tanto ingenue: «Anche gli adoratori di immagini, in realtà adorano me; la loro fede è reale, sebbene i loro mezzi siano poveri» (IX,23).
L’umiltà di Brahaman si piega verso il credente: «Io accetto ogni dono, un frutto, un fiore, una foglia, anche l’acqua, se ogni cosa è offerta in modo puro e devotamente e con amore» (IX,26).
La fede non è un aspetto logico; al credente non è richiesto di capire la natura e potenza divina. Occorre l’abbandono: «Abbi fede in me, sappi che esisto e che sostengo il mondo» (X,42). In presenza di una fede sincera, Brahaman stesso diventa operativo nel credente. In questo caso infatti: «Io mi insedio nel loro cuore e la mia compassione, come una lampada accesa di saggezza, disperderà l’oscurità della loro ignoranza» (X,11).

B rahaman possiede una gloria inimmaginabile alla mente umana. Per spiegarla si ricorre ad una poetica analogia paradossale: «Qualora mille soli dovessero esplodere all’improvviso nel cielo, la loro luminosità non riuscirà ad approssimare la gloria della mia vista» (XI,12).
È interessante notare che questa strofa è stata utilizzata dal fisico nucleare Oppenheimer, che conosceva il sanscrito, per descrivere la prima esplosione nucleare realizzata nel deserto del Nevada, di cui era stato testimone.
Anche per noi cristiani Dio è luce. Le citazioni bibliche sono al riguardo innumerevoli. Così i mistici e altre creature privilegiate descrivono la propria esperienza di Dio con immagini di luce sfolgorante.

D ove risiede Brahaman? Egli abita in un suo mondo che non possiamo vedere, poiché, come creature, siamo sottoposte alla illusione del maya: ciò che nel mondo appare reale ai nostri sensi, in realtà è illusorio. Anche per noi cristiani Dio risiede in un «luogo inaccessibile», cioè fuori di ogni nostra capacità di comprensione.
Il concetto di illusorietà della filosofia indù possiamo intuirlo se consideriamo alcune apparizioni di Gesù dopo la risurrezione. I vangeli raccontano che il Cristo risorto è apparso ai suoi discepoli «mentre erano chiuse le porte dove essi si trovavano» (Gv 20,19), dando l’impressione di passare attraverso i muri. In realtà questa era l’impressione di creature umane come noi; ma per i corpi celesti il mondo sensibile, compresi i muri, non ha consistenza e non può ostacolare i loro movimenti: da qui deriva l’illusorietà del nostro mondo materiale e visibile, di fronte a quello reale ma invisibile di Dio.

C ome si può raggiungere la salvezza? Occorre seguire la via della purezza e del controllo dei propri aspetti negativi. «Mi è caro l’uomo che non odia nessuno, che è sensibile a tutte le creature, che ha lasciato perdere l’“io” e il “mio”, che non è sconvolto dal dolore e dalla gioia, che è paziente e sereno, risoluto e sottomesso. Caro mi è chi non disturba e non è disturbato, chi è libero dalle passioni, dalla gelosia, dalla paura e dalla preoccupazione» (XII,13-15).
Cosa succede a chi non segue la via della virtù? Anche nella concezione indù esiste un inferno, come situazione di sofferenza da cui il Bahagavad-Gita mette in guardia: «L’inferno ha tre porte: la lussuria, l’ira e l’avidità» (XVI,21). Dante Alighieri riferirebbe dell’ostacolo di tre fiere: la lonza (pantera), simbolo della lussuria; il leone, simbolo dell’orgoglio; il lupo, simbolo della cupidigia (cfr. I,I,31-51).
Da qui scaturisce un ulteriore ammonimento: «Chi lascia perdere queste tre (porte) ed è assorbito nel suo proprio miglioramento, costui può raggiungere il suo obiettivo supremo» (XVI,22), che nel nostro linguaggio possiamo chiamare salvezza eterna.
È interessante notare che lo sforzo per migliorarsi è più importante dei risultati raggiunti. «Il vostro compito è lavorare, non raccogliere i frutti del lavoro» (II,47). E per fare ciò bisogna essere tenaci e sereni: «Ma l’uomo stabile pensa a me e comanda i suoi desideri. La sua mente è stabile, perché i suoi desideri sono soggiogati» (II,61).
Il risultato di tale fatica è la pace: «O Arjuna, la pace consiste nell’essere in Brahaman, per non soffrire più delusioni. Nella pace è eterna l’unità con Brahaman, la pace del Nirvana» (II,72).

I n conclusione, questi pochi versi del Bahagavad-Gita fanno intravedere varie somiglianze tra la concezione di Dio nel mondo indù e quella della fede cristiana. Esistono, naturalmente, profonde differenze su molti concetti di base. È tuttavia confortante constatare che le radici più profonde di culture e religioni tanto lontane siano così somiglianti, più di quanto appaia a prima vista.
Sono i «semi del Verbo», diceva san Giustino, scrittore cristiano del II secolo: sementi di verità che lo Spirito ha sparso in culture e religioni attraverso i secoli e ad ogni latitudine e che attendono la luce di Cristo per maturare frutti di salvezza.

Piergiorgio Motta




BUTEMBO (CONGO, R.d.): diplomazia popolare.AMBASCIATORI IN SCARPETTE E CALZONCINI


Dal 27 febbraio all’1 marzo, un gruppo di pacifisti ha raggiunto
la regione orientale della Repubblica democratica del Congo per unirsi
alle popolazioni martoriate dalla guerra civile e reclamare pace e
rispetto dei diritti umani. L’iniziativa ha seminato forti speranze che
attendono di diventare realtà
.

Sembrava un’idea
temeraria e irrealizzabile. È diventata realtà il 26 febbraio scorso,
quando un piccolo esercito disarmato di 300 pacifisti sono riusciti a
raggiungere il cuore dell’Africa, sfidando una guerra che, in due anni, ha
già fatto oltre due milioni di morti. Guidato dalle associazioni «Beati
i costruttori di pace
», «Operazione colomba» e «Chiama
l’Africa
», il piccolo esercito disarmato, proveniente in maggioranza
dall’Italia, ma anche da Spagna, Germania, Svezia, Norvegia, Francia,
Belgio, ha raggiunto, dopo un viaggio di due giorni, la città di Butembo,
nella regione del Nord Kivu, Repubblica democratica del Congo, ricevendo
un’accoglienza straordinaria da parte della popolazione. Il loro scopo,
per una volta, non era portare aiuti materiali, ma riuscire a imporre, con
la semplice novità della loro presenza, una tregua alle parti in guerra.


PROGETTO
«VISIONARIO»

A volte la causa
della pace ha bisogno di mente visionaria e passione per il gesto
profetico: «Anch’io a Bukavu-Butembo» è stata un’azione fuori da ogni
schema. All’inizio molti hanno cercato di scoraggiarla, compresa
l’ambasciata italiana in Uganda, che alla fine ha dato un importante
appoggio logistico ai pacifisti.

L’ispiratore di tale
iniziativa, mons. Kataliko, vescovo di Bukavu, nel Sud Kivu, dove
originariamente doveva svolgersi la manifestazione, è morto qualche mese
prima di vedere l’impresa concretizzarsi: fulminato da un attacco di cuore
lo scorso ottobre a Roma, dove era riparato dopo essere stato dichiarato
dalle autorità di Bukavu «persona indesiderata», il vescovo ha passato il
testimone ad altri, religiosi e laici, che si sono esposti in prima
persona sia nella fase organizzativa che durante i tre giorni di incontri
e manifestazioni varie.

Che i tempi fossero
maturi per un’iniziativa del genere cominciammo a capirlo fin dal nostro
arrivo a Kassese, dove peottammo presso il vescovado dopo il primo
giorno di viaggio, e a Kasindi, la frontiera tra Uganda e Congo. I
militari non ci ostacolavano, mentre la popolazione dei villaggi a cavallo
della terra di nessuno ci accoglieva con tanta benevolenza.

Alla frontiera
ugandese ci lasciammo alle spalle l’asfalto. A bordo di vecchi pullman,
percorremmo a velocità ridotta 180 chilometri di pista in mezzo alla
foresta. Su quella strada gli scontri armati erano all’ordine del giorno.
In ogni centro abitato la gente salutava con calore al grido di «Amani!»
(pace). Erano al corrente del senso della venuta degli europei, grazie al
tam-tam delle radio locali. «Non siete osservatori dell’Onu, vero?»
domandava qualcuno per sincerarsi. Qui l’Onu non gode di una buona fama:
la chiamano «Organizzazione non utile».

Dopo una sosta a
Beni, attraversammo Maboya, un villaggio fantasma dopo la calata dei
militari ugandesi lo scorso gennaio, e nel tardo pomeriggio eravamo alle
porte di Butembo: la sede scelta per la manifestazione, dopo che gli
organizzatori sono stati costretti a rinunciare a Bukavu, a causa
dell’ostilità del governo locale, in mano ai «ribelli» del
Rassemblement congolais pour la democratie
(Rcd) di Goma, appoggiati
dai rwandesi.

A Butembo apparvero
ancora più evidenti le aspettative generate dalla nostra missione tra la
popolazione, che si sente abbandonata dal resto del mondo. Migliaia di
persone erano ad attenderci, con un’incredibile banda di ottoni e vari
gruppi di danze tradizionali. «È il grande cuore del Congo – disse
commosso mons. Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, che a 78 anni non ha
esitato ad aggregarsi alla nostra carovana della pace -. Ma saremo
all’altezza della situazione, privi come siamo di vero potere e di mandati
ufficiali?».


SIMPOSIO PER
LA PACE

A Butembo i
pacifisti hanno partecipato al «Simposio internazionale per la pace in
Africa» (Sipa), organizzato dalla Société Civile (un cartello di
organizzazioni che si battono per la pace, rispetto dei diritti umani e
integrità territoriale del suolo congolese) e dalla chiesa cattolica e
protestante; non sono mancati gli interventi di alcuni tra i principali
attori politico-militari della regione.

«Simposio» è una
parola che non rende esattamente l’idea della «tre giorni» di Butembo. Il
Sipa è stato tutto, fuorché un evento accademico. La gente di questa parte
del Congo aspettava da tempo di dirsi in faccia e con chiarezza ciò che
pensa sul futuro del suo paese, sul processo di balcanizzazione in corso e
sulle clamorose violazioni dei diritti umani, perpetrate da tutte le forze
in campo, spesso colluse con le potenze occidentali e le multinazionali
che sfruttano le straordinarie ricchezze del paese. Le parole pronunciate
sono state di una durezza a cui gli osservatori occidentali non sono
abituati. Proprio per questo l’evento è stato significativo.

All’apertura dei
lavori, dopo il discorso di mons. Melkisedech Sikuli, del vescovo di
Beni-Butembo, comparve improvvisamente in sala Jean Pierre Bemba,
presidente del Fronte di liberazione del Congo (Flc), l’uomo-forte
dell’Uganda nella regione. Sgargiante camicia gialla e rossa, scortato da
una decina di militari, il capo del Flc ascoltò impassibile il discorso di
Gervais Chiralwirwa, leader della «Società civile» di Bukavu, il quale
ammoniva: «Le autorità dicono che siamo dei sovversivi, ma senza i
cosiddetti sovversivi la Francia oggi sarebbe governata dalla monarchia
assoluta».

La replica di Bemba
non si fece attendere. «Per me, che sono un uomo d’affari, non è stato
facile scegliere la strada delle armi; ma l’ho fatto per ridare dignità al
mio popolo». Poi Bemba ironizzò sprezzante sul nuovo presidente della
Repubblica democratica del Congo, Joseph Kabila, che attualmente
controlla, con l’appoggio di Zimbabwe, Angola, e Namibia, circa il 50% del
paese, paragonandolo a uno dei tanti Luigi della storia della monarchia
francese; e concluse riconfermando il suo credo: «Per ottenere la pace a
volte è necessario combattere».

Il Sipa chiuse i
lavori giovedì 1° marzo, votando un documento solenne nel quale, tra
l’altro, si chiede: il ritiro degli eserciti stranieri dal territorio
congolese, il disarmo dei vari gruppi armati, oltre ai nazionalisti may
may e a quel che resta degli interahamwe, gli estremisti hutu responsabili
del genocidio rwandese del 1994; convocazione di una Conferenza
intercongolese di pace.

Nonostante il
moltiplicarsi dei gesti simbolici di distensione e i numerosi messaggi di
incoraggiamento giunti al Simposio, tra cui quelli del presidente della
Camera Luciano Violante e dell’Alto Commissario Onu Mary Robinson, nulla
lasciava presagire il colpo di scena a cui avremmo assistito al termine
della giornata conclusiva.


IL CAPO
CHIEDE PERDONO

Lentamente, le
circa mille persone presenti in sala defluirono all’esterno e scesero
verso il centro della città, percorrendo la lunga e polverosa strada
principale che conduce alla cattedrale. A parte il passaggio di
un’autoblinda, con i soliti e stucchevoli soldati africani oati di
occhiali a specchio e cartuccere a tracolla, l’atmosfera era quella di una
festa popolare, in cui bianchi e neri davano in eguale misura il proprio
contributo.

La cerimonia finale,
che prevedeva una preghiera ecumenica a cui parteciparono anche musulmani
e kimbanghisti, si prolungò per buona parte del pomeriggio, mettendo a
dura prova la resistenza di tutti. Ma proprio al termine della lunga
preghiera ecumenica, ecco l’evento inaspettato, che a buon diritto si può
definire «storico»: Jean Pierre Bemba, sale sul palco e, rispondendo alla
provocazione di mons. Sikuli e di una portavoce delle donne congolesi
durante il Sipa, prende la parola e si rivolge alle decine di migliaia di
persone stipate da ore sotto il sole e ammutolite dalla sua comparsa.
«Chiedo perdono per tutte le atrocità, violenze e saccheggi commessi da
noi militari – dice il giovane, ricco e corpulento signore della guerra -.
Ordino immediatamente alle guaigioni dislocate a Kiondo, Musienene e
Maboya di fare rientro alle caserme di Beni; invito i religiosi a fare
ritorno alle loro sedi».

L’annuncio è accolto
dalla folla con un bornato. In quell’oceano di africani, giunti da tutta la
regione del Kivu e persino dall’Ituri, dalla disastrata Kisangani, da vari
paesi africani come Tanzania, Burundi, Zambia, dopo aver percorso strade
insicure e affrontato disagi di ogni sorta, c’è gente che ha perduto
genitori, mariti, figli, in una guerra tanto sanguinosa. Ci sono persone
incarcerate arbitrariamente, spogliate dei loro averi, costrette a vivere
da rifugiati. Per tutti costoro la sorpresa non può essere più grande.

Stupore anche fra le
fila di noi bianchi, una composita miscela di studenti, pensionati,
obiettori di coscienza, giornalisti, religiosi, scouts, lavoratori d’ogni
specie, accomunati solo dalla povertà dei mezzi con i quali abbiamo
intrapreso quest’avventura.


SPERANZA
APPESA A UN FILO

Solo il tempo dirà
se il Sipa ha rappresentato davvero il primo passo per l’avvio di un
processo di pace nella regione dei Grandi Laghi. È certo, però, che a
Butembo, città di circa 300.000 abitanti, poco più che un gigantesco
villaggio, pressoché privo di qualsiasi infrastruttura, assediato dalla
violenza di gruppi armati e militari, si è aperto un tavolo per il
dialogo. Un tavolo al quale si sono seduti non solo l’Flc di Bemba, la
resistenza nazionalista may may e persino i tutsi banyamulenge, poco amati
dai congolesi, perché usati dal Rwanda come pretesto per invadere a sua
volta il paese, e ambigui alleati di Uganda e Burundi, ma anche la gente
comune, quella che di solito è messa ai margini delle complesse trattative
della diplomazia internazionale. E questa è forse la vittoria più grande.

Nessuno è così
ingenuo da credere che le parole di Bemba pongano fine alla guerra. Ma
sarebbe sbagliato credere che costui abbia semplicemente strumentalizzato
la manifestazione. Di solito, ci hanno spiegato gli africani incontrati a
Butembo, un capo militare non si umilia mai davanti al popolo, al punto da
chiedere perdono, quali che siano i vantaggi che potrebbe ricavae.
L’evento, insomma, mantiene tutto il carattere di eccezionalità.

Le ultime notizie
che giungono dal Congo parlano di prosecuzione del dialogo fra i may may
del Nord Kivu e Bemba, osteggiato, però, dai may may del Sud Kivu, i quali
ritengono che non si debbano avviare trattative con gli alleati delle
truppe straniere di occupazione.

La smobilitazione
delle guaigioni dalle località menzionate da Bemba pare sia avvenuta
parzialmente; ad ogni modo, i soldati non sono rientrati a Beni, come
promesso dal signore della guerra. Inoltre i contatti diplomatici fra
Kinshasa e Uganda si vanno intensificando, mentre nuove truppe dell’Onu
(uruguayane, senegalesi) sono in arrivo in varie zone calde del paese.

Non è chiaro,
infine, quali siano le intenzioni di colui che rimane il presidente
ufficiale di questo paese, Joseph Kabila, che al pari di Bemba non ha
ricevuto alcuna legittimazione democratica. Il primo ha semplicemente
ereditato la carica dal padre, ucciso a gennaio da una guardia del corpo,
il giorno-anniversario dell’uccisione di Lumumba, ci hanno fatto notare a
Butembo. Il secondo ha conquistato il potere con le armi.

Il futuro rimane
ancora incerto. Ne sono consapevoli anche i 300 pacifisti che, in
scarpette e calzoncini, hanno animato questa grande azione di diplomazia
popolare. Ma continuano la loro mobilitazione in Italia.


Marco Pontoni è
giornalista a Trento. Articolo in esclusiva per M.C.



ULTIMI FATTI IN CONGO

16 gennaio 2001:
Laurent Désiré Kabila, presidente della Repubblica democratica del Congo,
rimane vittima in un attentato. Gli succede il figlio Joseph.

Fine di gennaio:
Joseph Kabila visita Europa e Usa, promette libere elezioni.

1 febbraio: Kabila
incontra a Washington Paul Kagame, presidente del Rwanda, che considera
necessaria per la sicurezza nazionale la sua presenza militare in Congo.

28 febbraio:
rimpatrio di parte delle truppe ugandesi presenti a Buta; i rwandesi
abbandonano Pweto, occupata alla fine del 2000.

15 marzo: parziale
ripiegamento degli eserciti stranieri dal Congo. Continuano le violenze
nei territori controllati dalla Coalizione democratica congolese-Goma,
sostenuta dal Rwanda.

30 marzo: 110
militari uruguayani, primo contingente di osservatori della Missione Onu
in Congo (Monuc), si insediano a Kalemie (Goma). Il mandato della Monuc,
istituita nel 1999, prevede l’impiego di circa 5.500 uomini.

6 aprile: il
presidente Joseph Kabila annuncia nuove elezioni per maggio o giugno,
purché tutti gli eserciti stranieri si siano ritirati dall’ex Zaire.

20 aprile:
contingente marocchino a Kisangani: finora sono solo 600 i soldati della
Monuc in Congo. L’operazione di ritiro degli eserciti stranieri e
sostituzione con soldati Onu si sarebbe dovuta completare entro maggio.


Marco Pontoni




Cresciuta con voi

Cari missionari,
ho letto per anni la vostra stupenda rivista. Come docente, mi sono professionalmente formata leggendola. In seguito al mio trasferimento da Palagrano (TA) a Capurso (BA), da quest’anno non mi arriva più. Sono dispiaciuta; ci terrei tanto a riceverla ancora.
Vi mando anche una foto della nostra bimba, Françoise Anna, nata un anno fa dall’incontro di due «razze»: una vera rappresentante del terzo millennio, l’era multirazziale.
Immacolata Antonacci

Capurso (BA)

Eccola Françoise Anna! Presto imparerà a leggere anche Missioni Consolata, in compagnia dei genitori.

Immacolata Antonacci




ADDIS ABEBA (ETIOPIA): bambini profughi, maratoneti in erba. UN PAESE… DI CORSA

Venti anni
fa, quando fui destinato alle missioni in Etiopia, sapevo poco di questo
paese. Furono gli amici, ferrati più di me nel tifo sportivo, che mi
diedero la prima conoscenza di questa nazione, identificando l’Etiopia con
Abbebe Bikila, l’atleta che, correndo a piedi scalzi, vinse la maratona
delle Olimpiadi di Roma nel 1960.

Oggi, a 40
anni di distanza, mi sono più che familiari i nomi di Hailé Ghebre
Selassié, Ghezahegn, Derartu Tullu, Million Wolde, Ghiete Wami, i podisti
che tengono alta la bandiera nazionale, come hanno fatto nelle recenti
Olimpiadi di Sydney in Australia. Il primo, Hailé Ghebre, è il più
popolare: il suo ritratto occupa l’intera parete di un alto edificio nel
centro di Addis Abeba.

Il giorno
che egli vinse i 10 mila metri a Sydney, davanti al kenyano Paul Tergat,
mi trovavo per commissioni immerso nel traffico del centro cittadino.
Improvvisamente, in pieno pomeriggio, un’auto accese i fari abbaglianti;
un’altra cominciò a suonare il clacson; altre si unirono al coro. La città
sembrava impazzita. Il traffico si fece più caotico e giornioso, anche se
assordante. In poco tempo tutta la città era in festa.

Queste
vittorie hanno dato un forte incremento a questo genere di sport in tutta
l’Etiopia. Da vari anni è normale vedere, al mattino prestissimo, quando
non c’è ancora traffico, numerosi giovani che corrono lungo l’arteria
principale della città, da piazza Mexico verso le zone più basse della
capitale. Sovente questi corridori in erba indossano tute variopinte di
nailon, che chiamano con un termine onomatopeico kesh-kesh, dal rumore
prodotto dalla stoffa al contatto con il vento.

Oggi, il
numero di coloro che praticano la corsa è aumentato anche nelle cittadine
di provincia. Studenti di tutte le età, ragazzi e ragazze, fanno di corsa
la strada che dal villaggio porta alla scuola, anche senza essere in
ritardo, e sfruttano il tempo libero per continuare l’allenamento.

C onfesso
che l’entusiasmo di quei giorni mi ha contagiato. È naturale. Dopo 20 anni
spesi in questo paese, in qualche occasione lo sento un poco mio. Ma non
avrei mai creduto che il contagio mi potesse spingere a correre anch’io.
Non per diventare un atleta: avrei dovuto iniziare molto prima della fine
del millennio! Ma non si sa mai, nella vita tutto torna utile.


L’occasione di fare un po’ di corsa mi fu offerta, un giorno, da alcuni
bambini, rifugiati dall’Eritrea, che dal 1992 vivono nel campo profughi di
Makanissa e frequentano il nostro oratorio. Sono Abùsh, un nanerottolo di
11 anni, molto forte e resistente, e sua sorella Kokòb (stella), maggiore
di due anni e un po’ più alta; Tighist (pazienza) 12 anni, vivace e
simpatica, e il fratello minore Walellìgn, anche lui nanerottolo, e la
loro tredicenne compagna Sinnàit.

Alla mia
età, mettermi a correre con dei bambini mi suonava un poco strano; ma
dovetti subito ricredermi: per loro non era una novità. Accettai la sfida.
Il pomeriggio del giorno seguente, dopo la scuola, si trovarono tutti
puntuali davanti al nostro seminario in «tenuta sportiva». Si fa per dire.

Le tute da
bambino sono comuni anche tra i rifugiati, ma non è detto che siano nuove
fiammanti. Abùsh aveva una tuta scolorita e calzava un paio di scarpe di
cuoio più grandi dei suoi piedi, ereditate da qualche parente. La divisa
di Tighist era spaiata: maglietta bianca, pantaloni di nailon, entrambi
piuttosto malandati, e senza scarpe. Kokòb era più o meno nelle stesse
condizioni di Tighist. Anche Sinnàit era scalza.

Da
Makanissa, periferia della capitale, prendemmo la direzione delle colline
che circondano Addis Abeba. In cinque minuti di corsa siamo fuori città,
tra campi aperti e aria pura. Cerco di moderare la loro velocità e imporre
il ritmo, in modo che respirazione e movimenti si armonizzino, ci si
stanchi meno e si gusti l’esercizio fisico.

Abùsh va
perfettamente d’accordo col ritmo imposto; Tighist rimane indietro, oppure
accelera e abbina alla corsa altri esercizi, visti probabilmente nei campi
sportivi, come flessioni del busto, movimenti e roteazioni delle
braccia… Un’ora dopo siamo tutti di ritorno.

Da parte
mia, mi prendo qualche giorno di assoluto riposo da esercizi sportivi; poi
ripartiamo nuovamente. Questa volta c’è più organizzazione: appare qualche
paio di scarpe nuove da ginnastica, una maglietta fiammante. Anche il
livello tecnico è migliorato. In un batter d’occhio siamo ai piedi delle
colline, pur rallentando ogni tanto o procedendo al passo. Azzardiamo una
specie di competizione negli ultimi tre chilometri: bravo Abùsh! Di fiato
ne hai da vendere. Bravi anche gli altri, che arrivano con mezzo minuto di
scarto.

Ai piedi
delle colline c’è un villaggio tradizionale; una casa di campagna vecchio
stile, un vitello nel cortile, due cani, galline che razzolano per strada.
È la casa di Netzannèt. Questa ragazza mi venne incontro, una volta,
mentre passavo in quella zona con un confratello missionario. Non
conoscendo le sue intenzioni, pensai subito che volesse chiedere aiuto,
come succede spesso da queste parti, quando la gente ti si avvicina.
Cercai di evitarla, con una breve corsa verso il prato, per non dovere
ascoltare i soliti piagnistei. Ma mi ero sbagliato. Netzannèt voleva solo
scambiare con noi quattro chiacchiere in inglese. Questa lingua è
insegnata a scuola, ma gli studenti non hanno possibilità di praticarla.
Ci disse che recentemente aveva vinto i 1.500 metri della sua categoria in
una competizione regionale. È la seconda volta che la incontro. Netzannèt
si mostra molto gentile:  vuole preparare il tè per il nostro gruppetto di
podisti. Purtroppo dobbiamo rifiutare: il sole sta per tramontare e
dobbiamo rientrare prima che faccia  buio.

La gente,
al vederci correre veloci, guarda sorpresa e incuriosita. Qualcuno batte
le mani o grida «bravo!». Il termine, conosciuto anche in Etiopia, è
invariabile, vale per il maschile e femminile, singolare e plurale.

Siamo
quasi a casa. Tighist, rimasta un poco indietro, scatta davanti a tutti.
Qualche passante le grida: «Derartu!», nome della campionessa olimpionica
dei 10 mila metri. Quel grido fa piacere anche a me. Per la rifugiata
dodicenne, oltre che incoraggiamento, suona come augurio per un futuro più
fortunato.

Vincenzo Clerci