Turchia: «Mamma, li turchi»

Viaggio nel paese della mezza luna

"Ponte tra Oriente e Occidente", la Turchia è stata per millenni crogiolo di
popoli e civiltà, sfociate nell’attuale Repubblica, "candidata" a entrare
nell’Unione Europea (UE). È pure definita "seconda Terra Santa": milioni
di pellegrini cristiani vi cercano le tracce di san Paolo e delle chiese delle origini. Le
comunità cristiane dei primi secoli, oggi, sono ridotte a sparute presenze. Per entrare a
pieno titolo nell’UE, la Turchia dovrà aggiustare non solo i parametri economici, ma
fare passi da gigante nel campo dei diritti umani e della libertà religiosa.

 Articolo 1

I nodi gordiani della Turchia

"Passaggio a Ovest"

Chiamata per un millennio Bisanzio, per 11 secoli Costantinopoli e da oltre 500 anni
col nome attuale, Istanbul è l’emblema della storia plurimillenaria della vocazione
europea della Turchia odiea. Diventata repubblica laica, essa chiede l’integrazione
nell’UE. Prima delle trattative, però, la nazione turca dovrà sciogliere molti
nodi, soprattutto in materia di diritti umani e rispetto delle minoranze etniche e
religiose. È un problema di democrazia e civiltà.

Dagli spalti del Topkapi, il palazzo dei sultani a Istanbul, lo sguardo spazia sul
Bosforo: la lunga striscia di mare, più che separare, sembra unire l’estrema punta
dell’Europa all’Anatolia, chiamata dai romani Asia Minore. Mentre osservo
petroliere e mercantili che solcano lo stretto canale, ripercorro a ritroso millenni di
storia, quando sulle due sponde approdavano le fragili imbarcazioni greche, poi le triremi
romane e dromoni bizantini, quindi i velieri genovesi, veneziani e ottomani, scambiando
tra Oriente e Occidente merci, cultura e civiltà.

COSCIENZA DOPPIA

Quando Byzas stabilì sul Coo d’Oro la prima colonia greca (659 a.C.), dandole
il suo nome, l’Anatolia era già entrata a pieno diritto nella storia da oltre 1.500
anni, grazie ai commercianti assiri e ittiti che vi avevano introdotto la scrittura
cuneiforme.

Di origine indoeuropea, gli ittiti dominarono l’altipiano anatolico per oltre un
millennio, finché il loro impero fu spazzato via (1200 a.C.) da misteriosi "popoli
del mare" e frantumato in una miriade di regni (cappadoci, cari, frigi, pamfili,
lici, cilici, lidi, misi, paflagoni, sciti, cimmeri). Contemporaneamente lungo le coste
dell’Egeo i colonizzatori greci fondarono importanti città-stato.

Da subito, l’Anatolia fu strattonata a est e ovest. Ne è un esempio il regno di
Troia, città distrutta e ricostruita nove volte. Il settimo periodo (1300-1100 a.C.)
corrisponderebbe al conflitto tra troiani e greci (achei), cantato dall’epica di
Omero.

Quando Ciro il Grande, re di Persia, conquistò l’Anatolia (547 a.C.) e
l’inghiottì nel suo impero e i suoi successori minacciarono di passare i Dardanelli
e occupare anche la Grecia, cominciò lo scontro tra Oriente e Occidente. Oltre a
riscuotere imposte e reclutare soldati, i persiani imposero elementi culturali, modelli di
vita, concezioni politiche e metodi amministrativi: le città greche dell’Asia minore
si ribellarono, tirando la madre patria nel conflitto.

Per 200 anni, greci e persiani si scontrarono su entrambe le sponde dell’Egeo, in
una guerra di civiltà senza quartiere, provocando nelle popolazioni coinvolte la
sedimentazione di una "coscienza asiatica" e una "coscienza europea",
con reciproche influenze morali, politiche e culturali, di cui l’Anatolia fu il punto
di confine e congiunzione insieme.

NUOVA ECUMENE

"Regnerà sull’Asia chi riuscirà a sciogliere la corda dal giogo del timone
del carro custodito nel tempio di Zeus" diceva la profezia del santuario di Gordio, a
pochi chilometri da Ankara. Alessandro Magno risolse il problema con un colpo di spada:
sconfisse i persiani e, tra il 334 e il 327 a.C., il re macedone fondò una monarchia
universale e multietnica in cui conciliava la civiltà greca con quella orientale:
l’Anatolia diventò un importante tassello della neonata ecumene (casa comune)
ellenistica.

Ma alla morte di Alessandro (323 a.C.), i suoi generali e loro successori si scannarono
per spartirsi le spoglie dell’impero. L’Anatolia toccò a Seleucio, fu
riassorbita nella sfera persiana e coinvolta in una spirale endemica di guerre. Delle
rivalità ne approfittò Attalo I (241-197 a.C.), che si ritagliò un piccolo regno, con
capitale Pergamo, lo estese con l’aiuto di Roma e ne fece un faro di cultura e
civiltà ellenistica. L’ultimo degli attalidi, rimasto senza eredi, lasciò il regno
alla repubblica di Roma (133 a.C.).

All’ecumene ellenistica subentrava quella romana, culminata nella completa
integrazione nell’impero, quando Caracalla (212 d.C.) estese la cittadinanza romana a
tutti i cittadini liberi dell’Asia Minore. Il dominio romano favorì un lungo periodo
di pace e sviluppo economico e culturale, grazie alla fitta rete di strade e comunicazioni
che collegava le province al resto dell’impero: di tale comodità si avvalsero anche
i predicatori del vangelo per spargere il seme cristiano in tutta l’Anatolia.

IMPERO BIZANTINO

Quando Costantino spostò la capitale da Roma a Bisanzio (324), ribattezzata
Costantinopoli, e Teodosio I impose il cristianesimo come religione di stato (392), per le
eterogenee popolazioni dell’Asia Minore la religione cristiana avrebbe dovuto essere
un ulteriore consolidamento dell’ecumene greco-romana.

Nel 395 invece, i figli di Teodosio, si spartirono l’impero: Arcadio si tenne
l’oriente; Onorio l’occidente. E fu l’inizio del progressivo distacco tra
est e ovest, in cui le divergenze di concezioni politiche, culturali e religiose giocarono
un ruolo fondamentale.

Quando i barbari deposero l’ultimo imperatore di Roma (476), Costantinopoli rimase
l’unica capitale dell’impero e della cosiddetta civiltà bizantina. L’Asia
Minore ne seguì appieno le sorti nel bene e nel male.

Per oltre un millennio popolazioni dell’odiea Turchia furono coinvolte in
innumerevoli tempestose crisi politico-religiose, alternate a periodi di bonaccia, in cui
i sovrani interferivano a piacere, nominando e rimuovendo patriarchi e vescovi, convocando
concili, ficcando il naso in dispute dogmatiche e dottrinali, imponendo per decreto di
seguire ora l’ortodossia, ora le correnti eretiche.

Gli imperatori dovettero lottare anche contro i pericoli provenienti da est: i persiani
ripresero tutta l’Asia Minore e, insieme ai nordici avari, assediarono Costantinopoli
(626). I territori furono subito ripresi da Eraclio; ma costui cancellò definitivamente
dall’impero ogni traccia romana: abolì il bilinguismo e il greco diventò unica
lingua ufficiale.

Le quisquilie bizantine continuarono a lacerare la chiesa universale, dilatando il
fossato tra papato e impero. La rivalità con Roma e la contesa per il primato
politico-ecclesiale raggiunse l’apice nel 1054: il patriarca di Costantinopoli,
Michele Cerulario e papa Leone IX si scomunicarono a vicenda, spezzando l’ultimo filo
che univa ancora Oriente e Occidente: ortodossia e cattolicesimo divennero sinonimi di
divisione europea.

GUERRE "SANTE"

Mentre a Costantinopoli teologi e sovrani discutevano sul sesso degli angeli, gli arabi
combattevano le loro "guerre sante" in nome dell’islam, espandendo il loro
dominio dall’India alla penisola iberica, sottraendo all’impero bizantino gran
parte delle regioni bagnate dal Mediterraneo.

L’Asia Minore fu attaccata dalle scorribande arabe (VII-X sec.), che trovarono
fiera opposizione in Cappadocia. Nulla, invece, poté contro i vari gruppi turcomanni,
provenienti dalle regioni dell’Asia Centrale. I turchi selgiuchidi (dal fondatore
Selgiuq, X sec.), appena convertiti all’islam, occuparono l’Asia Minore: fatto
prigioniero l’imperatore bizantino (1071), giunsero fino a Nicea (Iznik).

Respinti dai crociati, i selgiuchidi si arroccarono sull’altopiano anatolico,
fissando la capitale a Konya (Iconio) e islamizzando la regione. I viaggiatori occidentali
che attraversavano l’Anatolia nel XII e XIII secolo chiamavano "Turchia"
quel territorio; il turco era usato nell’amministrazione in varie forme letterarie.

Le imprese di arabi e turchi provocarono l’avvicinamento tra papato e imperatore,
ortodossi e cattolici: furono organizzate ben sette crociate (1096-1270). Costantinopoli
s’illuse di ritornare a giocare il ruolo di baluardo storico contro l’avanzata
dei popoli asiatici; a ogni vittoria sui turchi, cercò di affermare il proprio dominio
sui territori un tempo in suo possesso; ma finì per dover lottare contro il papato, che
intendeva servirsi delle crociate per riunire la chiesa greca a quella latina, e contro i
prìncipi cristiani che, mescolando l’ideale della liberazione dei luoghi santi
cristiani con gli interessi politici e commerciali, stabilirono regni feudali
nell’Asia Minore (Antiochia, Edessa, Trebisonda).

Il colmo della beffa fu raggiunto quando i veneziani dirottarono la IV crociata su
Costantinopoli: la presero e misero a ferro e fuoco (1204), dando vita ad un effimero
regno latino d’Oriente. Nel 1261, la dinastia greca dei paleologhi, con l’aiuto
dei genovesi, rientrò trionfalmente a Costantinopoli. Ma ormai l’impero greco era
ridotto a una pallida ombra di quello bizantino: mutilato e dilaniato da guerre civili,
sopravvisse per quasi due secoli, finché fu ingoiato dall’impero ottomano.

VOGLIA DI "MELA ROSSA"

Guidati da Osman o Othman, da cui il nome di "ottomani", questi misero piede
in Anatolia alla fine del XIII secolo e dilagarono in tutta l’Asia Minore, stabilendo
la capitale a Bursa. Poi, aggirate le inespugnabili mura di Costantinopoli, invasero la
Tracia e fissarono la capitale ad Adrianopoli (Edie, 1361). Quindi proseguirono verso
Bulgaria e Serbia, sognando di raggiungere Roma, ritenuta la vera capitale del mondo e
chiamata Kizil Elma (Mela Rossa).

L’improvviso arrivo in Anatolia dei nemici-cugini mongoli di Timur lo Zoppo,
Tamerlano, costrinse il sultano Beyazit, detto il Fulmine, a fare dietrofront, ma fu
sconfitto ad Ankara (1402).

I turchi parevano annientati; ma 10 anni dopo Mehmet I li riorganizzò e preparò per
la riconquista. Mehmet II Fatih (Conquistatore) arruolò i più abili artigiani europei
del tempo perché gli fabbricassero cannoni, con cui sbriciolò le mura di Costantinopoli
(1453), che divenne la capitale dell’impero sotto un nuovo nome. Non così nuovo in
verità. Istanbul deriva dal greco "eis ten polin", alla città (urbe):
espressione che i contadini ellenici dicevano orgogliosi quando si recavano nella
metropoli, l’unica al mondo, come l’antica Roma, meritevole di tale appellativo
d’eccellenza.

Invincibile per terra, cresciuto come potenza navale, l’impero ottomano raggiunse
l’apogeo con Solimano il Magnifico (1520-66). Si estendeva su tre continenti: dal Mar
Caspio e Golfo Persico all’Algeria, dalla Serbia e Ungheria allo Yemen, con una
popolazione di 50 milioni di abitanti, dieci volte più dell’Inghilterra.

A favorire l’espansione turca e alimentare il sogno della Mela Rossa contribuì
anche la divisione tra le potenze occidentali, che permisero agli ottomani di occupare
Otranto per un anno (1480), cingere d’assedio Vienna (1529), flagellare le coste
italiane e razziare la città di Nizza (1543).

A tenere unito un impero multietnico di tale dimensione contribuì la capacità di
adattamento delle istituzioni ottomane a quelle delle popolazioni annesse, rispettandone
norme, consuetudini e diritti. Anzi, in alcune regioni dei Balcani ed Europa
centro-orientale, i turchi furono acclamati come liberatori dal fanatismo
politico-religioso innescato dalle lotte tra cattolici e protestanti.

Va riconosciuta alla Sublime Porta, come veniva chiamato il governo turco, un elevato
grado di tolleranza religiosa. Ma senza esagerare. Prima di tutto la porta delle cariche
amministrative si apriva solo a chi era di provata fede musulmana. Tale tolleranza, poi
nascondeva motivi di convenienza: gli ebrei fuggiti dalla Spagna furono accolti per
contrastare le spinte indipendentiste di armeni e greci; i cristiani non subirono
l’islamizzazione forzata perché il loro passaggio all’islam avrebbe comportato la
perdita degli ingenti gettiti fiscali imposti ai cristiani.

Senza dimenticare, infine, che centinaia di migliaia di giovani cristiani, prigionieri
di guerra o strappati alle famiglie, furono sottoposti a un formidabile lavaggio di
cervello per formare il corpo militare dei giannizzeri, i più fanatici e intransigenti
difensori dell’islam.

Sebbene in ritardo, l’Europa cominciò a vedere nell’espansione turca una
minaccia per la cristianità e la civiltà occidentale: nel 1571 la flotta di varie
potenze europee sconfisse l’armata turca nelle acque di Lepanto, ponendo fine al mito
dell’invincibilità ottomana.

Nel secolo XVII i turchi continuarono a minacciare Polonia, Austria e Slesia:
assediarono di nuovo Vienna (1683), ma furono respinti dalle truppe tedesco-polacche. E
dovettero cedere Ungheria e altri avamposti dell’Europa centro-orientale a due
minacciose potenze confinanti: Russia zarista e impero asburgico.

IL GRANDE MALATO D’EUROPA

Sublimi lussi e mollezze, avidità e intrighi di corte indebolirono il potere centrale;
generali e nobili si ritagliarono fette di potere alla periferia dell’impero.
L’arretratezza fece il resto. All’inizio del XIX secolo per le potenze
occidentali lo stato turco diventò la "questione orientale" o il "grande
malato dell’Europa" e accorsero al suo capezzale.

Più che medici, si rivelarono becchini. Nessuno voleva il decesso dell’impero, ma
tutte fecero a gara, impiegando ogni mezzo finanziario, politico o militare, per mutilae
le periferie; ognuna mobilitò la propria forza diplomatica per impedire che un eventuale
vuoto di potere venisse colmato da potenze avversarie. Al tempo stesso, Londra, Parigi e
Pietroburgo soffiavano sul vento dei nazionalismi balcani, sfociati in stati indipendenti:
Serbia, Grecia, Romania, Montenegro, Bulgaria e Albania.

I paesi occidentali offrirono le loro tecnologie (telegrafo, ferrovie) per modeizzare
lo stato, ricevendo in cambio che le proprie compagnie commerciali si stabilissero negli
scali principali della Sublime Porta. Le manifatture francesi, inglesi e olandesi misero
in crisi gli artigiani locali, incapaci di competere con la tecnologia europea.

Indebitati fino al collo, sempre più dipendenti dall’Europa, i turchi furono
tirati per i capelli in una intricata girandola di alleanze pro e contro tedeschi,
inglesi, austriaci, francesi, russi, italiani, trovandosi sempre dalla parte sbagliata e
continuando a perdere i pezzi più pregiati. La prima grande guerra li spazzò via dai
Balcani; in Anatolia si precipitarono greci, italiani, inglesi e francesi; gli armeni si
dichiararono indipendenti. Nel trattato di pace di Sèvres (1920) il sultano ratificò il
fatto compiuto.

NUOVI CONNOTATI

La Turchia rischiava di scomparire dalla geografia politica, quando il generale
macedone Mustafà Kemal, detto poi Ataturk (padre dei turchi), impostosi come leader del
movimento nazionalista, respinse il trattato di Sèvres, combatté una guerra vittoriosa
contro i greci (1920-22), annientò la minoranza armena, destituì l’ultimo sultano e
proclamò la repubblica. Nel trattato di Losanna (1923) ottenne il riconoscimento di
quelli che, sostanzialmente, sono i confini odiei.

Con un regime a partito unico, Kemal iniziò la ricostruzione dello stato, cercando di
accorciae le distanze con l’Europa, anche se trasportò la capitale da Istanbul ad
Ankara.

Basata sui pilastri del laicismo e nazionalismo, la costituzione repubblicana sancì la
separazione tra stato e islam, che cessò di essere religione di stato. Furono abrogati i
tribunali religiosi, chiuse le scuole coraniche e abolite le confrateite musulmane. Il
turco sostituì l’arabo nei riti pubblici, compresi gli appelli alla preghiera. Per
accelerare la turchizzazione, fu introdotto l’alfabeto latino, fondate nuove scuole
di ogni ordine e grado, resa obbligatoria la scolarizzazione anche per le donne;
cancellati i termini di origine araba e persiana, fu abolito l’insegnamento di tali
lingue nelle scuole superiori.

Per modeizzare e occidentalizzare la nazione fu abolita la poligamia, l’obbligo
del velo per le donne e del fez per gli uomini. Fu rinnovato il sistema giudiziario,
prendendo a modello il codice civile svizzero e quello penale italiano. Venne introdotto
il sistema metrico decimale; il calendario gregoriano sostituì quello musulmano e la
domenica prese il posto del venerdì come giorno di festa.

Per completare la modeizzazione, nel 1934 fu esteso alle donne il suffragio
universale (prima dei francesi); una dozzina di anni dopo venne introdotto il
multipartitismo.

Dopo la morte di Ataturk (1938) la Turchia ha continuato il passaggio a Ovest: entrata
nella Nato (1952), ne ha accolto le basi militari, diventando un avamposto occidentale,
prima in funzione antisovietica e poi anti-islamica. Stretta un’alleanza di ferro con
gli Stati Uniti, li ha appoggiati senza condizioni durante la guerra del Golfo contro
l’Iraq (1991), perdendo ogni legame con i paesi islamici del medio e vicino oriente.

Pur continuando il processo di modeizzazione delle sue strutture economiche, sociali
e culturali, la Turchia rimane ancora in bilico tra identità europea e ideali islamici.
Nel 1996 prese le redini del governo un partito neo-ottomano (il Refah) che avversa Nato e
UE, mentre propone un revisionismo pan-turco e pan-islamico sugli ex territori ottomani.

NODI DA SCIOGLIERE

Da oltre 30 anni la Turchia cerca il suo "passaggio a ovest", bussando alla
porta dell’Unione economica europea. Finora ha ottenuto di entrare nel regime di
unione doganale (1996) e, nel 1999, le è stato accordato lo status di candidato
all’ingresso nell’UE, fanalino di coda di 13 paesi in sala d’aspetto. I
negoziati saranno aperti quando il paese avrà dimostrato di avere raggiunto certi
parametri dettati dall’UE in materia di democrazia, diritti umani, tutela delle
minoranze ed economia.

Sulla democrazia turca incombe, come la spada di Damocle, il potere militare: in 20
anni, i generali, nuovi "pascià", hanno fatto tre colpi di stato (1960,
’71, ’80). Nel Consiglio nazionale di sicurezza, che ha lo scopo di
"garantire laicità e kemalismo", i sei massimi ufficiali dell’esercito e
forze dell’ordine danno "pareri" ai cinque massimi esponenti civili,
presidente e primo ministro compresi. Gestendo una delle tre o quattro principali società
finanziarie del paese, le forze armate fanno il buono e cattivo tempo anche nel mondo
economico.

Il primo ministro turco ha assicurato che presto il parlamento abolirà la pena di
morte. Ma intanto i diritti civili, politici e religiosi continuano ad essere calpestati;
le proteste represse con brutalità; le carceri sono un inferno e la riforma carceraria
sta provocando lo sciopero della fame tra civili e carcerati: sono già morti a decine e
altri 2.000 sono pronti al sacrificio; ma il governo sembra sordo. I mezzi di
comunicazione possono trasmettere solo la voce del padrone; contestatori e difensori dei
diritti umani sono incarcerati; i sospettati di terrorismo torturati.

In fatto di minoranze, i turchi si imbufaliscono quando in Europa si parla di genocidio
armeno e si chiede di riconoscere la responsabilità dello sterminio di oltre un milione e
mezzo di armeni (vedi a p. 41). Altra questione in sospeso riguarda il ritiro delle forze
d’invasione a Cipro del nord: occupata nel 1974, ha causato 5.000 morti e 200.000
profughi. Più ingarbugliata è la questione dei kurdi, che da secoli rivendicano la loro
identità. Il problema è ben lontano da una soluzione equa, se mai ci sarà (vedi
riquadro).

Drammatica, infine, è la situazione economica. Trent’anni di sviluppo e
progresso, con costruzioni di strade, aeroporti, città, attrezzature turistiche, nonché
fabbriche, dighe, oleodotti, fonderie e altri complessi industriali ha fatto gridare al
"miracolo turco". Ma all’inizio del 2001 la Turchia si è improvvisamente
svegliata in bancarotta. Le cause sono molte: corruzione e collusione con la mafia di alte
sfere dell’apparato istituzionale; sistema finanziario e bancario al collasso; debito
estero che assorbe il 95% delle entrate; inflazione galoppante a due e tre cifre. Per un
dollaro (2.200 Lit.) oggi occorrono 1.260.000 di lire turche.

Il premier Ecevet ha chiamato al capezzale dell’economia una personalità con
esperienza internazionale, dandole pieni poteri: è Kemal Devis, ex presidente della Banca
Mondiale. Ha iniziato la cura da cavallo, che farà piangere a lungo lacrime e sangue.

PALETTI SÌ. STECCATI NO

Il processo per raggiungere i parametri richiesti dall’UE sarà lungo e difficile.
Gli osservatori più scettici dicono che l’integrazione nell’UE è rimandata
alle calende greche. "La Turchia – ha detto Pierre Moscovici, ministro francese per
gli affari europei – deve rendersi conto che l’UE non è solo una comunità di
nazioni, ma un modello di civiltà".

Alcuni settori del mondo cattolico sono allarmati: l’UE è frutto di cristianità,
legge romana e umanesimo greco; l’eventuale integrazione di 80 milioni di musulmani
turchi ne offuscherebbe l’identità.

Altri sostengono che la Turchia è stata protagonista a pieno titolo della storia
europea e deve continuare a fae parte in futuro con le carte in regola. Anche
"l’Europa deve trovare il suo "passaggio a ovest" – aggiunge un
giornalista turco, – se essa è veramente tolleranza, convivenza, multi-etnicità".
Passaggio che si chiama dialogo, fondato sulla conoscenza di se stessi e degli altri.

Non serve sbattere la porta in faccia ai turchi, si afferma in ambienti ecclesiali
italiani. L’islam l’abbiamo già in casa. La questione è come prepararsi a un
confronto serio e senza cedimenti: da una parte dobbiamo recuperare identità e dignità
di cristiani d’Europa; dall’altra si deve esigere da certi capi islamici
rispetto o un approccio pacato verso i cristiani.

Il dialogo dovrebbe far emergere nel mondo islamico l’accettazione dell’idea che
esiste la libertà della coscienza individuale, tale da non essere messa in forse né
dallo stato né da qualsiasi altra autorità. Non si aderisce all’Europa per i soli
benefici materiali, senza accettae contemporaneamente i valori.

"Non sarà un percorso facile – confessa don Elvio Damoli, direttore di Italia
Caritas -. Tuttavia, le barriere sono inutili. Serve il dialogo, anche se con i
paletti".

 

Scheda storica

2000 a.C.: nascita dell’impero ittita.

1500 a.C.: introduzione della scrittura.

1200-900.a.C.: tramonto dell’impero ittita e formazioni di regni anatolici.

850 a.C.: espansione delle colonie greche lungo le coste asiatiche.

700-500 a.C.: regni di Frigia (capitale Gordio) e di Lidia (capitale Sardi).

553 a.C.: inizia la dominazione persiana, in conflitto con i greci.

334-327 a.C.: Alessandro Magno sconfigge i persiani; inizia l’ellenismo.

240-133 a.C.: regno di Pergamo.

130 a.C.: inizia il dominio romano.

301: evangelizzazione dell’Armenia, primo stato cristiano.

325: 1° concilio ecumenico a Nicea contro l’arianesimo.

330: Costantinopoli capitale dell’impero romano.

379-95: regno di Teodosio I.

395: divisione dell’impero romano d’oriente e d’occidente.

431: concilio di Efeso contro Nestorio.

451: concilio di Calcedonia.

527-65: regno di Giustiniano, riformatore del diritto; costruzione di Santa Sofia.

600-900: scorrerie arabe in Cappadocia.

1054: scisma d’oriente.

1071-1300: regno dei turchi selgiuchidi.

1203-04: Costantinopoli presa e saccheggiata dai crociati.

1354: i turchi ottomani sbarcano in Europa e conquistano la Tracia.

1389: il sultano Murat I sconfigge i serbi nella battaglia del Kosovo.

1402: i mongoli invadono l’Anatolia.

1413: inizia il regno di Mehmet I; riprende l’espansione ottomana.

1453: presa Costantinopoli/Istanbul, nuova capitale dell’impero ottomano.

1520-66: regno di Solimano il magnifico.

1526: i turchi conquistano l’Ungheria.

1529: i turchi assediano Vienna.

1571: turchi vinti a Lepanto dai cristiani.

1683: i turchi assediano Vienna e sono sconfitti da Jean Sobieski.

1774: 1a guerra turco-russa e protettorato degli zar sui greci; nasce la
"questione orientale".

1877-78: 2a guerra turco-russa; Serbia, Romania, Bulgaria indipendenti.

1912-18: l’impero ottomano è ridotto ai confini attuali, sanzionati dal trattato
di Sèvres (1920).

1915-16: genocidio armeno.

1920-23: rivoluzione di M. Kemal (Ataturk) e fondazione della repubblica.

1938: morte di Ataturk.

1952: la Turchia entra nella Nato.

1960, ’71,’80: colpi di stato militari.

1974: la Turchia occupa Cipro nord.

1980-83: guerra al Kurdistan.

1994-95: il partito islamico Refah ottiene l’amministrazione di Istanbul, Ankara,
Smie e maggioranza in parlamento.

1999: la Turchia "candidata" ad entrare nell’Unione Europea.

 

Articolo 2

Dervisci: il volto mite e dialogico dell’Islam

Danzando con Allah

C i si toglie le scarpe per entrare nel mausoleo di Konya, sotto la cui cupola conica,
rivestita di maioliche turchesi, riposano Mevlana e molti suoi discepoli. Anche se da 76
anni è un museo di arte islamica, i turchi continuano a considerarlo "luogo
sacro", secondo solo alla Mecca. Domandarsi chi è Mevlana è come chiedersi chi è
Dante o Francesco d’Assisi, suoi contemporanei. È un grandissimo poeta e mistico,
uomo del suo tempo e di tutti i tempi. Espressione del volto più aperto e tollerante
dell’islam e fondatore della confrateita islamica dei mevlevi, meglio conosciuti
come "dervisci rotanti o danzanti", vestiti di tunica bianca, mantello nero e
alto cappello cilindrico di feltro.

S i chiamava Gialal ad-Din Rumi, detto poi Mevlana (maestro nostro). Nato nel 1207 a
Balkh, città persiana ora in Afghanistan, da piccolo vagò in esilio con il padre, dal
quale ricevette un’accurata educazione, completata poi con lo studio delle scienze
esoteriche. Salvo brevi soggiorni a Damasco e Aleppo, egli visse sempre a Konya, dove si
sposò, ebbe figli e insegnò nella scuola della capitale selgiuchide.

A cambiargli la vita, nel 1244, fu l’arrivo di Shams (Sole) di Tabriz, giovane
predicatore vagante, che lo avviò sulla via del sufismo. Il maturo docente si mise alla
scuola del giovane maestro, immergendosi nell’ascetismo e meditazione. Tra i due
nacque un’attrazione mistica che suscitò la gelosia di familiari e discepoli e fece
spettegolare tutta la città.

Quando Shams decise di tornare in Persia, Mevlana lo accompagnò fino a Tabriz e toò
a Konya. Strada facendo, continuava le sue mistiche riflessioni, quando, divorato da un
fuoco interiore, cominciò a roteare su se stesso in una specie di rapimento estatico.
L’episodio è all’origine delle danze religiose della confrateita islamica da
lui fondata.

M evlana passò il resto della vita dedicandosi ad ascesi, insegnamento mistico e
lavoro letterario. Scritte o dettate in persiano, le sue opere furono più tardi tradotte
in turco per l’istruzione dei discepoli. Tra di esse figurano il Divan-i-Kibir,
sterminato e appassionato canzoniere composto sotto il nome del maestro Shams, e il
Màthnawi-i-mànawi (Poema spirituale), trattato colossale di mistica in sei volumi. Opera
affascinante e impareggiabile, il Màthnawi svolge le dottrine del sufismo con aneddoti,
favole, leggende, allegorie, digressioni dottrinali, miste a voli lirici di estatico
rapimento.

Se non fosse per il grandioso panteismo di cui sono impregnate le sue liriche, queste
sembrerebbero uscite dal cuore di mistici cristiani, come Giovanni della croce. Simili,
infatti, sono lo slancio e l’ardore del sentimento religioso con cui viene cantato
l’amore tra l’Amato (Dio) e l’amante (credente). Un Amato più intimo e
vicino di quanto possiamo esserlo a noi stessi.

Così ammoniva i suoi correligionari che andavano alla Mecca e facevano i dieci giri
attorno alla kaaba:

"O gente che partite in pellegrinaggio, dove mai siete?

L’Amato è qui, tornate, tornate!

L’Amato è un tuo vicino; vivete muro a muro.

Che idea vi è venuta di vagare nel deserto d’Arabia,

per vedere la forma senza forma dell’Amato?

Il Padrone è in casa e la kaaba siete voi.

Dieci volte siete già andati per quella via, per quella casa:

provate una volta da questa casa a salire sul tetto.

Bella è la casa di Dio; ne avete narrato i segni.

Provate ora a darci un segno del Padrone di quella casa".

L a scuola di Mevlana esercitò un influsso sociale, politico e culturale di primaria
importanza nell’impero ottomano ed ebbe un grande sviluppo: il suo monastero,
denominato "la soglia della presenza", fu la casa madre di numerosi conventi
fondati in Anatolia, Egitto, Siria e Balcani, cattedre dalle quali, per sette secoli, fu
propagato il suo messaggio d’amore.

La suprema autorità dell’ordine, detto "çelebi efendi", aveva il
privilegio di cingere la spada a ogni nuovo sultano. La cerimonia si teneva a Istanbul e,
per il suo significato, richiama da vicino l’investitura con cui nel medioevo i
vescovi di Magonza riconoscevano gli imperatori di Germania.

Nel 1925 Atatuk sciolse tutte le confrateite islamiche e mise i dervisci fuori legge,
perché troppo legati al decrepito regime ottomano e fautori di un irrazionalismo
inconciliabile con la coscienza laica della nuova Turchia. Essi, però, riuscirono a
sopravvivere come associazione culturale, ufficialmente riconosciuta nel 1957, destinata a
conservare una tradizione storica.

A metà dicembre di ogni anno, per l’anniversario della morte del maestro, i
dervisci eseguono le loro danze nel mausoleo di Konya; ma si esibiscono pure in altre
città della Turchia e nel mondo intero. Per il governo turco e per i curiosi le loro
danze sono espressioni folcloristiche, per i dervisci continuano a essere preghiera.

L’islam ufficiale disapprova tali danze, perché non trovano alcuna
giustificazione nel Corano; anzi, ritiene il sufismo un’eresia, perché antepone
l’amore all’obbedienza. Mevlana, invece, insegna che attraverso musica e danza
l’uomo entra nell’armonia cosmica e delle sfere celesti, fino a scoprire le avventure
affascinanti dello spirito e dell’amore di Dio.

È tradizione che Mevlana compose le sue più belle liriche spirituali nel rapimento
dell’estasi, mentre girava vorticosamente attorno a una colonna.

Vestiti e danza, compresi i singoli gesti e movimenti, hanno significati religiosi. La
cerimonia dei dervisci, detta "giro planetario", imiterebbe il roteare degli
astri attorno al sole. Per altri ripeterebbe la danza degli angeli attorno alla kaaba.

Cappello e mantello nero sono simboli della pietra tombale e la veste bianca del
lenzuolo mortuario del proprio ego. Quando i dervisci si tolgono i mantelli, rinascono
alla verità spirituale.

Comincia la danza: il derviscio incrocia le braccia all’altezza delle spalle per
riprodurre la prima lettera di Allah in caratteri arabi; poi le estende: la destra, aperta
verso il cielo, riceve i doni divini; la sinistra, girata verso terra, li dispensa al
popolo. Girando da destra a sinistra, egli stringe la creazione e tutte le nazioni del
mondo nell’amore.

La prima fase della danza è un elogio al profeta, nel quale sono elogiati tutti i
profeti e Dio loro creatore; nella seconda si sente il colpo del tamburo, simbolo del
comando di Dio; la terza segue un preludio del flauto, ovvero il soffio di Dio che ha dato
vita a tutte le creature. La quarta fase è costituita da tre marce circolari,
accompagnate da una musica ritmica, che simboleggia altrettanti saluti delle anime
nascoste nei corpi.

Il primo saluto, che esprime la nascita dell’uomo alla verità tramite il ragionamento,
segna la presa di coscienza dello stato di creatura e dell’esistenza di Dio creatore. Nel
secondo saluto c’è la rivelazione delle meraviglie della creazione: osservando il
mondo e se stesso, l’essere umano diventa testimone dello splendore e perfezione
dell’opera divina, si meraviglia davanti all’infinita potenza di Dio.

Il terzo saluto è il rapimento, il più alto grado dell’estasi mistica: l’uomo si
abbandona all’amore di Dio.

Quindi la musica si arresta; terminato il viaggio mistico e ascensione spirituale, il
derviscio ritorna ai suoi doveri terreni, come servitore di Dio e dispensatore di amore
verso tutte le creature e tutta la creazione.

Q uello di Mevlana è un islam dal volto mite e dialogico, ben lontano
dall’integralismo dei paesi arabi e arabizzati. Egli fu amico di saggi ebrei, preti e
vescovi bizantini. Si dice che abbia fatto 40 giorni di ritiro nel monastero di un monaco
suo amico. È certo che il suo insegnamento supera gli angusti orizzonti confessionali.
Predicava l’unità di tutte le confessioni religiose. Diceva: "Un giorno cadranno
tutti i minareti dalle moschee e le campane dalle chiese: allora ci sarà perfetta
unità".

Per questo si attirò molte simpatie. Alla sua morte nel 1273, partecipò gente di ogni
ceto, razza e fede, compresi ebrei e cristiani, che vedevano in lui una figura tanto
vicina a quelle di Gesù e Mosè.

I dervisci, da parte loro, hanno continuato a simpatizzare e dialogare sul terreno
filosofico con i cristiani: si opposero al massacro degli armeni in Turchia. Continuano a
predicare la pace universale, l’amore come fulcro di tutto, l’unione con Dio
come scopo della vita, l’accoglienza senza pregiudizio.

Sono eloquenti, al proposito, i versi del Màthnawi, che i dervisci hanno voluto
riportare su una parete del mausoleo di Konya:

"Vieni, ritorna, chiunque tu sia, vieni.

Non importa se sei un infedele,

un idolatra o adoratore del fuoco.

Vieni, anche se hai infranto il giuramento cento volte,

vieni lo stesso.

La nostra non è la porta della disperazione e del tormento.

Vieni".

 

Articolo3

Sulle tracce di san Paolo e delle prime chiese cristiane

TERRA DI RELIQUIE

Una dozzina di missionari, pellegrini nella "seconda terra santa", culla
della missione ad gentes, rileggono le parole di Paolo dove furono pronunciate, ne
rivivono successi e persecuzioni, celebrano l’eucaristia dove Pietro e Paolo
radunavano le prime comunità cristiane per lo stesso rito… Sono emozioni
indimenticabili. Ma con tanto amaro in bocca: oggi la presenza cristiana è ridotta al
lumicino, frammentata in una miriade di minuscole chiese. Unica strada di sopravvivenza:
dialogo e testimonianza della carità.

Istanbul, prima tappa obbligata del pellegrinaggio, sembra una foresta di minareti
tutti uguali. "Ci sono oltre 3 mila moschee, 17 sinagoghe e 240 chiese cristiane, in
buona parte chiuse per mancanza di fedeli" spiega Alba, la guida turca, appena siamo
seduti nel pullman.

Un senso d’impotenza afferra il cuore dei missionari davanti a Santa Sofia, la
basilica fatta costruire da Giustiniano come "la più sontuosa dall’epoca della
creazione": inaugurata nel 537, trasformata in moschea dopo la conquista ottomana
(1453) con l’aggiunta di quattro minareti, ridotta a museo nel 1953, essa simbolizza
la parabola storica del cristianesimo in tutta la Turchia: florido, represso, ignorato.

E FU SUBITO CESAROPAPISMO

Nessun apostolo vi mise mai piede, anche se la leggenda fa risalire ad Andrea la
nascita della chiesa a Bisanzio e, appena questa diventò Costantinopoli, vi furono
traslate le sue reliquie, insieme a quelle di molti altri santi. Era la mania
politico-religiosa di quei tempi: l’origine apostolica e le reliquie dei martiri
servivano a dare alla nuova capitale prestigio e autorità nei confronti con Roma.

Più tardi anche i sultani, in competizione con la Mecca, vi porteranno i peli della
barba di Maometto, conservati nella sala del tesoro del Topkapi con le reliquie del
Battista.

Leggende a parte, la chiesa di Costantinopoli mostrò subito spirito missionario,
mandando evangelizzatori oltre le frontiere dell’impero. Il vescovo Wùlfila, per 40
anni (341-383), trasmise il cristianesimo nella versione ariana ai goti e visigoti a nord
del Danubio, elaborò un alfabeto e tradusse la bibbia nella loro lingua. Più tardi
l’imperatore inviò altri missionari a evangelizzare i popoli russi e slavi, tra i
quali i due fratelli di Tessalonica, Cirillo (826-869) e Metodio (815-885).

Può sembrare strano che fossero gli imperatori a inviare i missionari. Con Costantino,
infatti, nacque il cesaropapismo: i sovrani controllavano l’attività della chiesa,
compresa quella spirituale; a partire dal 754 essi cominciarono a fregiarsi del titolo di
isapostoloi (uguali agli apostoli).

In un clima del genere, Costantinopoli diventò il brodo di cottura in cui si
svilupparono varie eresie (arianesimo, monofisismo, nestorianesimo, origenismo,
macedonismo, monotelismo, monoergismo, iconoclastia) con gravi ripercussioni sulla vita
della capitale, dell’impero e della chiesa universale. Gli stessi sovrani
parteggiavano ora per l’una ora per l’altra eresia. Grandi vescovi, del calibro
di Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo, lottarono per restituire alla chiesa la
legittima autorità, ma pagarono il loro coraggio con esilio e persecuzioni.

Per riportare la pace nella chiesa e nella società civile, gli imperatori convocarono
vari concili ecumenici: quattro furono tenuti a Costantinopoli e tre nelle immediate
vicinanze (Nicea e Calcedonia). Se non altro, eresie, concili e dispute teologiche
contribuirono a fissare la formulazione della fede della chiesa universale. Ne è un
esempio il credo niceno-costantinopolitano, in cui si riconoscono tutte le chiese
cristiane.

Purtroppo non tutte le comunità accettarono le decisioni dei concili, più per
fraintendimento di parole che per divergenze teologiche. Intrighi e intrallazzi politici
fecero il resto: la chiesa si frantumò gradualmente in una miriade di comunità
scismatiche, fino alla rottura definitiva dello scisma d’oriente (1054).

UNA CHIESA FRAMMENTATA

"A Istanbul – spiega Alba, rispondendo alle domande dei missionari -sono presenti
tutte le chiese cristiane: ortodossi greci, armeni, siriani, bulgari, siro-caldei;
cattolici di rito latino, siriano, caldeo, bizantino, armeno; anglicani, luterani,
evangelici… per nominare i più importanti".

Importanza relativa, se si fanno i conti: su 70 milioni di turchi, il 99% si dichiara
musulmano; i cristiani tutti insieme arrivano a 100 mila; sottrai quasi 60 mila armeni e
circa 30 mila cattolici, delle altre chiese rimangono reliquie.

"In teoria la Turchia è uno stato laico; in realtà manca la libertà religiosa –
risponde Alba alla nostra tempesta di quesiti -. Qui laicità non significa separazione
tra stato e chiesa, ma che il governo amministra, sorveglia e controlla l’islam. Gli
80 mila iman, per esempio, sono in pratica funzionari statali; i programmi
d’insegnamento sono fissati dal governo; sulla carta d’identità è scritta la
religione di appartenenza: musulmano, ebreo, cristiano. Se un musulmano passa al
cristianesimo, incappa in seri guai burocratici e giudiziari".

A schiacciare le minoranze religiose si aggiunge la discriminazione: cariche pubbliche
civili e militari sono tutte in mano ai musulmani; negli ultimi 10 anni, in Turchia sono
state costruite 10 mila nuove moschee; a Istanbul sono state aperte 400 scuole coraniche.
Zero nelle altre chiese.

Quella cattolica romana, poi, si trova in stato d’inferiorità assoluta: non è
riconosciuta come istituzione religiosa, anche se la Turchia ha un suo ambasciatore in
Vaticano. Di conseguenza le proprietà della chiesa sono intestate a singole persone;
difficoltà per i missionari (anche se vescovi) di ottenere o rinnovare i permessi di
residenza nel paese; possibilità di essere cacciati in qualsiasi momento e senza
spiegazioni.

"Che apostolato potete fare" domandano quasi in coro i missionari ai padri
domenicani della chiesa dei ss. Pietro e Paolo. "Dialogo e testimonianza della
carità – risponde padre Lorenzo, torinese, da 17 anni in Turchia e professore di latino
all’Università islamica -. Da tre anni abbiamo istituito un centro di documentazione
per il dialogo islamo-cristiano che raccoglie informazioni sul cristianesimo: ce
l’hanno chiesto i nostri amici musulmani e lo frequentano abbastanza. Inoltre, come
insegnante di latino, ho tante occasioni per stimolare negli studenti il confronto tra la
cultura cristiana e quella islamica e per rispondere alle loro domande".

PAOLO VIVE…

Ad Antiochia (oggi Antakya), nell’estremo sud della Turchia, i missionari
pellegrini respirano a pieni polmoni l’atmosfera della missione delle origini. La
celebrazione della messa alla Grotta di san Pietro è densa di emozioni: qui, appena un
anno o due dopo la morte di Cristo, fu predicato il vangelo dai discepoli scappati dalle
persecuzioni di Gerusalemme; qui Baaba, Paolo, Luca, Pietro (primo vescovo di
Antiochia), il successore e martire Ignazio radunavano la comunità cristiana per
l’eucaristia. Qui Baaba e Paolo "in un anno istruirono tanta gente" che
"per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani": un capolavoro di
"visibilità", se in pochi mesi riuscirono a distinguersi tra mezzo milione di
abitanti.

Da Antiochia fu provocato il concilio di Gerusalemme per risolvere il primo problema di
"inculturazione" della storia missionaria: "I fedeli provenienti dal
paganesimo devono farsi prima giudei (circoncisi) e poi cristiani?". La risposta fu
una liberazione. Nella pratica però, Pietro continuava a snobbare i pagani e, proprio ad
Antiochia, si scontrò con Paolo: una dialettica sempre attuale, risolta nella carità.
Qui, infine, nacque "l’aiuto tra le chiese sorelle", con la prima colletta per
soccorrere la comunità di Gerusalemme, colpita dalla carestia.

Durante la messa risuonano le parole dello Spirito: "Mettetemi da parte Baaba e
Saulo per l’opera a cui li ho destinati"; i missionari si sentono ancora una
volta chiamati per nome e, come Baaba, Paolo, Marco, inviati dalla comunità a portare
il vangelo ai confini della terra.

ECUMENISMO OBBLIGATORIO

A richiamare tutti con i piedi per terra ci pensa il cappuccino italiano padre
Domenico: "Nei primi secoli Antiochia aveva cinque vescovi di altrettante chiese
separate; oggi è ufficialmente titolare di cinque patriarcati; ma i patriarchi risiedono
a Istanbul, Aleppo o Damasco. Siamo rimasti solo due preti, quello ortodosso e il
sottoscritto".

La comunità è formata da una sessantina di cattolici armeni, siriani, maroniti; ma è
frequentata anche da ortodossi. "Dialogo ecumenico e interreligioso sono le uniche
forme di apostolato in Turchia – continua il padre -. Non è possibile alcun annuncio
diretto. Evangelizzare è dire ciò che siamo, spiegare la nostra fede. Con gli ortodossi
i rapporti sono buoni e costruttivi: da alcuni anni abbiamo aperto l’ufficio della caritas
per aiutare i poveri della città; facciamo assieme la campagna di quaresima e celebriamo
la pasqua nella stessa data; la domenica facciamo il culto in orari differenti per evitare
competizioni; spesso celebriamo insieme funerali e matrimoni".

Padre Domenico ha pure organizzato corsi di catechesi per i giovani, frequentati da
50-60 persone quasi tutte ortodosse. "Hanno capito che il nostro scopo non è il
proselitismo, ma aiutare i cristiani ad essere più cristiani – continua il padre -. È un
nuovo modo di essere chiesa. In situazione di minoranza l’ecumenismo è
d’obbligo".

Anche con i musulmani i rapporti sono buoni: molti vengono a informarsi sulla fede
cristiana. Nella chiesetta parrocchiale il padre ha posto alcune icone e se ne serve per
spiegare e rispondere alle domande sul nostro credo. In fondo alla cappella ha messo a
disposizione copie del vangelo e video-cassette: vanno a ruba.

I NUMERI NON CONTANO

Dialogo ecumenico e interreligioso anche ad Alessandretta (Iskenderun). Il movimento
neocatecumenale è composto quasi totalmente da ortodossi; anche qui molti musulmani sono
attratti dal cristianesimo, racconta padre Roberto, cappuccino italiano da 50 anni in
Turchia.

Nella testa dei missionari pellegrini affiorano come un chiodo fisso le solite domande:
la comunità cresce? quante conversioni?

"La chiesa cattolica in Turchia è divisa in tre vicariati – risponde il padre,
girando alla larga -: Istanbul per la parte europea, Smie e Alessandretta per
l’Anatolia. Qui non contiamo mai i fedeli; non è il numero che fa la chiesa. Cerchiamo,
soprattutto, di fare coraggio ai cristiani; altrimenti emigrano, perché non vogliono che
i loro figli soffrano ciò che essi hanno patito. Ad ogni modo, abbiamo vari giovani nel
catecumenato, ma andiamo molto adagio a battezzare. Chi si fa cristiano ha vita
dura".

Alessandretta conta circa 200 cattolici; poco più di un migliaio l’intero
vicariato. "Poi ci sono i cristiani nascosti, battezzati da bambini – continua il
padre -; ma hanno paura di manifestarsi, non tanto dello stato, ma dei parenti, società e
altre chiese".

Intanto l’afflusso di pellegrini che visitano i "luoghi santi" nel paese
serve a risvegliare i cristiani turchi, che non si sentano più soli e stanno riscoprendo
le radici della loro fede.

"MAMMA, LI CROCIATI!"

Lo sperano anche Emmanuela e Maria, due "Figlie della chiesa", che da sei
anni testimoniano la carità e accolgono i pellegrini a Tarso. "Non conosciamo ancora
alcun cristiano – dice Maria -. Forse ci sono. La vista di tanti cristiani potrebbe dare
loro coraggio per venire allo scoperto: allora si potrebbe raccogliere le firme per
chiedere il permesso di celebrare regolarmente i servizi religiosi in questa chiesa e
magari riscattarla".

Infatti, la chiesa dove celebriamo l’eucaristia, costruita dai crociati, è stata
requisita e dichiarata museo: per ogni azione di culto bisogna chiedere il permesso e le
chiavi al direttore. I tentativi fatti dal vescovo per comprarla sono andati a vuoto.
"La nostra presenza rinfocola paure secolari – spiega la suora -. Noi diciamo
"mamma li turchi"; essi rispondono "mamma li crociati"".

I missionari si tuffano nella memoria di san Paolo: visitano il pozzo che porta il suo
nome; baciano le pietre della strada romana da lui calcate… ma con un groppo in gola:
nella città dove l’apostolo nacque e predicò il vangelo almeno in due occasioni dei
suoi viaggi missionari, non è sopravvissuta neppure la reliquia di un mattone che possa
dirsi cristiana.

Anche a Iconio (Konya) i pellegrini devono accontentarsi della memoria, rinfrescata
dalla lettura degli Atti degli Apostoli: qui Paolo e Baaba predicarono a lungo nel loro
primo viaggio missionario (47 d.C.); fecero molti discepoli tra giudei e greci, suscitando
la rabbia degli "integralisti" ebrei, che decisero di lapidarli.

I due apostoli fecero in tempo a scappare; ma i più facinorosi li inseguirono per una
trentina di chilometri, fino a Listra: trascinarono Paolo fuori della città e lo
tramortirono a sassate. Ma alla fine del viaggio, tutti e due tornarono a Iconio per
rincuorare e organizzare la comunità, dicendo loro che "bisogna attraversare molte
tribolazioni per entrare nel regno di Dio".

Sono parole che i missionari sanno a menadito; ma rileggerle nel luogo dove Paolo le
visse sulla propria pelle fa un certo effetto, anche in quelli un po’ fissati con i
numeri di battesimi e successi a buon mercato.

A ricordare le tracce di san Paolo rimane una chiesa, costruita agli inizi del 1800,
dove si può pregare a volontà, senza bisogno di permessi. Nell’abside spiccano le
immagini di Paolo, Timoteo, suo grande collaboratore, e santa Tecla, nativa di Iconio,
discepola paolina e grande missionaria. Ma la comunità attuale è ridotta a cinque o sei
cristiani, tra cui due suore trentine, Isabella e Serena.

Dopo 2000 anni Iconio non si smentisce: è la città più conservatrice e integralista
della Turchia: s’incontrano donne velate da capo a piedi; la maggioranza dei
ristoranti non servono alcolici. In casa le suore indossano una croce; quando escono la
tolgono. Non per paura di essere lapidate. "La gente è gentile – spiega Isabella -.
Ma la legge vieta abiti e simboli religiosi e ideologici. La nostra è una presenza
discreta, fatta di accoglienza e contemplazione".

ESSERCI O NON ESSERCI?

A 230 km incontriamo un’altra presenza discreta: Heirich e David, laici trentini
della "Comunità di san Valentino", che da sei anni vivono a Uçhisar, nel cuore
della Cappadocia, dediti alla preghiera, ascolto della parola di Dio e della gente.
Insieme alle suore di Iconio, sono stati inviati qui dal vescovo di Trento, come gesto di
riconoscenza per il dono della fede, seminata in Val di Non da tre missionari cappadoci:
Sisinio, Martirio e Alessandro, martirizzati nel 397.

In questa regione turca il vangelo arrivò molto presto: il giorno di pentecoste a
Gerusalemme c’erano "abitanti della Cappadocia". Forse tra i primi
missionari arrivarono anche Pietro, partendo da Antiochia, e Paolo, in viaggio verso la
Galazia.

È certo che la fede vi si radicò in profondità, fecondata dal sangue di numerosi
martiri e illuminata da vescovi dotti e dinamici, come i padri cappadoci: Basilio di
Cesarea, suo fratello Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo. Al Concilio di Nicea (325)
la Cappadocia era presente con 7 vescovi (di città) e 5 corepiscopi (di campagna).
All’inizio del IV secolo i missionari cappadoci erano arrivati ai confini
dell’impero e oltre: il vescovo Gregorio Illuminatore, per esempio, evangelizzò
l’Armenia.

Al tempo stesso ci fu una straordinaria fioritura di anacoreti, dediti alle forme più
fantasiose dell’ascesi cristiana: stiliti, reclusi, incatenati, solitari, senza
tetto, muti… San Basilio li mise in riga. "La vita solitaria è oziosa e senza
frutto, contraria al vangelo e alla natura sociale dell’uomo – diceva -. Solo la vita
comunitaria obbedisce al comandamento dell’amore verso Dio e verso gli altri". E
dettò le regole del monachesimo cristiano: piccole comunità di preghiera, servizio ai
poveri, malati, viandanti, avviamento al lavoro, missione e cura spirituale delle anime.

I pellegrini incassano la lezione: il missionario è un "contemplativo in
azione".

Ad attestare l’enorme sviluppo dell’eremitismo e monachesimo nelle valli
lunari della Cappadocia restano innumerevoli monasteri scavati nel tufo: attorno a Goreme
si contano 2 mila chiese rupestri. La resistenza dei cristiani alle invasioni arabe è
testimoniata dalle immense città-rifugi scavate sotto terra. Ma poi, sotto il rullo
compressore dei turchi selgiuchidi e ottomani non si salvarono neppure gli angeli, madonne
e santi, che decorano le chiese: in obbedienza al corano, che vieta ogni raffigurazione
umana, le loro facce furono prese a sassate.

"Siamo qui non per fare, ma per essere, anzi per "esserci" – spiega
fratel Davide -. Il ritmo di vita (5 ore di preghiera al giorno, lavoro di casa e
disponibilità) è un filo ideale che ci riallaccia ai monaci dei primi secoli; essendo
gli unici cristiani in Cappadocia, rendiamo presente Gesù col nostro esserci, aspettando
che il Signore realizzi i suoi piani".

Guardo le facce dei miei confratelli: gli occhi sbarrati per l’ammirazione; le
labbra torcono come se succhiassero un chiodo.

MERYEM ANA, PENSACI TU!

Il nostro pellegrinaggio si conclude a Efeso e sono emozioni a non finire. Prima di
tutto le rovine della grandiosa basilica fatta costruire dall’imperatore Giustiniano
(540) sulla tomba dell’evangelista Giovanni. In ginocchio sulla predella
dell’altare, mi pare di sognare: a pochi centimetri ci sono le reliquie del discepolo
prediletto. Vorrei dirgli tante cose, ma non mi riesce di formulare neppure una parola. E
resto in silenzio.

Passiamo alle splendide rovine della città greco-romana. Centinaia di europei,
americani e giapponesi si aggirano per le strade, come se Efeso fosse per incanto tornata
la città cosmopolita di 2 mila anni fa. E sembra di rivedere Paolo, che percorre le
stesse vie per recarsi alla sinagoga e, tre mesi dopo, quando i giudei gli rendono
difficile la vita, si sposta nella scuola di Tiranno: qui, dalle 11 alle 16, ogni giorno e
per tre anni, discute con una folla di artigiani che sacrificano la siesta per ascoltare
la buona notizia.

La fantasia non ha freni quando ci sediamo sui gradini del teatro: il battagliero Paolo
affronta l’ira di commercianti e argentieri che lo vogliono linciare: lo accusano di
mandare in malora i loro affari, poiché la gente non compra più statue e ricordini della
dea Artemide.

Nella cosiddetta basilica del concilio, prima chiesa al mondo dedicata alla Madonna, al
ricordo di Paolo si sovrappone quello di 200 vescovi, radunati (431) per controbattere le
teorie di Nestorio, patriarca di Costantinopoli: costui afferma che bisogna chiamare Maria
"Madre di Cristo" e non "Madre di Dio". Non è una quisquiglia: è in
gioco il mistero dell’incarnazione. Ma basta una sessione e i vescovi, con a capo
Cirillo di Alessandria, riaffermano unanimi che la Madonna è realmente la Theotokos
(Madre di Dio) e solennizzano l’evento con una fiaccolata in suo onore per le vie
della città.

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Benedetto Bellesi




Colombia: Il governatore che sfida la storia

Una storia che significa violenza,
narcotraffico, ingiustizia. Lui si chiama Floro Alberto Tunubala Paja e appartiene
all’etnia "guambiana". Tra i potenti non ha molti amici. I paramilitari,
squadroni della morte assoldati da industriali e latifondisti, lo minacciano; i
guerriglieri delle Farc lo guardano con sospetto. Intanto, per difendersi dalle
aggressioni dei paramilitari, le comunità indigene hanno costituito una "guardia
civica", composta da volontari armati di… bastone. La strategia non violenta
adottata dagli indios ha già ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali e inteazionali.
Ma riusciranno a sopportare il peso di una partita tanto difficile?

 

All’inizio del nuovo secolo, per la prima volta nella sua storia, il dipartimento
del Cauca ha conosciuto un governatore indigeno. È Floro Alberto Tunubala Paja,
dell’etnia guambiana. È stato eletto nel mese di ottobre dell’anno scorso ed ha
cominciato a governare dal 1° gennaio di quest’anno.

L’elezione di Floro è avvenuta grazie a una coalizione che ha il suo punto di
aggregazione nel territorio di convivenza e pace della Maria Piendamo (**). Lì diversi
gruppi etnici (indigeni nasa-paeces, guambiani, negri, meticci), campesinos, lavoratori e
persino un gruppo di gente del mondo finanziario di Popayan (capoluogo del dipartimento)
hanno formato una coalizione, che è risultata vincitrice nelle elezioni. Tutti si sono
trovati concordi nell’unire le forze per cercare una soluzione a una situazione che
andava di male in peggio e una scena politica che non mostrava alcun segno di cambiamento
per il futuro.

Inutile dire che l’oligarchia di Popayan è rimasta a bocca aperta, perché non si
aspettava che vincesse le elezioni un indio (ancora oggi, questi è guardato con
alterigia, per non dire disprezzo) e neppure che vincesse un gruppo senza un referente
politico tradizionale.

Per loro sfortuna, all’inizio di quest’anno Floro è riuscito a formare in
seno al consiglio un gruppo di maggioranza che è dalla sua parte e che si professa
alternativo.

TRAGEDIA INDIGENA,

PROFITTI INDUSTRIALI

La situazione del Cauca non è certamente rosea. Il dipartimento presenta un debito
altissimo. C’è il problema della guerriglia e del narcotraffico, che si somma ai
consueti problemi (disoccupazione, fame, mancanza di educazione e salute ecc.). C’è
infine la cosiddetta "legge paez", una delle cause dell’esplosione di
violenza nella regione.

Questa legge è stata varata dopo il terremoto e la tragedia del fiume Paez in
Tierradentro, avvenuti il 6 giugno del 1994. La legge prende il nome degli indigeni del
luogo (che oggi preferiscono chiamarsi nasa), ma non comprende il loro territorio, troppo
impervio. Il relatore era un senatore liberale di nome Iragorri Hoaza.

Questo signore, un politico di vecchia data, si accorse che la zona industriale di
Yumbo, alla periferia di Cali, non poteva più ospitare fabbriche per motivi di
inquinamento e di spazio. Il senatore propose allora di portare le industrie nelle zone
più pianeggianti del vicino Cauca. Egli fece approvare una legge che incentivava chi
volesse costruire in quelle zone: crediti bancari agevolati, esenzione dalle imposte per
10 anni, acquisto della terra a buon prezzo.

Nella "legge paez" rientrano alcuni comuni, come Santander de Quilichao,
Caloto, Corinto, Miranda, Suarez, Buenos Aires e molti altri che si trovano nella parte
pianeggiante.

Per poter approfittare della legge e investire i loro capitali, gli industriali
volevano che ci fosse anche sicurezza e stabilità politica. Ma nella regione sono
presenti tutti i gruppi armati colombiani, che hanno scelto la zona per la facilità di
raggiungere altre parti del paese senza correre grossi rischi.

LA FEROCIA

DEI PARAMILITARI

Per garantire la stabilità, gli industriali e i grossi commercianti hanno pensato di
agire in proprio, organizzando gruppi paramilitari, anche conosciuti come squadroni della
morte. Dalla fine dell’anno scorso, i paramilitari hanno cominciato a fare pulizia,
sequestrando e uccidendo moltissime persone. Secondo dati ufficiali nei primi 4 mesi del
2001 nel nord del Cauca i paramilitari (e, in misura minore, la guerriglia) hanno già
ucciso più di 500 persone.

Hanno minacciato e continuano a minacciare il neogovernatore Floro. Hanno ucciso e
continuano a uccidere gente in Santander de Quilichao, Caloto, Corinto, Timba, Suarez,
Buenos Aires. I paramilitari sono persino arrivati alla Costa Naya, per raggiungere la
quale occorrono due giorni di cammino. Lì hanno massacrato più di 50 persone (secondo i
dati del governo) e le hanno tagliate con una motosega. Molti altri, che non sono
rientrati nei conteggi del governo, sono stati buttati giù dai burroni che si incontrano
in questo territorio. Questo è stato il massacro più orrendo fino ad oggi.

L’obiettivo dei paramilitari è la difesa del capitale industriale. Per
raggiungere questo scopo, i gruppi mercenari attuano una sorta di pulizia generale
preventiva: eliminano drogati, ladruncoli, persone incomode e, naturalmente, chiunque
abbia idee vicine a quelle della guerriglia marxista. Il problema è che in questo modo i
paramilitari stanno uccidendo moltissima gente innocente. A Santander de Quilichao non si
può camminare con sicurezza: molti indigeni, arrivati dalle montagne per il mercato,
vengono sequestrati per avere informazioni o per essere arruolati con loro.

Dall’altra parte, c’è la guerriglia delle Farc. Siccome non si sa come
andranno a finire i dialoghi di pace nel Caquetà, molti guerriglieri si stanno spostando
su queste montagne e cercano di convincere le comunità indigene a schierarsi dalla loro
parte. Ma gli indigeni resistono e con più insistenza rivendicano la loro autonomia
territoriale. Per questo non vogliono che alcun gruppo armato entri in terra di resguardo
(la riserva indigena).

Poiché nella zona montagnosa si muove la guerriglia, i paramilitari accusano gli
indios di essere guerriglieri e quando possono li sequestrano o li uccidono. D’altra
parte, per il fatto che le autorità indigene sono andate a cercare sulle rive del fiume
Cauca (verso Timba) la gente sequestrata dai paramilitari, la guerriglia accusa le
autorità indigene di essere amici di questi. Insomma, come si può comprendere, gli
indios si trovano tra l’incudine e il martello.

LA GUARDIA INDIGENA

E IL BASTONE DELLA PACE

In mezzo a tutto questo, i diversi governatori dei cabildos (qui opera la ACIN, che è
il gruppo dei 15 cabildos della zona nord), a cominciare dal cabildo indigeno di Jambaló
(dove chi scrive opera), hanno organizzato una guardia civica, la quale controlla le vie
di accesso al resguardo, chiudendo il transito a moto, macchine, persone a piedi o a
cavallo dalle 6 del pomeriggio alle 4 del mattino.

Questa guardia civica è volontaria ed è formata da gente della stessa comunità.
Tutte le sere si ritrova nei punti strategici, mette un grosso tronco di albero in mezzo
alla strada e semina chiodi. Altri volontari perlustrano i diversi sentirneri per vedere se
incontrano gente forestiera. Se si trovano persone della stessa comunità si trattengono
fino al mattino, così che le fila dei vigilanti si ingrossano.

Poiché la guardia è civica, non si usano armi. L’unica arma, se così si può
chiamare, è un bastone di un metro.

Quando si è promossa l’idea di questa guardia, sono sorti molti interrogativi. Il
più forte era cosa avrebbero potuto fare delle guardie armate soltanto di bastone di
fronte a gente (guerriglia, esercito, paramilitari) che impugna armi. La risposta è stata
che la vera arma della guardia è l’appoggio di tutta la comunità e che gli indigeni
non devono lasciarsi coinvolgere nella violenza. Si sono fissate alcune strategie per
avvisare la gente in caso di pericolo affinché abbia il tempo per nascondersi. I
volontari che si stanno prestando a questo servizio lo fanno con molta responsabilità,
coscienti dei pericoli che si corrono, ma senza paura.

Diceva una guardia in una riunione: "Mi possono anche uccidere, però è
importante che si salvino gli altri della comunità". Un altro diceva: "La cosa
più importante è il piano di vita che abbiamo predisposto come comunità. Noi ci
muoviamo sempre in gruppi numerosi: potranno uccidere qualcuno, però non riusciranno a
ucciderci tutti".

Fino ad oggi, la guardia civica ha già avuto degli scontri verbali con la guerriglia
che non voleva rispettare i posti di blocco. Però la stessa guerriglia si rende conto che
la gente è a favore del cabildo e della guardia e non dei gruppi armati. Sapendo il
pericolo che corre la popolazione civile, i cabildos si stanno adoperando per avere un
appoggio nazionale e internazionale.

TRA MARCE E PREMI,

LA STRATEGIA INDIGENA

A livello nazionale, l’anno scorso, il "progetto Nasa", come
rappresentante di tutti i progetti della zona nord, ha ricevuto il premio nazionale per la
pace e questo riconoscimento ha fatto risuonare una volta in più la voce e la presenza
delle comunità indigene nel paese.

Nel marzo di quest’anno si è tenuto l’XI Congresso del CRIC
(l’organizzazione indigena del Cauca, fondata 30 anni fa), con la presenza di 80
cabildos e di molte organizzazioni nazionali e inteazionali (in maggioranza Ong) e uno
dei temi è stato quello dell’ordine pubblico. Come impegno e conclusione di questa
riflessione sono nate due marce. La prima era per protestare contro l’uccisione di 8
studenti nel parco nazionale di Purace per mano delle Farc; la marcia si è fatta nella
settimana santa ed è terminata con una eucaristia la domenica di Resurrezione nel parco
dell’eccidio.

L’altra marcia, che aveva per nome "Convivenza senza violenza", si è
realizzata dal 14 al 18 maggio, partendo da Santander de Quilichao e terminando a Cali con
una udienza pubblica per protestare contro la violenza che sta colpendo i dipartimenti del
Cauca, Valle e Narino; per richiamare l’attenzione delle autorità sulla situazione
che stanno vivendo le persone di queste regioni; per denunciare di fronte agli organismi
inteazionali le continue violazioni dei diritti umani; per sottolineare
l’indifferenza del governo su questi fatti ed esigere misure di protezione per tutta
la gente che si trova minacciata.

La partecipazione della gente è stata straordinaria. Alla marcia da Santander a Cali
hanno partecipato 40.000 persone: c’erano indigeni, campesinos, gruppi urbani, negri
e tutte le persone che sono state toccate dalla violenza. Hanno accompagnato la marcia
anche alcune suore, sacerdoti e logicamente tutta la nostra équipe missionaria.

A livello internazionale, c’è stato un incontro in Canada tra indigeni e
rappresentanti di varie organizzazioni, non solo colombiane.

Ezequiel Vitonas (ex sindaco di Toribio) ha espresso la posizione politica delle
comunità indigene, difendendo la loro autonomia. Ha messo in risalto come sia il governo
colombiano sia la guerriglia non vogliano che gli indigeni sopravvivano in Colombia con il
loro piano di vita (ovvero i piani di sviluppo da loro elaborati). L’esposizione di
Ezequiel ha attirato le critiche di chi aveva sostenuto che la guerriglia difende gli
interessi dei poveri e quindi anche degli indigeni.

Ezequiel ha ribattuto che gli indigeni sono autonomi e si difendono da soli e non hanno
bisogno della guerriglia. Questo battibecco ha fatto sì che i guerriglieri delle Farc
mettessero in internet (in molte lingue, tra le quali l’italiano), che il CRIC li sta
calunniando, accusandoli di uccidere e minacciare leaders indigeni.

Sempre nell’ambito della marcia internazionale, grazie alla signora Martha
Cardenas della Ong FESCOL, i giorni 7 e 8 giugno a Maria Piendamo e a Toribio ci hanno
visitato il famoso giudice spagnolo Baltazar Garzon, il rappresentante dei diritti umani
dell’Onu Anders Compas, quello della cooperazione spagnola Vicente Selle e altre
personalità dell’ambasciata di Spagna per raccogliere informazioni sui massacri che
si sono avuti in questo periodo. Il giudice Baltazar Garzon, nell’ascoltare le
testimonianze della gente del Naya, ha commentato che questi massacri sono peggiori di
quelli imputati al dittatore cileno Pinochet.

Nella riunione che il giorno 8 si è tenuta nel CECIDIC, la comunità ha nominato tutte
queste personalità come ambasciatori degli indios nei loro posti di responsabilità e
nelle loro nazioni.

Con queste iniziative, si vogliono rivendicare i diritti dei popoli indigeni. Si
capisce con chiarezza che gli indigeni colombiani stanno cercando di costruire una
società civile fondata sul dialogo e non sulla violenza.

ACCOMPAGNAMENTO

In un contesto tanto difficile, l’équipe missionaria sta accompagnando la
popolazione, cercando di illuminare la situazione con la testimonianza di Gesù e del suo
Regno in tempi di conflitto.

Si fanno corsi per i volontari della guardia civica su relazioni umane ed etica. Si
cerca di dare concreto appoggio alle famiglie che sono state colpite dall’uccisione
di qualche loro membro. Con le autorità locali si vanno a cercare le persone sequestrate.
Purtroppo, nella maggioranza dei casi, si ritorna a mani vuote. Però anche questo,
pensiamo, è la dimostrazione che non ci vogliamo rassegnare a perdere gente e a restare
passivi davanti alla situazione.

Rinaldo Cogliati




Corea del Sud: nella periferia di Inch’on (Seul). Accanto alla ferrovia

La piccola storia di una comunità di laici impegnati, che ha scelto di
"stare" con i poveri, in una periferia di città, per crescere insieme, anche
nella fede. L’esempio tenace e contagioso di Agnes, sorretta da missionari della
Consolata.

 

 Sin dagli inizi, la scelta di inserirsi nel quartiere di Man-sok- dong (alla
periferia di Inch’on – Seul) aveva suscitato in me curiosità e speranza. Immersi in
un ambiente emarginato, i missionari della Consolata avevano deciso di vivere con la
gente, con il proposito di condividere le stesse aspirazioni, recando il fermento del
vangelo, senza ricorrere a grandi strutture. In umiltà e solidarietà, si voleva gettare
il seme della Parola con la stessa speranza del seminatore.

Qualche articolo di Missioni Consolata e Amico aveva descritto gli inizi di tale
esperienza. Tra l’altro, si segnalava l’amicizia e la collaborazione con alcuni
giovani volontari del quartiere al servizio di minori.

Poi non ne seppi più nulla fino a poco tempo fa, quando incontrai i nostri missionari
a Seul. Chiesi loro di poter vedere Man-sok-dong e, se possibile, di rivolgere qualche
domanda ai giovani della "Sala di studio accanto alla ferrovia". O, se preferite
in coreano, "Kich’a kil yoph kong-bu pang". Fui accontentato.

Con l’aiuto di padre Luiz Emer, brasiliano, rivolsi alcune domande a Agnes Kim
Chum-mi,

la giovane donna che iniziò un’esperienza oggi punto di riferimento significativo
anche per la chiesa coreana, impegnata tra gli emarginati urbani.

Nel 2000 Agnes vinse pure un premio nazionale di letteratura, dedicata
all’infanzia coreana, prendendo lo spunto dalle tante storie di cui sono protagonisti
e vittime i bambini di Man-sok-dong.

    

Signora Agnes, la "Sala di studio" come sta aiutando i bambini del
quartiere?

A volte sembra che li stiamo aiutando, altre no. Guardando ad alcuni giovani che
conosco dal 1987 e che allora erano bambini, si può notare che sono cresciuti, anche se
continuano ad avere alcuni problemi. Sono giovani onesti, degni di fiducia e, per vari
aspetti, diversi dagli altri.

Molti ritengono che il criterio, per giudicare se li stiamo aiutando realmente, sia
l’"inserimento nella società": trovare un buon lavoro, guadagnare bene. Ma
noi non la pensiamo così. Il nostro obiettivo non è aiutarli ad "aggiustarsi e
adeguarsi" alla società e alla concorrenza, ma di farli vivere secondo i valori
della solidarietà e condivisione.

Quanto al lavoro con i minori, li aiutiamo nelle necessità di base. Terminata la
scuola, invece di andare in strada a giocare o fare i delinquenti, qui possono trovare un
ambiente adatto per studiare, fare i compiti con l’aiuto dei volontari. Pochi di
questi bambini vengono da famiglie "normali", con il padre e la madre uniti.
Allora cerchiamo di dare loro l’affetto che non ricevono in casa.

Ad alcuni diamo pure da mangiare, paghiamo la scuola e il materiale didattico,
compriamo i vestiti. Questo aiuto è necessario e non possiamo fare a meno di darlo, anche
se a volte stiamo male quando abbiamo l’impressione che i bambini e genitori
dipendono troppo da noi. Ci troviamo a sostituire i parenti in molte circostanze: e questo
non sarebbe il nostro ruolo. Perciò non sempre l’aiuto dato è l’ideale,
affinché tutti possano maturare.

Ciò che ci stimola è che i ragazzi, una volta cresciuti, si rendono conto del nostro
ruolo nella loro vita. Anche se, all’inizio, non hanno chiare le motivazioni per cui
noi volontari viviamo qui e ci dedichiamo a loro, poi sentono che si tratta di qualcosa di
diverso e apprezzano molto il nostro modo di vivere.

Lo sviluppo della vostra comunità ha influenzato i giovani di Man-sok-dong?

Dopo i primi cinque anni di presenza, è stato normale che i ragazzi venissero a
chiederci: "Fino a quando rimarrete qui?". Avevano paura che noi ce ne andassimo
e loro rimanessero privi di gente di cui fidarsi. Ma hanno visto che i volontari e le
volontarie si sposavano tra di loro, avevano dei figli e non "andavano e
venivano" come nei primi tempi, ma si stabilivano nel quartiere per condividere da
vicino la loro vita. Questo ha trasmesso sicurezza e la paura che la Sala di studio
finisse da un giorno all’altro è scomparsa.

Così non ci è più stata rivolta quella domanda.

Come si comportano i più piccoli?

Se con i ragazzi più grandi constatiamo che stanno ricevendo e "digerendo"
molte cose, con i piccoli la situazione è più problematica, perché è legata ai…
genitori. I bambini con cui abbiamo iniziato a lavorare provenivano da famiglie di
contadini, con genitori dai rapporti stabili che, pur poveri, si sacrificavano per i
figli. Ci riunivamo insieme e potevamo contare sul loro apporto per il bene dei figli.

Invece i genitori dei bambini che seguiamo ora sono cresciuti a Man-sok-dong, a non
molti chilometri da Seul (11 milioni di abitanti): i padri sono disoccupati e le madri non
mostrano grande interesse per i figli; entrambi facilmente abbandonano la famiglia.

 

Quali scelte pensate di fare per il futuro delle famiglie nella comunità dei
volontari?

Spesso la gente ci dice: "Vivere in comunità, semplicemente e poveramente, è una
scelta vostra; ma è giusto proporla anche ai vostri figli?".

Di una cosa posso parlare con certezza: le mie due figlie, come anche i figli degli
altri volontari, stanno crescendo secondo valori diversi da quelli della società odiea.
Saltano, giocano, piangono come tutti gli altri bambini; però, quando vanno in altri
ambienti (per esempio all’asilo o a scuola), le prime persone a cui si avvicinano e
di cui diventano amici sono i coetanei più sporchi o mal vestiti. Mia figlia maggiore, a
10 anni, sa già fare le sue scelte: pur avendo la possibilità di ricevere lezioni
speciali di arte nella sua scuola e dimostrando molto interesse in questo campo, è
l’unica a non approfittae, perché "gli altri compagni della comunità non
hanno le stesse opportunità".

Certamente per i nostri figli non è facile questo stile di vita, ma stanno imparando.

  Avete qualche altro "sogno nel cassetto"?

Stiamo pensando di iniziare una nuova esperienza: il lavoro "contadino".

La nostra comunità non deve solo vivere insieme e condividere, ma offrire anche
un’alternativa ad altre persone. Non si tratta di essere migliori degli altri, ma il
centro che intendiamo organizzare in campagna dovrebbe diventare "il segno della
trasformazione" che la Sala di studio sta assumendo. Così chi lo desidera e se ne
sente attratto potrà farvi parte. In città l’unico modo per sopravvivere è il
lavoro in fabbrica; in campagna, invece, saremo noi stessi in grado di produrre ciò che
consumiamo. Ma abbiamo ancora molte paure. Tuttavia questo è il nostro sogno: una
comunità aperta, non troppo grande.

Desideriamo andare in campagna, non solo per produrre il necessario e vivere
tranquilli, ma anche per aiutare meglio i bambini della città. I ragazzi (piccoli e
grandi) della Sala di studio, a causa della malnutrizione, l’abbandono e la mancanza
di un sereno ambiente familiare, hanno un livello di apprendimento che non supera il 30%.
Molti di loro, da adulti, seguiranno la strada dei genitori disoccupati, con nessuna
prospettiva di vita dignitosa.

La capacità intellettuale della stragrande maggioranza dei nostri ragazzi è stata
seriamente pregiudicata. Ma possono fare bene il lavoro manuale: lavorare il legno, ad
esempio; un’attività in cui sono maestri e che a loro piace… Osservando
realisticamente i bambini di Man-sok-dong, sappiamo che ben pochi riusciranno a terminare
le scuole superiori; per cui è necessario offrire loro un mestiere, evitando che vivano
come i genitori.

  Qual è stato il ruolo della fede nella tua vita e in quella della
comunità?

Ciò che mi ha spinto a chiedere di essere battezzata nella chiesa cattolica è stata
la testimonianza di un sacerdote, impegnato nella pastorale del lavoro, quando ero operaia
negli anni ’80. In seguito, allorché mi sono stabilita qui per fare qualcosa in
favore dei bambini, la fede è diventata fondamentale per me.

Ci sono stati momenti difficili, anche con i volontari della nostra comunità. La
situazione si è aggravata quando mi sono innamorata di mio marito, anch’egli membro
del gruppo da circa un anno. Ad alcuni non piaceva il nostro rapporto. Ed io, per la prima
volta in vita, pensai di fare qualche "sciocchezza", tanta era la sofferenza,
perché mi sentivo sola, abbandonata. È stato allora che ho incominciato a sentire più
forte la presenza di Gesù.

Ricordo pure che, all’inizio dell’esperienza, i volontari nel quartiere, se
ne andavano via tutti dopo poco tempo. In seguito, con l’arrivo di nuove persone,
abbiamo compiuto i primi passi come comunità.

Ma solo io ero cattolica e c’era un netto rigetto negli altri verso tutto ciò che
sapesse di religione. Ho tentato più volte di introdurre la lettura della bibbia nei
nostri incontri; ma gli uomini, soprattutto, hanno minacciato di abbandonare le riunioni
se l’avessi fatto.

  Quando hai conosciuto i missionari della Consolata?

È stato proprio in quel momento di tensione, quando i missionari della Consolata sono
venuti a vivere a Man-sok-dong. Per andare avanti, io continuavo a trovare forza nella
fede: era la base della mia vita.

Il significativo mutamento, dopo l’arrivo dei missionari, è incominciato quando
gli uomini della comunità hanno capito: è scomparsa a poco a poco l’avversione per
la religione e ci si è resi conto dell’importanza della fede, sia nella vita
personale che comunitaria. Con tale apertura molti, anche i volontari più giovani, hanno
mostrato interesse per la figura di Gesù Cristo e hanno iniziato a frequentare la
catechesi.

Così la crescita della comunità è stata grande e si è tradotta in un impegno
maturo. La fede in Gesù resta il fulcro, attorno a cui la comunità agisce.

   

Il futuro di Agnes e del marito Bartimeo, quello delle loro due figlie e della
comunità rimane aperto a nuove scelte, ma nella fedeltà ai valori di povertà,
solidarietà, condivisione e alla luce della parola del Signore. Il discernimento li ha
portati a rifiutare allettanti proposte (venute anche dalla pubblica amministrazione), per
scegliere i minori in difficoltà.

Qualcuno ha suggerito di espandersi e moltiplicare l’esperienza altrove; ma ad
Agnes e compagni è sembrato meglio, per ora, continuare il cammino secondo le intuizioni
e lo spirito che sentono propri. "È importante che pure altri trovino il loro modo
di scegliere il servizio tra gli emarginati e crescere insieme" ha commentato Agnes.

La comunità è attualmente composta da una quarantina di giovani, in maggioranza
sposati, residenti a Man-sok- dong.

Giano Benedetti




BAMBINI SCHIAVI: infanzia negata e segni di cambiamento. L’ARCOBALENO SPEZZATO

La nave
africana, carica di piccoli destinati alle piantagioni spinge ad alcune
riflessioni: non solo sul lavoro minorile, ma anche su cammini
possibili,per opporsi a questa situazione. Insieme a Claudia, Daniela,
Arturo, Feliciano… per gridare insieme: «Un altro mondo è possibile!».

La vicenda
dell’«Etireno» (la nave carica di piccoli schiavi apparsa e scomparsa
tempo fa sulle coste africane) ha riportato alla ribalta della cronaca la
drammatica situazione dell’infanzia «negata» nel mondo.

I mass
media – è vero – ci bombardano di statistiche, dati e analisi, ma non si
sente la voce dei protagonisti, dei 250 milioni di baby lavoratori.

Si pensa
ad una merce «particolare»: ragazzini imbarcati per essere venduti come
manodopera. Chi conosce il Sud del mondo sa che è cosa normale per ragazzi
e ragazze dai 12-13 anni lavorare: impiegati nella cosiddetta «economia
informale». Per le ragazze, questo significa di solito fare le domestiche
o le venditrici; per i ragazzi finire a lavorare nelle piantagioni di
cacao, caffè o altre produzioni da export dell’Africa occidentale, non
certo a paga sindacale.

I
rappresentanti dei ragazzi lavoratori africani provenienti da Benin, Costa
d’Avorio, Mali, Senegal e Togo si sono incontrati a Bamako (Mali) nel
novembre 2000, con il sostegno di Enda (la maggiore organizzazione non
governativa dell’Africa francofona) e hanno sottolineato il contesto in
cui può avvenire il traffico di giovanissimi, fuori dalle mitologie sui
«bambini schiavi»: un contesto regionale di migrazioni transfrontaliere di
ogni tipo, in particolare per attività di commercio, spesso assimilabili
alla frode, al contrabbando e altri traffici.

La
povertà, l’insufficienza alimentare, la mancanza di soldi o il costo
troppo elevato per mettere a scuola un bambino (quando la scuola esiste),
un certo sentimento di miseria e abbandono… spingono alla fuga in città.

Compagni
di questi ragazzi lavoratori africani sono i movimenti Nats («Niños
adolescentes trabajadores»), organizzazioni interamente autogestite da
bambini e adolescenti lavoratori, nate nel Perù degli anni ’70 e diffuse,
poi, a tutta l’America Latina ispanofona (ultimamente anche all’India).

Proprio
rivolgendosi ad Alejandro Toledo (dallo scorso 3 giugno presidente del
Perú, figlio di una povera famiglia e per questo a 10 anni già lavorava
come lustrascarpe), i rappresentanti del «Movimento nazionale dei bambini
e ragazzi lavoratori» organizzati del Perù (rappresentanti di ben 12 mila
ragazzi/e), gli hanno rivolto una «lettera aperta»: in essa difendono il
proprio diritto a lavorare in condizioni degne, a poter usufruire di
un’adeguata istruzione ed assistenza sanitaria.

Sul tema
della povertà, i ragazzi chiedono un nuovo piano di azione a livello
nazionale che tuteli gli interessi dell’infanzia e unisca alla lotta
contro la miseria quella per l’eliminazione di ogni forma di sfruttamento
del lavoro minorile. Particolare attenzione viene, inoltre, richiesta alle
esigenze dei bambini delle aree rurali e comunità indigene.

La
«lettera aperta» è stata diffusa da Fabio Cattaneo, presidente
dell’Associazione Italia-Nats (che raccoglie 14 associazioni,
Organizzazioni non governative e Botteghe del commercio equo italiane,
collegate in rete per far sentire la  voce dei bambini di tutto il mondo)
ad un convegno dal titolo: «L’arcobaleno spezzato: dall’infanzia negata
nasce il cambiamento».

In quell’occasione
Maria Teresa Tagliaventi (esperta di lavoro minorile e componente
dell’Associazione Nats) ha sottolineato che «i movimenti Nats hanno la
peculiarità di lottare contro ogni forma di sfruttamento economico dei
minori, pur essendo contrari ad una abolizione del lavoro infantile che
sia globale e aprioristica. I Nats adottano, infatti, l’approccio della
cosiddetta valorizzazione critica, secondo cui il lavoro, quando è svolto
mediante opportune modalità, può essere un mezzo di sviluppo e crescita
del soggetto, anche se si tratta di un bambino.

L’azione
di questi movimenti è incentrata sul miglioramento delle condizioni di
lavoro e l’eliminazione di tutte le  altre forme di sfruttamento economico
del bambino.

È questo
un approccio non convenzionale, che purtroppo, deve fare i conti con
l’ostracismo l’avversione di tutte le principali istituzioni
transnazionali, ministeriali e sindacali.

I Nats
dimostrano con la loro esperienza che il lavoro non serve solo per
sopravvivere materialmente, ma ha anche una valenza sociale nel favorire
lo sviluppo integrale della persona, nello stimolare i rapporti
interpersonali e nel creare identità, cittadinanza e protagonismo; può
quindi diventare strumento di cambiamento delle stesse realtà di
ingiustizia sociale che lo generano.

 

In qualità
di educatore e cittadino solidale, che ha condiviso il cammino con
ragazzi/e a «rischio d’esclusione» a Palermo (i picciriddi scannazzati),
con meninos de rua in Brasile, con ragazzi/e lustrascarpe in Ecuador,
testimonio l’importanza di riconoscere e valorizzare il loro protagonismo
di autogestione, cittadinanza attiva e mutamento dal basso.

Sono
piccoli costruttori di speranza in un mondo impoverito da un’economia, che
accentra nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone la
ricchezza e che esclude masse sempre più grandi dalla possibilità di una
vita umana e dignitosa.

«In una
società che mette al centro il profitto e l’avere, anche noi bambine/i e
ragazze/i diventiamo oggetti e cose sacrificate all’efficienza e alla
competitività del sistema e soffriamo per la fame; siamo sfruttati nel
lavoro precoce. I nostri corpi sono usati e consumati nella prostituzione,
per soddisfare gli adulti. Siamo coinvolti nel traffico e nel consumo di
droga e nelle guerre degli adulti; reclutati come bambini soldato per far
esplodere campi minati; decimati dagli squadroni della morte, siamo
vittime di violenze  persino nel seno delle nostre famiglie» (tratto dalla
«Lettera dei ragazzi/e del mondo», provenienti da Brasile, Ecuador,
Guatemala, Perú, Cameroun, rivolta all’Onu dei popoli radunati ad Assisi
nell’ottobre 1997).

Questo
grido di denuncia è stato lanciato anche durante la carovana «Grido della
speranza» di un anno fa, dove per un mese ho accompagnato 30 ex meninos de
rua che hanno percorso le strade d’Italia per offrire uno spettacolo di
arte e cultura brasiliana, capace di esprimere la forza della frateità:
un’alternativa di cambiamento, che nasce dall’universo dell’infanzia
negata.

Dopo 500
anni, le caravelle approdate in America Latina sono ritornate indietro con
un messaggio di pace e giustizia per risvegliare la vecchia Europa. I
ragazzi invitano i coetanei italiani a partecipare al Giubileo al rovescio
«Pachacutik» (in lingua quechua, «inversione di rotta»), svoltosi nel
gennaio scorso a Rio de Janeiro (nella frontiera della Baixada Fluminense,
dove padre Renato Chiera lotta contro gli squadroni della morte per
difendere i meninos de rua).


Organizzato dall’Associazione internazionale «Noi Ragazzi del mondo», vi
hanno preso parte 134 ragazzi/e, lavoratori nel microcosmo della strada,
provenienti da Ecuador, Perù, Brasile, Guatemala e Italia.

Ricordo
l’ultimo giorno dell’anno a Rio de Janeiro. Ci immergiamo in una folla di
2 milioni di brasiliani, che stanno aspettando il 2001 lungo le spiagge
di  Copacabana. Questo formicaio umano sembra resistere alla furia di un
uragano di pioggia e freddo, davvero anomalo a queste latitudini.

Mi
avventuro tra questi «gironi danteschi», protetti da grattacieli: con la
loro maestosità e ricchezza, vorrebbero costruire un altro muro di Berlino
per difendersi dalla miseria e dalla violenza delle favelas.

Sono in
compagnia di Claudia, «passionaria» ecuadoriana di 28 anni (la mia età),
che accoglie 40 bambini di strada nella Sierra andina; Daniela, un’ex baby
prostituta carioca di 16 anni, «affamata» di carezze; Arturo, intelligente
piccolo lavoratore quattordicenne di Lima e militante nei Nats, che ci ha
raccontato come stanno lottando in Perù contro il debito estero; Marcelino,
un ex ragazzo di strada, sopravvissuto agli squadroni della morte e ora
ottimo animatore di «minori a rischio d’esclusione», che imparano a
gestire i conflitti, scoprire la pace in un Guatemala segnato da oltre 30
anni di guerra civile; Anita, adolescente india dell’etnia quechua che, 5
anni fa, spacciava droga e ora, a 16 anni, fa da mamma ai bambini
abbandonati accolti nella casa famiglia «Cristo de la calle»; Jussara,
«pantera nera» di 29 anni e fiera di essere afrodiscendente, che, pur
provenendo da un quartiere povero, si è laureata e sta aiutando la sua
comunità nell’educazione popolare.

Con
Claudia, Daniela, Arturo, Feliciano, Anita e Jussara formiamo una banda di
pazzi, innamorati della vita, malgrado tutto. Ci stringiamo forte le mani,
ci abbracciamo stretti per riscaldarci col calore dei corpi, con l’energia
della nostra anima. Con la forza della nostra nudità di «piccoli della
terra», ci opponiamo ad un uragano ben più violento e oppressore: il
neoliberismo.

Non
brindiamo con champagne, ma condividiamo i sogni che abbiamo espresso a
madre natura, al Signore della vita.

È una
passione che continua ad accendermi come un fuoco d’utopie inarrestabili:
il piccolo Davide continua a lanciare pietruzze contro il gigante Golia; è
la strategia lillipuziana dei piccoli passi, per indignarci di fronte alle
ingiustizie e costruire un’alternativa all’economia che idolatra il
profitto e mercifica perfino i sentimenti e le relazioni umane.

Anche noi
gridiamo: «Un altro mondo è possibile!». L’abbiamo fatto insieme ai 10
mila partecipanti al Forum sociale mondiale di Porto Alegre e lo faremo in
luglio al G8 di Genova. È la speranza del cammino di coscientizzazione,
liberazione e protagonismo dei ragazzi/e lavoratori nel microcosmo della
strada. Una speranza che non muore.

(*)
Cristiano Morsolin è un educatore che ha lavorato con i ragazzi di strada
di Palermo, del Brasile e dell’Ecuador. Fa parte della Comunità
internazionale di Capodarco (AP).

Cristiano Morsolin




SAN PEDRO (COSTA D’AVORIO): una missione quasi agli inizi. POVERTA’ E FRATERNITA’

Presenti in Costa d’Avorio da pochi anni, i
missionari della Consolata si sono buttati nella nuova impresa con slancio
ed entusiasmo. Anche se le difficoltà sono sempre in agguato e la strada
per superarle è zeppa di imprevisti…

Ma, quando
si arriva nella bidonville di Bardot, nella periferia di San Pedro (il
secondo porto della Costa d’Avorio), ci si rende conto immediatamente che
qui la povertà è, prima di tutto, miseria materiale, mancanza delle cose
più essenziali per vivere, anche se la popolazione ha spesso il senso
dell’umorismo, è intelligente e, soprattutto, è ricca di ospitalità e
sorrisi.

Io non ho
mai vissuto in una bidonville e mi chiedevo quali fossero i bisogni di chi
vive qui, in periferia. Allora ho chiesto a padre Armando Olaya,
missionario della Consolata colombiano, di organizzarmi un incontro con
qualche leader della parrocchia, proprio nel bel mezzo delle casupole e
capanne di Bardot.

Ho posto
due semplici domande: quali fossero i loro bisogni più urgenti e come la
comunità tentasse di rispondervi.

Salute,
prima di tutto

Nel
quartiere di 50-60 mila persone vi sono parecchie cliniche private e,
nella città di San Pedro, anche un ospedale pubblico. Il problema però è
che, in clinica o nel pubblico ospedale, qualsiasi cura è troppo cara per
le possibilità della gente di Bardot. «Le cliniche private possono
iniziare l’attività con una autorizzazione governativa e la maggior parte
di esse cura soltanto piccoli malesseri, piccole ferite» – spiega
Feando.

Qui
bisogna pagare non solo il medico e il suo infermiere, ma anche le
medicine e tutto il materiale che si usa. Ancora prima di essere visitati
da un medico di un ospedale pubblico, bisogna anticipare la somma di 1.000
franchi. Spesso occorre aggiungervi anche una mancia per l’infermiere o il
medico, altrimenti si rischia di aspettare giorni e giorni. Poi bisogna
pagare tutte le prescrizioni.

Claudio,
un professore, racconta che la settimana precedente era stato all’ospedale
con una delle sue sorelle, in preda ad una forte crisi di malaria: in soli
due giorni, le ricette gli sono costate ben 25 mila franchi. In seguito la
sorella è stata ricoverata in una sala comune e lì ha dovuto sborsare 5
mila franchi al giorno_ ma solo per il letto, perché la famiglia ha dovuto
procurare all’ammalata il cibo quotidiano.

Mi
permetto di notare: «Ma, almeno, ricevono tutte le cure?». Bonifacio
aggiunge il suo granello di sale: «Non tutte, perché, per alcuni test e
analisi, i campioni devono essere mandati ad Abidjan, la capitale, a 500
km da qui».

Cosa
potrebbe fare, allora, la comunità di Bardot per superare questa difficile
situazione sanitaria? Tutti sono d’accordo che non ci sono
soluzioni-miracolo. Senza dubbio la strada migliore sarebbe un dispensario
gestito dai missionari, che prestasse le cure ad un prezzo minimo.
Feando aggiunge che, nella parrocchia vicina, le suore hanno un
dispensario e, dal momento che ricevono le medicine dall’Europa, i costi
sono meno elevati. Un altro aggiunge che ad Abidjan ci sono dei grossisti
e vi si possono acquistare farmaci a prezzi accessibili.

«Ma allora
– chiedo io – perché non lo fate questo dispensario?». La risposta (dopo
una risata generale) è che mancano i mezzi. Mi dicono che le offerte in
chiesa, la domenica, non arrivano a 15 mila franchi: il che non basta
nemmeno a pagare il cibo dei due preti della parrocchia.

Nel
quartiere di Bardot, poi, sono molto rari coloro che possono usufruire di
una retribuzione fissa, adeguata e… sicura. La maggior parte ha un
salario minimo e lavora soltanto qualche mese l’anno.

Scuole, tasse
e… prestiti!

Il secondo
ambito dove i bisogni sono più urgenti è quello dell’educazione. Per i
15-20 mila ragazzi di Bardot c’è una sola scuola pubblica e cinque
private. Alla scuola pubblica non è raro vedere 70-80 alunni nella stessa
classe.

Il
presidente del consiglio parrocchiale ha otto figli e mi spiega che spesso
i genitori iscrivono i loro figli e cominciano a pagare le tasse
scolastiche; ma, dopo tre o quattro mesi, il ragazzo viene allontanato
dalla scuola semplicemente perché i parenti non ce la fanno più a pagare.
Tra le spese scolastiche e la pentola di riso, si preferisce il riso!

Ciò vale
soprattutto per le scuole private, poiché in quelle pubbliche (almeno
teoricamente) non dovrebbero esserci spese scolastiche.

È un altro
papà a spiegarmi come nelle scuole pubbliche ci siano le famose
«collette»: se la scuola deve acquistare dei nuovi banchi, si organizza
una raccolta tra i genitori; se la classe necessita di essere ridipinta,
un’altra raccolta; così pure se bisogna acquistare le scope_ Insomma,
qualsiasi acquisto diventa oggetto di raccolta da parte dei parenti. «E
poi – aggiunge un altro – bisogna mettere in conto anche le mance!».

Se è vero
che la scuola cattolica è stata costruita per gli alunni cattolici, non è
normale che i genitori non possano mandarvi i loro figli, a causa delle
spese troppo elevate! Il direttore, interpellato, mi ha risposto che le
tasse erano alte perché gli alunni erano… pochi! Ma gli alunni sono
pochi, perché le spese sono alte. Un bel circolo vizioso!

Un altro
prende la parola: «Se potessimo diminuire le spese per le foiture
scolastiche, non sarebbe già un buon passo nella giusta direzione? Se la
comunità aprisse una cartoleria_». Ma si porrebbe lo stesso problema: la
comunità cattolica di Bardot non ha capitali disponibili per iniziare tale
progetto.

Arrischio
una soluzione «audace»: perché non si tenta un prestito delle banche? La
risposta mi arriva dal solito presidente: «Le banche prestano soltanto
alle persone sicure e che possono pagare; ma gli abitanti della bidonville
di Bardot non lo sono!».

Un
insegnante spiega allora che esiste un programma della «Banca africana per
lo sviluppo»: libri agli studenti, con una cauzione all’inizio dell’anno;
se tornano in buono stato, la cauzione viene rimborsata. Ma questo non
vale per le ragazze!

C’è poi il
problema delle campagne. Qui le scuole non esistono affatto e i ragazzzi,
per studiare, devono andare in città. «Sovente – spiega un giovane papà –
i giovani vivono in condizioni spaventevoli: si trovano un “tutore”
(spesso un parente), che li sfrutta e non solo finanziariamente; per
questo sarebbe utile che la comunità aprisse un foyer, una specie di
pensionato per accogliere i giovani che provengono dalle campagne».

Non
mancano le idee

Così, in
quasi tutte le soluzioni prospettate dalla popolazione, ciò che manca alla
comunità di Bardot è il capitale per realizzare le iniziative. Ma perché
non istituiscono una cornoperativa, una specie di cassa popolare? Uno, che
finora non si era espresso, prende la parola: «Sì, ma nel villaggio di…
il responsabile ha preso la fuga con tutti i soldi dei contadini!».

La
principale obiezione rimane, tuttavia, il fatto che i cattolici di Bardot
sono in numero limitato, probabilmente troppo pochi per costituire una
cornoperativa che renda.

Un giovane
professore interviene decisamente: «Io penso che ciò che manca alla gente
del nostro quartiere sono le specializzazioni. Se non trovano lavoro, è
perché sono manovali da impiegare con il salario minimo e che si
licenziano quando termina il lavoro. Ciò di cui abbiamo bisogno è un
centro di formazione professionale».

Subito due
o tre aggiungono: «È vero: con una formazione intensiva si potrebbero
preparare tecnici in avicoltura in sei mesi. Abbiamo professori
disponibili, ma manca l’equipaggiamento». E un altro commenta: «Da San
Pedro esportiamo legname in tutto il mondo, eppure non abbiamo falegnami,
né carpentieri!».

Tutti sono
d’accordo: c’è bisogno di un centro di formazione professionale. Ma dove
trovare il capitale per comperare l’equipaggiamento e un luogo dove dare
questi corsi?

Conclude
tristemente il presidente: «Vedi, padre Jean (il sottoscritto): abbiamo
molte idee; ma siamo sempre bloccati dalle finanze».

Nella mia
piccola testa ronza, insistente, un’idea: le comunità ricche d’America e
Europa non potrebbero, anch’esse, diventare più fratee e solidali con
gli amici della Costa d’Avorio?

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GLI INIZI

Quando il
vescovo Barthelemy accolse i missionari della Consolata nella sua diocesi,
sognava una magnifica cattedrale, costruita proprio da loro. Il «figlio»,
però, ha deluso le  attese del «genitore».

In questa
loro ultima «impresa» del XX secolo, i missionari della Consolata hanno
voluto, dall’inizio, incamminarsi su sentirneri nuovi, utilizzare metodi
diversi, senza ripetere quelli che molti considerano errori del passato.
Tra l’altro sovente, in Africa, si rimprovera ai missionari di aver
costruito tanti e splendidi edifici, che le chiese locali, però, non sono
capaci di curare e portare avanti.

Così
monsignor Barthelemy è un vescovo senza cattedrale.

Lo spirito
di famiglia è una delle caratteristiche dei missionari della Consolata. Ma
in una comunità dove le generazioni si susseguono rapidamente e
l’inteazionalità mette insieme missionari di differenti culture, non è
sempre facile andare d’accordo.

Nel primo
gruppo di missionari giunti in Costa d’Avorio, vi erano due spagnoli e un
colombiano, un giovane e due già in età matura. L’intesa non è stata
facile: né sullo stile di vita e neppure sui metodi di apostolato. Ma gli
stessi missionari confessano che è proprio nella sofferenza che sono
maturati insieme. E i frutti cominciano a vedersi.

Nella
nuova missione di Sago tutto era da costruire. Siccome nessun missionario
era esperto di edilizia, i superiori inviarono da Roma un fratello
costruttore per i primi edifici. All’inizio del 1998, fratel Pietro
Menegon venne mandato in Costa d’Avorio.

Ma un
imprevisto era in agguato: fratel Pietro, con i suoi 64 anni, avrebbe
resistito ad un clima caldo e umido come quello della costa ivoriana? Dopo
qualche mese, la sua salute cominciò a creare problemi: crisi di malaria
una dopo l’altra. Il fratello fu costretto (ahimé!) a rientrare in Italia.

Però,
nonostante tutte le difficoltà, la missione in Costa d’Avorio non si è
fermata. I padri presenti non si sono scoraggiati. Anzi, il gruppo è
aumentato. E un nuovo centro è stato aperto a Grand-Béréby.


L’evangelizzazione continua più viva che mai.

Jean Paré




BETANIA (COLOMBIA): unico statunitense nella zona smilitarizata. UNO «YANKEE» NEL REGNO DELLE FARC

Per i
guerriglieri è uno yankee: lo tengono d’occhio, ma lo rispettano. Per la
gente è il gigante buono, che rischia la vita accanto agli emarginati,
nella cosiddetta zona smilitarizzata, controllata da guerriglia e
narcotraffico. È padre Van Allen Hager, missionario della Consolata, nato
a Buffalo (Usa) 57 anni fa: alto 1,86, guarda i pericoli dall’alto in
basso, ma con gli occhi fissi al cielo.

Il
gracchiare di un altoparlante rompe il sonnolento pomeriggio di Betania,
uno sperduto paese in riva al fiume Caguán, mentre un gruppo di uomini
puntano scommesse su un’accalorata partita a domino. Poi la voce
fortemente accentata di padre Van Allen Hager, unico cittadino
statunitense presente nella regione controllata dalla guerriglia nel sud
della Colombia, lancia importanti messaggi in spagnolo: è evidente che non
è la lingua imparata da sua madre. «Signore, per amore della mia vita; non
riesco a capire una parola di quanto dice» lamenta uno dei giocatori,
levando le palme al cielo con comica espressione.

ZONA A
RISCHIO

Dopo
cinque anni di lavoro in quest’area maledettamente violenta, dove ci sono
tante anime da salvare e cuori feriti da guarire, padre Hager confessa che
deve mettercela tutta per essere all’altezza del suo lavoro missionario.
Betania, la sua parrocchia, si trova nell’estremo lembo meridionale della
cosiddetta «zona smilitarizzata», un territorio grande come la Svizzera,
che il presidente Andrés Pastrana ha ceduto alle Forze armate
rivoluzionarie della Colombia (Farc) alla fine del 1998. Il paese, famoso
per la sua storia di violenza, è generalmente considerato insicuro perfino
per i più coraggiosi colombiani; immaginarsi per un solitario americano.

Non è
facile, confessa il missionario, occupare un posto in prima linea tanto
eccezionale, a causa del caos creato da guerra e narcotraffico: una
situazione che ha posto la nazione colombiana tra le priorità della
politica estera di Washington in America Latina. Padre Hager è convinto
che i guerriglieri si fidino di lui; ma intanto continuano a tenere
strettamente d’occhio i suoi movimenti. «Sono certo che sanno dove vado e
con chi parlo» dice il 57enne missionario.

Il suo
lavoro è diventato più difficile, e forse più pericoloso, da quando gli
Stati Uniti hanno varato il controverso «plan Colombia»: si tratta dello
stanziamento di 1,3 miliardi di dollari (quasi 5 mila miliardi di lire), 
destinati soprattutto alla famigerata fumigazione delle coltivazioni di
coca, con la conseguente distruzione della produzione agricola
circostante. In questo modo si pensa di colpire le Farc e altri gruppi
ribelli che traggono profitto dal commercio della droga, esigendo
un’imposta sia dai coltivatori di coca che dai narcotrafficanti.

Le Farc,
tradizionalmente nemiche dell’«imperialismo yankee», hanno dichiarato
«obiettivi militari» tutti i consiglieri nordamericani presenti in
Colombia e sono responsabili dell’assassinio di tre indigenisti
statunitensi nel 1999.

Nei raduni
settimanali convocati dai ribelli, la cui partecipazione è obbligatoria,
«essi fanno sempre riferimenti a ciò che i nordamericani stanno facendo
nel paese – continua il missionario -. Dicono che siamo responsabili di
tutto ciò che di sbagliato accade in Colombia. Siamo sempre colpevoli.
Qualsiasi cosa facciamo è sbagliata».

«Ho paura
per la sua vita» dice uno dei giocatori di domino che, come gli altri
paesani, rifiuta di dare il proprio nome, per timore di rappresaglie da
parte dei guerriglieri: questi pattugliano il paese, ma non se ne trova
uno disponibile a fornire una parola di commento.

Tutti i
ribelli sanno della presenza del missionario. D’altronde sarebbe
impossibile non dare nell’occhio: 1 metro e 86 di statura, capelli
d’argento, talare bianca, zaino verde e sbrindellato, è inconfondibile
quando si sposta da un villaggio all’altro, per visitare le 15 comunità
della parrocchia. Ed è sempre in viaggio. Alcune comunità sono
raggiungibili solo per via fluviale, altre richiedono fino a otto ore a
dorso di mulo, sotto il sole implacabile, per sentirneri fangosi e
pericolosi attraverso la giungla tropicale.

Eppure «i
guerriglieri non hanno mai messo in discussione la mia presenza e i miei
viaggi in questa zona – aggiunge il padre -. Posso dire onestamente che mi
è sempre stato riservato un trattamento preferenziale». Esempio tipico di
tale trattamento lo sperimenta nei posti di blocco: i ribelli rinunciano
alle lunghe perquisizioni e interrogatori a cui sono sottoposti tutti gli
altri.

NON SCUOTERE
LA BARCA

La vita
nella zona controllata dalle Farc è un esercizio di attento riserbo e
autocensura, racconta il padre. I capi ribelli hanno proibito di usare
nelle omelie la parola «sequestro». I frequenti rapimenti di uomini, donne
e bambini e relativi riscatti sono giustificabili conseguenze della
guerra, dicono loro e insistono perché si parli invece di «prigionieri».

A chi non
frena la lingua arrivano minacce di morte. È capitato anche a un
missionario di San Vicente del Caguán, capitale della zona smilitarizzata
e controllata dalle Farc: i superiori lo hanno trasferito in un’altra
diocesi, dopo che i ribelli avevano inserito il suo nome nella lista nera.

Alcuni
mesi fa, mons. Romulo Emiliani, vescovo di Darien, in Panama, ha ricevuto
minacce di morte per le critiche contro le incursioni oltre confine dei
ribelli colombiani. A cinque missionari protestanti americani, della
regione sud-orientale del Panama, è capitato di peggio: sequestrati nel
1992, due furono uccisi, dopo essere stati rapiti dalle Farc; degli altri
tre non si sa più nulla; si sospetta che anche questi siano stati portati
in territorio colombiano.

Perché non
capitino cose del genere ai missionari che lavorano nelle sette parrocchie
comprese nella zona smilitarizzata, il vescovo di San Vicente, Francisco
Xavier Munera, ha tracciato l’anno scorso una nuova politica,
raccomandando estrema cautela in ogni dichiarazione pubblica: «Sostieni la
gente meglio che puoi; ma non schierarti politicamente da nessuna parte –
dice padre Hager, citando le nuove norme -. Non scuotere la barca e cerca
di essere neutrale in ogni situazione».

Ma per un
uomo come padre Hager, con alle spalle una reputazione di franchezza e
attivismo radicale, non è semplice osservare tali regole. Negli Stati
Uniti, alcuni anni fa, venne alla ribalta dei mass media nazionali per la
sua partecipazione alla crociata contro l’aborto: guidò veglie di
preghiera e assedi alle cliniche abortiste in varie parti del paese. Un
giorno, in un alterco con il personale di una clinica, asperse gli
impiegati con l’acqua benedetta; uno di essi minacciò di fare causa alla
sua congregazione religiosa, i missionari della Consolata. Il superiore lo
invitò a spostarsi nel sud della Colombia, sperando che si desse una
calmata.

Sorride il
missionario mentre rievoca tali avventure. E aggiunge: «Data la mia
storia, la tentazione di non seguire le nuove direttive è molto forte: mi
è duro non essere là fuori a protestare contro gli abusi che mi tocca
vedere ogni giorno, soprattutto le violazioni dei diritti umani di cui
sono testimone». E aggiunge subito che non sono solo le Farc responsabili
di violenze e atrocità; anche i gruppi paramilitari e le truppe
governative sono altrettanto responsabili.


L’esperienza negli Stati Uniti e i pericoli reali che si affrontano in
Colombia «mi hanno insegnato a moderare i bollenti spiriti. Mi considero
ancora molto attivo; ma qui la partita è totalmente differente».

ABUSI E
PERICOLI QUOTIDIANI

Di abusi
da fare perdere le staffe padre Hager ne ha visti tanti, come quelli
contro i bambini di appena 10 anni, costretti dalle Farc a eseguire lavori
pesanti, arruolati in squadre di operai per costruire strade. In gennaio,
due uomini furono uccisi da banditi davanti alla chiesa, mentre stava
celebrando la messa. Dal momento che solo le Farc possono maneggiare armi
nella zona smilitarizzata, si deduce che l’assassino fu opera dei
guerriglieri.

Il sindaco
del paese è stato condannato a un mese di lavoro forzato, perché si era
lamentato delle interferenze dei comandanti delle Farc nella gestione del
comune. «Ci sono troppi capi» dice padre Hager, citando il sindaco; «il
suo crimine è di aver criticato la rivoluzione» aggiunge, citando i
guerriglieri.

Un altro
caso: una catechista fu costretta da un pistolero ad abbandonare la zona
smilitarizzata insieme al marito e ai figli. Arma in pugno, fu minacciata
di morte, senza altra spiegazione. Il fatto è che un locale comandante
delle Farc aveva messo gli occhi sul loro campicello e la famiglia si era
rifiutata di venderlo.

«La gente
non ha alcuna possibilità di godere il più elementare diritto come
cittadini» conclude il padre.

Mentre una
lunga barca a forma di canoa, carica di una dozzina di guerriglieri
armati, mescolati tra i civili, si avvicina all’attracco, padre Hager
riprende: «Ciò che stai vedendo è una flagrante violazione della legge
internazionale. Come pastori, raccomandiamo alla gente di non salire mai
in una imbarcazione dove viaggiano anche combattenti armati. Quando la
barca passa i confini della zona smilitarizzata, pochi chilometri a sud di
Betania, in qualsiasi momento potrebbero esserci scontri con i soldati
dell’esercito o gruppi paramilitari».

Ma i
pericoli che deve affrontare il missionario non sono solo di natura
militare. Negli ultimi due anni, padre Hager ha avuto violenti attacchi di
malaria, tifo e dengue. Mentre visitava alcuni villaggi, ha riportato
ferite alle gambe e alla schiena per una caduta da cavallo. Oltre a tutti
i pericoli in Colombia, egli è stato testimone di massacri ben peggiori,
mentre lavorava come missionario in Etiopia, dal 1973 al ’78, durante la
rivoluzione che detronizzò l’imperatore Hailé Salassié. «In quattro anni,
ho visto 30 mila bambini uccisi e abbandonati sulle strade, perché i
genitori li ritrovassero – racconta -. Sia qui che in Africa, mi sono
trovato in molte situazioni di pericolo; ma me la son cavata sempre». Poi
aggiunge, con un rapido sguardo al cielo: «Lassù qualcuno mi protegge».

(*) Tod
Robberson è un giornalista dell’Associated Press; questo articolo è
apparso su The Dallas Moing News (Usa) del 2 maggio 2001.

Tod Robberson




HAITI: RITI E PERSONE DI UNA FESTA VUDU’. SODO’ LA CASCATA DEI MIRACOLI

REPORTER DI STRADA

Minute sacerdotesse e corpulenti ragazzoni
emigrati a Miami. Donne gravide e contadini. Colorati ministri di riti
misteriosi. Ogni anno a metà luglio un piccolo villaggio nel centro
dell’isola rigurgita di pellegrini. È la festa della beata Vergine del
Carmelo e degli spiriti dell’acqua.

Quel
giorno, a bordo di un potente fuoristrada, cercavo di raggiungere la
località di Sodò nel cuore di Haiti. In creolo, la lingua del paese,
significa «salto d’acqua» e avrei presto capito il significato di quel
nome.

Da
Mirbalais, sul plateau centrale, mi diressi verso ovest. La strada era
diventata poco più che un sentirnero, l’erba ai lati era alta e la
vegetazione intorno lussureggiante: strano per un paese in cui la foresta
tropicale è stata quasi interamente distrutta. Ogni tanto lo sterrato si
faceva pantano e l’automobile rischiava di restare bloccata nel fango.
Guadato un grosso fiume, grazie alle quattro ruote motrici e alla dovuta
rincorsa, arrivai a Ville Bonheur (letteralmente la città della felicità),
il secondo nome di Sodò. È un villaggio sperduto, non troppo grande e
neppure bello, ma occupa un posto centrale nella «spiritualità haitiana».
Con questo termine intendo quella complessa mescolanza di credenze e fede
che fanno, al tempo stesso, sentirsi cristiani e praticanti del vudù (vuduizanti),
in un sincretismo religioso che solo gli haitiani sanno capire.

Il miracolo e il vudù

Siamo a
metà luglio. Sodò è già piena di pellegrini e con essi mercanti, musici e
prostitute. Nella settimana che precede il 16 arrivano da tutto il paese e
anche dall’estero, per partecipare alla festa della Vyèj mirak (Vergine
del miracolo), Nostra signora del Carmelo.

Era il 16
luglio del 1843 quando apparve la Vergine Maria in cima a una palma. Ma la
chiesa locale negò il miracolo e la pianta fu tagliata. La gente del
popolo però incominciò a venire in quel luogo per pregare e chiedere
miracoli. Il curato decise allora di far sradicare il ceppo rimasto e si
dice che in seguito ebbe un incidente in cui perse le gambe. Nel 1881,
sempre il 16 di luglio, ci fu una seconda apparizione e da allora nessuno
cercò più di impedire il pellegrinaggio.

Ma la Vyèj
mirak è anche, nella religione vudù, il loà Erzuli-freda (Ezili), allo
stesso tempo spirito dell’amore e madre. La mitologia vudù è complessa.
Trae le sue origini da alcuni riti africani (radà, petrò, kongò), ma ha
aggiunto nel corso dei secoli ingredienti tipici haitiani ed è in continuo
divenire. I loà del pantheon vudù sono un’eterogenea schiera di divinità e
spiriti o geni. Vi sono quelli superiori, di origine africana,
riconosciuti da tutti, accompagnati da un’infinità di loà creoli, più
recenti e in continua evoluzione. I loà sono il legame tra il visibile e
l’invisibile e possono entrare nel corpo di un individuo per possederlo.
Sono gli intermediari tra Dio e l’uomo e sono capaci del bene e del male.
I fedeli cercano di propiziarseli per ottenere protezione e i favori più
diversi. Sono comunque tutti creati da Gran Mèt (il grande maestro, ovvero
Dio), per venire in aiuto agli uomini e qualcuno li definisce come angeli
un po’ ribelli. Alcuni, più maligni, vengono chiamati diab, diavoli.
Erzuli-freda è uno dei loà principali. Rappresentata come una bella
mulatta, appartiene al gruppo degli spiriti del mare e impersonifica la
bellezza e la grazia femminili. È civetta, sensuale e ama lusso e piacere.

La chiesa
bianca nel centro di Ville Bonheur è straripante di fedeli, che entrano,
pregano ed escono in un flusso continuo. È difficile riuscire a inserirsi.
Ma questi uomini e donne, ancor prima di venire qui sono stati a
purificarsi nel vero posto magico di Sodò: la grande cascata, il salto
d’acqua, poco lontano dal villaggio.

Verso il salto d’acqua

È la
vigilia della festa. Fin dalle prime ore dell’alba un colorato fiume di
gente crea un continuo andirivieni lungo la stradina sterrata che si
inerpica verso lo splendido santuario naturale. I colori forti degli
houngan e delle mambo – preti e sacerdotesse vudù – in smaglianti abiti
blu e rossi, bianchi e blu, verdi si mischiano a quelli dei contadini,
piedi nudi e cappello di paglia e della diaspora (haitiani che vivono
all’estero), con i loro pesanti braccialetti dorati, occhiali scuri e
vestiti americani. Le persone che vengono in pellegrinaggio a Sodò sono di
tutte le classi sociali e si ritrovano nella stessa settimana in questo
splendido angolo di Haiti.

«Bét sur
bét» (bestia su bestia) urla qualcuno per farsi largo nella folla
cavalcando goffamente un asinello. «Veniamo per pregare la Vyèj mirak,
affinché ci dia salute e fortuna negli affari».

Eddy e
Mariette sono una giovane coppia di Port-au-Prince, capitale di Haiti. Lui
è muratore, mentre lei lavora a casa. Hanno pochi vestiti addosso, ma
portano una borsa di plastica con nuovi indumenti. «Butteremo via questi
abiti durante la preghiera, per metterci quelli nuovi» dice Eddy. È una
purificazione che passa anche attraverso gli oggetti. Raoul Deorcely è di
Leogane, una cittadina a sud est della capitale. Dice di aver diciott’anni
ma sembra più giovane. Va alla preghiera per chiedere la possibilità (o il
miracolo) di poter partire all’estero e trovare un buon lavoro: «In questo
modo sarei in grado di aiutare la mia famiglia qui» ci dice.

Vicino,
una giovane donna urla a squarciagola: «Sto chiedendo alla vergine di
avere un bambino! Sono sposata, ma sto ancora aspettando». «Chiederò di
avere gioia e felicità per tutto l’anno» risponde un uomo di mezza età.

Saturazione dei sensi

Lungo la
strada, in alcuni luoghi, per noi casuali, piccole candele colorate sono
accese e piantate nella terra dalla gente in lenta marcia verso la
cascata. Qui si fermano a pregare un momento, legano un cordino colorato,
accendono il loro lumicino. Poi continuano. L’atmosfera spirituale è molto
forte. I nostri sensi sono tutti sollecitati, quasi saturati. Gli odori
sono intensi e i colori vivaci, quasi aggressivi. C’è chi sta in silenzio
con gli occhi chiusi e chi urla allargando le braccia. Come una striscia
di formiche in movimento verso il formicaio, anche noi immersi nel mezzo,
arriviamo nei pressi del luogo sacro.

In un
piccolo spiazzo dove l’erba è più brillante e l’aria si è fatta umida,
troviamo dei piccoli banchetti di legno, ricolmi di strana mercanzia. Sono
i venditori di oggetti sacri, essenziali nei diversi riti. A fianco dei
biscotti espongono candele di cera colorata: rossa, gialla, nera, cordini
blu e rossi o bianchi e rossi. Sono le offerte delle giovani donne a
Erzuli, la vera regina della festa, o agli altri spiriti dell’acqua. Ci
sono poi bottiglie che contengono strani liquidi ed erbe medicinali.
Talvolta immagini di santi e simboli di loà sono incollati come etichetta.
Speciali frasche sono vendute in gran quantità ai pellegrini di passaggio.
In un cantuccio, sopra a un ceppo, ancora candele accese e alcune anziane
mambo intorno.

Il bagno nella fortuna

La
splendida cascata naturale appare all’improvviso in fondo a una stretta
gola. È incoiciata da giganteschi alberi dalle lunghe fronde, in passato
comuni sull’isola caraibica, oggi una rarità.

Tutto è
immerso in un vapore di goccioline minuscole, che ti avvolge e ti bagna
senza che tu possa accorgertene. Un po’ ovunque si formano i colori
dell’arcobaleno quando un raggio spunta dalla sommità della montagna.
L’acqua spumeggia e poi scorre in piccole conche alla base della cascata,
fino a ridiventare un fiume. La gente sembra ora concentrarsi, cercando un
percorso per arrivare sotto i flutti. Uomini, donne, bambini si spogliano
di tutto, o quasi – mentre la gente della diaspora si riconosce dai
variopinti costumi da bagno – si spingono sotto la potenza dell’acqua che
cade da oltre trenta metri di altezza. Pregano, urlano, si lavano uno con
l’altro. Una donna strofina con le frasche il ventre gonfio dell’amica
gravida. Qualcuno cade in trance e si rotola nell’acqua, sulle rocce
muschiose presenti ovunque. È posseduto da uno spirito. Nella cascata
infatti abitano tutti i loa legati all’acqua. Damballah, il potente
dio-serpente associato ora con l’arcobaleno ora al lampo, a lui sono
dedicati alcuni grossi alberi – anch’essi, come è noto, rifugio dei
serpenti – sui quali i fedeli legano le cordicelle colorate, dopo averle
portate ai fianchi, accendono candele sul tronco e pregano. Con lui Aida,
sua moglie, e gli altri spiriti acquatici. Condividono il luogo di culto
con la vergine del Carmelo in un perfetto sincretismo.

Qui i
fedeli cercano il bagno di chance, una sorta di purificazione (lavaggio
dai problemi) ma anche un’immersione di forza spirituale che fortifica
contro i nemici e le avversità della vita. Si può fare a casa o in un
tempio vudù, ma funziona molto meglio in questi particolari luoghi sacri,
residenze dei loà. Si utilizzano erbe, piante e profumi che piacciono allo
spirito e si chiede la sua protezione. Tutto intorno a noi la gente si
lava con piccoli pezzi di sapone che poi abbandona su una roccia.
«Attenzione: non bisogna portarsi a casa il sapone – spiega una mambo –
lasciarlo sotto la cascata vuol dire lasciare tutto ciò che è male e di
cui volete liberarvi. Se un pellegrino non ha il sapone è meglio che si
lavi senza: se ne raccoglie un pezzo rischia di prendersi tutti i problemi
di chi lo ha lasciato lì!».

Per una
vita migliore

«Prendiamo
un po’ d’acqua in un bidone per mia madre – dice Etienne, un bambino
venuto qui dalla capitale con il suo cuginetto – è a casa malata e noi
siamo venuti qui per pregare per lei». Marie-Jò, una giovane donna dell’Artiboinite
(l’unica ampia pianura del paese, zona di contadini e di riso), viene qui
ogni anno e prega la Vergine (o Erzuli) di allontanare da lei tutti i
problemi. «Chiediamo una nuova casa – sostiene Marie-Héléne, con la sua
amica Louise che ha in braccio un bimbo – siamo di Cité Soleil (la più
grande bidonville di Port-au-Prince, ndr) e abbiamo perso la nostra casa.
Abbiamo tre bambini ognuna e i nostri mariti ci hanno lasciate. Cosa
possiamo fare?».

Mentre
qualcuno si sta rotolando nell’acqua, urlando e piangendo, un’anziana
cerca di uscire dalla folla sotto i flutti. Ha un mucchietto di terra
coperto di muschio nella mano sinistra, «La porto a una malata del mio
villaggio. Penso che la aiuterà». Dietro di lei un uomo corpulento ride e
dice in misto creolo-inglese, tipico della diaspora: «Sono di Okap (grande
città del nord, ndr), ma vivo a Miami. Mi piace venire a questa festa ogni
volta che posso». Va via con un grosso stereo portatile sulla spalla.

Tutt’intorno
luoghi di culto, pieni di candele e gente in preghiera. Sotto la cascata
lo spettacolo è impressionante: una massa di persone, quasi nude, assieme
senza distinzione di classe sociale e luogo di origine, ma ognuno con la
sua preghiera o qualcuno solo per divertirsi. E anche noi, che vuduizanti
non siamo, restiamo rapiti da un’atmosfera di sacralità profonda, che
ancora non riusciamo a capire.

Audétte ha
tre figli da tre papà diversi. Fa la commerciante di strada in capitale ed
è partita da Port-au-Prince con due amiche. Hanno affrontato il viaggio
nel cassone di un camion per raggiungere Sodò e pregare la vergine-loà.
«Mamma Vyèj mirak è una donna, conosce il dolore dei bambini e i problemi
delle donne come lei» ci racconta sotto un rovescio.

Alla
cascata cerca una vita migliore. Mentre si bagna elenca tutte le
difficoltà che l’acqua deve portarsi via: malattie, usura, affitto della
baracca, un marito che ha abbandonato i figli, i problemi con i vicini.
Quando ha finito lascia una moneta per lo spirito dell’acqua. Ora il suo
volto è sereno. Pensa che i suoi problemi siano svaniti ed è tornata a
riempirsi di speranza. In un certo senso, il miracolo la Vergine del
Carmelo, Erzuli e i loà acquatici – in una parola la Vyèj mirak – lo hanno
già fatto.

box


Breve vademecum vudù

Vudù (o
vodù): religione sincretica che trae le sue origini dalla spiritualità
africana e si evolve ad Haiti. Da non confondere con il vudù praticato in
paesi come Benin (Dahomey) e Nigeria, da cui si origina, ma si differenzia
per l’evoluzione creola e i legami con i santi cristiani.

Loà: sono
le divinità e gli spiriti del vudù e fanno parte del pantheon vudù. Ne
esistono un’infinità e sono in continua evoluzione. I principali,
riconosciuti da tutti, hanno origini africane; gli altri sono creoli, meno
potenti, ma fondamentali. Gli uomini chiedono ai loà protezione e questi
li «posseggono» durante i riti. I loà sono capaci del bene e del male e
collegano il visibile con l’invisibile. I diab sono gli spiriti cattivi.
Molti loà sono associati a santi cristiani.

Radà,
petrò, kongò e gli altri: i primi due sono i riti principali del vudù
haitiano secondo i quali si classificano i loà. Nel radà si ritrovano
alcuni spiriti del Dahomey; il petrò ha spiriti più vendicativi e
utilizzati nella magia. Il kongò ha origini bantu, prevede sacrifici e
riti più violenti. Esistono altre innumerevoli classificazioni, ma nessuna
universale. Ogni categoria ha ritmi di tamburo, strumenti, danze, profumi
e saluti propri.

Mambo e
hungan: sacerdotessa e prete vudù (questo chiamato anche boko) sono i
maestri dei riti.


Erzuli-freda: spirito della bellezza e della sensualità, ma anche
dell’amore materno. È uno spirito del mare e delle acque. Ha tutte le
caratteristiche di una bella donna ed è associato alla Madonna. Esistono
altre Erzuli, sempre femminili ma con caratteristiche diverse.


Damballah-redo: è il dio-serpente, vive sugli alberi e nei corsi d’acqua.
È una delle divinità più popolari del vudù haitiano. Il colore bianco è
suo simbolo ed è padrone dell’argento. È lui che dà la ricchezza. Sua
moglie Aida-redo: è anch’essa uno spirito acquatico.

Bains de
chance: sono i bagni della fortuna che i fedeli del vudù fanno per
propiziarsi i loà e ricevere grazie e protezione.

Vévé: è il
disegno simbolico che raffigura tutti gli attributi del loà. Viene
tracciato durante le cerimonie per richiamare lo spirito.

Potò-mitan:
oggetto sacro è il palo situato al centro del peristilio e la via dei loà
per scendere, durante i riti, dal cielo alla terra.

Ma.Be.

Marco Bello




RUSSIA: l’esercito dei senzatetto (2). E’ FREDDA LA NOTTE DI MOSCA

In
prossimità delle feste, a Mosca e Pietroburgo i barboni che bivaccano
nelle vie del centro vengono caricati su camion e portati fuori città.
Perché i russi «normali» trascorrano le festività in pace… In
alternativa a questa soluzione, i senzatetto sono rinchiusi per qualche
settimana in «centri di raccolta». Oggi come ieri lo stato non si occupa
dei «bomzh», se non in modo punitivo. Per fortuna, «Medici senza
frontiere», «Caritas» e altre organizzazioni di volontariato fanno il
possibile per alleviare l’esistenza di chi è caduto nel baratro.

All’inizio
del secolo scorso i senzatetto erano circa 150.000 in tutto il paese e
potevano contare su diverse forme d’assistenza, attuate sia dallo stato e
dalla chiesa sia da organizzazioni benefiche private. A Mosca esistevano
diversi ospedali per i poveri, tra cui il famoso istituto Sklifosovskij.
Con la rivoluzione e l’instaurazione del regime sovietico, il fenomeno non
scomparve (al contrario), però non se ne ammetteva l’esistenza (in un
paese socialista non poteva esistere il disagio sociale!). Con il nuovo
codice penale del 1933, non avere una residenza e un lavoro ufficiali
divenne un reato punibile con una reclusione fino a due anni.

La fine
del regime sovietico ha fatto riaffiorare quelle situazioni di disagio,
che per anni erano rimaste relegate nel sottosuolo.

Adesso
essere senza fissa dimora non è più un reato. Tuttavia, l’atteggiamento
dello stato verso i senzatetto non è molto cambiato rispetto ai tempi in
cui erano considerati delinquenti da isolare dalla società. Il pregiudizio
nei loro confronti, condiviso in generale dall’opinione pubblica e
alimentato dai mass media, fa sì che non ci sia da parte delle istituzioni
il tentativo di comprendere il problema e di trovarvi soluzioni adeguate.
Basti dire che, a tutt’oggi, non c’è una legge sui senzatetto, che per lo
stato in Russia non esistono persone ridotte a vivere senza una casa, ma,
tutt’al più, «individui bomzh», da cui la società si deve difendere.

Del 1992 è
un decreto presidenziale a loro riguardo, che s’intitola: «Sulle misure
per prevenire vagabondaggio e accattonaggio». Dopo quasi 10 anni, il
progetto di legge che il governo del 2001 vuole sottoporre al parlamento
s’intitola: «Sulla riabilitazione sociale degli individui che praticano
vagabondaggio e accattonaggio».

Sembra che
il tempo sia passato invano. D’altra parte, se lo stato riconoscesse
l’esistenza del problema, dovrebbe anche far qualcosa per risolverlo.
Invece, ecco cosa si legge in uno studio del ministero del Lavoro e dello
Sviluppo sociale: «Gli individui bomzh che abbiamo interrogato negli
ospedali, nei centri raccolta-smistamento, alle discariche, non desiderano
cambiare il proprio stile di vita. Sono soddisfatti della propria vita e
apertamente disprezzano e deridono le persone che lavorano».

PER FORTUNA,
CI SONO LORO


Fortunatamente, negli anni Novanta, con l’apertura all’iniziativa privata
e la caduta della cortina di ferro, hanno cominciato ad operare sul
territorio russo organizzazioni umanitarie non governative sia russe che
inteazionali, sia religiose che laiche. Tra i primi ad arrivare sono
stati i Medici senza frontiere (MSF), le suore di Madre Teresa, la Caritas.
A Pietroburgo i pionieri sono stati i fondatori dell’associazione
Nochlezhka (Il rifugio), giustamente famosa in tutto il paese.

Oltre ad
assistere materialmente i senzatetto, queste organizzazioni si sono
trovate costrette a difendee i diritti sistematicamente conculcati.

MSF,
inoltre, si è più volte scontrata con le preoccupazioni «estetiche» delle
autorità. Nel 1992 una loro unità medica cominciò ad operare nelle
stazioni di Mosca, ma nel 1993 furono fermati dall’amministrazione
ferroviaria, preoccupata della visibilità che la cosa stava assumendo.
Infatti, la possibilità di ricevere assistenza medica, altrimenti negata,
richiamava un certo numero di senzatetto. Se durante l’epidemia di
difterite scoppiata a Mosca nel 1994, che costituiva una minaccia per
tutta la popolazione, a MSF fu concesso di riprendere l’attività nelle
stazioni, nel 1998 erano in arrivo nuovi guai. In preparazione alle
Olimpiadi dei giovani, l’amministrazione di Mosca decise di ripulire la
città dai barboni e chiuse anche gli ambulatori di MSF nelle stazioni.
Rimase in funzione quello aperto nel cortile dell’ospedale per malattie
infettive. Il posto è più defilato e non dà nell’occhio.

Non si
deve pensare che Mosca venga ripulita solo in occasioni così
straordinarie, come quella di un’olimpiade internazionale. Tali operazioni
si svolgono con una certa frequenza. Tanto per cominciare, in occasione
delle feste.

LE «PULIZIE»
DELLA FESTA

Arrivata a
Mosca alla vigilia dello scorso capodanno, mi sono stupita nel trovare le
vie del centro e la metropolitana sgombre di barboni.

I miei
sospetti al riguardo hanno trovato conferma parlando con gli operatori di
MSF e della Caritas: nella ricorrenza delle feste di capodanno e Natale
(il Natale ortodosso è il 7 gennaio), la città viene sgomberata dai
poveracci, tanto che in questo periodo le organizzazioni umanitarie
registrano un sensibile calo dell’attività. «Di solito abbiamo una coda di
gente che arriva fino in cortile, ma oggi riusciamo a chiudere addirittura
prima del tempo» mi spiegava Elena della Caritas.


Ovviamente, queste operazioni di sgombero vengono attuate alla
chetichella, sebbene possa capitare che se ne venga per caso a conoscenza
attraverso i mass media. Ad esempio, all’inizio di gennaio si è saputo
dalla radio che i comuni confinanti con Mosca si erano lamentati, perché
dalla capitale camion carichi di bomzh erano stati fatti arrivare e
scaricati nelle loro periferie. Alla base di questi trasferimenti c’è un
disegno primitivo: prima che i barboni riescano a riguadagnare la capitale
passano un po’ di giorni, quanto basta perché i moscoviti trascorrano «in
santa pace» le festività. Ma non sempre questi carichi umani vengono
lasciati all’interno di centri abitati. A Pietroburgo i senzatetto,
periodicamente rastrellati nella stazione ferroviaria vengono portati nei
boschi lontano, dalla città, con tutte le conseguenze che si possono
immaginare. A nulla per il momento sono valse le proteste delle
organizzazioni umanitarie, prima fra tutte Nochlezhka.

Nel 1999,
grazie all’intervento di una Tv privata, ha avuto ampia risonanza un
episodio, che altrimenti sarebbe passato inosservato, come tanti altri
simili. Il comando di polizia di un quartiere della capitale decide di
ripulire la zona dalla presenza dei senzatetto. Raccolti e caricati su un
camion, essi vengono portati a una discarica fuori città. Tra loro si
trova anche un uomo senza le gambe. L’operazione si svolge in una fredda
sera di fine estate. Al mattino alla discarica viene trovato il cadavere
del mutilato, che non aveva potuto, come gli altri, cercare un riparo ai
rigori della notte. Qualcuno ha avvertito l’emittente televisiva NTV, che
è corsa sul posto e ha reso il caso di pubblico dominio. Ciò ha spinto la
polizia ad aprire le indagini per individuare i responsabili. Ebbene, i
responsabili sono stati trovati, i loro nomi trasmessi alla magistratura,
ma quest’ultima dopo tre mesi ha chiuso l’inchiesta come se nulla fosse.
Del caso si sta occupando ora Aleksej Nikiforov, cornordinatore del
programma d’aiuti di MSF, il quale ha ottenuto che l’inchiesta fosse
riaperta.

DIETRO LE
SBARRE

Di
professione medico, Aleksej è da tempo impegnato a difendere i diritti dei
senzatetto. «Mi rivolgo alle istituzioni, chiedendo spiegazioni sul loro
operato. Per il momento, questo diritto lo abbiamo ancora. Chiedo, in
sostanza, che gli organi dello stato agiscano secondo quanto è stabilito
dalla legge».

È dura per
un medico districarsi tra i cavilli e i sotterfugi della burocrazia.
All’inizio lo menavano facilmente per il naso, ma poi si è fatto più
accorto. Il suo non è compito da poco. La legge è sistematicamente
ignorata dalla magistratura, che preferisce attenersi alle indicazioni
delle autorità, piuttosto che rispettare la costituzione.

Un
esempio. Ai tempi dell’Urss, quando essere senza residenza era reato, il
ministero degli Intei aveva istituito i cosiddetti «Centri
raccolta-smistamento», che, al di là di tutte le alchimie verbali, erano
in realtà delle specie di prigioni (con la rivoluzione, le carceri furono
ufficialmente abolite, in quanto istituzioni borghesi; comparvero, invece,
i «luoghi di isolamento» o i «luoghi di privazione della libertà»).

Oggi la
legge proibisce di trattenere un cittadino per più di 48 ore, a meno che
su di lui non gravino pesanti sospetti di reato, che motivino un ordine
scritto del tribunale a riguardo. Ciononostante, ogni anno 400 mila
persone vengono trattenute dai 10 ai 30 giorni in questi «centri», perché
prive di documento e registrazione. Gli ordini vengono firmati da
procuratori disinvolti e motivati con la necessità di rilasciare alla
persona un nuovo documento d’identità, il che accade molto raramente. In
realtà questa pratica tradisce la convinzione che i senzatetto siano dei
potenziali delinquenti, da tenere in gabbia il più possibile.

«Essi_
sono causa d’incendi e dell’aumento della criminalità», leggiamo sempre
nella stessa pubblicazione ministeriale, cui ho già accennato sopra.

I
senzatetto entrano ed escono da questi luoghi di detenzione
silenziosamente. D’altronde, quali concrete possibilità avrebbero di
chiedere giustizia? Ma la primavera scorsa uno di loro, appoggiato da
Novyj dom, ha fatto causa alla procura di Mosca. Un giornalista, amico di
Novyj dom, è riuscito a scriverne sul quotidiano Novye Izvestija: «Quest’uomo
ha trascorso più di un anno e mezzo nei cosiddetti centri
raccolta-smistamento, dove veniva rinchiuso a forza “per identificazione e
rilascio dei documenti”. Ne usciva, tuttavia, non con la carta d’identità,
che non riuscivano a rilasciargli, ma con un certificato della polizia. Al
primo controllo documenti, quel certificato veniva stracciato dai tutori
dell’ordine, e “l’individuo bomzh” si ritrovava di nuovo dietro le
sbarre».

Dopo gli
ennesimi 30 giorni di detenzione, «l’individuo bomzh», il signor Lemekhov
ha denunciato il procuratore che ne aveva sanzionato il fermo. Ma il
giudice non si è lasciato impressionare dai riferimenti alla Costituzione
(1993); ha giudicato molto più autorevole quanto sta scritto in un decreto
del presidente Eltsin (emanato alla vigilia della nuova costituzione) e in
una disposizione del ministero degli interni dell’Urss (1970). D’altra
parte, conclude il giornalista, è noto che il sindaco Luzhkov, di propria
iniziativa, ha assegnato un sostanzioso contributo allo stipendio dei
giudici moscoviti.

L’ARBITRIO
SOSTITUISCE LA LEGGE

«Quando
vengono a trovarci i corrispondenti stranieri, dopo un po’ vediamo che il
loro sguardo si appanna. Quello che raccontiamo è per loro così assurdo,
che a un certo punto smettono di seguirci. Chiudono la saracinesca. Anche
noi spesso non riusciamo a capire, ma siamo abituati a convivere con la
follia» mi dice Elena, durante il nostro incontro presso il centro-aiuto
Caritas.

Stiamo
parlando da due ore e si stupisce che io non abbia ancora voglia di
chiudere la conversazione. «Ecco, ad esempio, adesso è un po’ di tempo che
agli uffici passaporti mancano i moduli per chiedere un nuovo documento.
Così tutto è fermo, non si può fare domanda. E anche se si potesse, le
domande dei senzatetto di regola non vengono accettate. Se uno di loro
chiede il rilascio di un nuovo documento, lo si indirizza all’ufficio
passaporti del luogo dell’ultima registrazione, sebbene la legge non lo
richieda. Anche ritornando all’ultimo luogo di residenza ufficiale, le
cose non sono così semplici, perché tutto il processo può richiedere mesi
(per legge, invece, non più di 15 giorni). E intanto, che si fa? Se poi
l’ultimo luogo di residenza era una repubblica ex-sovietica, è la fine».

Per porre
un freno all’arbitrio che regna negli uffici passaporti, MSF e Caritas
distribuiscono ai loro assistiti un foglio da consegnare al funzionario di
tuo, in cui si ricorda che, per legge, chi non ha una residenza ha
diritto a ottenere il documento d’identità là dove soggioa. «Quel pezzo
di carta col nostro timbro sopra è stato pensato per influenzare il
poliziotto – mi conferma Aleksej di MSF -. Qui accade qualcosa solo se hai
qualcuno alle spalle che ti sostiene. È quello che tentiamo di fare».

«COM’È FACILE
AFFONDARE!»

Il centro
Caritas per i senzatetto è stato aperto 7 anni fa. Qui si può ricevere un
pasto caldo, vestiti e scarpe. Ma l’aiuto materiale non basta. Queste
persone sono così disorientate che hanno bisogno di qualcuno che le
indirizzi, le consigli, o semplicemente ascolti le loro storie. Così sia
Caritas che MSF offrono un servizio di assistenza sociale.

«È facile
perdere l’equilibrio con la vita che fanno» incalza Elena, mentre mi
mostra i dati raccolti durante i colloqui con i senzatetto. «È incredibile
quanto si faccia presto ad andare a fondo e quanto difficile sia
rimettersi in piedi. E pensare che il 16% delle persone che vengono da noi
hanno una laurea universitaria. Abbiamo i barboni più istruiti del
mondo!». È vero che qualcuno si è mosso e si sta muovendo per aiutarli;
pasti caldi vengono distribuiti anche presso alcune parrocchie o da
associazioni come l’Esercito della Salvezza. Le Suore di Madre Teresa
hanno una casa con 30 letti, dove raccolgono i più infelici, i più malati;
ma nessun miglioramento radicale si potrà ottenere se non cambierà
l’atteggiamento delle autorità, dei cittadini, dei mass media nei
confronti di chi è stato sbrigativamente segnato con l’infamante marchio
di bomzh.

Biancamaria Balestra




PAKISTAN: il paese islamico è retto da una giunta militare. I FRAGILI EQUILIBRI DI ISLAMABAD

Sorto
soltanto nel 1947, il paese asiatico ha già una lunga storia di conflitti
(interni ed estei), colpi di stato, dittature. La presenza di gruppi
fondamentalisti provoca frequenti scontri tra musulmani sunniti e
minoranza sciita. Ancora peggio stanno i cristiani, privi di tutele,
spesso accusati di blasfemia, reato punibile con la morte. Mentre, a causa
della contesa sul Kashmir, sono sempre molto tese le relazioni con
l’India, esasperate da una folle corsa alla bomba nucleare.

Sembrano
comparse di un film biblico, capitate tutte insieme su questo aereo un po’
macilento. Alcuni hanno un fagotto o un telo ripiegato sulla spalla e
sembrano i pastori del presepe. Uniche donne,  due madri velate di nero e
circondate da uno stuolo di marmocchi. Siamo appena atterrati
all’aeroporto di Karachi e, in attesa di scendere, si sono alzati in piedi
e ora mi scrutano con i loro occhi neri e brillanti. Il naso grande e
aguzzo  sembra un punto interrogativo.

Domani
inizia Eid ul Azhad, la festa islamica che commemora la decisione di
Abramo di sacrificare il figlio Isacco. L’aeroporto è pieno di pakistani
emigrati per lavoro, che tornano in famiglia per qualche giorno. La folla
spinge e strattona senza riguardo, spingendo i carrelli stracolmi di
scatoloni e grossi involti legati con lo spago. Un primo assaggio per noi
della violenza che caratterizza questo paese. Eppure il volo era iniziato
con l’esortazione: Allah uh Akbar, gridato per tre volte, seguito da altre
suppliche incomprensibili. Forse una preghiera. Alla fine ho inteso la
parola fatale: Inshallah! E siamo partiti.

LA DOTE E LE NOZZE COMBINATE

A Karachi
oggi le strade sono tranquille. Passano bus colorati, decorati da pitture
stravaganti con visi di donne e paesaggi montani, coi bigliettai che si
sporgono a chiamare i clienti. Passano «Ape» e camioncini che trasportano
mucche e pecore agghindate di corone di fiori e lustrini, pronte per il
sacrificio. C’è chi sta lavando accuratamente un agnello, chi sta dando
alle bestie l’erba fresca. Ameer mi accompagna in questi primi giorni
pakistani e mi spiega come intende questa festa.

Due
settimane fa ha comprato una capretta: «Le mie figlie devono affezionarsi
all’animale, prima che venga sacrificato. Le cai verranno poi
distribuite ai poveri. Noi non faremo il barbecue, come la maggior parte
dei pakistani. Dopo aver curato e nutrito la capretta per 15 giorni, le
bambine oggi piangeranno, quando arriverà il macellaio a sgozzarla. Questo
è il vero senso del sacrificio».


Rabbrividisco. Comincia così la mia esperienza in Pakistan, che mi porterà
a conoscere aspetti sconcertanti di quello che è un paese confessionale
islamico, fondato nel 1947, dopo la drammatica divisione dall’India.

Quando
esco nelle vie, pare che sia tutto finito: il sangue ha formato pozze
scure nei vicoli, mentre sui marciapiedi si lavora a tagliare in piccoli
pezzi le bestie sacrificate.   Ameer è andato presto in moschea, per la
preghiera, mentre le donne erano a casa a preparare il pranzo. La famiglia
di Ameer, originaria del Rajastan, è di fede islamica da molte
generazioni. I suoi antenati, di stirpe Rajput, si convertirono dall’induismo
seguendo gli insegnamenti dei mistici sufi missionari, provenienti dalla
Persia. Nel ’47 il padre di Ameer scelse di trasferirsi qui. Lasciò tutto
e prese il treno per Lahore, dove trovò condizioni di vita molto
difficili.

«I primi
anni vivevo in una stamberga con altri profughi. Poi mi sposai ed ebbi 10
figli». Munawar è un signore alto e magro, dalla pelle scura e segnata
dall’età, che parla bene l’inglese: «Allora a Karachi c’erano anche i
tram. Tutto funzionava bene, gli uffici pubblici e i trasporti. Oggi
abbiamo solo vecchi pullman privati, che cercano di attirare clienti con
le decorazioni fantasiose. Anche le scuole sono private; quelle pubbliche
non bastano, sono sporche e di basso livello». Parliamo anche del
terrorismo, finanziato dall’India, della guerra senza fine nel Kashmir e
delle armi che arrivano dall’estero.

Padre e
figlio hanno passato molti anni all’estero, anche in Giappone, lavorando
in ristoranti e caffè. Ora hanno una bella casetta e vivono tutti insieme,
nonno, figli e uno stuolo di nipoti. Il pomeriggio lo passeremo da loro,
stretti nel salottino coperto di tappeti, a sorseggiare il tè cremoso al
latte, mentre nel vicolo si sta asciugando la pozza di sangue della bestia
uccisa.

Parliamo
del matrimonio. Ameer ha visto la sposa solo il giorno delle nozze, che
erano state combinate dalle famiglie. «Credo sia meglio così. Sono molto
felice con mia moglie: i genitori sanno quello che è giusto per i figli».
In Pakistan convivono tradizioni islamiche con altre tipiche dell’induismo,
difficili da eliminare: come la dote per le figlie femmine, un peso grave
per la famiglia, che non è prevista nell’islam.

Toerò in
albergo passando dalla via principale, che prende nome dal padre della
patria, quel Jinna che morì di tubercolosi l’anno dopo aver visto
realizzare il suo sogno di un paese islamico libero e indipendente. Sulla
banchina spartitraffico, alla luce del tramonto, un uomo è ancora intento
a preparare la carne, tagliandola minuziosamente, dopo aver fatto a pezzi
la carcassa.

LA BLASFEMIA

«Amiamo
molto la musica e le canzoni napoletane». Conosco Julie e Austen a un
concerto: stasera suona un bravo sassofonista, accompagnato da un
pianista. Scopro che sono tutti originari di Goa.  «Mio padre era medico a
Bombay – mi dice Austen -. Prima della II guerra mondiale si era
trasferito a Karachi, come molti commercianti e professionisti indiani».
La moglie, che veste una camicia e una gonna all’occidentale, aggiunge:
«Siamo cristiani e viviamo in un paese islamico per il 97%, ma non abbiamo
problemi. Nelle campagne del Punjab, presso Multan, sappiamo invece
esserci situazioni molto gravi. I cristiani sono sovente ingiustamente
accusati di blasfemia, soltanto come pretesto per poter togliere loro la
terra». La legge islamica vigente nel paese  prevede la condanna a morte
per questo reato. Basta la testimonianza di 4 musulmani. La parola del
cristiano non conta.

GLI
SCHIAVI DEI GRANDI LATIFONDISTI

Moemjo
Daro è forse la più antica città del mondo. Certamente quella più
sorprendente, per le soluzioni urbanistiche. Edifici di mattoni disposti a
scacchiera e dotati di canalizzazioni per la raccolta delle acque,
palazzi, templi e bagni, tutto dominato dal gigantesco stupa (monumento)
buddista. Dopo 4.500 anni, solo ora il sito corre il rischio di
sbriciolarsi a causa dell’umidità e del sale.

Il
Pakistan ha sete d’acqua e le dighe costruite sull’Indo hanno innalzato la
falda freatica. Il grande fiume, che un tempo passava qui vicino, pare un
rigagnolo ormai, dopo tre anni di siccità. Attraversiamo Larkana, la città
feudo della famiglia Bhutto, con il suo mercato vivace. Si sta
festeggiando un matrimonio e lo sposo si esibisce con una decorazione
vistosa sul petto: un ventaglio di banconote che sembra porti fortuna agli
sposi. C’è chi non ha casa e vive ai margini, sotto ripari di fortuna, nel
centro cittadino, in mezzo ai rifiuti. La carne del sacrificio si sta
seccando, appesa ai fili, tra una tenda e l’altra.

In questa
regione, il Sind, i viaggi non sono sicuri. Ci sono i ribelli, i banditi
che negli anni passati hanno anche rapito alcuni stranieri. «Qui ci sono
ancora gli schiavi» mi sorprende Ameer. «I servi della gleba – continua –
ci sono sempre stati e il regime feudale è ben radicato, in questa zona. I
loro figli faranno la stessa vita, dato che ben pochi di loro possono
andare a scuola e avere la speranza di migliorare. Legati al lavoro dei
campi da generazioni, ricevono dal padrone un poco di cibo per
sopravvivere».


Naturalmente i grandi latifondisti non abitano qui, ma a Karachi, Londra o
nei paesi del Golfo Persico. Ameer aggiunge che ci sono anche i forzati,
prigionieri condannati per crimini comuni, che lavorano in campagna e la
sera rientrano in prigione.

LE
PREOCCUPAZIONI DEL VESCOVO

Polvere,
caldo, mendicanti e tombe. Così si presenta Multan, una città famosa sin
dal medioevo come centro spirituale islamico. Con due milioni e mezzo di
abitanti, ai margini del deserto del Cholistan, è ricca di mausolei dove
riposano i santi mistici dell’islam, tuttora meta di pellegrinaggi.

Siamo nel
Punjab, la regione più fertile del Pakistan, irrigata dai canali e dagli
affluenti dell’Indo. Numerose sono le foaci di mattoni, dove il lavoro è
svolto tutto manualmente, con l’aiuto di muli. Le strade sono percorse dai
carri trainati da buoi e nei fossi asciutti le bufale cercano un po’ di
umidità. Lembi di campagna penetrano anche nel centro storico di questa
città estesissima. Non lontano dall’animato bazar vedo un uomo che munge
una bufala e bambine che preparano le mattonelle di letame da seccare sui
muri. Dopo tre anni di siccità, ora scarseggia anche l’energia elettrica e
in tutto il paese i black out sono la regola.

Oggi è
domenica e la sera vado alla ricerca di una chiesa, nel cantonement, il
verde quartiere coloniale. So che c’è una piccola comunità cattolica, ma è
difficile trovare il complesso del vescovado, nelle strade buie.
Finalmente una croce, un portone che si apre su un vasto piazzale con la
grotta di Lourdes e la Madonna illuminata. Incontro subito il padre
Domenico, una persona aperta, comunicativa, che parla bene l’italiano. Ha
studiato a Roma e ora lavora sul territorio della diocesi , che è la più
povera del paese e ha tanti problemi. Deve essere lui il braccio destro
del vescovo Andrew Francis, che mi accoglie nel suo studio. Purtroppo
abbiamo poco tempo per parlare e domani devo partire. Il vescovo è
contrariato. Ha rinunciato ad un impegno, per potermi parlare, ma ora
insiste: «Devi restare alcuni giorni con noi, per poter testimoniare della
situazione. Voi in Europa dovete sapere i drammi che stiamo vivendo».

Allora mi
scrive un nome, Class (**) e un numero di telefono. Quando sarò a Lahore,
forse avrò tempo per documentarmi.

CRISTIANI SENZA PROTEZIONE

Eiga,
giovane collaboratrice di Class, mi dà le prime notizie sull’attività del
centro. Poi mi accompagna in ufficio, al primo piano di un edificio
anonimo nel centro di Lahore. Mr. Joseph Francis dirige l’associazione,
che si occupa di assistenza legale e accoglienza di donne e bambine che
hanno subìto soprusi e violenze. «La giustizia non esiste, in questo
paese. Con il denaro si mette tutto a tacere».

Mr.
Francis mi spiega che gli aiuti per il centro vengono dall’unione delle
chiese cristiane di Ginevra e dagli Usa. Poi mi presenta una delle giovani
donne che sta ricevendo aiuto. Una ragazza di campagna dal viso
spaventato. Anche lei vittima di violenza, perché cristiana, quindi donna
senza valore e non credibile. Qui i cristiani appartengono ai ceti più
poveri. La conversione avvenne durante i secoli, per opera dei missionari
in India, che riuscivano a convertire i «fuori casta», gli intoccabili,
che trovavano dignità e senso di comunità nella chiesa cristiana.

Nel
dossier che mi viene presentato vedo un articolo del Times. Leggendo le
testimonianze raccolte e pubblicate,  mi rendo conto che la situazione è
veramente tragica.

Nel Punjab,
dove vive la grande maggioranza dei cristiani, la comunità cristiana e
quella islamica sono sempre vissute una accanto all’altra in perfetto
accordo. Solo da alcuni anni  si manifesta un aumento di risentimento,
intolleranza e violenza. Posso solo fare un’ipotesi sulle cause: la
miseria senza speranza che coinvolge ambedue le comunità, e l’ignoranza. I
casi di violenze sono seguiti da persecuzioni che arrivano alla
distruzione di case e chiese delle piccole comunità contadine. I
capifamiglia vengono imprigionati, sottoposti a tortura e accusati di
crimini mai commessi.

Nel maggio
1998 fece scalpore il vescovo di Faisalabad, mons. John Joseph: non
riuscendo ad aiutare uno di questi disgraziati, si suicidò davanti al
tribunale. La sua fu una tragica denuncia contro il regime, che discrimina
i non-musulmani. Nonostante le lettere di protesta spedite al primo
ministro e al Vaticano, il giorno dopo un altro cristiano venne condannato
a morte.

Eppure,
quando il padre della patria Jinnah dichiarò solennemente la formazione
del nuovo stato,   disse: «Potete appartenere a qualsiasi credo, casta o
religione. Potete andare alla moschea o in altro luogo a pregare. Non ci
sarà discriminazione tra le diverse comunità». Oggi invece siamo in piena
crisi. La legge sulla blasfemia è recente. Nel 1986, durante una
conferenza, l’avv. Asma Jehangir, musulmana impegnata in progetti di
riforma, descrisse l’islam come una religione senza icone, nella quale i
credenti hanno un rapporto diretto con Dio. Chiunque, disse, trova la fede
come fece il profeta, nonostante la sua mancanza di educazione.

I mullah
più conservatori si risentirono e l’accusarono di blasfemia, per aver
insultato Maometto, definendolo illetterato. Si mobilitarono affinché il
parlamento modificasse una sezione del codice penale, introdotto dagli
inglesi nel 1860. Nel 1992 si arrivò ad approvare una legge, secondo la
quale «chiunque, con parole o scritti, insinuazioni o reticenze,
direttamente o indirettamente, sminuisce il nome del profeta Maometto,
sarà punito con la pena capitale». Quattro mesi dopo il primo cristiano
veniva condannato a morte.

I
PROFUGHI AFGHANI DI PESHAWAR

La strada
che sale al passo Khyber è sotto di noi, un nastro sinuoso d’asfalto tra
le montagne aride. Prima di partire da Peshawar ho dovuto chiedere il
visto alla polizia tribale della città, che ha giurisdizione nella zona
del passo, a statuto speciale.

Tutti sono
passati di qua. Dai persiani achemenidi ad Alessandro, dal cristianesimo
all’islam, ai mongoli e infine gli inglesi. Anche oggi il traffico
continua. Passano camion, carichi di farina per l’Afghanistan affamato, e
altri mezzi nella direzione opposta, con merce di contrabbando. Le case
sulle pendici dei monti, da entrambi i lati del confine, sono piene di
attività. Si fabbrica di tutto, ma specialmente armi. Siamo fermi in una
curva a tornante, dove due bambini sui 10 anni aspettano con un secchio di
latta. Vi hanno messo qualche vite e bullone di recupero, da vendere ai
camionisti di passaggio. Sono profughi afghani e parlano solo pathan, la
lingua delle tribù che abitano queste montagne.

Anche Khan
è un pathan, ma ha studiato all’università di Peshawar, parla bene
l’inglese e mi può aiutare a capire. La scuola è giù nel villaggio:
profughi e ragazzini ci andranno nel tuo di pomeriggio, per due ore.
«Gli afghani sono persone meravigliose, ospitali e gentili – mi assicura
Khan -; il loro è un paese stupendo. I profughi qui si danno molto da
fare. Sopravvivono senza alcun aiuto, accettando tutti i lavori più duri».

In
effetti, ho visto a Peshawar il vecchio accampamento dei profughi, che
negli anni si è trasformato in un villaggio di casette di fango, costruite
secondo la tradizione. Alcuni, tra gli afghani più furbi, trafficano con
la merce di contrabbando che continua ad entrare nel paese. Roba che viene
anche dal Giappone, dall’Italia o dall’America, che riempie il mercato
«dei ladri» di Peshawar. Sbarca a Karachi e non fa dogana, passando subito
la frontiera a Quetta. Poi rientra nel paese dal passo Khyber.
L’Afghanistan è un paese allo sbando, porto franco, e come sempre in
questi casi, c’è chi  fa molti soldi.

Come il
proprietario della villa che abbiamo visto sulla strada per il Khyber: un
grande parco chiuso da muro di cinta alto con le guardie al cancello. Un
signore della droga che è stato in galera negli USA per tre mesi, ma si è
poi comprato la libertà. Uno che ha offerto al governo la stessa cifra che
il Pakistan riceveva dalla Banca mondiale, per avere le mani libere nei
suoi loschi traffici.

LA
VALLE DELLO SWAT: VERDE, «STUPA» E POVERTÀ

La mattina
il cielo era scuro. Saliamo verso Bahrain e una lama di luce rischiara il
greto secco dello Swat. Uomini e muli stanno lavorando: trasportano sabbia
e sassi del fiume e le loro figure silenziose riempiono il paesaggio. Vedo
che sui monti più lontani è caduta la neve, nella notte. Saliamo, e i
villaggi umidi incollati alle pareti ripide hanno i camini che fumano.

Fa freddo,
per noi che veniamo dal calore del Punjab. Le cime che ci circondano
superano i 6.000 metri. Le case di Bahrain sono addossate le une alle
altre, piccoli cubicoli di legno e fango, scuri e fumosi. La moschea
vecchia ha perso le decorazioni e il portale di legno scolpito, sostituiti
da infissi nuovi, che stonano con il complesso antico. Forse sono stati
venduti ad antiquari stranieri. La gente è calorosa, gentile. Piove e,
dopo qualche incertezza, siamo invitati ad entrare. La povertà della gente
e delle case è impressionante. Questa località è meta di vacanze estive
per i ricchi pakistani di Lahore e Islamabad. Ma la gente vive in
condizioni terribili.

Lo Swat
potrebbe essere un piccolo paradiso, come forse era ai tempi di Alessandro
Magno. Pare che i soldati del grande condottiero si siano fermati qui,
sulla via del ritorno. La prova sarebbero i capelli biondi e gli occhi
chiari di alcuni tra gli abitanti, poverissimi, della valle.

Da qui si
diffuse il buddismo, grazie ad Ashoka, l’imperatore maurya. Qui fiorì
l’arte gandhara e per la prima volta il Budda venne rappresentato in forma
umana, con un sorprendente profilo greco e lineamenti occidentali. Il
regno dei Kushana (1° sec. a.C.) rappresentò un periodo di grande
prosperità e pace, mai più raggiunto. Centinaia di stupa, molti in rovina,
punteggiano la valle, mentre le statue e i rilievi salvati dalle ruberie
riempiono i musei pakistani.

LA
BOMBA ATOMICAE L’INGENUITÀ DEI POVERI

Uno dei
più belli è lo stupa di Shingardhar, che fu costruito in memoria di un
elefante. La leggenda dice che, all’epoca del grande imperatore Ashoka (3°
sec a.C.) qui sostò un principe. Ritornava da un lungo viaggio intrapreso
per portare nella valle dello Swat una reliquia del Budda. Il suo elefante
si ammalò, morì e fu seppellito qui, dove venne poi eretto il grande
stupa.

La casa di
Gulbar si trova accanto al monumento. La moglie e i suoi figli ci
accolgono tra le mura di fango secco. Tutto è lindo e ordinato, nella
povertà. Ci sono le nicchie per le stoviglie e il foo, ma non c’è una
porta. La casa si apre sul cortile che confina con l’antico stupa.  Marwan
è il figlio maggiore, conosce qualche parola di inglese e mi chiede subito
di portarlo in Italia. Con il passaggio di visitatori stranieri, ormai
Marwan ha capito che il mondo non finisce nella valle dello Swat. Una
valle protetta da un passo, il Malakand, che ferma il calore e l’aridità
del Punjab. Una conca verdissima che non soffre la siccità come il resto
del Pakistan. Qui si coltiva di tutto, e tutti potrebbero stare bene, se
non ci fosse miseria e ignoranza.

Le
priorità del governo, oggi, dovrebbero essere educazione e sicurezza. Ma
fino a 2-3 anni fa non se ne parlava nemmeno, di scuole. Gli ospedali
mancano di tutto, e se si vuole essere curati si deve pagare. Il bilancio
delle spese dello stato favorisce, per primi, esercito e armamenti.

Ho visto
uno strano monumento, presente nelle piazze di tutte le città pakistane.
Una montagna in scala ridotta, la copia di un monte del Beluchistan,
diventata famosa nel maggio del 1998, quando è stata fatta scoppiare la
prima bomba nucleare. I pakistani ne sono orgogliosi e questo fa
dimenticare tutto ciò che a loro manca.

box


PAKISTAN


 Superficie:  kmq 796.100
   Abitanti:  134,5 milioni
   Capitale:  Islamabad
   Lingua:  urdu (ufficiale), punjabi, singhi, pashto, baluchi,
inglese
   Gruppi etnici:  punjabi (48%), pashtu, sindi, saraiki, urdu
   Religione:  musulmani (95%, in maggioranza sunniti), cristiani
(2%), indù (1,5%)

Forma di
governo:  repubblica islamica a guida militare; il Pakistan è una potenza
nucleare (la prima del mondo islamico e, oggi, la prima retta da militari)


Presidente:  generale Pervez Musharraf, dal 12 ottobre 1999, in seguito a
un colpo di stato che ha spodestato il presidente eletto, Nawaz Sharif; la
Corte suprema ha dato alla giunta militare un tempo limite di 3 anni,
scaduto il quale dovrebbero tenersi le elezioni generali

Risorse
economiche:  l’economia si basa sull’agricoltura (riso, frumento, canna da
zucchero, mais, patate) e l’allevamento (ovini, caprini, bufali); il paese
è un grande produttore di cotone, che alimenta l’industria tessile e le
esportazioni

Problemi
interni:  periodicamente, si verificano violenze tra sunniti e sciiti in
varie città del paese; il Pakistan intrattiene relazioni con l’Afghanistan
dei talebani, i quali sono arrivati al potere con l’indispensabile aiuto
di Islamabad; sempre grave la tensione con l’India per la regione del
Kashmir

Claudia Caramanti




INDIA – Verso l’assoluto

San Giustino (II secolo d. C.) li chiamava «semi del Verbo»: con concetti
e verità presenti in tutte le culture e religioni. Anche nei testi sacri indù incontriamo varie somiglianze con il cristianesimo.

Dio, Allah, Javhè, Brahaman, Ahura Mazdah sono sinonimi? Se è difficile porsi tale domanda, ancora più arduo è dare una risposta. Ma, dal momento che Dio è uno solo, esiste per lo meno il dubbio che l’umanità lo abbia cercato, in modi diversi, nel tempo e nello spazio. Le grandi religioni monoteistiche si sono sviluppate in una area geografica che si estende dal vicino all’estremo Oriente e hanno consolidato il loro sviluppo attraverso millenni.
Senza pretendere di dare una risposta organica al quesito, è sempre utile esplorare i libri fondamentali delle religioni monoteistiche, cercando le verità e i concetti che coincidono o si avvicinano a quelli del Cristianesimo.
È quanto tentiamo di fare spulciando alcuni versi del Bahagava-Gita («Il canto del beato»), un poema scritto in sanscrito, che fa parte di una opera più vasta, il Mahabharata, redatta in un periodo di tempo che spazia dal V secolo a.C. al II d.C.
Il Bahagavad-Gita è un poema filosofico, con preponderanti elementi didattici; si presenta come un dialogo tra la guida spirituale e divina, Krishna, e l’eroe Arjuna che, nell’imminenza di una battaglia definitiva contro i cugini, si pone dei problemi sulle conseguenze delle sue azioni. Tale battaglia racchiude il valore simbolico della lotta tra le forze buone e cattive che si svolge nell’intimo di ogni persona.
Questo libro ha lasciato una profonda impronta nella vita culturale e religiosa dell’India, da essere considerato un testo sacro.

N el poema viene esplicitato il concetto di Brahaman: l’Assoluto, l’Eteo, l’Imperituro, a cui l’uomo deve tendere senza avere la pretesa di comprenderlo. Brahaman è il principio vitale di ogni cosa, la sostanza della conoscenza che, all’interno di una mente ricettiva, ne diventa la saggezza.
Brahaman, infatti, è «l’inizio, la metà e la fine di ogni vita» (canto X, strofa 20). Concetto che richiama l’espressione biblica con cui nell’Apocalisse si definisce il Cristo: «Io sono l’Alfa e l’Omega» (Ap 1,8). «Il mondo dipende da me – afferma ancora Brahaman -, come le perle sono sospese al loro filo» (VII,7).
Nel Bahagavad-Gita viene espresso perfino una verità del credo ebraico-cristiano, anche se non frequentemente utilizzata: il concetto di mateità di Dio: «Io sono il padre e la madre di questo mondo, io lo mantengo e lo purifico» (IX,17).
Seguendo i precetti adeguati, l’anima raggiunge la saggezza e sarà salvata: nella credenza indù ciò significa che essa sarà in grado di uscire dal ciclo delle reincarnazioni. «Chi raggiunge la suprema perfezione, raggiunge anche me; per una tale anima pura non c’è più l’afflizione della rinascita» (VIII,15).
Quindi è già esplicito il concetto salvifico insito in Brahaman, cui ogni uomo deve aspirare e tendere.
Tale salvezza non è raggiungibile con la logica, perché a un certo punto non è possibile dare risposte su argomenti religiosi; occorre, invece, un altro atteggiamento: quello della fede. Non è il potente a raggiungere la salvezza, ma il fedele: nella sua umiltà questi non è mai respinto, anche quando si presenta in forme tanto ingenue: «Anche gli adoratori di immagini, in realtà adorano me; la loro fede è reale, sebbene i loro mezzi siano poveri» (IX,23).
L’umiltà di Brahaman si piega verso il credente: «Io accetto ogni dono, un frutto, un fiore, una foglia, anche l’acqua, se ogni cosa è offerta in modo puro e devotamente e con amore» (IX,26).
La fede non è un aspetto logico; al credente non è richiesto di capire la natura e potenza divina. Occorre l’abbandono: «Abbi fede in me, sappi che esisto e che sostengo il mondo» (X,42). In presenza di una fede sincera, Brahaman stesso diventa operativo nel credente. In questo caso infatti: «Io mi insedio nel loro cuore e la mia compassione, come una lampada accesa di saggezza, disperderà l’oscurità della loro ignoranza» (X,11).

B rahaman possiede una gloria inimmaginabile alla mente umana. Per spiegarla si ricorre ad una poetica analogia paradossale: «Qualora mille soli dovessero esplodere all’improvviso nel cielo, la loro luminosità non riuscirà ad approssimare la gloria della mia vista» (XI,12).
È interessante notare che questa strofa è stata utilizzata dal fisico nucleare Oppenheimer, che conosceva il sanscrito, per descrivere la prima esplosione nucleare realizzata nel deserto del Nevada, di cui era stato testimone.
Anche per noi cristiani Dio è luce. Le citazioni bibliche sono al riguardo innumerevoli. Così i mistici e altre creature privilegiate descrivono la propria esperienza di Dio con immagini di luce sfolgorante.

D ove risiede Brahaman? Egli abita in un suo mondo che non possiamo vedere, poiché, come creature, siamo sottoposte alla illusione del maya: ciò che nel mondo appare reale ai nostri sensi, in realtà è illusorio. Anche per noi cristiani Dio risiede in un «luogo inaccessibile», cioè fuori di ogni nostra capacità di comprensione.
Il concetto di illusorietà della filosofia indù possiamo intuirlo se consideriamo alcune apparizioni di Gesù dopo la risurrezione. I vangeli raccontano che il Cristo risorto è apparso ai suoi discepoli «mentre erano chiuse le porte dove essi si trovavano» (Gv 20,19), dando l’impressione di passare attraverso i muri. In realtà questa era l’impressione di creature umane come noi; ma per i corpi celesti il mondo sensibile, compresi i muri, non ha consistenza e non può ostacolare i loro movimenti: da qui deriva l’illusorietà del nostro mondo materiale e visibile, di fronte a quello reale ma invisibile di Dio.

C ome si può raggiungere la salvezza? Occorre seguire la via della purezza e del controllo dei propri aspetti negativi. «Mi è caro l’uomo che non odia nessuno, che è sensibile a tutte le creature, che ha lasciato perdere l’“io” e il “mio”, che non è sconvolto dal dolore e dalla gioia, che è paziente e sereno, risoluto e sottomesso. Caro mi è chi non disturba e non è disturbato, chi è libero dalle passioni, dalla gelosia, dalla paura e dalla preoccupazione» (XII,13-15).
Cosa succede a chi non segue la via della virtù? Anche nella concezione indù esiste un inferno, come situazione di sofferenza da cui il Bahagavad-Gita mette in guardia: «L’inferno ha tre porte: la lussuria, l’ira e l’avidità» (XVI,21). Dante Alighieri riferirebbe dell’ostacolo di tre fiere: la lonza (pantera), simbolo della lussuria; il leone, simbolo dell’orgoglio; il lupo, simbolo della cupidigia (cfr. I,I,31-51).
Da qui scaturisce un ulteriore ammonimento: «Chi lascia perdere queste tre (porte) ed è assorbito nel suo proprio miglioramento, costui può raggiungere il suo obiettivo supremo» (XVI,22), che nel nostro linguaggio possiamo chiamare salvezza eterna.
È interessante notare che lo sforzo per migliorarsi è più importante dei risultati raggiunti. «Il vostro compito è lavorare, non raccogliere i frutti del lavoro» (II,47). E per fare ciò bisogna essere tenaci e sereni: «Ma l’uomo stabile pensa a me e comanda i suoi desideri. La sua mente è stabile, perché i suoi desideri sono soggiogati» (II,61).
Il risultato di tale fatica è la pace: «O Arjuna, la pace consiste nell’essere in Brahaman, per non soffrire più delusioni. Nella pace è eterna l’unità con Brahaman, la pace del Nirvana» (II,72).

I n conclusione, questi pochi versi del Bahagavad-Gita fanno intravedere varie somiglianze tra la concezione di Dio nel mondo indù e quella della fede cristiana. Esistono, naturalmente, profonde differenze su molti concetti di base. È tuttavia confortante constatare che le radici più profonde di culture e religioni tanto lontane siano così somiglianti, più di quanto appaia a prima vista.
Sono i «semi del Verbo», diceva san Giustino, scrittore cristiano del II secolo: sementi di verità che lo Spirito ha sparso in culture e religioni attraverso i secoli e ad ogni latitudine e che attendono la luce di Cristo per maturare frutti di salvezza.

Piergiorgio Motta