Russia: la testimonianza di un missionario italiano. Chi sogna le cipolle del comunismo?

 

La metropoli di San Pietroburgo
consente anche di incontrare dei missionari: don Pietro Scalini, per esempio. Aspri gli
scogli religioso-ecumenici. Lo sa pure Giovanni Paolo II, che ha cercato di dialogare con
i leader cristiano-ortodossi di un ex paese sovietico: Ucraina (23-27 giugno). Acute e
complesse sono soprattutto le difficoltà politico-sociali. Emerge costante la domanda:
perché la Russia, fino a ieri superpotenza, oggi annaspa nella povertà? Mentre la
libertà…

 

A San Pietroburgo
  si parla anche…italiano

San Pietroburgo. Alloggiamo davanti al "monumento della
liberazione": un complesso mastodontico, non bello, enfaticamente nazionalista, che
tuttavia rimanda ad una tragedia immane: l’assedio della città da parte
dell’esercito nazista dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1945. Nei 900 giorni
di accerchiamento morirono di fame e stenti 470 mila civili. Si dice che rappresenti il
"record mondiale" degli assedi. Una vergogna…

Un italiano a San Pietroburgo si trova quasi a casa. Idioma a parte
(ostico anche per i caratteri cirillici), numerosi e splendidi palazzi "parlano
italiano". Sono le opere degli architetti Domenico Trezzini (1670-1734), Francesco
Rastrelli (1700-1771), Giacomo Quarenghi (1744-1817), nonché Carlo Rossi (1775-1849). Lo
zar Pietro il Grande e la zarina Caterina II erano innamorati di questi artisti, quasi
sconosciuti in Italia, ma celebri in Russia. E non furono gli unici.

C’è poi l’Ermitage, il museo mozzafiato in cinque vasti e
sontuosi padiglioni, di fama mondiale anche per i dipinti di Leonardo e Tiziano o le
sculture di Michelangelo e Canova. Per non parlare dei capolavori di Simone Martini,
Filippo e Filippino Lippi, Giorgione. San Pietroburgo è l’"Atene russa"
anche per la letteratura: si pensi a Puskin, Tolstoj, Dostoevskij, Gogol. Capitale della
cultura, dunque. E capitale della politica per oltre 300 anni, fino alla rivoluzione di
ottobre del 1917, allorché fu rimpiazzata da Mosca. L’ex capitale si chiamò
"Leningrado", in onore del padre della rivoluzione comunista. Ma nel 1991, con
lo sfascio dell’Unione Sovietica, ritoò ad essere San Pietroburgo…

È il 27 maggio. La metropoli festeggia il suo compleanno (è nata nel
1703 da Pietro I) con rievocazioni in costume e spettacoli di prosa e musica. Ma piove
quest’anno a San Pietroburgo, tra raffiche gelide di vento e persino qualche spruzzo
di nevischio. Il termometro segna 2 gradi, mentre in Italia scavalca i 30. Verso sera
bussiamo alla porta di Pietro Scalini, un giovane prete della diocesi di Cesena, da
quattro anni missionario fidei donum in Russia. Attraverso corridoi polverosi, scale
dissestate e portici scrostati, tra sacchi di cemento, mattoni, piastrelle, carriole,
secchi e cazzuole, il missionario ci introduce nell’unico locale in grado di offrire
un po’ di accoglienza. È una modesta chiesetta.

 

Da atei a seminaristi

San Pietroburgo, nella giurisdizione ecclesiastica cattolica, fa parte
della diocesi di Mosca: non perché la metropoli non ne meriti il titolo, ma perché i
cattolici sono "mosche bianche". Tuttavia anche a Mosca si contano quasi sulle
dita. "L’intera Russia, che comprende territori europei e asiatici (cioè la
sterminata Siberia, fino a Vladivostock e al Mare di Bering), è divisa in appena quattro
diocesi, con altrettanti vescovi, proprio perché i cattolici sono scarsissimi: in media
lo 0,3, su 150 milioni di abitanti". È don Pietro che spiega, dall’altare della
cappella, e prosegue: "Questo è il seminario cattolico; vi si preparano a diventare
sacerdoti giovani di tutta la nazione. Inoltre ci sono ragazzi della Georgia, della
Moldavia e del Kazakistan. Complessivamente 44 seminaristi, che studiano filosofia e
teologia. I futuri preti saranno di rito latino".

Il seminario di San Pietroburgo riaprì (timidamente) i battenti nel
1993, dopo il lento disgelo religioso avviato nel 1991. Ma era operante già nel 1850. Nel
1918 fu requisito dallo stato, subito dopo l’avvento dei bolscevichi. Al primo piano
si installò una banca con vari uffici. Nei locali adiacenti si montavano motori o si
costruivano pezzi di ricambio… Al presente resistono una officina meccanica e
un’azienda che fa esperimenti chimici. "Dal seminario, riaperto, partiranno i
nuovi annunciatori del vangelo nell’ex impero sovietico, esclusa Bielorussia e
Ucraina". Ma con gravi difficoltà. "Entrando nel seminario – continua don
Pietro – avete notato il disordine: polvere e calcinacci ovunque. Stiamo ristrutturando il
complesso, incamerato a suo tempo e ora restituito (dietro nostra richiesta) in pessime
condizioni. Nel 1993 la prima sede del seminario furono dei containers, piazzati sul
sagrato della chiesa dell’Immacolata".

Fino al 1917 a San Pietroburgo operavano 18 chiese cattoliche, di cui
10 parrocchiali. Ora se ne contano cinque, tutte malandate: quindi in ristrutturazione.
Durante l’era sovietica nella Russia europea rimasero aperte soltanto due chiese
cattoliche (la "Madonna di Lourdes" a San Pietroburgo e la "San Luigi"
a Mosca), solo perché sotto la protezione dell’ambasciata di Francia. Quanto ai
sacerdoti, se esistevano, erano pochissimi e clandestini; per cui quasi nessuno sapeva di
loro.

I 44 seminaristi di San Pietroburgo sono in maggioranza adulti di 25
-30 anni, con una minoranza sui 20 anni. È interessante la storia della loro vocazione,
che dipende dall’incontro con un prete, dall’entrata casuale in una chiesa, dal
fascino della liturgia. Pochi sono cresciuti in una famiglia credente, ma senza ricevere
il battesimo; altri sono stati battezzati secondo il rito ortodosso. Molti provengono da
un ambiente ateo. "Ma il buon Dio – commenta don Pietro – ha voluto che incontrassero
ugualmente la chiesa".

 

Proselitismo, ricchezza,
missione

Don Pietro, la chiesa cattolica in Russia è un’esigua
minoranza. Eppure è molto temuta dai cristiani ortodossi per un presunto proselitismo.
Voi, come vi sentite di fronte a tale accusa? È rimbalzata anche in Italia con vasta eco.

"L’accusa non coglie per niente la realtà. San Pietroburgo,
ad esempio, conta 5 milioni di abitanti, di cui 2.500-3.000 cattolici. Che proselitismo
può fare tale infimo gruppo?".

Chi sono gli accusatori?

"L’accusa è dell’alta gerarchia ortodossa. Però la
gente non vede nei cattolici un pericolo, anzi! Noi abbiamo molti amici ortodossi anche
fra i preti; qualche sacerdote insegna persino nel nostro seminario. Ripeto: i russi,
nella grande maggioranza, non ci sono ostili, anche perché non sanno chi sia Gesù
Cristo, né cosa sia la chiesa cattolica".

In Russia, parlando di chiesa, si intende quella ortodossa. Perché?

"Perché, se sei cristiano, devi per forza appartenere alla chiesa
ortodossa. C’è una identificazione etnica tra la nazionalità russa e
l’appartenenza alla religione ortodossa. Così si perde di vista la missione
universale della chiesa. E (fatto non meno grave) la gente resta priva di punti di
riferimento: non sa quale sia il senso della vita. In compenso, si offre una predicazione
moralistica, avulsa dalla realtà. La chiesa ortodossa, invece di accusare quella
cattolica di proselitismo, dovrebbe aiutare la popolazione ad incontrare Cristo salvatore.
Qualche prete cattolico può anche avere una mentalità di occupazione. Ma non è la
regola".

Si dice che le gerarchie ortodosse temano i cattolici, perché
dispongono di notevoli mezzi economici. È vero che siete ricchi?

"Disponiamo dei mezzi che ci offrono. E lei ha l’esempio del
nostro seminario. Abbiamo anche mezzi, perché i giovani arrivano qui senza un rublo e
ricevono tutto, dalle scarpe al cibo, dai libri ai vestiti. Per la ristrutturazione del
seminario, facciamo dei progetti, che vengono finanziati dalle organizzazioni Renovabis, Aiuto
alla chiesa che soffre,
ecc. Ma dire che siamo ricchi…

Quasi tutti i parroci cattolici in Russia sono polacchi, assai modesti
economicamente. Io posso contare sul "sostentamento del clero" in vigore in
Italia, ho degli amici che mi aiutano. I polacchi, invece, si mantengono recandosi
d’estate in patria: sostituiscono qualche prete in vacanza e, così, raccolgono i
soldi per vivere, ricostruire la chiesa, la canonica o la casa delle suore.

Ho in mente don Celestino, parroco a Kharovsk. Due anni fa ha avuto
l’incarico di recarsi in questa cittadina, a circa 350 chilometri da San Pietroburgo:
non avendo un’abitazione, ha dormito per un mese in stazione. Durante il giorno,
indossata la veste e la croce, girava lungo le strade per far vedere che esisteva un prete
cattolico. A poco a poco ha conosciuto qualche fedele. Oggi, di sabato, affitta una chiesa
ortodossa per cinque ore e vi celebra la messa, fa catechismo o l’unzione degli
infermi. Non è certamente ricco.

Chi invece ha parecchi denari sono i Testimoni di Geova: organizzano
incontri negli stadi e a chi entra danno un dollaro, che è abbastanza in Russia. Questo
sì che è proselitismo!".

Un’altra accusa che gli ortodossi rivolgono ai cattolici è:
"Voi in occidente siete tutti materialisti, avete perso la fede, mentre noi
l’abbiamo conservata!".

"Se l’occidente ha perso la fede, la Russia è sulla stessa
barca, o peggio. L’amoralità è a livelli altissimi: l’assenza della famiglia,
per esempio, fa paura. Molti nostri seminaristi non hanno il papà: o perché è stato
cacciato dalla mamma (essendo sempre ubriaco), o perché la madre stessa vive con un altro
uomo. Per una donna russa l’importante è avere figli; con chi, è secondario".

Se per le gerarchie ortodosse voi, cattolici, siete come il fumo
negli occhi, come venite giudicati dall’autorità politica?

"Molto dipende dai rapporti personali che si instaurano. Noi
stranieri, ad esempio, incominciamo ad avere difficoltà per il visto, cioè il permesso
di soggiorno; soprattutto i preti polacchi hanno grossi problemi. Le parrocchie possono
invitare qualche sacerdote, ma solo per "affari religiosi"; il visto viene
rilasciato per tre mesi, alla scadenza dei quali bisogna lasciare il paese; poi magari si
ritorna, se il visto è rinnovato. La situazione, però, sta diventando psicologicamente
pesante, oltre che costosa. Io, come insegnante, sono più fortunato, perché il mio visto
dura un anno. Ma il mio telefono è sotto controllo".

Don Pietro, prescindendo dal suo lavoro in seminario, che significa
essere missionario in Russia?

"Essere presente, servire, testimoniare la fede in Gesù Cristo
quasi in un… deserto. Quest’anno la pasqua è stata celebrata da tutti nella stessa
data. A Mosca, fra ortodossi, cattolici e protestanti, ha fatto il 4% della popolazione.
Davvero poche gocce in un oceano".

Giovanni Paolo II, il provocatore

Il 23-27 giugno (pochi giorni dopo il nostro viaggio) Giovanni Paolo II
era in Ucraina. Il pellegrinaggio è stato duramente criticato sia dalle gerarchie
ortodosse ucraine sia da quelle russe. Pomo della discordia, anche gli "uniati"
(termine dispregiativo) o "uniti". Si tratta dei cristiani dell’Ucraina
(separatisi dal pontefice di Roma con lo scisma del 1054), la cui gerarchia nel 1595, a
Brest-Litovsk, decise di ritornare alla comunione con il papa, conservando però la
liturgia orientale e l’identità etnica e culturale. Ma non tutti aderirono
all’"unione". E tuttora, fra "uniti" e "non uniti"
permangono aspri contrasti. Inoltre, per la gerarchia ortodossa di Mosca, gli
"uniti" sono dei traditori e rinnegati. D’altro canto, sono stati pure un
po’ emarginati dalla gerarchia cattolica di rito latino, perché non sarebbero né
carne né pesce. Giovanni Paolo II è andato in Ucraina per porgere a tutti la mano di
padre e fratello. Però in Russia la gerarchia ortodossa ha ritenuto la visita una
provocazione e ha minacciato di rompere ogni dialogo ecumenico. Ancora una volta, il
problema investe i gerarchi, non l’uomo della strada. In vista del pellegrinaggio del
papa in Ucraina, si è svolto a Mosca un incontro tra ortodossi, cattolici e protestanti.
Durante il dibattito un giovane ha dichiarato: "Io sono fedele alla chiesa ortodossa
e al patriarcato di Mosca. Tuttavia al rappresentante della mia comunità domando: circa
la visita del papa, mi è lecito pensarla diversamente dal patriarca?". Un silenzio
tombale è calato sull’assemblea. Muto e imbarazzato è apparso, soprattutto, il
rappresentante del patriarca di Mosca. "Nonostante le difficoltà in corso – commenta
don Pietro -, io nutro speranza, a patto che i leader cristiani superino le gelosie, non
cerchino il privilegio, bensì vengano incontro alle vere esigenze della popolazione, che
è disponibile ad un messaggio nuovo. Tuttavia, dopo oltre 70 anni di propaganda
materialista, gli individui sono distrutti nell’anima. Quasi tutti sono cresciuti con
il ritornello "Dio è un nemico". Anche in famiglia erano sottoposti a severi
controlli. E questo non è facile da dimenticare. Lo si può fare con il vangelo di
Cristo, e non solo con le prescrizioni e i riti (pur affascinanti) degli ortodossi".

Neppure l’oro conta

Un breve soggiorno in Russia è sufficiente per sollevare un quesito
cruciale: perché la nazione, fino al 1991 superpotenza militare, politica e tecnologica
(in grado di lanciare il primo uomo nello spazio) oggi è povera? "Probabilmente già
nel 1991 la Russia era allo sfascio – risponde un po’ titubante don Pietro -. Inoltre
il cambiamento è avvenuto troppo in fretta: ha abbattuto tutto, senza costruire nulla.
Ecco perché la gente non stima Gorbaciov. Fino al 1991 l’economia era organizzata…
e molti d’estate potevano prendere l’aereo e trascorrere le vacanze sul Mar
Nero, perché costava poco. Lo stato garantiva l’indispensabile: un tipo di
salsiccia, un tipo di farina, e ognuno riceveva la sua parte, pur facendo pazientemente
lunghe code davanti ai negozi.

Di colpo ogni cosa muta, per una decisione presa a tavolino. Lo scontro
di mercato trova tutti impreparati… Nell’agosto 1998 la svalutazione del rublo è
pazzesca: dalla sera alla mattina si bloccano tutti i conti in banca, impedendo alla gente
di ritirare i propri soldi. E se uno ieri aveva i denari per comprarsi un alloggio, oggi
la stessa somma basta solo per un salame. Subito la mafia entra nell’economia: dilaga
la grande criminalità, mentre ad alto livello imperversa la corruzione… In seminario
abbiamo un ragazzo siberiano; nel suo paese gli stipendi si pagano tuttora in oro; ma non
se ne fa nulla, perché non è commerciabile…".

Oggi in Russia le strutture produttive sono in coma. La gente continua
a lavorare, ma spesso senza stipendio. "A San Pietroburgo un docente universitario di
fisica, dopo l’insegnamento, non ricevendo più alcun salario, raccoglie bottiglie
vuote di birra sui marciapiedi; le vende e ricava qualche rublo". In tale situazione,
c’è rimpianto per il comunismo? "Forse sì, specie fra i giovani – mormora
sottovoce il nostro interlocutore -, anche se non per quello di Stalin o Breznev…".
Intanto fra gli oligarchi le lotte di potere sono tante e spietate. Quanto a libertà, lo
"zar" Putin oggi chiude un giornale, domani una televisione e dopodomani… La
scusa è: non ci sono soldi. Ma la libertà è denaro?

Ci congediamo da don Pietro. Sono le 22.30, ed è ancora crepuscolo a
San Pietroburgo, perché è prossimo il fenomeno delle "notti bianche",
allorché il sole quasi non tramonta, ma si adagia un po’ sotto l’orizzonte.

Per ritornare al "monumento della liberazione", prendiamo la
metropolitana. Sulle lunghe, ripide e velocissime scale mobili non mancano ragazzi e
ragazze con bottiglie di birra. All’uscita, forse, abbandoneranno i vuoti sul
marciapiede, che saranno raccattati dal professore di fisica al verde.

Rimpiangono anch’essi il comunismo? Come gli ebrei nel deserto
che, stanchi della fatica di essere liberi, sognavano le cipolle e l’aglio della
schiavitù in Egitto? (cfr. Num 11, 5).

 

(*) L’articolista è in Russia con l’associazione "Amici
Missioni Consolata" di Torino e la guida Delfina Boero (della fondazione "Russia
Cristiana").

 

Il "Va’ pensiero" per Maria

Il "Museo etnografico" di San Pietroburgo raccoglie alcuni
reperti sui popoli dell’ex Unione Sovietica. Si tratta, soprattutto, di reperti
attinenti alla vita tradizionale nei villaggi: strumenti agricoli, reti per la pesca,
arredi di casa, borracce, candelieri ed anche altarini domestici ortodossi, con
l’immancabile icona di un santo o della Madre di Dio, oati di drappi ricamati e
multicolori. Il museo fu allestito in epoca sovietica.

Al termine della visita, ci si imbatte in una gigantografia stilizzata,
che raccoglie in forma circolare (quasi attorno ad una mensa) tutti i rappresentanti delle
varie popolazioni. È evidente la propaganda della presunta armonia fra le 15 nazioni che
costituivano l’impero sovietico. Un ideale smentito dalla realtà.

Un tardo pomeriggio entriamo nel "Museo etnografico" in
gruppo, costituito dagli "Amici Missioni Consolata", guidato da Delfina Boero.
Il tempo a disposizione non è molto, perché la chiusura è prossima. In compenso, non
c’è ressa e la visita è più tranquilla. Tra i sorveglianti del museo, una signora
ci avvicina: si chiama Maria. Ha intuito che siamo italiani e, avvalendosi della nostra
interprete, non lesina apprezzamenti per il patrimonio artistico italiano. Maria è sulla
sessantina e veste in modo dimesso. Interrogata, accetta di rispondere a qualche domanda.
È di San Pietroburgo e ricorda benissimo l’assedio della città da parte dei
tedeschi durante il secondo conflitto mondiale, avendo allora 16 anni. "Sono stati
mesi e anni terribili – dichiara -. Noi pietroburghesi resistevamo al nemico con tutte le
nostre forze, sopportando i bombardamenti, la fame e il freddo. Voi non potete immaginare
cosa sia l’inverno nelle case russe, senza riscaldamento, specialmente in tempo di
guerra. Ho visto anche morire mio padre e un fratello minore". Lo sguardo di Maria è
dolce, ma un po’ inquieto, e il tono della voce pacato ed affannato ad un tempo.

"Signora Maria, com’è la vita oggi in Russia?".
"Economicamente stavamo meglio ieri" risponde guardandosi intorno, dopo un
istante d’imbarazzo.

"Dobryj vjecir, udaci! (buona sera e buona fortuna!)" la
salutiamo con un sorriso, ostentando il nostro russo striminzito. Stiamo per allontanarci.
Ma Maria prende la mano di Delfina, la trattiene e dice: "Stasera, dopo il lavoro,
andrò ad un concerto. Amo la musica classica, compresa quella italiana. Per piacere,
cantatemi "Va’ pensiero" di Verdi!". L’attacco del famoso pezzo
del Nabucco è molto artigianale, perché nessuno di noi è un Pavarotti. E (sorpresa!),
all’acuto "arpa d’or dei fatidici vati", si intromette con forza una
donna, più giovane di Maria e certamente con maggiore potere. Con accenti sibilanti
apostrofa la collega: "Ma sei impazzita? Non sai quello che ti può succedere?".

Sul volto spettrale di Maria scorrono le lacrime.

Quel "volto spettrale" ci ha riportati all’impietoso
sistema di intimidazione psicologica in vigore nell’Unione Sovietica, magistralmente
analizzato dallo scrittore Solzenicyn, che annientava la persona prima ancora di finire in
un gulag. Chi sospettava il proprio arresto viveva per settimane e settimane
nell’incubo; ne era così stremato che, quando finalmente scattava l’ora del
prelievo, "il sentimento dominante era il sollievo e addirittura… la gioia!"
(1).

Anche se il peggio doveva ancora venire.

F.   B.

 

1) Aleksandr Solzenicyn, Arcipelago Gulag, vol. I, Mondadori,
Milano 1978, p. 30. Il "maiuscolo" è dell’autore russo.

Francesco Beardi




YOKKOK (COREA DEL SUD): contesti e sfide in evoluzione DI SOGNO IN SOGNO

Iniziato 13 anni fa, il "sogno coreano" dei missionari
della Consolata è diventato realtà consolidata. I 10 missionari che vi lavorano ne hanno
tracciato un’analisi delle situazioni culturali, sociali ed ecclesiali, raccogliendo
le sfide che tali contesti pongono al loro carisma ad gentes.

 

Chiusa all’influenza occidentale fino al secolo XVII, la Corea è
stata definita "stato eremita". Anche se, risalendo alle origini, si trovano
migrazioni di cinesi, mongoli e giapponesi, il popolo coreano ha conservato storicamente
una profonda omogeneità e identità culturale, tanto da incontrare difficoltà
nell’accettare ciò che è diverso.

Molte cose, però, sono cambiate negli ultimi decenni. Dopo
l’umiliante esperienza dell’invasione giapponese (1910-1945), il paese è stato
spaccato dalla divisione ideologica tra il Nord (comunista) e il Sud (filo occidentale),
fino a sfociare in guerra aperta (1950-1953). L’armistizio ha fermato le armi, ma non
si è ancora firmato un trattato di pace. Mentre il Nord è ancora fermo alla situazione
di stallo di mezzo secolo fa, la Corea del Sud, dove lavorano i missionari della
Consolata, ha conosciuto una profonda e veloce evoluzione in ogni settore della vita del
paese, con conseguenze difficili da comprendere e valutare.

 

DAL CAMPO ALLA CITTÁ

Con oltre 46 milioni di abitanti, su una superficie di 99 mila kmq
(meno di un terzo dell’Italia), la Corea del Sud è uno dei paesi del mondo con la
più alta densità di popolazione, per lo più concentrata nelle città. Il fenomeno si è
evoluto negli ultimi quattro decenni: nel 1960 viveva in città il 28% della popolazione;
nel ’95 è passata al 79%. Seoul, la capitale, conta 10 milioni di abitanti, quasi un
quarto della popolazione totale. Eminentemente agricola, la società coreana è diventata
urbana e industriale: ciò ha provocato profondi cambiamenti culturali, pur rimanendo vivo
il riferimento alle tradizioni millenarie. Dinamico per natura, sotto la spinta ossessiva
della competitività, efficienza, consumismo, scalata a uno stato sociale più alto, il
popolo coreano è alle prese con un ritmo di vita che causa preoccupazione e angoscia e ne
trasforma profondamente l’anima e l’identità religiosa. Non c’è più
tempo né libertà per cercare la pace, l’armonia, la vita interiore. D’altra
parte, rimangono nella gente il riferimento alle forti tradizioni e, nei gruppi religiosi,
la coscienza e il desiderio di dare una risposta alle nuove problematiche. L’anima
coreana è ancora intrisa e sostenuta da una religiosità tradizionale, soprattutto dallo
sciamanismo.

Immersi tutti i giorni nel mondo della tecnologia, molti coreani
frequentano i riti sciamani per trovare una risposta immediata ai propri quesiti. Buddismo
e confucianesimo hanno ancora molto peso nelle relazioni familiari e sociali. Sètte,
movimenti religiosi e mercati spirituali che offrono facili risposte sono onnipresenti.

 

FAMIGLIA CHE CAMBIA

Il passaggio dall’organizzazione contadina a quella della
mentalità industriale e tecnologica ha scardinato il sistema della famiglia tradizionale:
il numero dei membri è ridotto, con uno o due figli per coppia; le famiglie sono
massificate e concentrate in condomini-alveari; i ritmi di lavoro prolungano
l’assenza dei genitori; spesso il padre è presente solo la domenica. Tutto ciò ha
effetti deleteri sulle relazioni familiari e crea problemi di solitudine e
incomunicabilità tra genitori e figli. Eppure la famiglia rimane il peo della società
coreana. La struttura familiare è basata sui valori confuciani: senso dell’autorità
e gerarchia, disciplina e pietà filiale, corresponsabilità, sacrificio per gli altri e
ricerca del benessere della famiglia-gruppo-nazione. Tale struttura continua ad orientare
con forza la condotta degli individui. Il senso di dipendenza dalla famiglia è molto
vivo: il distacco da essa è sempre difficile e doloroso. Il popolo coreano ha un forte
senso di gruppo, aggregazione, organizzazione e distribuzione dei ruoli. È parte
dell’identità nazionale. "Il nostro" è mentalità comune ed è stata la
forza motrice per lo sviluppo della società. La persona dipende dal gruppo; è debitrice
verso i "suoi", siano essi amici, azienda, nazione. Lo stare insieme, però, non
si traduce più in profondità di comunicazione.

 

GIOVANI D’OGGI

Le nuove generazioni coreane, uomini e donne, hanno raggiunto un ottimo
livello di educazione. Ma il sistema scolastico tradizionale, rigido nella disciplina e
tendente alla massificazione e "militarismo", caratterizzato dall’uso della
violenza come mezzo di disciplina, comincia a essere largamente contestato e denunciato
dagli ambienti didattici e dagli stessi giovani. Anche il governo, da parte sua, ha
annunciato piani di ristrutturazione del sistema educativo, per renderlo più rispondente
al processo di apertura, globalizzazione e inteazionalizzazione della Corea.

I giovani coreani sono al tempo stesso eredi delle tradizioni e
protagonisti delle trasformazioni in corso. I programmi televisivi loro destinati sembrano
procedere su due culture parallele: in superficie i giovani sembrano uguali ai loro
coetanei occidentali (moda, balli, divertimenti, uso di bevande alcoliche); generalmente,
però (ed è la seconda cultura), non consumano droghe, non hanno esperienze sessuali
precoci; rispettano autorità e disciplina, non fanno grandi domande; mancano di spiccato
spirito critico e sono facilmente influenzabili. L’80% dei giovani frequenta
l’università e fino all’ultimo anno della scuola secondaria essi hanno un ritmo
di vita impressionante. Il loro orizzonte è racchiuso in tre verbi: studiare, avere un
buon lavoro, sposarsi. La famiglia fa l’impossibile perché il figlio abbia la
migliore educazione possibile: l’ammissione a una università rinomata è una
garanzia per il futuro, anche se al termine degli studi non è sempre facile avere
un’occupazione immediata; ciò acuisce la competitività. La maggioranza si sposa tra
i 25 e 35 anni.

Allegri e responsabili, immersi nel mondo della tecnologia e internet,
i figli della nuova Corea, aperta al mondo, sono più disponibili della generazione
precedente a imparare nuove lingue e andare all’estero. Ma conservano un grande senso
di appartenenza alla propria terra, popolo e cultura. Si riscontra in loro un forte senso
di "coreanità" e nazionalismo, anche se non hanno la stessa intensità delle
generazioni che, negli ultimi 30 anni, hanno sacrificato la propria vita lavorando per la
patria.

 

POVERI COREANI

Per promuovere lo sviluppo del paese, nel passato il governo coreano
favorì l’affermarsi di grandi gruppi finanziari e industriali; le masse contadine in
cerca di lavoro hanno fatto pullulare grandi agglomerati urbani con sacche di povertà
più o meno grandi, ma evidenti. La dittatura ha instaurato un clima di sospetto,
soprattutto a causa della fobia della Corea del Nord, e spinto la gente a
un’obbedienza cieca ai capi politici. Ancora oggi sono in vigore le leggi di
sicurezza nazionale, la pena di morte e molti prigionieri politici sono in carcere. In
fatto di giustizia, diritti umani e pacificazione la Corea ha ancora tanta strada da
percorrere. La chiesa cattolica ha giocato un ruolo determinante nei movimenti per
l’affermazione della democrazia (1987); impegno premiato dalla crescita di
conversioni e rispetto agli occhi della popolazione. Con la democrazia sono apparsi anche
molti gruppi impegnati nel sociale.

Per le olimpiadi del 1988 lo stato ha rimodellato le zone povere delle
città, specie quelle vicine alle sedi delle gare, adottando criteri occidentali
nell’organizzazione e architettura, senza tenere conto della situazione e del futuro
della gente. In tale contesto è pure iniziata l’immigrazione di filippini, cinesi,
indiani, impiegati nei lavori più umili. E il fenomeno continua: molti stranieri entrano
nel paese clandestinamente in cerca di lavoro. Il miracolo economico ha ravvivato
l’orgoglio nazionale, finché la crisi del 1997 cominciò a provocare licenziamenti e
disoccupazione, aumentando il numero dei poveri. Le riforme economiche e la demolizione
dei quartieri più degradati non sono riuscite a nascondere la povertà. Spesso i
senza-tetto assistono impotenti alla distruzione delle loro casupole; i più fortunati
usufruiscono degli appartamenti sociali o vivono nei sottoterra degli edifici-alveari.

In città i poveri si notano meno, ma il loro numero è in continuo
aumento; si prevede che in futuro, quando le due Coree saranno riunificate, il fenomeno
sarà aggravato da un probabile flusso di nordcoreani che verranno nel sud per occupare i
posti di lavoro più umili e malpagati.

 

PLURALISMO RELIGIOSO

La cultura e le strutture sociali coreane sarebbero incomprensibili
senza le loro tradizioni religiose millenarie. Alla base c’è lo sciamanismo, sul
quale si sono innestate altre religioni, come buddismo (IV secolo) e confucianesimo (XII
secolo). Il cristianesimo ha iniziato la sua presenza circa 200 anni fa con la chiesa
cattolica e i protestanti, arrivati 100 anni dopo. Tra il XIX e XX secolo sono nate altre
religioni, come ch’ondokyo e buddismo won, caratterizzate da forte spirito
nazionalista e sincretismo. Da alcuni anni si stanno affermando vari movimenti religiosi,
ispirati a taoismo e new age, integrati a elementi della religione popolare coreana.

Il contesto religioso coreano è caratterizzato da un grande
pluralismo. In tutte le religioni l’opera di proselitismo è molto forte, specie tra
i protestanti. Di regola c’è armonia fra le diverse religioni, che coesistono
pacificamente nella stessa famiglia o gruppo sociale. Negli ultimi anni, però, si sono
verificati alcuni incidenti, provocati soprattutto da fondamentalisti protestanti e
sfociati in incendi di templi e distruzioni di statue di Budda e Tangum.

A livello gerarchico esiste una buona collaborazione tra i leaders nel
campo del dialogo interreligioso e nella ricerca di risposte comuni ai diversi problemi
sociali. Tra i fedeli, invece, mancano contatti e conoscenza reciproca; ognuno tende a
chiudersi nel proprio gruppo. Benché il popolo coreano sia profondamente religioso,
normalmente non si sente parlare di religione in pubblico. Anzi, metà della popolazione
si dichiara senza religione, specie i giovani. Ciò non significa che i coreani siano
"atei" o totalmente secolarizzati, ma che non appartengono ad alcuna tradizione
religiosa organizzata. Quasi tutti i coreani compiono periodicamente qualche pra- tica
religiosa e, quando sorgono problemi o difficoltà, sperano di ricevere aiuto dal cielo o
dagli antenati. Nella mentalità religiosa coreana, infatti, vita presente e aldilà sono
strettamente legati, senza netta separazione. Per cui c’è una influenza mutua fra
vivi e antenati, i quali hanno un ruolo fondamentale nella vita dei viventi, soprattutto
nelle relazioni familiari.

Nella forma di vita coreana esiste una specie di dualismo: da una parte
la corsa permanente verso il materialismo e consumismo; dall’altra
l’inquietudine interiore, tesa alla ricerca di qualcosa di più profondo e
spirituale, della "pace del cuore" soprattutto. Per raggiungerla il coreano non
si fa scrupolo di prendere dalle diverse religioni quegli elementi che lo possono aiutare
a trovarla.

 

UNA CHIESA DA SMUOVERE

Negli ultimi decenni la chiesa in Corea è passata attraverso diverse
tappe: negli anni ’50-60 ha affrontato l’urgenza dei poveri e degli affamati;
negli anni ’70-90 ha collaborato alla ricerca della libertà e democrazia. Ciò le ha
procurato una forte crescita del numero di conversioni. Non sempre, però, ha corrisposto
altrettanta partecipazione alla vita ecclesiale. La frequenza alla messa domenicale, per
esempio, si aggira attorno al 30% dei battezzati. Ora ci si interroga su come dovrà
essere la chiesa del terzo millennio. Si parla di maggiore impegno nel campo della
formazione, educazione e catechesi. Fortemente sentito è pure il bisogno di una più
profonda spiritualità. La vita ecclesiale, infatti, è fortemente centralizzata attorno
all’organizzazione parrocchiale: la mentalità confuciana sottolinea il ruolo
gerarchico; lascia poco spazio al laicato e ne mortifica lo spirito d’iniziativa.

Quella coreana è una chiesa della classe media, dove i poveri non si
trovano a proprio agio e la figura del prete diocesano ha un posto preminente e
rappresenta un vero status. Ne deriva che le congregazioni religiose (con il voto di
povertà) sono poco apprezzate, specialmente quelle maschili. Talvolta i consacrati sono
visti come persone che non sono riuscite a diventare sacerdoti diocesani. Anche gli
istituti femminili di vita consacrata non riscuotono simpatie. Le molte religiose inserite
in parrocchia, per esempio, sono spesso viste come semplici assistenti del parroco o
sacrestane. Ciò è dovuto, probabilmente, all’organizzazione sociale, che non lascia
molto spazio pubblico alla donna.

La relativa abbondanza di preti locali sembra chiudere la chiesa alla
presenza di religiosi stranieri e l’orgoglio nazionalistico ne affievolisce la
sensibilità universale. Di conseguenza, quando la chiesa coreana pensa e parla della
missione, la concepisce quasi esclusivamente rivolta all’interno del paese, alla
ricerca di nuovi fedeli. Negli ambienti ecclesiali, infine, c’è poco interesse per
il dialogo interreligioso. Esistono strutture destinate a questo compito; in pratica,
però, non sono rilevanti e significative per la gente.

 

SFIDE E SPERANZE

Povertà urbane, dialogo interreligioso e animazione missionaria della
chiesa locale sono le sfide che i missionari della Consolata hanno accolto in 13 anni di
presenza in Corea e alle quali rispondono con il loro carisma ad gentes. Di proposito, non
hanno voluto assumere la responsabilità diretta di parrocchie, per essere disponibili ad
offrire la loro collaborazione nei campi in cui la chiesa locale sembra meno attenta.
Poveri urbani e lavoratori stranieri è una sfida costante per la chiesa locale: i
missionari della Consolata hanno offerto fin dall’inizio la loro collaborazione. Per
alcuni anni essi sono stati presenti in un quartiere alla periferia di Inchon. La loro
esperienza si è conclusa nel 1999, ma stanno studiando la possibilità di aprire una
nuova presenza tra i baraccati nella periferia di Seoul. Questa comunità avrà anche il
compito di seguire e cornordinare le attività con movimenti e associazioni operanti in vari
ambiti: Giustizia e Pace, riunificazione delle due Coree, difesa dei diritti umani, lotta
alla corruzione e allo strapotere delle multinazionali.

Speciale attenzione è rivolta al mondo giovanile, in cui i missionari
esercitano prevalentemente la loro attività di animazione missionaria e vocazionale. Per
fare ciò è di fondamentale importanza conoscere i problemi educativi dei giovani,
relazioni familiari e cambiamenti in corso, per offrire loro una formazione cristiana che
tenga conto della mentalità e della cultura locale. La sfida più grande e, in qualche
modo, nuova per i missionari della Consolata è costituita dalla presenza di tante
religioni nel paese. Quasi tutte in generale e il confucianesimo in particolare esercitano
un certo influsso anche sul cristianesimo cattolico: lo si riscontra nel senso della
gerarchia, nella strutturazione ecclesiale, nelle relazioni intee e perfino a livello
teologico.

Nella mentalità coreana Dio è concepito come un essere lontano,
separato dagli umani, con il quale è difficile stabilire una relazione d’intimità.
Idea che porta a rafforzare la presenza e importanza dei mediatori. In tale contesto non
è facile presentare il volto e l’esperienza di un Dio solidale e vicino. La
frateità vissuta dai 10 missionari della Consolata, provenienti da sei nazioni,
costituisce, più delle parole, una importante testimonianza del Dio
dell’incarnazione e della consolazione. Al tempo stesso, vivendo in mezzo ai poveri,
essi testimoniano la predilezione di Dio per i più emarginati. Per 13 anni essi hanno
studiato la cultura sociale e religiosa del popolo coreano e hanno compreso che il dialogo
interreligioso è parte integrante della loro attività di evangelizzazione. A tale scopo
è stata aperta, tre anni fa (ed è in piena attività) la comunità di Ok-kil-dong,
centro di spiritualità e punto di riferimento per la gente coinvolta nelle iniziative di
dialogo ecumenico e interreligioso.

Sogni e sfide non finiscono qui. Mentre mantengono vive la cooperazione
e comunicazione con la chiesa locale, i missionari della Consolata attendono la
riunificazione delle due Coree, con la prospettiva di aprire un altro campo di
evangelizzazione nella Corea del Nord.

Missionari della Consolata in Corea del Sud




MACAO (CINA): segni di speranza per la chiesa. PRENDERE IL LARGO

 

Qualcosa si muove
nel continente cinese: a Macao, colonia portoghese da poco passata sotto la sovranità
cinese, la consacrazione del vescovo coadiutore si è svolta senza interferenze di
Pechino; nelle province settentrionali della Cina fioriscono le comunità religiose
femminili.

 

Sono le nove del mattino. Nella cattedrale di Macao, edificio
barocco neoclassico, una cinquantina di persone, in prevalenza anziane, recitano
devotamente il rosario davanti alla Vergine del Perpetuo Soccorso, tradizione sabbatica
fin dai tempi passati. Accanto all’altare, una statua della Madonna di Fatima con
l’iscrizione "Regina del mondo, madre del Portogallo e rifugio di Macao"
rivela una traccia evidente di secoli di storia portoghese.

Dal dicembre del 1999 l’ex possedimento portoghese è passato
sotto la sovranità e agli ordini di Pechino. Conoscendo la situazione di precarietà
della chiesa cinese e dei rapporti tra governo comunista e Vaticano, si temeva che tale
tensione si sarebbe riflessa anche sulla chiesa di Macao. Invece la diocesi sta vivendo un
momento unico: José Lai Hong-Seng è stato nominato e consacrato vescovo coadiutore
secondo i dettami del Vaticano, senza alcun intervento da parte del governo cinese.

È la prima volta, da oltre mezzo secolo, che succede una cosa del
genere in territorio cinese. Nella vicina Hong Kong, due nuovi vescovi sono stati
consacrati un anno prima del cambiamento di sovranità. È stata, senza dubbio, una prova
del fuoco, per verificare la tenuta dell’accordo politico tra Portogallo e Cina:
accordo in cui, secondo lo slogan "un paese, due sistemi", la legge
basilare garantisce le libertà e il sistema che Macao ha goduto in passato.

Non solo non vi è stata alcuna interferenza nella nomina episcopale da
parte del governo, ma lo stesso capo esecutivo di Macao, Ho Hau Wa, ha seguito la
consacrazione episcopale, avvenuta il 2 giugno scorso nella cattedrale. Il fatto che né
il governo né l’Associazione dei cattolici patrioti abbiano interferito implica un
tacito riconoscimento dell’autorità del papa su questo territorio cinese.

In una diocesi ancorata, negli ultimi 13 anni, a incarichi
amministrativi, economici e giuridici, ma poco pastorali, la nomina del nuovo vescovo
coadiutore segna anche un cambiamento di rotta per la chiesa di Macao. In una breve
intervista, mons. José Lai ha tracciato le linee pastorali e spirituali che orienteranno
il rinnovamento della vita della chiesa a lui affidata.

Quali sono le priorità della diocesi di Macao?

C’è bisogno di una maggiore collaborazione fra clero e laicato,
per costruire assieme il regno di Dio. È necessario creare un’associazione che
impegni i laici, secondo le loro forze e capacità, nei compiti pastorali della diocesi e
nel settore educativo, sociale, caritativo, sanitario, catechetico e pastorale. Sono molte
le attività che essi possono e devono portare avanti. Per poterlo fare, è necessaria una
profonda spiritualità, che sostenga e ispiri il loro operato e vada al di là del
"fare perché mi piace".

D’altra parte, è necessario favorire la pastorale vocazionale
nella diocesi. È il momento di riflettere e prendere iniziative fra la gioventù e i
cattolici battezzati recentemente, poiché il clero di Macao è in prevalenza anziano e il
seminario è vuoto da 7 anni.

A livello pastorale, quali problemi la diocesi deve
affrontare?

A parte le priorità già menzionate, bisogna impegnarsi in tre
settori: con gli immigrati cinesi del continente, che rappresentano la metà della
popolazione di Macao; con la comunità filippina, composta di circa 6 mila persone; con i
milioni di turisti che ogni anno visitano la città: si deve andare incontro anche alle
loro necessità religiose. Questo potrebbe essere fatto nella Igreja da Penha, luogo di
visita obbligato. Ma bisognerà adattare gli impianti, creare una zona per la preghiera e
presentare la storia della diocesi di Macao, attraverso materiale audiovisivo: di ciò
potrebbero occuparsi i laici.

Qual è il significato dello stemma episcopale da lei
scelto?

Quando seppi dell’elezione a vescovo, passai un momento difficile;
l’ho superato mediante la preghiera, meditando un brano del vangelo di Luca, dove
Gesù invitava i discepoli a remare, spingendosi in alto mare e confidando in lui. Allo
stesso modo ho sentito la sua chiamata che mi invitava a prendere il largo, credendo nella
sua parola; da qui ho ricavato il motto del mio episcopato, con un tema eminentemente
pastorale e missionario: "Prendi il largo".

Esso significa lasciare la parrocchia e andare in diocesi. Gesù mi
invita a gettare le reti non solo nel mare di Macao, ma anche in quello della Cina, dove
in passato molti missionari hanno seguito la stessa chiamata di Cristo. La stella dello
stemma simboleggia Maria, alla cui protezione affido la mia missione; il fiore di loto
rappresenta la città di Macao; tutto questo sullo sfondo di quell’alba in cui Gesù
disse ai discepoli di gettare le reti per pescare.

Qualche parola ai cattolici di Macao…

Innanzitutto rendo grazie a Dio, alla mia famiglia, a quanti mi hanno
aiutato in seminario e nelle parrocchie in cui ho lavorato. E poi ho bisogno di imparare e
ascoltare, per conoscere il parere dei laici e del clero e poter così camminare insieme.
Dovremo anche formare un direttivo che pianifichi e cornordini le attività diocesane.

Come vede le relazioni fra la chiesa di Macao e
l’amministrazione cinese?

Sono relazioni di rispetto e apprezzamento reciproco; non credo che ci
saranno problemi in futuro. Il 17 maggio scorso mi sono incontrato con il capo esecutivo
di Macao: l’ho invitato alla cerimonia di consacrazione ed ha accettato con piacere.

Come si sente a pochi giorni dalla consacrazione
episcopale?

Ho grande fiducia nello Spirito Santo: non per caso ho scelto la
domenica di pentecoste per l’ordinazione. Spero che mi dia la forza necessaria per
realizzare i compiti episcopali, secondo il disegno di Dio e per servire la chiesa e
società di Macao.

Come vede le relazioni fra la diocesi di Macao e la
chiesa in Cina?

La diocesi di Macao aveva relazioni ufficiali con la chiesa in Cina fin
dal 1949. Da quell’epoca i contatti sono diminuiti; ma consideriamo i cattolici
cinesi nostri fratelli: sono sempre nel nostro cuore. Sebbene nessun vescovo del
continente sia stato presente alla mia consacrazione, più di uno mi ha inviato le proprie
felicitazioni. È auspicabile che un giorno il governo cinese e il Vaticano giungano a
stabilire relazioni diplomatiche, in modo che si possano avere maggiori rapporti con la
chiesa in Cina.

 

 

Nel deserto della Cina fiorisce la vita religiosa

 

Nella provincia Shanxi, a est del Fiume Giallo, nella Cina
settentrionale, in parte desertica, stanno fiorendo delle comunità di vita religiosa,
anche se molti dei loro membri, in maggioranza giovani, sono ancora in fase formativa. In
alcune diocesi, come quella di Taiyuan, sono presenti alcune missionarie anziane del
periodo precedente alla rivoluzione comunista. In molti dei nuovi conventi sono state
proprio queste suore anziane a ricominciare la vita religiosa. Ma la maggior parte delle
comunità sono formate da sole giovani. Quelle di Datong, con 40 religiose, di Hong Dong e
Changzhi, con oltre 60, sono casi esemplari della rinascita, al di là della cortina di
bambù comunista, di una vita religiosa femminile ricca di entusiasmo, spirito di fede e
sacrificio.

Il fatto di essere comunità giovani dà luogo a nuove forme di
espressione liturgica, vita comunitaria e forme di preghiera. Cambiamenti e riforme
introdotte dal Vaticano II stanno penetrando a poco a poco, come una fresca brezza che
ogni tanto arriva da fuori, tra le giovani suore assetate di conoscere e attualizzare la
vita religiosa.

Le giovani religiose sono consapevoli di una mancanza di formazione
adeguata alle necessità, poiché non hanno né i mezzi né le opportunità, ma vi pongono
rimedio con zelo e interesse nel ricercare nuove forme che possano colmare questo vuoto.
Di solito, utilizzano qualche libro che è giunto loro da fuori, cassette che ascoltano
attentamente e ripetutamente, o si fanno aiutare da qualche religioso o religiosa
proveniente dall’estero che, in occasione di una visita, possa condividere la sua
esperienza di vita religiosa.

L’orario comunitario dà ampio spazio alla riflessione e studio
della bibbia: un’ora al mattino e una al pomeriggio. E anche durante la celebrazione
eucaristica nel convento, le suore condividono la parola di Dio con il sacerdote. Ciò che
colpisce maggiormente è l’austerità dello stile di vita. In uno di questi conventi,
il vescovo diocesano, piuttosto anziano e con scarsi mezzi economici, può dare loro
soltanto 60 renminbi al mese (circa 13 mila lire italiane) per portare avanti il convento.
Di conseguenza, esse devono fare un po’ di tutto: lavorare nell’orto, preparare
i pasti e altri lavori manuali che consentano loro di sopravvivere.

È curioso osservare che il governo comunista cinese, con la sua
politica di oppressione, ha fatto sì che la chiesa sviluppasse delle caratteristiche in
consonanza con il vangelo di Gesù. I 50 anni di persecuzione comunista e di apparente
distruzione di qualsiasi traccia di vita religiosa, hanno portato a un tipo di chiesa e di
vita religiosa che possiamo definire:

1) indigena: durante mezzo secolo di comunismo, la chiesa in
Cina è stata ed è guidata da una gerarchia e da un clero esclusivamente cinesi;

2) povera: espropriata di tutti i beni dal saccheggio e
vandalismo del governo, la chiesa si è ritrovata con una povertà assoluta di strutture
e, in parte, di personale. La ricostruzione dei conventi e la creazione di nuove comunità
religiose risente degli effetti di questa usurpazione. Le residenze dei vescovi, in Cina,
sono molto dimesse; sulle pareti dei "palazzi" sono ben visibili crepe e
umidità e, all’interno, l’unico mezzo consentito dalle scarse risorse per
ripararsi dalle fredde temperature invernali sono piccole stufe a legna;

3) martiriale: nel rifiutare di sottomettersi alle imposizioni
del sistema maoista, la chiesa ha pagato attraverso molti dei suoi membri, che hanno
patito condizioni disumane: nelle prigioni e carceri sono stati sottoposti a torture e
interrogatori estenuanti. Non essendosi rassegnata e non avendo ceduto alle imposizioni
del governo, la chiesa in Cina ha una lunga lista di martiri, molti dei quali ancora in
vita.

Nonostante le austere condizioni di vita, le difficoltà e il controllo
costante da parte del governo, la chiesa in Cina è fortemente radicata nella fede.
Gradualmente la corrente si sta formando il proprio alveo, si stanno aprendo le porte
all’evangelizzazione, compito nel quale le religiose sono attivamente impegnate. I
credenti, d’altra parte, possiedono una fede saldamente fondata su quella dei loro
antenati, e sia essi che il clero e le religiose sono molto orgogliosi nel portare in alto
il nome di cristiani. Perciò non hanno paura del rischio, quando si tratta di continuare
a ricercare i modi di essere presenti nella società con le loro posizioni di fede. Si
tratta di una chiesa che fiorisce nel deserto: un deserto reale, dato che la zona
settentrionale della Cina è in parte desertica, e morale, perché nella società cinese
la vita religiosa è minacciata dalla persecuzione comunista, dal materialismo e sete di
denaro, che fanno della Cina di oggi un vero e proprio deserto di valori morali.

Anche se alcune delle comunità religiose della provincia vivono in
zone molto povere, i vescovi, che hanno affrontato sacrifici e persecuzioni con santa
semplicità, rispondono con un certo senso di umorismo alla domanda se sia sintomatico
vedere che nel deserto continuino a fiorire più che mai le vocazioni femminili alla vita
religiosa. Sono un motivo di speranza per la chiesa in Cina: come diceva Tertulliano, il
sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani e, senza alcun dubbio, di nuove vocazioni
alla vita religiosa. I martiri dell’epoca comunista, sia quelli ancora vivi oggi, in
Cina, sia quelli canonizzati il primo ottobre 2001, saranno fonte di ispirazione per
fortificare la vita nei conventi che continuano a sorgere con forza sempre maggiore in
molte diocesi della Cina.
D.C.R.

Daniel Cerezo Ruiz




Trento / Incontro con il DALAI LAMA UN PIANETA DA CONDIVIDERE

 

Guida spirituale e
politica del popolo tibetano, premio Nobel per la pace 1989, il quattordicesimo Dalai Lama
è un personaggio affascinante, che ha saputo guadagnare rispetto e considerazione in
tutto il mondo. In questa intervista il Dalai Lama parla dei rapporti tra Oriente e
Occidente, e tra buddisti e cattolici. Senza dimenticare la lunga occupazione della sua
patria ad opera dei cinesi. Ma, assicura il premio Nobel, lo "spirito tibetano"
saprà sopravvivere agli invasori e al tempo.

 

La vicinanza del Dalai Lama non incute propriamente soggezione, anche
se la guida spirituale e politica del popolo tibetano, quattordicesima reincarnazione del
Bodhisattva Avalokitesvara, raduna ovunque si rechi in visita folle di curiosi. Persino in
una terra profondamente cattolica come il Trentino, che lo ha ospitato il 28 e 29 giugno
scorsi. Trasmette invece una sorta di benessere, finanche di buonumore; il prodotto di
un’umanissima simpatia, piuttosto che di reverenziale rispetto.

L’invito era partito nel 1994 dal Forum trentino per la pace,
emanazione della Provincia autonoma di Trento; da allora è stato costantemente rinnovato,
fino a quando il Tibet Bureau di Ginevra, rappresentanza ufficiale del governo tibetano in
esilio per l’Europa centro-meridionale, è riuscito ad accoglierlo. Al centro delle
due giornate di visita, lo Statuto di autonomia del Trentino, visto come un possibile
modello anche per una realtà come quella tibetana. Ed inoltre, i progetti di cooperazione
allo sviluppo rivolti verso le comunità dei tibetani in esilio.

Abbiamo incontrato il Dalai Lama privatamente, per un’intervista
concessaci in esclusiva, e poi nell’ambito della conferenza stampa organizzata al
Castello del Buonconsiglio, uno dei luoghi simbolici dell’Autonomia trentina, già
residenza dei principi-vescovi, e poi carcere degli irredentisti italiani (qui sono stati
giustiziati Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa). Durante gli incontri con i
giornalisti – così come nel corso dei numerosi colloqui pubblici tenuti in varie
località del Trentino – spesso si è interrotto per sorridere, ammiccare al fotografo,
riservare la dovuta attenzione ad ognuno dei presenti (non solo, insomma, alle autorità,
ma anche a chi era lì per lavoro, o semplicemente per vederlo da vicino). Davvero si ha
l’impressione che il grande e il piccolo, il vicino e il lontano, il visibile e
l’invisibile siano, per il premio Nobel per la pace 1989, concetti molto relativi.

Ma non c’è nulla di ieratico nel suo muoversi da un appuntamento
all’altro, in ossequio ai ritmi frenetici imposti dalle visite di carattere
diplomatico. Se le sue parole esprimono moderazione – anche quando parla
dell’occupazione cinese del Tibet o della globalizzazione –, gli occhi
tradiscono un’intelligenza vigile, insieme a un’insaziabile curiosità per il
mondo.

 

Sua Santità, Trento è la città dell’omonimo Concilio, molto
importante per la storia del cattolicesimo. La prima domanda, quindi, è in un certo senso
obbligata: quali rapporti ci possono essere fra cattolici e buddisti?

"Fra le diverse tradizioni religiose ve ne sono alcune che
accettano l’esistenza di un Dio Creatore, e altre, invece, che lo negano.

Il buddismo fa parte del secondo gruppo. Da questo punto di vista si
può dunque dire che c’è una grande differenza dottrinale fra buddisti e cattolici.
D’altra parte, vorrei ricordare che anche nell’ambito buddista vi sono diverse
scuole di pensiero".

 

Ad esempio?

"Vi sono alcune scuole che affermano l’esistenza reale delle
cose, mentre altre dicono che ciò che appare non è come noi lo vediamo, e che esiste un
livello di realtà più profondo. Quindi esistono anche nell’ambito buddista delle
grandi differenze dottrinali; alcune scuole ne accusano altre di nichilismo. Però, dal
punto di vista della pratica spirituale, per quel che riguarda lo sviluppo dell’amore
e della compassione, la religione cattolica e il buddismo si possono definire concordanti.

Io ho degli amici cristiani che praticano alcune tecniche tipiche del
buddismo per lo sviluppo della pazienza e che cercano di rendersi conto dell’ira per
poterla controllare. E anche i monaci e le monache buddiste possono imparare dalla pratica
delle loro sorelle e fratelli cristiani".

 

L’Occidente e l’Oriente possono dunque arricchirsi
vicendevolmente? E se sì, in cosa la tradizione occidentale vi sarebbe debitrice?

"Tradizione occidentale è una definizione così vasta che è
difficile dire in che cosa essa possa essere stata influenzata dall’Oriente.
Comunque, io credo vi siano concetti di base del buddismo, come quello di interdipendenza,
che possono essere di grande interesse per gli occidentali. Per interdipendenza noi
intendiamo dire che nulla sussiste indipendentemente da altri fenomeni. Quando si verifica
un evento, di solito si è portati a cercare una causa particolare, mentre secondo noi
bisogna considerare piuttosto il complesso delle cause e degli eventi che l’hanno
generato, l’insieme delle interdipendenze e delle interrelazioni.

Circa l’apporto che l’Occidente ha dato all’Oriente, mi
è facile pensare ad esempio a papa Giovanni Paolo II: il suo insegnamento è stato di
fondamentale importanza sia per il messaggio di riconciliazione fra le diverse religioni
(che ha portato incessantemente in giro per il mondo), sia per il suo chiedere perdono per
eventi avvenuti nei secoli passati. Vorrei anche aggiungere che, ad un livello più
generale, non esiste una radicale distinzione fra occidentali e orientali: dopo tutto
siamo tutti esseri umani chiamati a condividere questa terra. E l’unione di genti
diverse produce bimbi bellissimi!".

 

Da quanto diceva poco fa, sembra di capire che vi sono rapporti
diretti fra clero cattolico e buddista.

"I rapporti esistono ormai da vent’anni. Monaci buddisti
vanno a vivere per qualche tempo nei monasteri in Occidente e, viceversa, vi sono
religiosi cattolici che visitano monasteri buddisti.

In generale, ciò che maggiormente colpisce i monaci buddisti è il
lavoro sociale svolto dai religiosi in Occidente. Da noi pochissimi monaci operano
all’interno della società. Da questo lato, ne abbiamo tratto un importante
insegnamento. Noi invece possiamo far conoscere ai religiosi occidentali le tecniche di
concentrazione e di mediazione, e i metodi per sviluppare un comportamento improntato alla
gentilezza".

 

Non crede che si stia diffondendo un atteggiamento di
"consumismo della spiritualità" e che esso interessi oggi anche il buddismo,
con conversioni spesso un po’ superficiali, anche da parte di attori, uomini di
spettacolo e così via?

"L’attrazione esercitata dal buddismo dipende da fattori
molto vari. Tuttavia in linea di massima è meglio che ognuno segua la tradizione nella
quale è inserito.

Cambiare religione è una cosa complicata e difficile, e può creare
dei problemi. Certo è possibile che su milioni di persone ve ne siano alcune che hanno
una predisposizione particolare per una religione diversa rispetto a quella con la quale
sono cresciuti. Ma le conversioni di massa non sono né possibili né auspicabili.

In ogni caso, chi decide di cambiare religione è bene che mantenga
sempre nei confronti della religione che ha abbandonato un atteggiamento di
rispetto".

 

Santità, in questi ultimi anni si è parlato molto di
globalizzazione, anche in termini molto critici. Lei pensa che globalizzazione e difesa
delle tradizioni dei popoli, compreso il popolo tibetano, siano conciliabili?

"Credo che la globalizzazione sia un fenomeno che riguarda
soprattutto l’ambito economico. Quindi è l’economia a causare anche quella che
definirei la "diffusione di abitudini simili", a cominciare dal mangiare e dal
bere. In verità, a questo livello non credo che produca cambiamenti profondi, se una
cultura è già forte e consapevole di sé. Certo, può cambiare certe abitudini, ma solo
ad un livello superficiale.

L’importante, ripeto, è vedere quanto le culture abbiano una
radice profonda. Il pericolo esiste per le culture che non hanno radici forti, o per le
persone che non conoscono a fondo la propria cultura di riferimento.

Quando noi tibetani chiediamo l’Autonomia, naturalmente
rivendichiamo il nostro diritto a preservare e sviluppare lo "spirito tibetano".
Ma questo non significa che vogliamo continuare a mangiare la tsampa (pietanza
tradizionale tibetana, ndr)! I tibetani che oggi vivono in Svizzera hanno assimilato molte
abitudini svizzere: vestono o mangiano come gli svizzeri. Ma non significa che non abbiano
conservato la loro tibetanità. I nomadi che un tempo si nutrivano solo dei proventi
dell’allevamento oggi hanno i thermos per il tè e mangiano anche verdura. Non è una
cosa negativa.

Penso che si possa godere delle cose di un altro paese o di
un’altra cultura – ad esempio del cinema o della musica occidentale – senza
tuttavia rinunciare alle proprie tradizioni, soprattutto spirituali".

 

Questo sotto il profilo culturale. Ma qual è la sua idea di
globalizzazione sul piano economico e delle politiche poste in essere da soggetti come il
G8?

"Riguardo alla globalizzazione come fenomeno puramente economico,
un pericolo esiste: quello che le economie più forti, a livello sia di nazione che di
singola multinazionale, operando nei paesi poveri possano soffocare lo sviluppo delle
economie locali. Questo è un pericolo reale sul quale bisogna vigilare.

Riguardo al G8, io penso che abbia un ruolo importante e, dunque,
bisogna che continui a riunirsi. Ma esistono questioni, in merito ad esempio al degrado
ambientale o al rapporto fra sistemi economici forti e sistemi deboli, che debbono essere
affrontate. Quindi, è giusto che ci siano persone che ricordano queste questioni ai
grandi della terra; se non c’è altro modo, anche con manifestazioni di piazza,
purché siano rigorosamente non-violente".

 

In Trentino lei si è confrontato con un moderno statuto di
autonomia. Quali speranze ci sono per una pace duratura in Tibet e per il conseguimento di
un’autonomia che soddisfi veramente le esigenze del popolo tibetano?

"Se si guarda la situazione specifica del Tibet e, in particolare,
quello che sta avvenendo in quest’ultimo periodo, si dovrebbe dire che per il Tibet
non c’è più speranza. Se poi si analizza come il mio paese e la mia gente siano
arrivati a trovarsi in questa situazione, si scopre che ciò che è accaduto e sta
accadendo è dovuto all’intervento della Cina, che ha chiamato questo intervento,
iniziato nel 1949, con un nome attraente come "liberazione", ma che in realtà
ha provocato enormi sofferenze nel mio popolo. Sofferenze che durano da ormai tanti anni.

Possiamo dunque dire che un cambiamento del Tibet dipende direttamente
dal cambiamento della Cina. Ora, se osserviamo la Cina, ci accorgiamo che essa sta in
effetti cambiando. Si può dire anche che, dato che quel paese sta diventando sempre di
più una grande potenza, non potrà cambiare in un modo discordante dal resto del mondo.
Quindi, se consideriamo inevitabile il cambiamento della Cina, ecco che si può dire che
esiste una grande speranza per il mio paese. Quando questo cambiamento avrà luogo, allora
si apriranno dei concreti spiragli di speranza anche per il Tibet".

 

E il ruolo della comunità internazionale?

"Dopo i pronunciamenti dell’Onu fra la fine degli anni
’50 e l’inizio degli anni ’60 in favore del popolo tibetano, il governo
tibetano in esilio ha smesso di chiedere l’appoggio della comunità internazionale,
perché pensava che fosse meglio cercare di intavolare relazioni dirette con la Cina.

Nei primi anni ’80 sembrò che questa strategia potesse avere
successo; ma poi la Cina è tornata ad irrigidirsi. Nel 1987 ho proposto un piano di pace
in cinque punti, che però il governo cinese si è rifiutato di prendere in
considerazione. Così, siamo tornati a rivolgerci alla comunità internazionale, che ci ha
espresso più volte il suo sostegno. Vede, è molto difficile trattare con la Cina, non
solo per noi tibetani, ma anche per altre realtà presenti all’interno del paese.

L’anno scorso siamo venuti in possesso di un documento riservato
del viceministro della cultura cinese, trasmesso agli studiosi cinesi di tibetologia, nel
quale si diceva che il Dalai Lama pronuncia solo menzogne, che purtroppo gli occidentali
scambiano per verità. Com’è possibile che la comunità internazionale sia così
ingenua da credere per trent’anni di seguito a delle menzogne? Voi qui che mi state
ascoltando siete forse usciti di senno?".

 

Così parlò il Dalai Lama. Da segnalare, nell’economia di una
visita complessivamente gratificante per tutti, un solo episodio spiacevole: la bufala
dell’inviata de la Repubblica, la nota orientalista Renata Pisu, che ha attribuito al
Dalai Lama una dichiarazione favorevole all’uso della violenza nei confronti del G8.
Quando si dice etica professionale…

 

(*) Alberto Faustini è responsabile dell’Ufficio stampa della Provincia
Autonoma di Trento. Marco Pontoni è redattore nella medesima struttura.

Le foto del Dalai Lama sono dell’agenzia AgF-Beardinatti Foto
(Tn).

 

I rapporti tra Tibet e Cina

PAZIENZA, CORAGGIO, DETERMINAZIONE

 

Il Tibet si è costituito in entità sostanzialmente unita e
politicamente organizzata circa nel VII secolo d.C., all’epoca della diffusione del
buddismo sull’altopiano (ma il Dalai Lama ha parlato a Trento di reperti archeologici
che attesterebbero la presenza di una lingua e una cultura tibetane già 3000 anni fa).
Esso non è mai stato tout court una provincia cinese.

Tra Tibet e Cina vi sono stati, com’è ovvio, stretti rapporti
culturali, economico-commerciali e politico-diplomatici, talvolta pacifici, talaltra
conflittuali. Entrambi i regni furono inoltre soggetti all’invasione mongola, che
comunque non cancellò le peculiarità religiose e culturali del popolo tibetano, il quale
anzi le trasmise in buona parte agli invasori.

Agli inizi del XX secolo la situazione cominciò a cambiare, anche a
causa della crescente attività britannica in Asia centrale, che veniva vista come
minacciosa da Pechino. Così, subito dopo la conquista del potere, nel 1949 i comunisti
cinesi stabilirono il proprio controllo diretto sul paese, lasciando inizialmente al Dalai
Lama e alla sua aristocrazia un certo controllo sugli affari interni. Questa politica
relativamente moderata ebbe termine con la rivolta del 1959, a cui seguì una durissima
repressione.

In seguito a questi eventi drammatici, le Nazioni Unite approvarono tre
risoluzioni sul Tibet (nel 1959, 1961 e 1965), nelle quali si invocava la cessazione di
pratiche contrarie ai fondamentali diritti umani e di libertà, incluso il diritto
all’autodeterminazione. Come molte altre risoluzioni dell’Onu, anche queste non
ebbero alcun esito.

A partire dal 1966, e per quasi un decennio, in Cina si scatenò la
cosiddetta "Rivoluzione culturale", causa di violenze inenarrabili. In Tibet
essa ha comportato, oltre all’incarcerazione e all’uccisione di migliaia di
persone, anche alla distruzione sistematica di gran parte del patrimonio religioso e
artistico (come testimoniato, ad esempio, dalla documentazione fotografica contenuta in
Segreto Tibet dell’orientalista Fosco Maraini, uno dei "classici" in lingua
italiana sul Tibet pre-occupazione). Nel periodo successivo si sono alternati momenti di
liberalizzazione e "giri di vite". Date le difficoltà politiche che incontrava
in Tibet, il governo di Pechino ha cercato, soprattutto nell’era del dopo-Mao, di
migliorare lentamente la propria immagine nei confronti della popolazione locale,
ricorrendo ad un intenso sforzo di modeizzazione e di sviluppo economico. La conseguenza
è stata però anche, assieme a nuove forme di sfruttamento del territorio tibetano, un
sempre più massiccio afflusso di non tibetani sull’altopiano. Oggi, secondo fonti
del governo tibetano in esilio (con sede a Dharamsala, in India), i tibetani che vivono in
Tibet sono poco più di sei milioni, mentre i coloni cinesi circa sette milioni. I
tibetani in esilio sono intorno ai 130 mila; oltre all’India, uno dei paesi nei quali
sono presenti in maggior numero è la Svizzera.

Recentemente il Dalai Lama ha sintetizzato così la sua posizione.
"Io mi batto per una vera autonomia dei tibetani, convinto che una soluzione del
problema porterà soddisfazione al popolo tibetano e contribuirà alla stabilità e
all’unità della Repubblica popolare cinese. Finora il governo cinese si è rifiutato
di accettare la mia delegazione, sebbene, tra il 1979 e il 1985, avesse accettato di
incontrare sei delegazioni tibetane dall’esilio. Questo è un chiaro segnale che
l’atteggiamento di Pechino si è indurito, e manca la volontà politica di risolvere
la questione. Pazienza, coraggio e determinazione sono essenziali per noi tibetani in
questa sfida. Credo fermamente che in futuro ci sarà occasione di discutere seriamente il
nostro problema e guardare in faccia la realtà, perché non ci sono alternative, né per
la Cina né per noi".

 

Ma.Po.

 

Chi è? DALAI LAMA

Quello di Dalai Lama non è un titolo ereditario. Secondo la tradizione
tibetana – resa popolare in Occidente dal film di Bertolucci Piccolo Budda – vi sono
alcuni illuminati o Bodhisattva i quali, anche dopo avere raggiunto il Nirvana, la
beatitudine eterna della buddità, decidono di restare tra gli uomini, per sostenerli
sulla via dell’illuminazione. Uno di essi è Chenrezig, chiamato in sanscrito
Avalokitesvara (il Budda della compassione), che si incarna nel Dalai Lama, massima
autorità religiosa dei tibetani. Il Dalai Lama è quindi espressione di un amore per il
genere umano che è anche consapevolezza dei limiti dell’umana esperienza, idea
quest’ultima che rimanda al primo discorso pronunciato dal Budda storico, Sakyamuni,
dopo avere raggiunto l’Illuminazione.

Nella prassi avviene che, dopo la morte di ogni Dalai Lama, bisogna
trovare il suo successore, che è all’apparenza un bambino come tutti gli altri. Per
questo vengono effettuate vaste ricerche in tutto il Tibet, e i presunti successori
vengono sottoposti ad una serie di prove – come ad esempio riconoscere degli oggetti
appartenuti al precedente Dalai Lama, mescolati ad altri del tutto identici – al fine di
fugare ogni possibile dubbio.

"Dalai" è un termine mongolo, e sta per "oceano".
"Lama" è il termine tibetano per "maestro spirituale". "Dalai
Lama", quindi, può essere tradotto approssimativamente come "oceano di
saggezza".

L’attuale quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, è nato a
Taktser, in un piccolo villaggio dell’altopiano tibetano il 6 luglio 1935,
originariamente con il nome di Lhamo Thondup. Dopo il suo riconoscimento, si è insediato
a Lhasa, la capitale del Tibet, nel 1939. All’epoca il governo del paese era in
sostanza una teocrazia; sotto il profilo economico e tecnologico, esso era parimenti molto
arretrato, e del tutto refrattario alla tradizione scientifica occidentale.

Dopo l’occupazione cinese, e in particolare dopo la repressione
dei moti nazionalisti di Lhasa (10 – 15 mila tibetani uccisi in tre giorni), il Dalai Lama
scelse, con circa 85 mila seguaci, la via dell’esilio. In seguito ha eletto a sua
nuova dimora Dharamsala, una cittadina dell’India del nord, dove oggi ha sede il
governo tibetano in esilio. Dopo avere lasciato il Tibet, il Dalai Lama ha
progressivamente laicizzato le istituzioni di governo, che ora sono elettive. Naturalmente
ciò ha un significato molto limitato, non potendo esercitare il governo in esilio alcun
potere reale sul Tibet.

Ma.Po.

Alberto Faustini Marco Pontoni




Genova (1): prima del vertice degli “otto grandi” VOI NON SIETE I PADRONI DEL MONDO

Oggi chi scrive sul "G 8" di Genova, a quasi
tre mesi da fatti tristemente noti, rischia di incappare nel "senno di poi", di
cui sono piene le fosse.
Tuttavia resta valido il detto "l’esperienza insegna", per non cadere negli
errori di ieri. Come pure: "Chi sbaglia paga". Ma senza capri espiatori.
A noi il "G 8" interessa, soprattutto, per le ripercussioni nei paesi
impoveriti. Oltre ad alcune testimonianze dal Sud del mondo, diamo spazio a due documenti:
quello "propositivo" di numerosi istituti missionari e organizzazioni cattoliche
e quello "risolutivo" degli "otto grandi" (articolo successivo). Il
confronto fra le "attese" dei primi e i "risultati" dei secondi è
eloquente.

 

Genova, sabato 7 luglio, ore 8.30. Usciti dalla stazione
ferroviaria di Brignole, ci incamminiamo verso il teatro "Carlo Felice" in
piazza De Ferrari. Dopo pochi passi, un signore ci accosta: "Scusi, per favore mi sa
dire…".
– Ci sto andando anch’io!
– Per il convegno nazionale "Guardiamo il "G 8" negli occhi"?
– Esattamente.
– Allora la seguo. Buon giorno! Io sono Dino, dell’Azione Cattolica di Rovigo.

Giunti all’ingresso del teatro, Dino si ferma, per attendere
alcuni amici di Napoli. "Napoli?" esclamiamo incuriositi. "L’Italia
forse è divisa, ma gli italiani sono certamente uniti, alla faccia del senatùr…
voltagabbana" è la risposta.
Ci separiamo.

La storia di un crapulone

Il "Carlo Felice" è un teatro da 3 mila posti. Ma, al nostro
ingresso, contiamo solo due missionarie della Consolata davanti ad un cartellone, che
riporta i nomi del comitato promotore del convegno: circa 60 istituti e associazioni; in
ordine alfabetico, prime le Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani) e ultimi
i Missionari Verbiti. Mentre carichiamo la macchina fotografica, scorgiamo anche diversi
ragazzi e ragazze scout, in pantaloni corti, camicia blu e fazzoletto verde al collo,
seguiti da un gruppetto della Coldiretti con un vistoso berretto giallo. Scattiamo le
prime foto. Poi puntiamo l’obiettivo su Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea
(sempre presente a "certi" appuntamenti), e don Andrea Gallo, della Comunità di
san Benedetto al porto. Notiamo Pierluigi Castagnetti, segretario del Partito popolare
italiano, e Aldo Bodrato, ex ministro della pubblica istruzione. Ma questi ed altri
personaggi non bastano a riempire il vasto teatro, che rischia un vuoto desolante.

Però alle 10 il "Carlo Felice" è zeppo: giovani e adulti,
mamme con bimbi in braccio, portatori di handicap in carrozzella, volontari,
sindacalisti, docenti, missionari, suore, preti.

Si inizia con lo sguardo rivolto ad un Cristo campesino del
Cile, mentre si legge la storia di un crapulone che banchetta ogni giorno lautamente… in
barba all’affamato e piagato Lazzaro, del quale solo i cani hanno pietà. Al termine
della loro vita, il primo finisce all’inferno e il secondo fra le braccia di Abramo,
il padre dei credenti.

Il crapulone supplica: "Abramo, manda Lazzaro dai miei fratelli:
che mutino subito comportamento, altrimenti finiranno con me nei tormenti!".
"Hanno già avuto la legge di Mosè e gli ammonimenti dei profeti – replica il
patriarca -, e tutto è stato inutile. Non si convertirebbero neppure se uno risuscitasse
dalla tomba" (cfr. Lc 16, 19-31).

"Incalzati da questo monito severo, riproposto anche dal Cristo campesino
– afferma Fabio Protasoni, cornordinatore del convegno – vogliamo riflettere sulle
situazioni di povertà dell’80 per cento dell’umanità, causate da ingiustizie
sociali e politiche, prima che sia troppo tardi, come per il crapulone del vangelo".

La parola al sud del mondo

Seguono tre testimonianze.

La prima è di Monica Espinosa, già impegnata in Ecuador
con "Rete del Giubileo 2000", che si domanda: "Cosa dobbiamo aspettarci
dall’America Latina? Sempre e solo guerriglieri arrabbiati? Assolutamente no. Ma
occorre fare subito giustizia, specialmente per le classi sociali emarginate. Mi auguro
che i "G 8" imbocchino con coraggio questa strada. La globalizzazione è come
una porta, che può essere chiusa o aperta. Finora non è stata una porta aperta ai
poveri".

Anche la giovane Monica ricorre ad un’icona. È quella di Pietro,
che si sente dire da Gesù Cristo: "Abbi cura delle mie pecore" (cfr. Gv 21,
15-19). L’ecuadoriana lancia un messaggio: "Io, voi, noi tutti siamo cristiani
nella misura in cui abbiamo a cuore i problemi della gente, di tutta la gente".

Sale sul palco Filomeno Lopez, della Guinea Bissau, che
rappresenta i problemi dell’Africa. È sorridente e scattante nei movimenti (poi si
scoprirà che è pure un eccellente danzatore). Il suo raffinato italiano gli consente di
maneggiare con arte anche il fioretto dell’ironia. "Amici, come mi devo
presentare? Certamente come un "fuori", un extra, un extracomunitario. Però
ieri qualcuno mi chiamava vu’ cumprà e, prima ancora, vu’ lavà… Amici, non
cadiamo negli stereotipi, frutto di ignoranza. Io credo nella riconciliazione, previo il
rispetto reciproco".

Anche Filomeno riflette sulla globalizzazione. Rigetta quella
"sbarcata sui porti africani con una risposta esclusivamente mercantile: la
globalizzazione intesa come extra mercatum nulla salus, che ha per fondamento
l’arte di vincere senza ragione".

La terza testimonianza è del direttore della rivista Missioni
Consolata
. Egli riporta alcune voci dal Sud del mondo: ad esempio, quella del
cardinale Evaristo As. L’arcivescovo di São Paulo (Brasile), in una intervista del
1988, affermava che il debito estero del suo paese è illegittimo e illegale:
"illegittimo, perché è già stato pagato tre volte con il versamento di 36 miliardi
di dollari di interessi; illegale, perché contratto da generali brasiliani senza
consultare il parlamento. E gli stati creditori sapevano che imprestavano soldi per
finalità militari…".

"Oggi, a 13 anni da quell’intervista, si discute ancora –
commenta il direttore di Missioni Consolata – sulla necessità o meno di cancellare
il debito dei paesi poveri. Non dovrebbe essere una questione scontata, com’è
scontata la caduta di… una mela matura?".

Un accenno anche alla protesta della gente in Congo (ex Zaire) contro
la guerra. "Nella chiesa di Pawa, durante la messa di pasqua dell’anno scorso, i
fedeli hanno gridato: "La guerra è peccato!". Ma la colpa è ancora più grave
se ad imbracciare il mitra sono ragazzi di 12 anni, come ho visto in Congo".

"Mkubwa haombi" (il capo non chiede permessi): è un detto
swahili, che spesso nasconde la strategia dell’intimidazione e, di conseguenza, della
sottomissione. "Ma oggi, grazie anche ai missionari, molti alzano la testa per dire
al presidente prevaricatore: "Signor no!"".

Ai fischi rimedia un po’ il Cardinale

È il clou del convegno: ovvero la presentazione del "Manifesto
delle Associazioni cattoliche ai Leaders del G 8
" (vedere il testo a parte). Fra
i suoi estensori spicca l’economista Riccardo Moro. Il quale, tuttavia, ci dichiara:
"Vedi questi sei ragazzi? Il Manifesto è soprattutto opera loro". E sono gli
stessi ragazzi che, un po’ emozionati, lo leggono in assemblea. L’applauso dei 3
mila vale l’approvazione.

Il Manifesto viene affidato a Umberto Vattani, segretario generale
della Faesina, perché a sua volta lo trasmetta al governo in carica. Invitato (per
deferenza) dal cornordinatore del convegno ad intervenire, Vattani prende la parola.

Non l’avesse mai fatto! O avesse parlato in termini diversi, non
si sarebbe beccato tre bordate di fischi: la prima un po’ leggera, la seconda più
pesante, la terza secca e arrabbiata, anche perché il politico continuava sicuro.

Il diplomaticoVattani esalta l’Italia, sesta potenza economica
mondiale grazie alla globalizzazione… "a differenza dell’Africa, che resterà
sempre povera se non entrerà nel processo". Ma i 3 mila cattolici del "Carlo
Felice" rifiutano questa visione del mondo.

Ad aggiustare (forse) le cose ci pensa Dionigi Tettamanzi, cardinale di
Genova (significativa, tra l’altro, la Lettera dei Vescovi liguri ai fedeli delle
loro Chiese in occasione del G 8
).

I cattolici non devono scordare che, secondo la dottrina della chiesa,
la proprietà dei beni ha una "funzione sociale comunitaria", e non solo
privata: di qui il dovere dell’attenzione all’altro. Questo però esige un
impegno politico professionale, perché il volontariato non basta più.

Infine il cardinale dichiara: "Oggi si parla del "G 8",
cioè del gruppo degli 8 paesi più ricchi; qualcuno sollecita che a parlare siano i
"G 20", ossia i 20 paesi più poveri… Io dico: facciamo un G TUTTI,
dove ognuno possa parlare, ma alla luce della parabola del ricco e del povero con il quale
abbiamo aperto il convegno".

 

Ore 14,35. Entriamo in uno snack bar di Genova, dove Dino e gli
amici di Napoli, Gennaro e Concetta, stanno addentando un panino.

– Volete favorire? – è l’invito dei napoletani.
  – Perché mi date del "voi"?

Risata generale.

Quando siamo tutti al caffè, Dino commenta: "Un bel convegno,
durante il quale ho apprezzato gli interventi dei rappresentanti del terzo mondo.
D’ora in avanti bisognerà sempre fare così. Molto interessante pure il
Manifesto…". "Noi a Napoli – s’intromette Gennaro – abbiamo un detto che,
nel caso presente, potrebbe suonare: passata la festa del "G 8", gabbati ancora
una volta i poveri". "No, guagliò – replica Concetta -. Passata la
festa, i poveri ritornano a lavorare".

 

 Noi, sentinelle del mattino

Manifesto delle associazioni
cattoliche ai leaders del G 8

 

La vita umana è valore universale. Garantirla nel suo esistere e
tutelarla nella sua dignità è responsabilità politica che la comunità internazionale,
insieme a ciascuno di noi, è chiamata ad esercitare per il raggiungimento del bene
comune.

Oggi la dignità della vita umana è violata. Molti sono gli ambiti in
cui questo accade, dalla guerra alla povertà, dal sapere privilegio di alcuni al potere
monopolio di pochi.

Noi sentiamo l’impegno di appartenere ad una famiglia, che va
oltre i confini nazionali e le logiche economiche. Crediamo che tutti siamo veramente di
tutti e non possiamo rimanere indifferenti di fronte a clamorose differenze.

Affermiamo che ogni uomo è una risorsa, un bene prezioso per gli
altri, e a sua volta chiede agli altri di essere aiutato nel suo cammino verso il
compimento definitivo. Nessuno può essere considerato solo un soggetto economico
passivo,
il cui valore è commisurato alla sua capacità di acquisto.

Noi siamo qui per ricordarvi che voi siete noi. Voi,
responsabili delle nostre nazioni, siete i nostri rappresentanti. Voi avete una grande
responsabilità. Voi non siete il governo del mondo, ma quanto decidete ha
inevitabili ripercussioni su molti, anche al di fuori dei confini dei nostri paesi.

Noi siamo qui perché abbiamo un sogno: non vogliamo essere i
ricchi che guardano ai poveri da aiutare. Vogliamo essere cittadini di una comunità
solidale che diano a tutti lo stesso diritto di avere necessità e offrire opportunità.

Per questo facciamo a voi, nostri rappresentanti, le richieste che
riteniamo punto di partenza perché ogni persona di oggi e domani possa vivere in
libertà, solidarietà e dignità.

 

La notte I conflitti / La guerra

La dignità della vita umana è offesa da conflitti che coinvolgono
popolazioni vulnerabili. Donne e uomini, bambini e anziani, in divisa o abiti civili, sono
attori spesso inconsapevoli di copioni scritti, più o meno intenzionalmente, da altre
mani, in altre lingue e in altri luoghi. Noi esigiamo che voi lavoriate con chiarezza e
determinazione per:

– bandire la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e
impegnarsi come Stati a non ricorrere alla forza per dirimere le controversie intee e
inteazionali;

– avviare un processo credibile e autentico di riforma delle Nazioni
Unite che ne rafforzi democrazia, autorevolezza ed efficacia, in particolare nella loro
responsabilità di principale attore in favore della pace nel mondo;

– in questo quadro, privilegiare gli approcci ‘locali’,
valorizzando anche i contributi non governativi, affrontando tutti i conflitti, anche
quelli interni quando violano la libertà delle popolazioni civili;

– combattere autenticamente il mercato delle armi, a partire
dall’informazione su tutte le operazioni di vendita e acquisto. Nessuna copertura
finanziaria pubblica deve essere data a chi le produce e le vende;

– non sprecare il denaro. Vogliamo che le risorse non vengano gettate
in progetti di difesa inutili, come lo scudo spaziale, ma siano utilizzate per eliminare
le cause che originano i conflitti, prima fra tutte la povertà.

 

Debito

Il peso del debito estero dei paesi del Sud compromette la dignità
della vita di milioni di persone. Tuttora risorse finanziarie, preziose e scarse, vengono
usate dai paesi impoveriti per pagare i creditori, cioè i governi del Nord, cioè noi! In
occasione del Giubileo vi abbiamo chiesto azioni coraggiose. Voi ci avete ascoltato solo
in parte. Ci inorridisce sapere che il denaro che ancora incassiamo, per quanto ridotto
rispetto agli anni scorsi, sia sottratto da interventi per dare case, cibo, medicine e
istruzione a persone che sono per noi come altri noi stessi.

Vi chiediamo perciò ancora con forza di:

cancellare tutto il debito accumulato sino al 19 giugno 1999, la data
della grande manifestazione di Colonia. Nel vostro linguaggio si tratta dello spostamento
della data che divide il debito cancellabile da quello non cancellabile;

cambiare i parametri che permettono di partecipare alla iniziativa
internazionale per i paesi gravemente indebitati (iniziativa Hipc). Vogliamo che nei paesi
indebitati siano assicurati beni e servizi fondamentali a tutti i cittadini. Solo il
denaro restante, dopo queste spese, può essere utilizzato per pagare il debito;

concordare con i paesi indebitati e i rappresentanti della società
civile del Sud e del Nord l’istituzione di un "Processo di arbitrato
internazionale equo e trasparente" per valutare in termini di giustizia
l’ammontare effettivo del debito delle nazioni. La remissione del debito è questione
di giustizia prima che di solidarietà.

 

Povertà

La dignità della vita umana è offesa dalla scandalosa differenza tra
la vita dei paesi ricchi e di quelli da questi impoveriti. Un bambino su venti in Africa
muore prima dei cinque anni. Un bambino su due non va a scuola. È una situazione che ci
fa orrore e di cui siamo e siete corresponsabili. Noi ci impegniamo a stili di vita nuovi,
più equi e solidali, ma nello stesso tempo, poiché rappresentate la nostra voce,
vogliamo che voi impegniate le nostre nazioni a:

– onorare da subito l’impegno, assunto e non mantenuto, di
finanziare l’aiuto allo sviluppo con lo 0,7% del PIL dei nostri paesi. Oggi la media
è minore della metà;

– promuovere e rafforzare, nelle sedi inteazionali, l’utilizzo
dei programmi di riduzione della povertà che prevedano un autentico coinvolgimento della
società civile;

– favorire con mezzi finanziari e assistenza tecnica l’azione dei
governi dei paesi impoveriti, perché sia garantito a tutte le popolazioni il diritto alla
salute e istruzione.

 

Una luce che sorge

Costruire il futuro: globalizzare la solidarietà e le responsabilità

La dignità della vita, a Nord come a Sud, può essere tutelata solo
attraverso un forte, condiviso e rispettato sistema di regole, in cui non il più forte
abbia maggiori diritti, ma il più debole. Non è questo ciò che accade oggi nel mondo. A
voi, nostri rappresentanti, chiediamo quindi di non nascondervi dietro facili
giustificazioni, ma di rispondere a queste richieste.

 

Il mercato fra libertà e responsabilità

– Vogliamo che sia creato un sistema di regole nel commercio
internazionale che permetta a tutti i paesi, in particolare ai più impoveriti, di offrire
sul mercato le proprie merci ad un prezzo equo, abolendo le barriere, a cominciare dalle
nazioni del G 8, e, per i prodotti agro-alimentari, prevedendo un meccanismo di
regolamentazione produttiva e distributiva che definisca quote produttive alle nazioni e
garantisca stabilità dei prezzi.

– Vogliamo una vera libertà di mercato, in cui tutti siano liberi di
acquistare conoscendo con precisione che cosa viene loro offerto e a tutti sia data
possibilità di vendere i propri prodotti. Non è quello che accade oggi.

– Vogliamo un impegno immediato e concreto di denuncia dei paradisi
fiscali e finanziari. Impegnatevi nelle diverse sedi inteazionali per la definizione e
pubblicazione delle liste dei paesi che permettono il riciclaggio di denaro sporco e
offrono riparo fiscale per speculazioni selvagge.

– Vogliamo, a cominciare dai nostri paesi, una tassa sulle transazioni
valutarie (del tipo della Tobin Tax) che renda costosi i trasferimenti inteazionali di
denaro a scopo speculativo e offra il ricavato per finanziare lo sviluppo.

 

Il lavoro strumento per la dignità della vita

– Vogliamo che sia migliorata e venga applicata la legislazione
internazionale che impedisce lo sfruttamento lavorativo delle persone. Costo del lavoro
più basso e competitivo non deve significare "umiliante".

 

L’ambiente dovere globale

– Vogliamo che siano riconfermati immediatamente gli accordi di Kyoto
in tema ambientale e che sia indicato in modo trasparente il percorso futuro di
rafforzamento dell’azione di tutela del Creato.

 

Libertà e democrazia economica

– Vogliamo un’economia libera in cui siano impedite posizioni di
monopolio, come quelle delle multinazionali in grado di alterare il mercato e
l’informazione sulla loro azione.

 

Un’informazione libera

– I paesi del G 8 promuovano leggi che garantiscano a livello nazionale
e internazionale la pluralità dei media e degli editori, vietando monopoli, per
permettere una libertà responsabile a tutti i cittadini.

– Vogliamo un’informazione trasparente anche sulle caratteristiche
dei prodotti alimentari in generale e in particolare degli organismi geneticamente
modificati (ogm).

 

La scienza per tutti

– Vogliamo che sia finanziata fortemente la ricerca pubblica in campo
sanitario, per rendere possibile la produzione di farmaci per le malattie diffuse tra le
popolazioni più povere.

In particolare vogliamo siano moltiplicati gli sforzi per rendere i
farmaci per la cura dell’AIDS accessibili a tutti coloro che sono infetti, in Africa
e ovunque, a cominciare dalle donne incinte prima e dopo il parto.

– Vogliamo regole che consentano produzione e distribuzione dei
medicinali a costi sostenibili per le popolazioni più povere. Questo significa affrontare
anche la questione della riforma della proprietà intellettuale.

 

A Tor Vergata abbiamo ascoltato le parole del Papa

Cari amici, vedo in voi le "sentinelle del mattino" in
quest’alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi
venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a
combattere gli uni contro gli altri. Oggi siete qui per affermare che, nel nuovo secolo,
non vi presterete a essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace,
pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri
esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la
vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di
rendere questa terra sempre più abitabile per tutti.

È esattamente quello che vogliamo fare.

Francesco Beardi




Genova (2): cosa ha lasciato l’assise del “G8”. QUEGLI OTTO NANI MIOPI E PREPOTENTI

 

Nonostante la propaganda governativa parli di uno storico successo,
il vertice dei G8 si è concluso con un fallimento. Sui temi caldi del debito,
dell’ambiente e della finanza non si è deciso nulla, mentre l’insistenza
attorno alla bontà della ricetta economica neoliberista appare decisamente stonata. Il
Fondo globale per la salute (l’unica decisione operativa) ha una portata da elemosina
e una struttura molto ambigua. Nel frattempo, questo novembre l’Organizzazione
mondiale del commercio (Omc-Wto) discute un’ulteriore riduzione delle barriere
commerciali. La riunione si tiene a Doha, nell’emirato del Qatar, dove i
"cattivi" contestatori non potranno mai arrivare.

 

IL NULLA, NERO SU BIANCO

Sono passati quasi 3 mesi dal vertice di Genova, che ha
riunito i rappresentanti degli 8 paesi più industrializzati del mondo (i cosiddetti
"G8"). Premesso che sulla legittimità di questo organismo ci sono dubbi forti e
condivisibili, alla fine un dato è certo: il vertice si è concluso con un fallimento
epocale.

Gli 8 (più Prodi, che rappresentava l’Unione europea) signori del
mondo hanno messo nero su bianco il nulla uscito dai loro tre giorni di colloqui. I 36
punti della dichiarazione finale non sono altro che un inno stonato e ripetitivo alla
retorica del mercato che tutto sistema e tutto sana.

 

ELEMOSINA

Era stata annunciata come una grande iniziativa. In realtà, il Fondo
globale (Global Health Found) contro Aids, malaria e tubercolosi è
un’elemosina: si tratta di 1,3 miliardi di dollari, circa 3.000 miliardi di lire.
Questi fondi corrispondono alle risorse che i paesi indebitati spendono in poche settimane
a causa del debito.

Per comprendere il reale significato dei 3.000 miliardi stanziati,
ricordiamo che il deficit della sanità della regione Piemonte (con solo 4,5 milioni di
abitanti) per l’anno 2000 è stato stimato in 1.200 miliardi di lire.

Come ciò non bastasse, al punto 17 si legge: "Esprimiamo
apprezzamento per le misure prese dall’industria farmaceutica al fine di rendere
economicamente più accessibili i farmaci. Nel contesto del nuovo Fondo globale,
lavoreremo d’intesa con l’industria farmaceutica". Insomma, nonostante la
figuraccia mondiale rimediata in Sudafrica (dove hanno dovuto abbandonare la causa
intentata contro il governo nazionale), per gli 8 le multinazionali dei farmaci diventano
associazioni filantropiche.

Prima dell’inizio del vertice, Medici senza frontiere aveva
espresso forte preoccupazione per la tendenza dei governi ad abdicare a favore delle
imprese del business mondiale le responsabilità politiche della salute.

Dopo il vertice, l’organizzazione si è mantenuta coerente,
dichiarando che non parteciperà al consiglio direttivo del Global Health Found, in
quanto questo sarà aperto anche alle multinazionali farmaceutiche. Queste infatti
potranno guadagnarsi il loro posto nel consiglio attraverso una donazione al fondo. Come
non concordare allora con chi parla di "carità pelosa" e di "conflitto di
interessi"?

Inoltre, con un tono che sa molto di monito, gli 8 ribadiscono la
volontà di difendere i "diritti di proprietà intellettuale, come necessario
incentivo per la ricerca e lo sviluppo di farmaci salvavita". Questo significa che la
vicenda sudafricana (cioè la sconfitta delle multinazionali sui medicinali anti-Hiv)
viene considerata soltanto un episodio che non dovrà avere seguito.

 

DEBITO

"L’alleggerimento del debito è un valido contributo alla
lotta contro la povertà" (punto 7). Già il termine utilizzato,
"alleggerimento", fa capire che neppure questa volta sul problema del debito ci
sarà una svolta decisiva.

L’iniziativa a favore dei paesi poveri maggiormente indebitati (Heavily
Indebted Poor Countries
, Hipc), citata nel documento, è stata finora deludente. Non
solo perché soltanto 23 paesi poveri sono stati ammessi al programma di alleggerimento,
ma anche perché la stessa Banca mondiale ha messo in dubbio l’efficacia
dell’iniziativa Hipc nel lungo periodo.

I responsabili di Sdebitarsi e di Drop the Debt (le
organizzazioni italiana e internazionale che si battono per la cancellazione del debito)
non nascondono la loro delusione: i leaders dei G8 hanno perso una grande occasione
per affrontare in modo efficace la crisi del debito.

 

PROBLEMI? PIÙ LIBERISMO!

Tutto il documento finale è una ossessiva esaltazione della crescita,
senza una parola per i concetti di uguaglianza, giustizia, redistribuzione. Punto 10:
"Libero commercio e investimenti alimentano la crescita globale e la riduzione della
povertà". Il punto 11 ribadisce il concetto: "Appoggiamo gli sforzi compiuti
dai paesi meno avanzati per accedere al sistema commerciale globale e per approfittare
delle opportunità offerte da una crescita basata sul commercio".

Dunque, la risposta degli 8 grandi ai problemi del mondo è chiara ed
univoca: essi additano la via del libero scambio e dei commerci. Per abbattere la
miseria strutturale e lo squilibrio della ricchezza serve più liberismo, la nuova
ideologia che – come ci viene continuamente ricordato – non si può mettere in discussione
perché è l’unica possibile.

Questo novembre ci sarà la quarta riunione dell’Organizzazione
mondiale del commercio
(Omc-Wto), la prima dopo il fallimento di Seattle (novembre
1999). Poiché quanti si oppongono e si mobilitano per manifestare il dissenso sono
considerati violenti o criminali, la riunione si terrà nell’emirato arabo del Qatar,
paese praticamente irraggiungibile. Insomma, finalmente il Wto potrà decidere in tutta
tranquillità cosa è bene per gli abitanti della terra. E poco importa se i delegati dei
49 paesi più poveri del pianeta, che si sono riuniti a Zanzibar (24 e 25 luglio), hanno
espresso forti preoccupazioni per le pressioni continue all’apertura dei loro mercati
quando questi sono ancora troppo deboli per competere con quelli dell’Occidente.

Se il Wto riuscisse a realizzare il suo disegno di liberalizzazione
completa dei mercati, sarebbe il primo organismo in grado di imporre le sue decisioni al
mondo intero. L’organizzazione – ha spiegato Susan George – è "un tavolo
permanente i cui membri si impegnano a negoziare per sempre in una sola direzione".
È quella del pensiero unico neoliberista, che elabora le giustificazioni teoriche
per la consegna delle economie nelle mani delle grandi imprese multinazionali.

"Il nostro modo di vivere e di pensare – ha scritto il premio
Nobel Rita Levi Montalcini -, il nostro modo di produrre, di consumare e di sprecare non
sono più compatibili con i diritti dei popoli dell’intero globo. I meccanismi
perversi dell’attuale modello di sviluppo provocano l’impoverimento, il
depredamento degli ecosistemi, la negazione delle soggettività e delle differenze".

 

GLI SPECULATORI? LIBERI DI ARRICCHIRSI

Al vertice di Genova si è parlato molto di economia, ma si sono
coscientemente tralasciate le variabili dell’economia finanziaria.

Attualmente sui mercati valutari si scambiano ogni giorno 1.800
miliardi di dollari; il 95% di tale entità riguarda transazioni di breve o brevissimo
periodo, la maggior parte delle quali riveste un carattere meramente speculativo. Se sulle
transazioni valutarie si applicasse la Tobin tax, si limiterebbero le speculazioni
finanziarie (che mettono continuamente in pericolo la stabilità degli stati più deboli e
l’equilibrio dell’intero sistema) e al tempo stesso si raccoglierebbero cospicui
fondi (si parla di 100 – 400 miliardi di dollari) per porre rimedio allo sviluppo
diseguale. Ma di tutto ciò, al summit di Genova, non si è parlato. Per banchieri
e speculatori non è mai difficile convincere i governi!

"Globali – ha scritto recentemente Oskar Lafontaine, ex ministro
delle finanze della Germania – sono solo i mercati finanziari -. La possibilità di
trovare in pochi secondi la migliore collocazione del capitale in tutto il mondo. Le crisi
finanziarie in Messico, Asia, Russia, Brasile e Argentina hanno rivelato
l’instabilità dei mercati finanziari inteazionali. Non ci sono dubbi che le crisi
hanno provocato un aumento considerevole della disoccupazione e dell’impoverimento
sociale".

 

LA TERRA PUÒ ATTENDERE

Non hanno potuto mentire. Al punto 24 i grandi affermano: "Al
momento non siamo d’accordo sul protocollo di Kyoto e sulla sua ratifica".

Su questo tema è stata determinante l’opposizione di George W.
Bush. Il protocollo di Kyoto (che prevede una blanda riduzione dei gas a effetto serra)
era stato firmato (1997), ma mai ratificato dagli Usa.

È qui che diventa palese una delle conseguenze più inquietanti della
globalizzazione: l’americanizzazione del mondo, ovvero la sua subordinazione
agli interessi della superpotenza statunitense. Finché si tratta di favorire il business
delle imprese multinazionali va tutto bene; ma quando si tratta di imporre regole
nell’interesse collettivo dell’umanità gli Usa si tirano indietro.

Vale la pena di ricordare che gli Stati Uniti sono di gran lunga il
paese più inquinante del pianeta (leggere box). Insomma, gli Usa guidano la fila
di coloro che si rifiutano di pagare quell’enorme debito ecologico e sociale
che le loro politiche hanno prodotto nei paesi del Sud, pur guardandosi bene dal
contabilizzarlo. Come ha ricordato l’ecuadoriana Aurora Donoso (di Acciòn
ecologica
), i paesi ricchi hanno operato un sistematico saccheggio delle risorse del
Sud (petrolio, minerali, foreste, biodiversità), lasciando in eredità distruzione
ambientale e sociale, mutamenti climatici e biopirateria di cui ora non vogliono farsi
carico.

"Le catastrofi ecologiche – scrive Lafontaine -, come
l’incidente al reattore di Cheobyl, il buco dell’ozono e le perdite delle
petroliere, hanno ricordato al mondo intero che anche la distruzione della natura fa parte
della globalizzazione. Gli interessi dell’ecologia si scontrano con lo spirito
neoliberale".

Molta più attenzione gli 8 grandi hanno mostrato nei confronti della tecnologia,
vista come panacea di tutti i mali. "Le tecnologie informatiche e delle comunicazioni
– recita il punto 22 della dichiarazione finale – rappresentano un enorme potenziale per
aiutare i paesi in via di sviluppo ad accelerare la crescita, elevare il tenore di vita e
soddisfare altre priorità dello sviluppo". Né è mancata (punto 20) la professione
di fede per le biotecnologie, nonostante il dibattito nella comunità scientifica e
nella società civile consigli molta prudenza.

Verso la fine del documento (punto 33) si parla di criminalità
transnazionale. Ma non si fa alcun cenno né al commercio delle armi né ai paradisi
fiscali e finanziari.
Evidentemente, per gli 8 "grandi" questi non sono
crimini.

 

LA PROMESSA

 

Silvio Berlusconi, non smentendo la sua fama di immodesto, ha
parlato di un vertice di portata storica. Come abbiamo visto, di storico c’è
soltanto il suo fallimento. Senza dire delle incredibili violenze che lo hanno circondato.
I 36 punti della dichiarazione finale di Genova si chiudono con "il nostro lavoro
continuerà". Più che una promessa, sembra una minaccia.

 

 

Il commento di Maurizio Pagliassotti e Silvia
Battaglia

TRA LIMONI DI PLASTICA E COPPE DI CHAMPAGNE

 

Quali commenti si possono fare sui contenuti del vertice genovese tra
gli 8 grandi della terra? Pochi. I risultati sono talmente striminziti che si finisce per
fare una critica al sistema stesso.

Certo, il tutto è stato ricoperto abbondantemente di demagogia,
spalmata da media pronti ad enfatizzare il nulla per nascondere parole che negli anni si
dimostrano sempre uguali, sempre più superficiali e banali.

"Il G8 della speranza", così è stata definita l’ultima
riunione dell’Internazionale del Conservatorismo Compassionevole. Mentre nelle
strade di Genova imperversava la guerra, all’interno di Palazzo Ducale, tra limoni di
plastica e coppe di champagne, i grandi 8 bollavano i manifestanti come "nemici dei
poveri" e, con unanimità di vedute, sproloquiavano le solite frasi, i soliti
ritoelli.

Il G8 svoltosi in Giappone, nel 2000, ebbe almeno un risvolto comico.
Allora la montagna riuscì a partorire lo slogan "Inteet per tutti",
come panacea mondiale della fame e del sottosviluppo. Anche per quei 2 miliardi di persone
che non hanno la più pallida idea di cosa sia il telefono?

D’altronde il grottesco in politica sembra seguire le leggi
dell’entropia nella fisica: tende all’infinito. Il ministro degli Esteri
italiano Renato Ruggiero, nominato direttamente dall’ex segretario di Stato
americano Henry Kissinger, ha detto, durante una trasmissione televisiva la sera
del 20 luglio, sostenendo l’importanza delle nuove tecnologie per il terzo mondo:
"Oggi un telefonino può salvare vite umane" (*).

Non si salverebbero molte più vite umane con una semplice riforma
agraria che favorisca le necessità intee anziché l’esportazione di monocolture?
Oppure evitando la crescente desertificazione di gran parte dei paesi poveri dovuta agli
effetti degli stili di vita consumistici del nord?

Niente di tutto questo. Gli 8 si sono mossi esclusivamente nel
ristretto ambito del progetto neoliberista. E in questo quadro devono essere viste le
piccole decisioni, poi definite "storiche", prese durante le "cene di
lavoro".

Allargamento del G8 – Dal prossimo anno dovrebbe essere presente
stabilmente una rappresentanza dei paesi poveri durante il pre-vertice. Demagogia. Molte
nazioni del terzo e quarto mondo sono "protettorati" degli Stati Uniti. Si
pensi, ad esempio, a molti paesi dell’America Latina.

È una realtà, invece, che i promessi aiuti allo sviluppo da anni non
facciano alcun progresso. I paesi industrializzati si impegnarono a destinare lo 0,7% del
PIL al sud del mondo. Escluse poche eccezioni scandinave, nessuno lo ha fatto. Tale
mancanza non è stata oggetto di discussioni.

Debito – È stata confermata la volontà di
"alleggerire" i debiti delle nazioni più povere. Restano in piedi quelli con il
Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale…

Curiosità: cosa si domanda in cambio
dell’"alleggerimento"? Si chiede un ulteriore taglio della già miserevole
previdenza sociale? Oppure un’ennesima apertura dei mercati, affinché possano
arrivare capitali stranieri ansiosi di trovare paesi finalmente liberi da basilari
normative sindacali ed ambientali?

Aids – È prevista l’istituzione di un fondo di 1,3
miliardi di dollari per combattere l’epidemia in Africa. Una bazzecola. Per lo scudo
spaziale statunitense sono previsti investimenti per 100 miliardi di dollari. Si è
parlato di far cadere il brevetto ventennale che copre i farmaci e li rende
scandalosamente cari?

Clima – Nessun accordo sul protocollo di Kyoto. Gli Stati Uniti,
ostaggi della stagnazione economica, si rifiutano di rinunciare al proprio stile di vita
iperconsumista, facendone anzi una bandiera. Un trattato totalmente insufficiente trova
ostacoli insormontabili.

Scudo spaziale – Preoccupanti le aperture russe verso lo scudo
spaziale voluto dagli Stati Uniti.

Tobin Tax – Tutti sono scoppiati a ridere.

E poi tanti altri bla bla su Medio Oriente, Macedonia, Africa
etc.

 

Nulla di nuovo quindi. Passa il messaggio che la soluzione dei problemi
globali vada ricercata attraverso una politica commerciale neoliberista, la stessa che
quotidianamente crea distruzione e morte. La ricetta proposta dagli 8 fa della
competizione commerciale un dogma. Bisognerebbe anche aggiungere che trattasi di
competizione al ribasso sui costi, intesi come umani ed ambientali, pena appunto
l’esclusione dal mercato. Questo meccanismo diabolico è ben dimostrato da paesi come
Cina e Messico, luoghi in cui le commesse di prodotti volti al consumatore occidentale
hanno prodotto piccole élites ultraricche e masse enormi di disperati, esattamente coloro
sui quali si scarica la "flessibilità competitiva globale". È giusta una
politica che lascia ai paesi poveri, come uniche scelte, la disoccupazione se si rifiutano
le regole di questo mercato oppure lo sfruttamento e la distruzione delle risorse naturali
se invece si accettano? A noi sembra paradossale.

Forse proprio questo messaggio, non più sussurrato subdolamente,
bensì urlato a gran voce, è il risultato più imbarazzante e pericoloso di questo
summit: la pretesa che la globalizzazione, e quindi la scienza ed il pensiero occidentale,
siano gli unici mezzi per diminuire la povertà del sud del mondo. Evidentemente non è a
tutti chiaro che la conoscenza occidentale è semplicemente il risultato
dell’evoluzione storico-culturale del popolo occidentale. Altre conoscenze ed altre
scienze hanno lo stesso diritto di esistere e di dare le proprie interpretazioni di ciò
che noi intendiamo per sviluppo e progresso.

Un carrozzone inutile, quindi, il G8, megafono di decisioni che vengono
prese altrove. Decisioni volte al mantenimento di un capitalismo che oramai è
impazzito, sfuggito di mano e che sembra quasi vivere di vita propria, ingovernabile. Un
macro-organismo che, brandendo la spada della tecnologia, necessita per mantenersi in vita
di sempre nuovi consumi, nuovi uomini da sfruttare per tagliare i costi, nuovi ambienti da
distruggere per trovare materia prima.

Quegli 8 uomini avrebbero dovuto ammettere che la soluzione ai problemi
dell’ambiente e delle popolazioni povere passa attraverso una drastica redistribuzione
della ricchezza.
Traduzione: fine dei patrimoni personali pari al PIL di interi
continenti, delle flotte di aviogetti privati, delle automobili da 1.000.000 di dollari, e
di moltissimi altri scandali. E, molto probabilmente, fine anche di molte altre minori
comodità che oramai noi consideriamo un diritto, ma che tali non sono.

Meglio rimandare fino al momento del collasso totale, meglio correre
spensierati verso una comodissima catastrofe.

(*) Speciale Porta a Porta, venerdì 20 luglio 2001, Rai 1.

 

 

Dopo l’11 settembre

SIAMO TUTTI AMERICANI, MA…

 

… anche serbi, palestinesi, kurdi, rwandesi, iracheni. Il terrorismo
è inciviltà. La guerra lo è ancora di più.

 

Nella peggiore delle ipotesi, quando leggerete queste pagine, George W.
Bush avrà già scatenato la vendetta. E altre persone innocenti, proprio come le migliaia
morte negli attentati di New York e Washington, pagheranno con la vita l’incapacità
umana di risolvere i problemi senza ricorrere alla violenza.

 

Il seme dell’odio

– Chi ha seminato il seme dell’odio? Perché è accaduto quel che
è accaduto? Non basta il fanatismo di Osama Bin Laden e dei talebani afghani per spiegare
la rabbia di una gran parte del mondo verso l’Occidente in generale e gli Stati Uniti
in particolare.

Tutti condanniamo il terrorismo, ma dobbiamo anche porci delle domande,
senza dividere il mondo tra "buoni" e "cattivi", tra
"civiltà" e "inciviltà", come ci suggeriscono molti politici e molti
media. Finché sul nostro pianeta ci saranno moltitudini affette da fame, miseria,
ingiustizia, ci saranno la disperazione e personaggi come Osama Bin Laden (o chi per lui)
pronti ad usarla per i loro fini.

 

Il fondamentalismo – Dei danni prodotti dal sentire
fondamentalista (che non accetta interpretazioni della vita diverse dalla propria) sono
pieni i libri di storia. Al giorno d’oggi, il fondamentalismo islamico è sicuramente
tra i più pericolosi. Innanzitutto, per la forza dei numeri: i musulmani sono oltre un
miliardo, in grande maggioranza nei paesi poveri. Poi perché, attraverso
un’interpretazione distorta dei testi coranici, leaders (chiamiamoli così) islamici
senza scrupoli cercano di alimentare il risentimento di popoli (afghani, iracheni,
yemeniti, pakistani, egiziani, sudanesi ecc.) costretti a vivere in condizioni di grande
privazione.

Ma non possiamo dimenticare tutti gli altri fondamentalismi, quelli che
si sono sviluppati nel Nord del mondo, nei ricchi paesi occidentali. Per esempio,
c’è del fondamentalismo nella dottrina neoliberista che non accetta obiezioni alle
leggi del mercato e del profitto, per le quali non ci sarebbe alternativa nonostante gli
squilibri dell’economia globale siano sotto gli occhi di tutti. "Ciò che è
avvenuto – ha scritto la Rete di Lilliput – è in stretta relazione con la fragilità e
l’intrinseca insicurezza dell’attuale sistema economico e politico dominante che
non riesce a risolvere i problemi che continuano ad affliggere gran parte
dell’umanità. Un mondo che viene rapinato nella ricerca esasperata di profitti a
breve termine e in cui il divario tra i più poveri e i più ricchi aumenta di anno in
anno non può che diventare un invivibile focolaio di tensioni e conflitti".

Ancora: come giudicare l’atteggiamento di George W. Bush e della
sua amministrazione? In pochi mesi di governo, questi signori sono riusciti a rendersi
invisi a una buona parte del mondo per aver stracciato i più importanti trattati
inteazionali: da quello di Kyoto sull’ambiente a quello sulle armi batteriologiche,
da quello sulla regolamentazione delle armi leggere a quello sui missili antibalistici.

Per non dire dell’idea di sviluppare un costosissimo sistema di
"scudo stellare", che rischia di riaprire la corsa agli armamenti. Gli attentati
dell’11 settembre hanno dimostrato la follia e inutilità di quel progetto. I nemici,
invece di utilizzare ordigni lanciati da altri paesi, hanno dirottato quattro voli interni
e li hanno usati come missili. Eppure, ne possiamo essere certi, Bush e altri
riaffermeranno con forza l’indispensabilità dello scudo stellare, che servirà
soltanto a svuotare le casse pubbliche e a riempire quelle delle industrie belliche.

E che pensare dello strano silenzio statunitense circa il conflitto
medio-orientale? Dalla guerra tra Israele e palestinesi nascono tensioni che si riflettono
su tutto il mondo. La soluzione equa di quel problema è un atto che riavvicinerebbe il
mondo islamico all’Occidente. Invece, approfittando della "distrazione
generale", il premier israeliano Ariel Sharon proprio nei giorni degli attentati ha
sferrato sanguinosi attacchi sui territori palestinesi di Gaza e Cisgiordania.

D’altra parte, è evidente che George W. Bush è (almeno fino ad
oggi) un presidente totalmente inadeguato per guidare la superpotenza americana. Tanto che
il grande scrittore messicano Carlos Fuentes non ha esitato a definirlo "un
energumeno ignorante". Prima delle stragi, Bush junior era solito ripetere il motto
"the United States of America first", gli Stati Uniti innanzitutto. Speriamo che
qualcuno lo consigli di anteporre gli interessi dell’umanità, magari facendo
riferimento alle Nazioni Unite, un’istituzione che da anni gli americani tentano
(riuscendovi, purtroppo) di mettere in disparte.

L’eventuale risposta bellica di Bush ed alleati non potrà che
radicalizzare il conflitto tra Occidente e mondo islamico, aumentando l’odio e
accrescendo le fila degli aspiranti kamikaze, pronti a sacrificare la propria vita al
primo cenno del mullah di tuo.

 

Lacrime vere e lacrime false? – In Italia gran parte dei
mass media tenta di far passare la tesi "chi non è con gli Stati Uniti, favorisce i
terroristi e tutti i nemici dell’Occidente". Questa semplificazione è una
vergognosa strumentalizzazione della tragedia e tende ad escludere ogni posizione diversa.
Come avvenne per la guerra del Golfo (1991) e per quella del Kosovo (1999). Che i contrari
alla guerra avessero ragione oggi è sotto gli occhi di tutti: l’Iraq è un paese con
una popolazione alla fame e un Saddam Hussein saldamente al potere, il Kossovo e tutta la
ex Jugoslavia sono una polveriera colma di cadaveri e d’odio.

Da tutte le parti, ci dicono che occorre parteggiare, schierarsi,
scegliere, escludendo ogni posizione diversa. Addirittura, c’è chi parla di morale,
di etica: non essere d’accordo con Bush e la Nato significherebbe mancare di rispetto
alle migliaia di morti sepolti sotto le macerie delle torri del "World Trade
Center" e del Pentagono. Le lacrime di chi vuole applicare la legge del taglione
("occhio per occhio, dente per dente") sarebbero più vere di quelle di coloro
che vogliono ragionare da uomini, declinando parole diverse (dialogo, giustizia, pace,
tolleranza, comprensione) da quelle dei governi e dei potenti (guerra, vendetta, rivalsa,
dominio)?

 

Le due facce della medaglia – Ero a New
York nei giorni attorno a ferragosto. Ovviamente sono andato ad ammirare il panorama dal
110.mo piano delle Torri gemelle. Da quell’altezza, come tutti ho goduto della
splendida vista di Manhattan, uno dei luoghi più fotografati del pianeta. Proprio sotto
c’era il distretto finanziario e la famosa Wall Street. A vedere il mondo di lassù,
tutto sembra (sembrava) all’insegna dell’ottimismo e della ricchezza. Ecco il
punto: in Occidente, in troppi vedono (o vogliono vedere) soltanto una faccia della
medaglia.

Per chiedere un mondo diverso e più giusto, sono stato a protestare
lungo le vie di Genova e, nonostante quanto dicano Silvio Berlusconi, il suo governo e i
suoi giornali, non solo ne sono orgoglioso, ma non avrei dubbi a rifare le stesse scelte.
Per gli stessi motivi, non avrò tentennamenti a scendere in piazza per protestare contro
la follia della guerra, per gridare che un’altra strada esiste.

Pa.Mo.

Paolo Moiola




MADAGASCAR: un angolo controverso di paradiso. Vivi e morti… inseparabili

Madagascar: quasi una grande zattera tra
Asia e Africa, variopinto miscuglio di culture e tradizioni diverse. E dove la morte
riesce a diventare "l’evento più importante della vita".

 

  Atterrando in Madagascar sul piccolo aeroporto di Nosy-Be, costruito a
ridosso di un villaggio di capanne in legno e su palafitte (per staccare la struttura
dalla terra e tenerla asciutta), sembra di essere ritornati indietro nel tempo. Quando,
poi, ci si immette sulla strada che conduce alla parte abitata di Nosy-Be (isoletta a nord
del paese), si resta ancora più meravigliati dallo spettacolo. Si passa attraverso le
coltivazioni più disparate, dai profumi inebrianti, e tra alberi da frutta a profusione;
nella stagione dei monsoni, sembra addirittura di correre su di un tappeto di manghi,
caduti così numerosi dagli alberi che non ci sono mani sufficienti per raccoglierli, né
bocche per mangiarli.

Una decina di chilometri per arrivare a Hell-Ville, capitale dell’isola, con molte
case coloniali francesi; altri dieci chilometri e arriviamo ad una grande scuola, sulla
riva dell’Oceano Indiano, sul lato ovest, in faccia al Mozambico.

Nel gennaio 1999 misi piede per la prima volta a Nosy-Be e, più precisamente, nella
scuola delle "Discepole del Sacro Cuore" di Lecce, che è diventata anche la mia
missione.

Vedendo un costone alto e scosceso a picco sull’oceano, proprio dietro alla
scuola, mi è venuta l’idea di edificarvi una chiesetta bianca, bella e slanciata in
onore della Madonna Consolata: una piccola costruzione, ma che si vedesse da lontano da
piroghieri, motonauti, marinai, vacanzieri, pescatori… da tutti quelli, insomma, che
solcano questo lembo di Oceano Indiano.

Il piccolo sogno è oggi realtà. La Consolata, in questo anno centenario di fondazione
dei suoi missionari, ha una chiesetta sulla più bella isola del Madagascar. Una generosa
signora brianzola, devota da sempre della Consolata, ha sostenuto le spese
dell’opera. Il santuario diventerà certamente una meta di preghiera per chi si
avventurerà su quest’isola di sogno!

 L’isola dei profumi

Nosy-Be, estesa come l’isola d’Elba, è una meraviglia nel suo genere,
esotica e modea, turistica e selvaggia. Situata a 15 chilometri dalla costa del
Madagascar, è di origine vulcanica e montagnosa, con molti laghi formatisi negli antichi
crateri. È chiamata "l’isola dei profumi" per le colture di canna da
zucchero, caffè, vaniglia, pepe, zafferano, zenzero. E merita la reputazione di piccolo
paradiso.

Oltre la metà degli abitanti (circa 30 mila) è cristiana, in maggioranza cattolica,
con minoranze musulmane, indiane e cinesi. La popolazione, tranquilla e accogliente, sa
convivere in pace nella mescolanza delle diverse razze.

A Nosy-Be, con le suore "discepole", ci occupiamo di una grande scuola di
1.030 allievi: una scuola tradizionale che, secondo il sistema francese, parte dalla terza
all’undicesima classe. Le maestre sono suore malgasce ed è, ovviamente, cattolica,
anche se non si fanno differenze di religione. Accettiamo tutti, finché c’è posto.
Le varie religioni convivono senza alcun problema. E questo è bello.

I nostri allievi sono in maggioranza figli di tagliatori di canna da zucchero, il
lavoro più duro che si possa immaginare, un’attività da schiavi, che molte tribù
rifiutano di fare. Il salario è da fame e molti genitori riescono con difficoltà a
pagare la piccola quota mensile per mandare i figli a scuola.

Tuttavia la nostra scuola funziona bene: le suore si impegnano al massimo e i risultati
sono buoni. È forse per questo che tutti vogliono venire da noi, anche perché, molte
volte, sulla regolarità del pagamento chiudiamo un occhio… Ultimamente siamo anche
riusciti a fare adottare i bambini più poveri, con grande sollievo dei genitori.

La scuola inizia alle sette: ed è uno spettacolo assistere all’arrivo degli
scolari, tutti con il grembiulino azzurro, la maggioranza a piedi nudi; chi lungo la
spiaggia e chi attraverso i campi di canna da zucchero. Visi belli e sorridenti,
rispettosi e vivaci.

Vivere per… morire

  Uno dei fatti che più mi ha colpito, arrivando in Madagascar, è la
coabitazione (non sempre facile) tra cristianesimo e certi riti locali legati al culto dei
morti. Oltre la metà dei malgasci è ancora legata alla religione tradizionale, che si
riduce alla venerazione degli antenati.

Le diatribe su questo problema continuano da 180 anni, da quando, cioè, il
cristianesimo è arrivato per la prima volta nella grande isola. Le opinioni divergono:
alcuni ritengono le pratiche dei morti in contraddizione con l’insegnamento di
Cristo; altri come una testimonianza dell’immortalità dell’anima.

La differenza di attitudine tra gli stessi cristiani ha portato a querele, destinate a
durare all’infinito. Fra l’altro, i riti ancestrali prevedono sacrifici di
zebù, funerali stabiliti dallo stregone e rivoltamento dei cadaveri dopo cinque-sette
anni dalla morte, per dare finalmente una sepoltura definitiva al defunto, che diventa
così "antenato".

Come tutte le religioni tradizionali africane, anche quella malgascia afferma che Dio
è buono, ma è lontano ed è meglio lasciarlo tranquillo. Si ha, piuttosto, paura dei
morti e si fa di tutto per tenerseli buoni. Gli antenati conservano la loro identità e i
legami familiari. La credenza considera che tutto il male che arriva in una famiglia
(incidenti, malattie, lutti, difficoltà economiche…) derivi dal mancato rispetto di
certi desideri dei defunti. Pertanto tutti (cristiani compresi) non cessano mai di
sottoporsi a costosi sacrifici in onore dei defunti: in occasione di un matrimonio,
l’acquisto di una piroga, la costruzione di una nuova abitazione. Così, per
tenerseli buoni!

In Madagascar si vive per prepararsi… a morire. La morte segna il passaggio dal rango
di "uomo" a quello di "antenato" ed è caratterizzata da tre cerimonie
fondamentali: i "primi" funerali; l’esumazione e il rivoltamento dello
scheletro (pulito con cura e pitturato di vernice bianca); il "secondo" funerale
(dopo cinque-sette anni), con nuovi sacrifici. In genere il defunto viene sepolto nel suo
campo. Molti di quelli che vivono in città lasciano come ultima volontà di farsi portare
nella terra di origine. "È la morte l’evento principale nella vita di un
malgascio" mi dice un vecchio tagliatore di canna a riposo.

Quando si attraversano le campagne, si incontrano sovente monumenti funebri, negli
stili più diversi, secondo le regioni. Il funerale è una festa e la sua importanza
dipende dalla ricchezza del defunto e dal numero di zebù messi a disposizione dei
partecipanti alle esequie. Alcune tombe, oate da centinaia di coa di zebù, indicano
palesemente la potenza dello scomparso.

A proposito: in Madagascar vivono più zebù che persone. Mentre gli abitanti sono
circa 15 milioni, gli zebù arrivano a 17 milioni e ogni famiglia ne possiede almeno uno,
che alleva per il prossimo lutto.

Frammenti di culture diverse

Non è possibile stabilire quale sia stata la stirpe originaria del Madagascar. Le 18
etnie principali che oggi l’abitano mostrano un’incredibile varietà di tratti
somatici, tanto da rendere impossibile ogni generalizzazione.

Crocevia geografico tra Asia, Africa, Arabia e occidente, in Madagascar si ritrovano
elementi culturali di mille paesi: il riso coltivato a terrazze come in Indonesia; le
piroghe a bilanciere dei polinesiani; i libri di magia scritti in arabo;
l’allevamento brado, caratteristico delle tribù seminomadi africane; i mercati e
negozi indiani; chiese cattoliche e protestanti, abbinate in ogni centro abitato;
l’amministrazione pubblica, fotocopia di quella francese.

L’isolamento millenario del Madagascar ha fatto sì che gli elementi portati da
ciascuno si mescolassero e sviluppassero in modo originale. Natura e cultura hanno seguito
una strada propria, rispetto agli altri popoli continentali.

Sulla grande "isola rossa" vivono molte specie di serpenti, ma nemmeno uno è
velenoso; moltissimi gli animali nella foresta, ma neppure uno feroce. Alcune specie di
animali ed uccelli sono veramente prolifiche nel Madagascar; famosissimi i lemuri,
proscimmie graziose e mobilissime, sovente considerate portatrici di malocchio dalla
popolazione (che li perseguita).

Quasi tutti i malgasci hanno la pelle nera, ma nella forma degli occhi, i capelli
lisci, i nasi stretti, gli zigomi sporgenti… si legge l’oriente che è passato di
qui. E si è anche fermato. Un villaggio tipico malgascio, anche il più sperduto, ha una
chiesa protestante, una cattolica e sempre un emporio con un cinese o un indiano dietro il
banco di vendita. No, i malgasci non amano il commercio e continuano pacifici sulla strada
della tradizione, che li vede da sempre agricoltori e allevatori di zebù.

Una cosa importante: non dite ad un malgascio che è africano! Il Madagascar non si
riconosce nel continente. Come una grande zattera che galleggia sull’Oceano Indiano,
l’isola si richiama piuttosto all’Asia, non senza una certa fierezza, dovuta a
parentele lontane e misteriose. La distinzione arriva talvolta a una certa forma di
razzismo, sul quale si è fondata la stratificazione sociale di oggi, ben prima
dell’arrivo dell’uomo bianco.

Al di là di tutte le teorie, il colore della pelle nera, bruna o chiara, è un
criterio essenziale di classificazione dei malgasci stessi tra di loro: più la pelle è
scura e meno l’origine è nobile. Una semplice osservazione della folla la dice più
lunga di qualsiasi discorso scientifico. Tinte nere, gialle o ramate, capelli lisci o
crespi, occhi stretti o molto aperti: il miscuglio è evidente e dà seguito a
combinazioni tra il tipo malese dalla pelle chiara, il nero oceanico e il nero africano.

La fusione delle razze è la conseguenza diretta di un popolo che ha tante origini
quante sono state le ondate migratorie negli ultimi 15 secoli.

È vero che il Madagascar occupa (ahimè!) uno degli ultimi posti in tutte le
classifiche e statistiche disponibili: 13° paese più povero del mondo, 5° più
"dipendente" dagli aiuti estei, 12° tra i più assistiti. È anche il
penultimo, dopo il Tibet, nell’uso di concimi chimici e, dunque, il secondo paese nel
praticare un’agricoltura biologica ed ecologica, grazie alla povertà dei contadini.
La condizione di miseria della "grande isola" sembra sfuggire a ogni logica.

Nonostante gli aiuti e il sostegno, il paese continua a sprofondare. E tutti gli
esperti concordano nel dire che l’isola possiede un potenziale enorme, che dovrebbe,
invece, permetterle di svilupparsi in fretta.

Noè Cereda




Dialogo interreligioso. Sull’onda del grande fiume

Il documento pontificio "Dialogo e
annuncio" ha 10 anni. Un testo che, già nel titolo,

rompe un po’ gli schemi. Perché il dialogo dovrebbe seguire
l’annuncio,non viceversa.

Ma il primo non intacca né minimizza il secondo. Dialogo per cogliere "i
segni dei tempi".

 

Dal Concilio ecumenico Vaticano II è scaturito un fiume, come il Po dalle rocce del
Monviso… Il 7 dicembre 1965, mentre il Concilio chiudeva i battenti, apparve la
costituzione Gaudium et Spes, con la quale la Chiesa dichiarava di voler dialogare con il
mondo: "con tutti gli uomini del mondo", e "non solo con coloro che
invocano il nome di Gesù Cristo", "per instaurare la frateità
universale", per salvare e non per condannare, per servire e non per essere servita
(2-3).

È il fiume del "dialogo fraterno", la più grande scoperta del secolo. È un
poema sinfonico… come il fiume Moldava, che Smetana (1824-1884) coglie allorché nasce
da due sorgenti e gorgoglia gaio tra le pietre luccicando al sole, poi si allarga e le sue
rive echeggiano di voci… per giungere alla rapida di san Giovanni, sulle cui rocce le
onde si infrangono spumeggiando: di là il fiume scorre largo verso Praga…

Parlare non È dialogare

Come non pensare, nel parlare di "dialogo", ai 34 dialoghi di Platone
(427-348 a.C.)? Specie a quello tra Eutifrone e Socrate, sorpresi mentre si dirigono al
tribunale: il primo per accusare suo padre di omicidio, poiché aveva lasciato morire un
servo; il secondo perché accusato da Meleto di corrompere i giovani e di fabbricare nuovi
dèi.

Il discorso sale e scende quando i due si intrattengono sul concetto di
"santo" e, più propriamente, su che cosa significhi "pio" o
"empio". Un dialogo divertente e sottilissimo. Alle domande stringenti di
Socrate, Eutifrone conclude: "Non so che dirti, perché qualunque definizione ci
mettiamo avanti, ci gira sempre attorno, e non c’è verso che voglia star ferma nel
punto che la mettiamo". È quanto avviene in ogni dialogo.

La Chiesa ha sempre parlato, ma un conto è parlare un altro dialogare. La Chiesa al
Concilio ne scopre la novità, il suo valore sociale, politico, economico, scientifico,
religioso, ecumenico, interreligioso…

Il dialogo è una chiave capace di aprire tutte le porte, se ben usata: non per
nascondere ciò che si possiede o per barattarlo sottobanco, ma per mostrarlo per ciò che
è, confrontarlo, arricchirlo, accettando le diversità. Le tante diversità che non è
sempre possibile eliminare, ma che è sempre possibile riconciliare, accettare, tollerare,
per non continuare a scannarci: cattolici contro protestanti e viceversa, cattolici contro
ortodossi e viceversa, cattolici contro musulmani e viceversa…

Quante volte il battesimo viene ridotto a proselitismo a favore di una congrega a
scapito di un’altra, specialmente nel passato.

Nel romanzo Jenny di Anya Seton, ambientato nell’Inghilterra del XVIII secolo, si
racconta di un pastore che battezza una bimba, pronunciando la formula: "Jane
Radcliffe, figlia della Covenant, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo". Qui la forza della formula non sta tanto nelle tre persone divine, ma
nella "figlia della Covenant" (convenzione, patto). Era anche la professione di
fede nazional-religiosa degli scozzesi, che dopo una lunga lotta vennero sottomessi al
rito anglicano.

Pagine da cancellare

C’è anche un problema a monte, che la teologia appena sfiora perché si tratta di
"sabbie mobili". È l’esistenza delle "guerre sante",
dell’arroganza religiosa, compresa la "bellicosità cristiana".

Un esempio classico è il profeta Elia, che si ritiene autorizzato ad uccidere 450
sacerdoti di Baal: "Afferrate i profeti di Baal – comanda Elia -; non ne scappi
neppure uno. Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li
scannò" (1 Re 18, 20-46). Un Elia fanatico che deve imparare che Dio non si
manifesta nella tempesta, ma nel mormorio del vento (1 Re 19, 1-13).

Si rimane incantati dalla nostalgica poesia dei deportati ebrei a Babilonia:

"Sui fiumi di Babilonia

là sedevamo piangendo

al ricordo di Sion.

Ai salici di quella terra

appendemmo le nostre cetre…".

Ma questi esuli esigono da Dio il pareggio, e il salmo 136 termina con le terribili
parole:

"Beato chi afferra i tuoi piccoli

e li sbatte contro la pietra!".

Quando leggiamo: "A me la vendetta, dice il Signore" (Rom 12, 19), è per
toglierla di mano agli uomini?

Il dialogo "urlato" non serve. Se in una assemblea le lingue ufficiali
superano la ventina, si è vicini a Babele.

Voltaire, nel suo Dizionario filosofico, sulla voce "tolleranza" scrive:
"Un giunco, piegato dal vento contro il fango, dovrà forse dire al giunco vicino
piegato in un senso contrario: "Striscia come striscio io, miserabile, o ti
denuncerò per farti sradicare e bruciare"?".

E, all’inizio della voce "tolleranza", Voltaire pone la domanda:

"Perché noi ci siamo scannati quasi senza interruzione, a partire dal primo
concilio di Nicea?…

Noi siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le
nostre balordaggini. È la prima legge di natura". Voltaire ricorda pure che, negli
organi di una volta, c’era il registro chiamato "voce umana".

documenti significativi

Dal 7 dicembre 1965 il fiume limpido e possente del dialogo ha iniziato una discesa a
valle; si è diviso in canali per irrigare meglio paesi e continenti, erosi dalla
diffidenza ed intolleranza. Altri torrenti, col passare degli anni, sono confluiti nel
fiume ingrossandone la portata.

Dal 1965 ad oggi sono oltre una decina i documenti ufficiali che la Chiesa ha fatto
uscire, a conferma dell’importanza capitale del dialogo: anzitutto le lettere di
Paolo VI Ecclesiam suam nel 1964 (quasi una introduzione alla Gaudium et Spes) ed
Evangelii nuntiandi nel 1975. Nel 1984 il Segretariato per i non cristiani ha pubblicato
"L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci delle altre religioni –
Riflessioni e orientamenti su dialogo e missioni". Nel 1990 è arrivata
l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris missio.

Dieci anni fa il pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e la Congregazione
per l’evangelizzazione dei popoli, dialogando tra loro, hanno pubblicato
"Dialogo e annuncio – Riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e
l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo". È un documento significativo perché
è nato da un’esperienza di dialogo fra i due dicasteri.

Nel frattempo il grande fiume del dialogo si è imbattuto in dighe, sbarramenti,
cateratte, pozzanghere. In alcune regioni cristiane il dialogo è interpretato come
un’oscura provocazione; ci sono ecumenismi senza sbocchi; ecumenismi che minacciano
di cadere nella trappola del relativismo (per cui tutte le verità si equivalgono) o del
confusionismo. Si finisce anche col dire: "La mia religione è migliore della
tua".

Si svolgono ovunque congressi, convegni, tavole rotonde che hanno per titolo: "La
Chiesa dialoga con la città". Difficilmente avviene il contrario: che una città,
nelle sue varie istituzioni, prenda l’iniziativa. Si lanciano piani di pastorale,
dove il dialogo appare come contorno, valvola di sicurezza, ruscelletto grazioso o canale
di scolo.

L’ultimo documento ricordato "Dialogo e annuncio" (di cui si celebra
quest’anno il decennio) ha un paragrafo dal titolo "Ostacoli al dialogo" e
ne enumera 11. Il paragrafo inizia così: "Già solo sul piano puramente umano non è
facile praticare il dialogo. Il dialogo interreligioso è ancora più difficile";
tuttavia "malgrado le difficoltà l’impegno della Chiesa nel dialogo resta fermo
e irreversibile" (n. 54).

Necessario questo dialogo anche all’interno della Chiesa a cui apparteniamo. Non
solo con i "fedeli attivi", ma anche con quelli (forse più numerosi) che, senza
essere contrari, sono inattivi, quasi "forestieri", che non comprendono del
tutto il nostro modo di parlare, disposti a ricevere una "benedizione di Dio",
se non un "sacramento".

E poi ci sono i "lontani".

 

I n conclusione, specie con i fedeli "inattivi" e "lontani", si
potrebbe prendere come esempio di dialogo anche Giacomo Leopardi.

Il grande poeta compose il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez. La
scena è nottua, in alto mare, su una gracile caravella. Colombo e Gutierrez conversano
sui motivi che li hanno spinti all’avventura, alla scoperta di nuove terre che non
appaiono.

Colombo: Buona notte, amico.

Gutierrez: Bella in verità: e credo che a vederla da terra sarebbe più bella.

(Ma la terra dov’è? Colombo, per il riverbero della terra vicina, ne sente quasi
il profumo).

Colombo: Da certi giorni in qua lo scandaglio, come sai, tocca fondo; e la qualità
della materia che gli vien dietro mi pare indizio buono. Verso sera, le nuvole intorno al
sole mi si dimostrano d’altra forma e di altro colore da quelle dei giorni innanzi.
L’aria, come puoi sentire, è fatta un poco più dolce e più tepida di prima. Il
vento non corre più, come per l’addietro, così pieno, né così diritto, né
costante; ma piuttosto incerto e vario, e come fosse interrotto da qualche intoppo.
Aggiungi quella canna che andava in sul mare a galla, e mostra essere tagliata da poco; e
quel ramicello di albero con quelle coccole rosse e fresche. Anche gli stormi degli
uccelli, benché mi hanno ingannato altra volta, nondimeno ora sono tanti che passano, e
così grandi; e moltiplicano talmente di giorno in giorno che penso vi si possa fare
qualche fondamento; massime che vi si veggono intramischiati alcuni uccelli che, alla
forma, non mi paiono marittimi. In somma tutti questi segni raccolti insieme, per molto
che io voglia essere diffidente, mi tengono pure in aspettativa grande e buona.

Gutierrez: Voglia Dio questa volta ch’ella si verifichi.

È il dialogo sui "segni dei tempi". Anche Gesù invitò a non trascurarli.
Il Concilio, a sua volta, come materia di dialogo, proclama che è dovere della Chiesa
scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo (Gaudium et Spes, 4).

Igino Tubaldo




India. Ai margini dei templi indù

Ci si immerge in folle numerose,
variopinte e tumultuose. L’India è un subcontinente

anche per gli abitanti, che superano il miliardo e parlano circa 300 lingue,
espresse

talora in alfabeti diversi: con una cultura di 4 mila anni e marcate differenze fra
nord e

sud… L’impegno di alcune missionarie, mentre i cristiani contano solo il
2,3%. Una

presenza di qualità, in barba ad ogni fanatismo.

 

Tutte le classi sociali

Siamo a Mumbai, come si chiama oggi Bombay. Qui esiste un legame con il nord
dell’India. Si parla anche l’hindi, che il governo di New Delhi si sforza di far
diventare lingua nazionale. I giornali in hindi sono abbastanza diffusi, a differenza del
sud. La città merita attenzione per il crogiolo di culture, come ogni grande porto. Si
contano 16 milioni di abitanti: appartengono a tutte le classi sociali, dall’enorme
ricchezza alla più desolante miseria.

È significativo il lungomare della Colaba. Percorrendo anche meno di un chilometro, si
attraversano ambienti molto diversi: un grande hotel di lusso, altri alberghi di
differenti livelli e povere abitazioni. Attoo agli alberghi stazionano tanti mendicanti
e piccoli venditori di gelati, bibite e arachidi abbrustolite in loco. Quest’ultima
attività è singolare, in quanto tutta la proprietà del venditore consiste in un vassoio
rettangolare di legno, con i bordi rialzati e di dimensioni tali da poter essere montato
sul manubrio della bici. Il vassoio raccoglie le arachidi, un foelletto a carbone e
piccoli coni di carta, ricavati da pagine di giornale, in cui vengono servite le arachidi.

È una modestissima attività, che tuttavia richiede alcune conoscenze: sapere dove
acquistare al meglio il carbone e le arachidi (analisi di acquisto), come abbrustolirle
(tecnologia) e quante tenee pronte per non fare aspettare e perdere i clienti (analisi
di mercato).

Ancora, sul lungomare della Colaba, è attivo un vasto e curato mercato di frutta e
verdura. I mercati (specie in oriente) sono un condensato di folla e costumi. In quello
della Colaba è possibile rendersi conto dei modi di vivere e delle "tolleranze"
(a sfondo religioso) innate negli abitanti. Ecco alcune mucche aggirarsi fra i banchi, con
licenza di pascersi di foglie in modo tale, però, da non incidere sull’igiene della
merce… mentre i passerotti si posano su mucchi di piselli sgranati cibandosene; altri
uccelli saltellano sui sacchi di riso satollandosi. I negozianti non intervengono,
complice l’indifferenza degli acquirenti.

i compiti sulla strada

Il quartiere sulla Colaba confina con un villaggio di pescatori brulicante di vita,
certamente al di fuori dei circuiti turistici. Ciò fa sì che, inoltrandosi nelle viuzze,
si è oggetto di non curanza, ma più spesso della sorridente curiosità di giovani e
bambini, che rivolgono al visitatore il saluto. Fra le casupole non circola certo la
ricchezza, ma neanche la miseria; è una società che si sforza di trovare un equilibrio
sociale nella vita quotidiana.

Sulla larga via che costeggia il mare, il traffico è modesto, poiché la strada muore
nei vicoli stretti del villaggio. A sera, dopo il rapido tramonto del sole, il traffico
cessa del tutto. A questo punto si assiste ad un fatto sorprendente: dalle case sciamano
in strada tutti gli abitanti, che si raccolgono a chiacchierare sulla via: donne con
donne, in gruppi separati per età; analogamente avviene per gli uomini, i giovani e i
bambini. Si conversa in piedi o accovacciati per terra su coperte portate da casa, sulle
quali qualcuno passerà la notte.

Nel cono di luce proiettato da un lampione, scoviamo alcuni bambini con i quadei
aperti sul manto stradale: stanno facendo i compiti giornalieri. Come spesso accade con i
bambini, siamo subito circondati e tempestati di domande relative al nostro nome, la
provenienza. I bambini di età intermedia ci presentano il loro "decano", che
frequenta la settima (l’ultima classe delle elementari). Deve essere bravo negli
studi, perché tutti ne lodano le capacità, con l’interessato che annuisce.

Il ragazzo, come i suoi compagni, a scuola studia anche il maharastra (la lingua
locale), l’hindi e l’inglese; il che non è di poco conto, trattandosi di idiomi
diversi anche per alfabeto. Il quaderno, che il ragazzo ci lascia esaminare, è ben
tenuto, con gli esercizi accuratamente svolti.

Se fossimo cento…

A oriente di Mumbai, nelle vicinanze di Aurangabad, si trovano le grotte di Ajanta e
Ellora. In realtà sono grandi costruzioni scavate nella roccia, in modo da ricavare
ambienti dotati di gradini, colonne, statue e bassorilievi. La realizzazione di tali opere
risale al II secolo a.C. fino al X d.C.; denota una grandissima abilità di progettazione
ed esecuzione. Infatti il lavoro non permette errori, giacché tutti gli elementi
architettonici vengono ricavati sul posto dal "pieno" della roccia, e non
trasportati in loco dopo essere stati realizzati altrove.

L’origine dei monumenti (protetti dall’Unesco come patrimonio
dell’umanità) è legata al buddismo, che ha avuto una grande diffusione nel
centro-nord dell’India. Ma, dal VI secolo d.C., l’induismo ha ripreso il
sopravvento. Intanto è continuata la costruzione delle grotte con templi indù.
Successivamente si sono aggiunti templi della religione jain, che costituisce una
evoluzione radicale dell’induismo. È curioso che, in tale regione, il 75% della
gente sia musulmana, anche se le donne vestono il sari e, quindi, non sono distinguibili
(per gli occidentali) dalle indù.

Le grotte testimoniano un senso religioso, che si avverte anche in aspetti
apparentemente secondari, come i segni colorati (rifatti ogni giorno) sul volto delle
persone.

L’attenzione degli indiani al socio-religioso è molto diffuso. Sul quotidiano
Times of India ogni giorno c’è la colonna "Spazio sacro": appaiono massime
di grandi pensatori e frasi religiose (anche del vangelo).

In Times of India del 23 marzo 2001 si leggeva: "Se gli abitanti del mondo fossero
100, scopriresti che 57 sono asiatici, 21 europei, 14 occidentali (non europei) e 8
africani; 30 di razza bianca e 70 non bianca; 52 femmine e 48 maschi; 30 cristiani e 70
non cristiani.

Se possiedi una casa, hai da mangiare e sai leggere, appartieni ad una élite pari a
meno del 25% dell’umanità. Se hai una bella casa, cibo a volontà, leggi e giochi
con il computer, appartieni ad una élite ancora più ristretta. Se ti sei alzato in buona
salute, sei più fortunato dei milioni di persone che questa settimana non
sopravviveranno.

Se non hai mai sperimentato il pericolo della guerra, la solitudine della prigionia,
l’agonia della tortura e gli spasimi della fame, non condividi la sorte di 500
milioni di persone. Se frequenti cerimonie religiose senza paura di vessazioni, arresti,
torture o morte, sei più fortunato di 3 miliardi di persone.

Se sai leggere questo messaggio, sei più fortunato di 2 miliardi di persone.
Trasmettilo per far sapere quanto siamo ricchi…".

onore al dio shiva

Lasciando Chennai (o Madras) e procedendo verso il sud, ci si inoltra in un’India
diversa. L’hindi è usato solo in attività governative. E sembra che le attuali
popolazioni non abbiano ancora assimilato l’invasione ariana di 4 mila anni fa!

Mentre il nord è famoso per i palazzi (opera spesso degli imperatori indo-musulmani
moghul), il sud è celebre per i templi indù, espressioni delle culture dravidiche
indigene. Sono opere anche gigantesche, articolate su aree di parecchi ettari. I templi
sono meta di pellegrinaggi e occasioni di feste che durano diversi giorni.

Una sera, a Kottayam, assistiamo ad una festa in onore del dio Shiva. L’ampio
piazzale del tempio è saturo di folla e bancarelle di venditori. Sul pronao, cui si
accede tramite una larga scalinata, si impongono cinque elefanti affiancati: ogni animale
è riccamente bardato e montato da un conducente. Altri inservienti reggono lunghe aste,
sulle quali ardono cinque lampade simmetriche, alimentate con olio. Gli addetti alla
cerimonia sono a torso nudo e indossano una lunga gonna, tipica degli uomini. Un suonatore
di una sorta di oboe, dal suono nasale, emette un motivo ossessionante, amplificato dal
microfono e accompagnato da percussioni martellanti. Il rumore è assordante e si
percepisce un’atmosfera inquietante. La festa dura l’intera notte.

Nei templi si venerano tutte le divinità del panteon indù, con particolare devozione
a Shiva e Visnù. Gli edifici sono interessanti per l’architettura, le sculture e
qualche dipinto. È pure interessante osservare la quantità e varietà di fedeli: intere
famiglie di contadini e persone di ceto sociale anche elevato, che però si mescolano in
un unico turbinio di folla variopinta.

Un accenno ai vestiti delle donne. Nel sud l’abito è praticamente il sari. Però
non c’è un sari uguale all’altro. I colori, i disegni e il modo di portarlo
foiscono ai locali tante informazioni, che agli stranieri sfuggono. La vivacità e
l’accostamento dei colori è un retaggio delle giovani come delle anziane: infatti si
vedono signore canute indossare sari sgargianti e lucenti, essendo tessuti pure con fili
che appaiono metallici.

Con le domenicane

Nel marzo scorso sono stati resi pubblici i risultati del censimento nazionale. Oggi
gli indiani ammontano a 1 miliardo e 27 milioni, di cui il 52% maschi. Il censimento
rivela che la differenza numerica fra uomini e donne sta riducendosi. Non è un dato
trascurabile: indica, infatti, che nella nascita si sopprimono meno bambine rispetto ad un
tempo. Ma la pratica è tutt’altro che estinta.

Madre Domenica Farinaccio, delle domenicane della Madonna del Rosario di Iolo (Prato),
che vive nel Rosary Convent di Chocin, ci dice che una famiglia non ricca, con figlie da
maritare, incontra enormi difficoltà. Questo perché, per sposare una ragazza, si
richiede come minimo una dote di 4-5 milioni di lire: una somma irraggiungibile per la
maggioranza delle famiglie. Ne consegue talora il suicidio dei genitori (specie dei
padri), quello delle figlie e prostituzione. Secondo suor Domenica, se una ragazza in età
da marito non si sposa in tempo, diventa l’oggetto di tutti.

Uno degli impegni delle missionarie è quello di dare un mestiere alle ragazze ed anche
di costituire un fondo per la necessaria dote del matrimonio.

Le statistiche governative rivelano anche una riduzione dell’analfabetismo, che
tuttavia affligge ancora il 25% dei maschi e il 46% delle femmine. Nel Kerala
l’analfabetismo tocca solo il 10%: merito anche dei cattolici che nella regione
raggiungono il 28%, a fronte però di meno del 2,3% (compresi i protestanti) su base
nazionale.

Le domenicane gestiscono una rinomata scuola elementare, con insegnanti governativi (ma
pagati dalle suore) e oltre mille allievi indù, musulmani e cattolici. Si versa una
retta, e gli allievi delle famiglie povere sono aiutati affinché possano accedere alla
scuola. Le missionarie gestiscono anche degli ambulatori, con laboratori di analisi, e
dispensari a Chocin e dintorni.

La presenza cattolica si manifesta in varie chiese e scuole: il Kerala rimane comunque
una regione a maggioranza indù.

Le missionarie domenicane sono 22 e 16 le aspiranti indiane. Non operano in un ambiente
scevro da pericoli. Quasi ogni settimana sui giornali si legge di aggressioni a cristiani
da parte di fanatici indù. Un trafiletto, apparso durante il nostro soggiorno, riportava
la notizia di una preghiera serale, interrotta da alcune persone (tre poi arrestate):
hanno malmenato il sacerdote e vari fedeli, hanno strappato e bruciato pagine del vangelo,
diffidando il prete.

Questi episodi, contrari alla tradizionale tolleranza indiana, stanno diventando
frequenti, all’ombra di un governo impotente a controllare il partito dei
fondamentalisti indù, piccolo ma indispensabile per formare la maggioranza governativa.

Né si scordi che in India la donna è "subordinata", se non peggio. Ciò
nonostante, le "donne" della Madonna del Rosario, da sole ottengono risultati
notevoli. Accolgono i più poveri, senza fare cortei; aprono ambulatori e non bruciano
beni pubblici; nutrono i meno abbienti, senza distruggere McDonald’s.

Pier Giorgio Motta




Globalizzazione: l’opinione di Riccardo Petrella

Nel conflitto dell’«oro blu»

Intervista rilasciata nell’ambito
della "Scuola per l’alternativa" (fondata a Torino dai missionari della
Consolata, Cisv e Vis). Temi affrontati: ideologia della competitività, "oro
blu", inevitabilità della globalizzazione, mercificazione delle culture.

L’interlocutore è un "europeo": presidente del "Fast",
fondatore del "Gruppo di Lisbona",docente e autore di testi di economia
politica.

 

 Professor Petrella, cos’è il Fast, di cui lei è stato presidente?

"Fast" (Forecasting and Assesment in Science and Technology) è stato un
programma della Commissione europea di previsione e valutazione delle conseguenze
economico-sociali della scienza e tecnologia: circa il lavoro, l’energia solare, la
clonazione delle cellule. Individuati e giudicati i fenomeni, occorreva operare per
scongiurare gli aspetti negativi.

  Oggi lei è presidente del "Gruppo di Lisbona", dopo
essee stato fondatore. Con quale scopo?

Nel 1991 ho fondato il "Gruppo" invitando una ventina di studiosi, impegnati
nella scienza e nella politica, a scrivere un manifesto contro l’ideologia della
competitività: questo perché, lavorando nel "Fast", avevo notato che in
occidente la scienza serviva in grande scala le imprese nazionali e private sui mercati
mondiali. È una perversione che in Italia, per esempio, lo scopo principale dello
sviluppo tecnico, scientifico e politico sia quello di consentire alle imprese di essere
competitive.

  Questo discorso, nel "Fast" e nel "Gruppo di
Lisbona", è rivolto agli imprenditori, ai politici o anche alla gente comune?

Il "Fast" aveva come scopo di elaborare una politica della scienza-tecnologia
per i leaders dell’Europa; invece il "Gruppo di Lisbona" è
un’iniziativa per parlare alla gente. Al posto dell’ideologia della
competitività, abbiamo proposto che la scienza e tecnologia creino una maggiore ricchezza
mondiale, con beni comuni, per permettere a tutti il diritto alla vita.

  Vi siete pure dati un appuntamento per il 2020. State conseguendo
qualche risultato?

Abbiamo detto: diamoci 20-25 anni di coscientizzazione, affinché la scienza e
tecnologia consentano a tutti il diritto all’acqua, all’alimentazione, alla
salute. Ma i capi dell’Unione Europea, a partire dalla Commissione presieduta da
Prodi, riaffermano la subordinazione della scienza alla competitività delle imprese. Nel
marzo del 2000, al Vertice di Lisbona, i 15 governi dell’Unione hanno sottoscritto il
documento "E Europe" (Europa elettronica): hanno accolto la tesi che saremmo
diventati e economia, e politica, e sanità, e istruzione. Tutto è elettronico, al
servizio della competitività esasperata.

  Di conseguenza lei punta ad una istruzione diversa e mette tutti in
guardia da alcune "trappole". Oggi non vale più l’"io so… quindi
posso"?

Vale, eccome! Altrimenti, che ci farei all’università?

  Ma ci sono delle trappole. Quali?

La prima trappola è l’istruzione al servizio delle risorse umane, e non della
persona. Si dice: a scuola ci vai per diventare una risorsa redditizia e sfruttabile sul
mercato, non per crescere come cittadino critico.

Seconda trappola: la formazione necessaria è quella che permette di aumentare la
competitività del paese. Quindi c’è una separazione crescente tra conoscenze
"utili" e "non utili". L’"utile" riguarda la finanza,
il marketing, l’informatica. Oggi se, nel consiglio di amministrazione
dell’università, proponi una cattedra di letteratura bizantina, ti deridono perché
"a che serve"? Ma, se sostieni una cattedra per insegnare le tecniche di
riconoscimento della voce… del frigorifero (che, al tuo "apriti!", risponde
"sì, amore!"), allora tutti ti applaudono.

Piano piano (terza trappola) trasformiamo l’educazione da servizio pubblico e
collettivo ad una attività mercantile, subordinandola alla logica dei prezzi. La scuola
non è più un bene per tutti, ma soltanto di chi paga: è merce. Grazie ad internet, a
distanza non si vende solo il profumo personalizzato, ma anche il programma educativo. È
nata l’università virtuale, con studenti che pensano di autoeducarsi on line. Una
delle trappole più negative!

Ma ce n’è un’altra più pericolosa ancora: l’educazione come
legittimazione delle disuguaglianze sociali, dovuta alla disparità di conoscenze.

Si dice: poiché tutti hanno pari opportunità iniziali di studiare, se tu non ce la
fai, la colpa è solo tua.

  Il che è falso.

Spudoratamente falso, perché di fronte allo studio non c’è par condicio. A
prescindere dal sud del mondo, mi riferisco anche agli studenti del medesimo quartiere in
Europa. I miei figli sono andati a scuola, come quelli dell’emigrato marocchino (che
abita sulla stessa via a Bruxelles), ma con risultati diversi: e non perché i figli miei
siano più intelligenti. Le ragioni della disparità di rendimento sono altre. In Belgio
il 20% degli studenti frequenta l’università e (guarda caso!) il 92% di costoro
appartiene a famiglie ricche.

 

Professor Petrella, nel suo libro Il manifesto dell’acqua, lei affronta
un’altra disparità, legata al problema dell’"oro blu", cioè
l’acqua. Che dire dell’"oro blu" in Africa nella tragica guerra dei
"Grandi Laghi"?

Nella regione dei Grandi Laghi è evidente che una delle cause del conflitto è
l’accesso alle risorse idriche.

Ma esiste anche il problema mondiale dell’"oro blu", che è un discorso
di dominio. Perché l’acqua è "oro"? Perché è stata mercificata,
conferendole il valore di scarsità, rarità, preziosità… Il 70% dell’uso
dell’acqua è per fini agricoli, il 20% per scopi industriali e il 10% per impiego
domestico. E si dice: siccome l’acqua agricola e potabile è inquinata, bisogna
purificarla. Così diventa "oro" sempre più costoso.

  Ma l’acqua da chi è inquinata?

È questo il punto, perché se rimoviamo le cause dell’inquinamento delle acque,
non sarebbe più "oro".

Poi si dice: nei prossimi 20 anni la popolazione nel mondo crescerà di 2 miliardi, con
un ingente fabbisogno di acqua, mentre le risorse idriche resteranno stabili. E chi usa
l’acqua? L’occidente consuma l’88% delle risorse idriche mondiali per
l’agricoltura, il cibo, l’igiene, ma anche per l’industria: occorrono 400
mila litri di acqua per i 3 mila pezzi di un’auto. Siamo nel settore automobilistico,
che copre solo il 20% del mondo industriale. In media un europeo consuma acqua 80 volte di
più di un asiatico. Quindi 1 milione di italiani consuma acqua quanto 80 milioni di
indiani. Allora il problema non è la crescita demografica nel sud del mondo, ma la gente
nel nord; è la conservazione del sistema economico nel nord, assetato anche di acqua.

  Acqua minerale (imbottigliata) o del rubinetto?

Io parlavo dell’acqua del rubinetto. La minerale esige un’altra riflessione.
Oggi sembrerebbe che il 52% degli europei bevano solo acqua minerale (con l’Italia in
testa), che costa 500-1000 volte di più di quella potabile del rubinetto. In Italia
l’acqua che si beve maggiormente è San Pellegrino (della Nestlé) e Ferrarelle
(Danone). Dati i prezzi, gli affari sono elevati. Ma bisogna stigmatizzare anche il
comportamento dei consumatori. Inoltre va ricordato che l’acqua del rubinetto è più
sana di quella minerale. Questa, secondo la legge italiana, non è considerata potabile,
bensì terapeutica, che il marketing ha trasformato in bene di consumo. Nelle acque
minerali si possono trovare dosi di arsenico.

 

Questo è terrorismo psicosociale?… L’attuale sistema economico non
avrebbe alternative. È noto l’acrostico "Tina" (cioè "There is no
alternative"), di cui si fa scudo la globalizzazione. O l’alternativa c’è?

Non esiste l’inevitabilità nei sistemi economici. Se al presente privatizziamo
tutto, non significa che non ci siano progetti economici alternativi. L’Inghilterra
con la Thatcher ha privatizzato le ferrovie, però oggi discute se nazionalizzarle,
perché "i treni sono usciti dal binario"… Dal 1945 al 1973 vigeva un sistema
finanziario internazionale basato sul cambio fisso, con un tasso di crescita mediamente
più confortante rispetto al 1973-98, quando i cambi non sono più stati fissi e si è
imboccata la via della privatizzazione. Può darsi che si ritorni al sistema precedente…

Il MAI (1) era ritenuto inevitabile, ma fu bloccato. Nel software per ora vince
Microsoft, ma Linus potrebbe prendersi la rivincita, perché nulla è scontato. Anche
"il popolo di Seattle" (a prescindere dalle violenze di pochi scalmanati)
dimostra che la globalizzazione non è l’unico modo di impostare l’economia.

Il 27 aprile il papa, all’Accademia delle scienze in Vaticano, ha detto
che la globalizzazione a priori non è né positiva né negativa; dipende dall’uso
che se ne fa…

In una valutazione a priori Giovanni Paolo II ha ragione. Però, calandoci hic et nunc
nella realtà, non si può dire che "questa" globalizzazione sia neutra.

  Per questo il papa pone dei limiti: l’attenzione alla persona
e il rispetto di tutte le culture. Diversamente, la globalizzazione è colonialismo.

Però attenzione al tranello, perché la globalizzazione accetta le diversità di
cultura. Oggi le potenze scientifiche mediatiche ostentano di valorizzare, per esempio, la
religiosità plurimillenaria dell’Asia grazie ad internet. E lo fanno. Poi c’è
lo studio delle lingue…

  Ebbene, dov’è il tranello?

Il tranello è che ti offrono solo culture "mercificate". Si accettano altri
modi di vestire, mangiare e cantare, ma non di pensare. Non si accetta una politica
diversa da quella occidentale. Qui il papa ha ragione quando parla di colonialismo.

I dominatori della globalizzazione vogliono convincerci che "le guerre di
civiltà" sono inevitabili. È una tesi condivisa pure da indù e musulmani, fautori
delle "guerre di religione" per difendersi, specie se minoritari. Perché gli
indù ammazzano i musulmani in India e viceversa in Indonesia? Perché i cristiani (se
possono) vogliono conquistare il mondo con l’evangelizzazione? I dirigenti, invece di
promuovere sempre il rispetto dell’altro, ne criticano la mancanza solo quando loro
conviene. La difficoltà del missionario o dell’intellettuale è eloquente: pur
aperti, sono sempre parte di una cultura che li condiziona. L’arroganza del
"pensiero unico" è in agguato (2).

  Ha fatto sensazione nel 1991 il libro E se l’Africa rifiutasse
lo sviluppo? di Axelle Kabou (camerunense), con la tesi: mentre lo sviluppo si è
realizzato in occidente e in qualche paese dell’Asia, è fallito in Africa, perché
la cultura locale è parassitaria, pigra.

È abbastanza vero che la cultura africana è antropologicamente refrattaria allo
sviluppo del capitalismo mercantile. Ma questo potrebbe tramutarsi in una opportunità per
i popoli africani. Forse il XXI secolo sarà dell’Africa.

 

 Il fatto è che l’Africa, stretta dal Fondo monetario internazionale
o dall’Organizzazione mondiale del commercio, è in crisi e deve accodarsi al più
forte che le impone il "pensiero unico" (2).

Mi auguro che questo sia un fatto passeggero. Io sono prudentemente fiducioso sul
futuro dell’Africa.

Circa il "pensiero unico", ritenuto (come la globalizzazione) necessario per
tutti, noto qualche significativo "distinguo". Si veda il Giappone, il paese
asiatico più occidentalizzato, che ha conservato il culto degli antenati con gli altarini
in famiglia; ha il culto della vita, corpo e anima, che gli deriva dallo scintornismo… Pur
nel "pensiero unico", il pluralismo non è morto. Oggi si parla di
globalizzazione dal volto umano, con nuove regole, sconfessando quindi quella precedente.
Anche questo è pluralismo.

  Professore, se lei dovesse presentarsi ai lettori di Missioni
Consolata, cosa direbbe di se stesso?

Che sono "un operaio della parola", presente per indicare soluzioni
alternative alla mondializzazione dell’economia di mercato.

 

  

(1) Il MAI (Multilateral Agreement on Investment, accordo mondiale sugli investimenti)
prevedeva non solo libertà di investire, ma anche garanzia di protezione persino nel sud
del mondo; in caso di perdite, lo stato avrebbe dovuto risarcire gli investitori.
L’"accordo" (che aveva il benestare di Renato Ruggiero, allora direttore
dell’Organizzazione mondiale del commercio) venne bocciato nel 1998 (cfr. Missioni
Consolata, gennaio 1999).

(2) Sul "pensiero unico", cfr. Ignacio Ramonet (e AA. VV.), Il pensiero unico
e i nuovi padroni del mondo, Strategia della lumaca, Roma 1996.

Francesco Beardi