LA LUNGA MANO DELLA PROVVIDENZA

Nata nel 1970 per impulso
del Concilio Vaticano II,
la Caritas Italiana
è uno strumento di animazione
delle comunità cristiane
nell’esercizio della carità.
Questa panoramica storica
ne evidenzia tappe di crescita,
situazione presente
e proiezioni verso il futuro.

C’era una volta… la Poa (Pontificia
opera di assistenza):
organismo con cui, durante
la guerra e nel periodo della ricostruzione,
il papa faceva arrivare alla
chiesa italiana gli aiuti dei cattolici
americani: ingenti quantità di generi
alimentari per le colonie estive,
acquisto e messa a disposizione di sedi
e assistenti sociali.
Per 30 anni, fino al 1970, quando
il papa sciolse la Poa, le diocesi erano
abituate a ricevere. Nel 1971 la
Cei (Conferenza dei vescovi italiani)
istituì la Caritas Italiana: le diocesi venivano
chiamate, non più a ricevere,
ma a condividere aiuti e servizi.

CAMBIO DI MENTALITÀ
La Caritas nasceva come strumento
pastorale di animazione di tutta la
comunità cristiana nell’esercizio della
carità. Tale identità è stata espressa
chiaramente da Paolo VI nel settembre
del 1972: «Una crescita del
popolo di Dio nello spirito del Concilio
Vaticano II non è concepibile
senza una maggior presa di coscienza
da parte di tutta la comunità cristiana
delle proprie responsabilità
nei confronti dei bisogni dei suoi
membri» .
Era Paolo VI che voleva fermamente
la Caritas; la Cei l’ha istituita
forse più per obbedienza che per
piena convinzione, preoccupata che
sorgesse un’altra Poa sulle sue spalle.
Occorreva un cambiamento radicale
nella mentalità e costume della
chiesa italiana. È emblematico a tale
proposito l’incontro che ebbi con un
vescovo incaricato, a livello regionale,
di seguire l’organizzazione delle
Caritas diocesane. «Che cosa ci portate?» mi chiese. «Nulla» risposi. «E
allora perché ci siete?».
Eppure lo Spirito con il Concilio
faceva sorgere nel popolo di Dio una
sensibilità nuova. Nel settembre
1972, mentre stavamo per dare inizio,
alla Domus Mariae (Roma), al
primo Convegno Nazionale delle
Caritas diocesane, si avvicinò timidamente
una donna e mi mise in mano
una busta con 1 milione e 200 mila
lire: erano gli arretrati della pensione
sociale appena riscossi.
Un segno incoraggiante a continuare
un progetto rivoluzionario. Ve
ne furono altri.

EVENTI INCORAGGIANTI
La celebrazione del primo Convegno
nazionale delle Caritas diocesane
nel settembre 1972 era già un’incoscienza:
di Caritas diocesane non
ne esisteva ancora neanche una e i
delegati erano gli stessi che gestivano
gli uffici diocesani della Poa.
Provvidenzialmente, alla fine dell’incontro,
il vicepresidente della
Cei, mons. Castellano, dichiarò formalmente
che nelle diocesi la Caritas
doveva essere una cosa nuova, diversa
dalla Poa. Fu un punto di chiarezza
fondamentale per il futuro
della Caritas.
Un altro fatto provvidenziale fu
l’udienza papale alla fine del Convegno.
Quando andai dal maestro di
camera per chiedere l’incontro, questi
mi chiese se avevamo desideri particolari
di cui il santo padre tenesse
conto nel suo discorso. Mi venne
spontaneo chiedergli che ci commentasse
lo Statuto che ci aveva dato
la Cei. Il papa ne fece l’interpretazione
autentica, sottolineò natura,
funzione, attualità, metodo della Caritas
(vedi riquadro), con una ricchezza
e lungimiranza di contenuti
che non potevamo né prevedere né
aspettarci. E fu la nostra forza, anche
di fronte a incertezze e pareri che incontravamo
lungo la strada.
Un’altra circostanza provvidenziale
ci aiutò a dare l’impronta alla
Caritas: avevamo ricevuto il mandato
di avviarla, ma nessuno aveva pensato
a un fondo per le spese: siamo
partiti nella povertà.
Per raccogliere offerte al tempo
della fame in Biafra (Nigeria), mons.
Freschi aveva messo in piedi una rivistina
di 4 facciate: Italia Caritas. Da
quel rivolo ci venne il necessario per
il primo anno di vita. Ciò che trattenevamo
lo consideravamo un prestito
che ci facevano i poveri, perché
potessimo servirli; quando avessimo
avuto più risorse lo avremmo restituito.
Ciò che facemmo negli anni
successivi.
Fu una grande lezione che ci fece
comprendere che vivevamo con i
soldi dei poveri e che in tutto dovevamo
avere uno stile di sobrietà e povertà.

ARRIVA IL VOLONTARIATO
Intanto emergevano le prime punte
del volontariato: Gruppo Abele,
Comunità di Capodarco, gruppi di
punta delle periferie urbane. Ci interrogavamo
sul significato di tale fenomeno
e sul come comportarci con
i volontari, finché decidemmo di ascoltarli,
per sentire cosa facevano e
pensavano. Nell’autunno del 1975
organizzammo a Napoli il primo
Convegno nazionale del volontariato.
Fu una scoperta per il numero,
qualità di esperienze, carica ideale e
politica.
Decidemmo di coltivare tale movimento,
distinguendo però i ruoli:
la Caritas avrebbe esercitato la sua
prevalente funzione pedagogica di
promozione, formazione e cornordinamento,
lasciando ai cristiani laici
il compito di organizzarsi per l’azione.
Nel maggio 1976 ci fu il terremoto
del Friuli: era la prima grave emergenza
che la Caritas affrontava.
Insieme agli oltre 10 mila volontari,
era presente anche la Caritas Italiana.
Ci venne una ispirazione: verrà
l’inverno, gli studenti andranno a
scuola, gli operai toeranno al lavoro,
questa gente rimarrà sola; è il momento
della presenza della chiesa.
Proponemmo alle diocesi e alle rispettive
Caritas che stavano formandosi
di farsi carico ciascuna di una
parrocchia colpita, assicurando per
tre anni una presenza continuativa:
80 diocesi da Aosta a Otranto risposero
all’appello, gemellandosi con altrettante
parrocchie friulane: fu
un’esperienza forte di condivisione
che, oltre a promuovere e sviluppare
molte Caritas diocesane, divenne
poi un metodo costante, adattato alle
diverse situazioni negli interventi
della Caritas.
Nell’ottobre 1976, durante il primo
Convegno ecclesiale su «Evangelizzazione
e promozione umana»,
svolsi la prima relazione sul tema «Evangelizzazione
ed emarginazione»,
documentando la situazione della
chiesa italiana su tale argomento e
mons. Pasini portò nella sesta Commissione
i principali contenuti che
portavamo avanti come Caritas: implicitamente
avvenne la presentazione
ufficiale della Caritas Italiana davanti
a un centinaio di vescovi e un
migliaio di delegati delle diocesi.
Al termine del Convegno l’assemblea
approvò con un lunghissimo
applauso la mozione presentata dalla
Commissione, con cui si chiedeva
«al Convegno di fare propria la proposta
di farsi carico della promozione
del servizio civile, sostitutivo di
quello militare, nella comunità italiana,
come scelta esemplare e preferenziale
dei cristiani, e di allargare le
proposte di servizio civile anche alle
donne».
Così entrarono nella Caritas il servizio
civile degli obiettori di coscienza
e l’anno di volontariato sociale
per le ragazze.

NUOVI ORIZZONTI
All’inizio del 1980 i giornali parlavano
dei profughi del Vietnam, del
«popolo delle barche». Durante un
viaggio in India, per un progetto di
ricostruzione di capanne distrutte da
un ciclone, insieme a mons. Motolese
approfittai per fare un salto in Malesia
e renderci conto della situazione:
il paese aveva già 70 mila profughi
vietnamiti e non ne voleva altri:
impediva l’approdo delle barche e le
ributtava in mare.
I capi religiosi della Malesia, cattolici
e protestanti, ebrei, musulmani
e buddisti, avevano lanciato un
appello a tutti i credenti del mondo
perché premessero sui loro governanti
affinché accogliessero i profughi
vietnamiti.
Insieme a gruppi e movimenti facemmo
forti pressioni sul governo
che, in prossimità delle elezioni nella
primavera del 1981, cedette, a condizione
che trovassimo preventivamente
lavoro e abitazioni. Un appello
alle Caritas diocesane offrì lavoro
e alloggio per 10 mila famiglie, utilizzati
solo per 3 mila profughi, a causa
di resistenze burocratiche.
Lo statuto della Caritas prevede
interventi nel terzo mondo. Ad allargare
l’orizzonte della carità furono
le grandi calamità che hanno colpito
i paesi poveri: siccità nel Sahel,
carestia in Ghana, Uganda e Mozambico,
guerra e fame in Somalia ed
Eritrea, alluvioni in Bangladesh e India,
terremoto in Guatemala, guerra
civile e carestia in Salvador. Situazioni
che ho vissuto di persona con tre
momenti successivi: intervento immediato,
presenza di solidarietà da
chiesa a chiesa e progetti di ricostruzione
e sviluppo.
Molti dei progetti sono stati realizzati
in collaborazione con lo stato
italiano: accoglienza dei profughi
vietnamiti, installazione dell’ospedale
di Tha Praja in Thailandia, invio
di aiuti in Ghana, Algeria ed Eritrea,
costruzione dei Centri sociali in
Umbria, attuazione del programma
Fai (Fondo aiuti inteazionali) su richiesta
del ministro Forte.
Lo stato si assumeva la spesa delle
operazioni che, per motivi diversi,
non era in grado di fare direttamente.
Fu una collaborazione reciproca,
leale e trasparente.

ULTIMI 15 ANNI
La seconda parte del trentennio di
vita della Caritas Italiana è stata caratterizzata
da un crescente impegno
nella formazione degli operatori al
servizio della carità. Per sacerdoti e
diaconi permanenti è stata inserita,
nei programmi di seminari diocesani,
università e facoltà teologiche dipendenti
dalla Cei, una disciplina
specifica: «Teologia e pastorale della
carità».
Per imprimere maggior impulso ai
rapporti con il territorio, sono state
promosse le scuole socio-pastorali,
analisi dei bilanci comunali, cornoperative
di solidarietà sociale, osservatori
delle povertà e centri di ascolto.
Inoltre, lo sviluppo delle Caritas parrocchiali
ha contribuito ad accrescere
la partecipazione attiva di regioni
e diocesi alla vita della Caritas Italiana
nella preparazione e gestione del
convegno nazionale e sulle altre attività
promosse a livello nazionale e internazionale.
Un momento problematico si è rivelato
l’avvio dell’operazione «8 per
mille». Avevamo insistito perché le
somme destinate alla carità, soprattutto
per il terzo mondo, fossero gestite
dalla Caritas, in conformità allo
statuto datole dalla Cei, onde evitare
confusioni e conflittualità. La presidenza
della Cei ha preferito gestire
direttamente tali aiuti. Anche questo
fu provvidenziale: ha evitato il rischio
di essere percepita come una
centrale di potere finanziario.
Nei rapporti con la società civile, la
Caritas Italiana ha assicurato una
presenza sistematica in varie commissioni
governative: povertà, minori,
Aids, immigrazione, pari opportunità;
ha offerto contributi alla produzione
legislativa: leggi quadro sui
servizi sociali, immigrazione, volontariato,
cooperazione sociale, riforma
della legge sull’obiezione di coscienza,
servizio civile per tutti; ha contribuito
a promuovere sensibilità e solidarietà
verso le fasce deboli, con la
poderosa pubblicazione della Biblioteca
della solidarietà in 37 volumi.
Negli ultimi 15 anni, inoltre, si sono
moltiplicate le emergenze in cui
la Caritas è stata presente con consistenti
aiuti: Eritrea ed Etiopia, Israele-
Palestina, Salvador, Sudan, Armenia,
Romania, Iran, Urss e Lituania,
Somalia, Bangladesh, Albania,
Croazia e Serbia, Bosnia-Erzegovina,
Kosovo, Rwanda, Angola.
In tali emergenze la Caritas ha avuto
anche i suoi martiri: Gabriella
Fumagalli a Merca in Somalia, Antonio
Siriana e Roberto Bazzoni nel
Kosovo.

PER I PROSSIMI 30 ANNI
Grazie alle numerose attività svolte,
la Caritas si è progressivamente
modificata e ingrandita: ha dovuto ricercare
nel tempo l’equilibrio tra l’essenziale
vocazione di animazione e la
risposta a provocazioni molteplici
per impegni concreti. Per costruire il
futuro, essa dovrà affrontare con realismo
e lungimiranza il presente.
Guardando la situazione attuale
nella prospettiva del futuro, vedo
uno scoglio per le Caritas diocesane,
che rimangano sopraffatte dalla gestione
di servizi, sotto la pressione
dei bisogni emergenti.
Inoltre, il bilancio storico di questi
30 anni mostra come la Caritas Italiana
e quelle diocesane hanno avuto
un impensabile sviluppo; non
si può dire altrettanto a livello di parrocchie.
È, quindi, urgenza inderogabile
promuovere Caritas parrocchiali
autentiche: animazione della
carità e attuazione della funzione pedagogica
non si realizzano né a Roma,
né nei centri diocesani, ma nelle
singole comunità parrocchiali, dove
si celebra l’eucaristia, dove vivono le
persone e le famiglie. Può essere l’obiettivo
dei prossimi 30 anni.
Vi sono altri due obiettivi da affrontare
con coraggio e competenza,
sollecitando la collaborazione degli
altri uffici pastorali interessati e dei
gruppi e movimenti presenti nella
comunità cristiana.
Prima di tutto la tutela dei più deboli
nello sviluppo o involuzione
delle politiche sociali. Bisognerà richiamare
costantemente i compiti e
le responsabilità delle pubbliche istituzioni;
affermare concretamente
il valore della gratuità nel volontariato;
animare i cristiani alla solidarietà
sociale, perché tutta l’economia
mantenga al centro la persona. Sarà
un lavoro contro corrente, per contrastare
l’attuale cultura dominante
neoliberista, che mette al centro non
la persona, ma l’economia a servizio
degli interessi privati.
Il secondo obiettivo consiste nell’investire
nei giovani, aiutandoli a
passare dall’obiezione di coscienza
al servizio civile volontario. Ciò richiede
una forte educazione alla non
violenza, alla pace e mondialità; aiutarli
a superare la cultura della guerra
e affrontare in senso positivo la sfida
della globalizzazione; dare loro
speranza e guida contro le strumentalizzazioni
di destra e di sinistra.
La Caritas Italiana potrebbe offrire
un segno profetico di forte risonanza:
orientare i giovani che decideranno
di fare il servizio civile volontario
a compiere tale impegno
nei paesi poveri, a fianco del volontariato
internazionale e nei servizi
assistenziali, sanitari, educativi delle
missioni. Sarebbe una forte esperienza
educativa, che aiuterebbe
i giovani a cambiare
il mondo.

(*) Mons. Giovanni Nervo
è una figura storica della Caritas
Italiana: ne è stato presidente
per 15 anni (1971-1986).

Connotati CARITAS

Paolo VI ai delegati del I Convegno
nazionale delle Caritas diocesane.
Qualificazione istituzionale: «Senza
sostituirsi alle istituzioni già esistenti
in campo assistenziale nelle varie
diocesi, la Caritas si presenta come
l’unico strumento ufficialmente
riconosciuto a disposizione dell’episcopato
per promuovere, cornordinare e
potenziare le attività assistenziali nella
comunità ecclesiale italiana».
Funzione: «Creare armonia e unione
nell’esercizio della carità, di modo
che le varie istituzioni assistenziali,
senza perdere la propria autonomia,
sappiano agire in spirito di sincera
collaborazione, superando individualismi
e antagonismi e subordinando
gli interessi particolari alle esigenze
del bene generale della comunità».
Mezzo di rinnovamento conciliare:
«La crescita del popolo di Dio nello
spirito del Vaticano II non è concepibile
senza una presa di coscienza da
parte di tutta la comunità cristiana
delle proprie responsabilità nei confronti
dei bisogni dei suoi membri. La
carità resterà sempre per la chiesa il
banco di prova della sua credibilità nel
mondo».
Funzione pedagogica: «Al di sopra
dell’aspetto materiale della sua attività,
emerge la funzione pedagogica
della Caritas, l’aspetto spirituale, che
non si misura con cifre e bilanci, ma
con la capacità che essa ha di sensibilizzare
chiese locali e singoli fedeli
al senso e dovere della carità, in forme
consone ai tempi e bisogni. Mettere
a disposizione dei fratelli energie
e mezzi non è frutto di slancio emotivo
e contingente, ma conseguenza logica
di una crescita nella comprensione
della carità che scende necessariamente
a gesti concreti di comunione
con chi è in stato di bisogno».
Metodo: «È indispensabile superare i
metodi empirici e imperfetti, nei quali
spesso si è svolta l’assistenza, e introdurre
nelle nostre opere i progressi
tecnici e scientifici della nostra epoca.
Di qui la necessità di formare
persone esperte e specializzate; promuovere
studi e ricerche per una migliore
conoscenza dei bisogni e delle
cause che li generano e per una efficace
attuazione degli interventi. Oltre
a giovare ai fini di una programmazione
pastorale unitaria, la Caritas
servirà a stimolare gli interventi delle
pubbliche autorità e un’adeguata
legislazione».

Giovanni Nervo




«AMARCORD» AFRICANO

Da due decenni
in America Latina,
padre Giuseppe Ramponi
rivive i primi 15 anni
di esperienza missionaria
a tutto campo vissuti
in Kenya: attività religiosa,
promozione umana,
scuole, ricerca linguistica
e antropologica
e inculturazione
del vangelo.

Il 17 settembre 1967 il parroco
con la comunità di Pieve di Cento
(BO) mi diceva addio con
queste parole: «La parrocchia si sente
onorata di dare uno dei suoi figli
alle missioni, per portare la verità e
l’amore di Cristo a coloro che hanno
fame e sete di giustizia».
In novembre mandavo i primi sentimenti:
«Wamba (Kenya): la mia più
grande sofferenza non è la fatica o la
privazione, ma la tristezza nel vedere
tanta miseria».

IL TIROCINIO
Wamba, nella diocesi di Marsabit
e distretto dei samburu, era una missione
in costruzione, con tutte le precarietà
che ne derivavano: alloggio
provvisorio, molestie di insetti, animali,
scorpioni, serpenti e insicurezza di vario genere. Inoltre, dovevo
trovare il mio posto nella “missione”:
studiavo la lingua, svolgevo
qualche attività da prete e davo una
mano nei lavori.
Nel febbraio del 1968 l’apprendistato
era finito. Il parroco disse
che di lingua ne sapevo più di lui
e mi buttò in piena attività missionaria:
cominciai a visitare i
villaggi.
Le scuole erano l’attività
fondamentale della
missione, e permettevano
di creare
comunicazioni
con la gente e
portare l’evangelizzazione
su
un piano possibile:
quello dei ragazzi. Dai vecchi
non ci si aspettava che cambiassero
modo di vivere; ma ci aiutavano, approvando
che i figli ricevessero un’educazione
differente.
Col passare del tempo venivo a
contatto con i veri problemi: contrasti
tra la gente, divisioni tribali, inefficienza
dell’amministrazione pubblica
e, per completare il quadro,
scontri con i missionari protestanti.
Le relazioni ecumeniche andavano
bene in Europa, molto meno in missione.
Presenti nella regione da moltissimi
anni e forti del patrocinio dell’amministrazione
coloniale inglese,
essi si sentivano padroni e ci ritenevano
invasori. Comprendevo il loro
risentimento e li compativo. Più tardi,
in America Latina, ho capito perfettamente come ci si sente, quando
tocca a noi essere invasi dagli evangelici,
che portano via intere comunità
con campagne sistematiche di
proselitismo.

CAPIRE LA GENTE
Dopo un anno cominciavo a delineare
i termini del mio essere missionario:
accettare ogni novità con
impegno ed entusiasmo; accogliere
tutti e amarli con tutte le forze.
Alla fine del ’68 arrivò a Wamba il
dottor Silvio Prandoni, per organizzarvi
un ospedale ideale: ebbi con lui
una serie di dialoghi che mi stimolarono
nella ricerca di capire la gente:
mi aprivo alla necessità di discorsi
antropologici e culturali.
Ma il momento cruciale in cui entrai
nel mondo della cultura avvenne
il 22 dicembre: dopo la messa, un
fabbro samburu, con cui parlavo sovente
su usi e costumi del suo popolo,
mi chiamò in disparte; mi mostrò
un braccialetto di ferro a forma di
serpente fatto da lui stesso e, dopo averci
sputato sopra a lungo con solennità,
me lo consegnò dicendo:
«Da questo momento io e te siamo
una sola cosa: tutto ciò che è mio è
anche tuo, tu sei mio fratello».
Mi commossi e mi sentii inviato e
missionario. Ma ignoravo la parte
non dichiarata della cerimonia: la reciprocità.
Inconsciamente afferrai
un’altra importante verità: uno deve
dare quello che può e aspettarsi altrettanto.
Per fare l’africano avrei
dovuto travestirmi; ma riuscii a fornire
vari dettagli della mia vita, capaci
di farmi riconoscere come amico
e fratello, senza camuffare limiti e
differenze.
Volevo capire la vita della gente e
conoscere tutto, senza dare giudizi e
senza demonizzare nulla. Se qualcosa
mi fosse risultata incomprensibile,
avrei cercato altri punti, tempi e
voci per avere la visione più esatta
possibile.
Arrivarono i primi cambi e diventai
missionario itinerante: da Wamba
a Maralal, poi a Loyangallani e infine
a Moyale: tutte esperienze che
mi aiutarono ad acquisire capacità
indispensabili: adattamento, malleabilità,
creatività, disponibilità.

DA MAESTRO A SCOLARO
All’inizio del 1970 passai a Maralal,
con l’incarico di studiare lingua,
usi e costumi delle popolazioni del
distretto e la supervisione delle scuole
della diocesi di Marsabit. Nel campo
linguistico si cominciava da zero:
bisognava preparare una struttura
grammaticale e glottologica che non
è stata ancora raggiunta.
Ma la difficoltà più grande era convincere
i confratelli della necessità
d’imparare la lingua per comunicare
il vangelo in profondità. Si comunicava
con fatica usando un kiswahili
rudimentale, sufficiente per le attività
comuni; ciò faceva scomparire voglia
e impegno di studiare seriamente l’idioma
locale, il samburu.
Le scuole erano state nazionalizzate;
ma potevano conservae l’identità
cristiana, avendo noi diritto
di nominare il direttore e un certo
numero di maestri. I documenti coloniali
parlavano chiaro al riguardo,
ma bisognava cambiare atteggiamento:
bussare, farsi ricevere, chiedere
e inventare linguaggi nuovi nelle
relazioni con chi al mattino si era
ritrovato seduto ad una cattedra.
Poco a poco ricostruii il dialogo e
il riconoscimento reciproco con le
autorità: queste avevano bisogno di
noi, essendo ancora estranee al mondo
samburu. Mettemmo in atto una
strategia raffinata: fare in modo che
dessero quegli ordini che una volta
venivano da noi.
In cinque anni dovetti cambiare
molte idee e forma mentale: da maestro
mi ritrovai scolaro. Fu come ripercorrere
una vita intera. Toai
piccolo per crescere di nuovo, aggiustare
la mentalità, imparare cose nuove,
rivedere con misure diverse giudizi
e criteri, efficienza ed efficacia.

E FU UN CAPOLAVORO
Nel 1970 la Saint Mary’s Girls Primary
School di Maralal era una scuola
persa in tutti i sensi: il governo aveva
occupato tutto, scuola e convitto, per un litigio tra il parroco e il direttore
distrettuale, che era kikuyu: la
scuola si era riempita di kikuyu; i
samburu erano ridotti a 40 bambine.
Per prima cosa accettai la storia e
ristabilii le relazioni. Saint Mary’s fu
restituita e mi impegnai personalmente
nella ricostruzione. Cercai i
collaboratori; chiesi come direttrice
una suora conosciuta a Wamba.
Dopo cinque anni la Saint Mary’s
era diventata una scuola modello,
balzata in tutto al primo posto: per
insegnamento, profitto accademico,
sport e attività varie. Quando veniva
un personaggio, le autorità lo portavano
con orgoglio a visitare Saint
Mary’s.
Mai dimenticherò un pomeriggio
favoloso, quando le bambine tornarono
vittoriose dalle olimpiadi scolastiche:
le coppe elevate al cielo e il
coro fortissimo che cantava: «Siamo
le bambine di Ramponi». Mi viene
ancora la pelle d’oca.
Devo dire che il mio lavoro non fu
isolato. Con i padri del distretto dei
samburu avevamo creato una frateità
di dialogo e solidarietà. Ogni
mese ci incontravamo e parlavamo
di tutto: lavoro, difficoltà, organizzazione,
pastorale, cultura, progetti.
Ricordo quel tempo come una esperienza
bellissima di sintonia, apertura,
entusiasmo e forza apostolica.

AFRICANI URBANIZZATI
Al Capitolo generale del 1975 fui
scelto come delegato regionale e rappresentante
continentale nel comitato
di preparazione. In assemblea
passò l’idea di creare l’ufficio generale
di ricerca e pianificazione pastorale,
ma ebbe vita difficile per le
resistenze di vecchie prerogative.
Toai a Maralal deciso ad attuare
le indicazioni capitolari: dare visibilità
agli africani e noi missionari assumere
il ruolo dell’uomo invisibile.
Ma trovai l’opposizione di chi avrebbe
dovuto approvare ufficialmente
con coraggio e coerenza le
nuove vie dell’evangelizzazione.
Non potevo continuare in una situazione
superata e fuori della storia;
il parroco condivideva la mia posizione:
lasciammo Maralal per aprire
una missione a Mombasa, sull’Oceano
Indiano.
Si apriva così un nuovo capitolo di
esperienza missionaria: accompagnare
l’africano urbanizzato, cioè
sradicato dalla propria terra e mondo
monoculturale e passato alla città,
in una società pluriculturale.
Si trattava di una zona totalmente
musulmana, con cristiani provenienti
da altre regioni ed etnie del
paese, con relative differenze culturali
ed ecclesiali, con cattolici, protestanti
e tanti movimenti religiosi.
Il prete che prestava qualche servizio
religioso a piccole «colonie», ci
disse che i cattolici erano pochissimi.
Lo diceva a occhi chiusi. Abbiamo aperto
gli occhi e abbiamo contato
più di 6 mila cristiani.
Non avevamo niente. Radunammo
i cristiani in una scuola e cominciammo
a formare le piccole comunità
di base. Ciò facilitava la localizzazione
delle famiglie, raggruppate
in quartieri tribali. Nel campo sociale
mi dedicavo ad aiutare i bambini
poveri perché andassero a scuola.
Una mamma della parrocchia divenne
la cornordinatrice del movimento
«Elimu ni maisha» (educazione
è vita), con un comitato eletto
dalle mamme per la gestione del
progetto. Arrivammo ad avere 230
bambini e bambine, metà dei quali
musulmani. Era chiaro che non dovevano
esserci pressioni di sorta. Anzi,
si pagava una tassa extra per il
maestro di corano che insegnasse ai
bambini musulmani.
Con la gente eravamo abbastanza
affiatati. Si procedeva a misura d’uomo,
cercando di fare una lettura attenta
della realtà culturale, sociale,
politica e religiosa per non cadere
nell’errore di programmi troppo
grandi o fuori posto.
Quando il parroco venne trasferito,
dovetti prendere il timone. La sua
partenza lasciava un grande vuoto.
Avevamo lavorato con affiatamento:
i nostri stili divergevano, ma si completavano;
personalmente avevo bisogno
di lui. La gente soffrì per la
partenza: gli volevano bene; con lui
era facile dialogare.
Un caro amico, anche lui con esperienza
del Marsabit, venne ad
aiutarmi. Continuammo la costruzione
delle strutture parrocchiali. La
chiesa in mattoni era bella e accogliente;
quella di pietre vive anche
migliore: era una casa-famiglia, in cui
si lavorava insieme, sviluppando valori
e qualità specifiche di ogni persona.
La domenica era il giorno per
stare assieme. La settimana era dedicata
al lavoro, alla formazione della
comunità, agli incontri per cornordinare
la promozione umana.
Ma avevo nostalgia dei samburu.
Sarei ritornato volentieri, con decisioni
rinnovate e disponibilità. Mi fu
fatta, invece, un’altra proposta: andare
in Colombia, a Cartagena, tra
gli afro-americani, discendenti degli
schiavi evangelizzati da san Pietro
Claver. Iniziava così un terzo capitolo
di esperienza missionaria: dopo gli
africani in casa propria e
urbanizzati, mi trovavo tra
quelli in esilio.

Giuseppe Ramponi




LA PACE NON PUÒ ATTENDERE

Guerriglieri senza scrupoli e squadroni della
morte, entrambi considerati anche terroristi.
Narcotrafficanti, corrotti, impuniti, profughi,
disoccupati… E soprattutto tanti morti
ammazzati. Di fronte alla violenza, il governo
è troppo debole? E la chiesa poco profetica?

Ho dovuto lasciare la Colombia
per motivi di salute. Potrei
parlare di questa mia
ultima esperienza, dura e improvvisa.
Oggi, come non mai, mi sento
nelle mani di Dio… Se detto queste
considerazioni sul paese è anche per
«distrarmi», per non crogiolarmi eccessivamente
nei miei guai. Ma non
sono «distrazioni» allegre.

Ndr: Padre Claudio Brualdi allude
alla propria maculopatia, che improvvisamente
l’ha reso quasi cieco.
All’origine della malattia c’è il diabete,
ma anche l’intenso stress cui il
missionario è stato sottoposto in Colombia.
Superiore dei missionari della
Consolata nel paese, padre Claudio
si è dovuto dimettere dal servizio.

IL DISTACCO DELLA GENTE
È arduo presentare la Colombia.
La nazione sta attraversando una situazione
assai complessa: forse è all’apice
del dissesto. Fino a ieri, parlando
della Colombia, si pensava al
narcotraffico come al problema numero
uno. Il narcotraffico esiste, ed
è una questione scottante, ma con
l’aggravante di altre.
Ciò che preoccupa maggiormente
non sono solo i problemi, ma che
si stenti ad intravvedee la soluzione,
una speranza per il futuro. Si aspetta
che le cose cambino, ed invece
la matassa si aggroviglia sempre
di più. Il governo è inetto da molto
tempo: non è capace di compiere
riforme serie. Ogni quattro anni si
vota: i nuovi governanti promettono
mare e monti, ma tutto rimane
come prima. La gente ha perso la fiducia.
Alle ultime elezioni del 1998 votarono
10 milioni di persone, cioè
meno del 40%. Esiste un distacco
dalla politica: forse per questo il governo
non è in grado di attuare le
riforme giuste. In parlamento, poi,
siedono personaggi che pensano di
più ai loro interessi che ad un cambio
positivo nel paese.
L’esercito nazionale non sembra
all’altezza per fronteggiare la guerriglia:
una guerriglia di estrema sinistra,
che dura quasi da 50 anni,
oggi divenuta più aggressiva. Spiccano
due movimenti guerriglieri:
Farc (Forze armate rivoluzionarie di
Colombia) e Eln (Esercito di liberazione
nazionale). Le Farc contano
15-20 mila uomini e l’Eln 6-8 mila.
Da 7-8 anni è all’opera un’altra
forza, paramilitare di estrema destra,
fonte di guai pari (se non superiori)
a quelli causati dai guerriglieri.
I paramilitari sono cresciuti molto
in poco tempo: se, in 50 anni, la
guerriglia ha raccolto 25 mila armati,
i paramilitari in 7-8 anni sono diventati
15 mila.
Come è sorta la terza forza eversiva?
Data l’incapacità dello stato di
tutelare gli interessi dei grandi ricchi
(fra cui i «baroni della droga»),
questi (con il sostegno di alcuni generali)
si difendono da sé, assoldando
squadracce armate. Il nome è eloquente:
Autodifese unite di Colombia
(Auc).
Farc, Eln e Auc sono stati dichiarati
gruppi terroristici. Sono tre forze
che contribuiscono a fare della
Colombia, forse, la nazione più violenta
del mondo. Ormai da tempo
nel paese si contano, in media, ogni
anno 25-30 mila morti ammazzati.
Sono circa 30 i gruppi terroristici
nel mondo, e tre di questi operano
in Colombia. Pertanto uno dei
bersagli possibili dell’amministrazione
di George W. Bush (che vuole
sradicare il terrorismo dal pianeta)
potrebbe essere anche la Colombia.
Tuttavia il «caso Colombia»
è particolare, in quanto lo stato non
appoggia i movimenti terroristici.

ALCUNI NODI CRUCIALI
Le guerriglie sono ormai divenute
«storia». Sono forti non solo per
il numero dei loro membri, dotati di
armi potenti, ma anche perché possono
imporre condizioni allo stato
di diritto.
Negli ultimi quattro-cinque anni
si è manifestata una forma straordinaria
di guerriglia, che ha attaccato
i piccoli centri della nazione: nessuno
è rimasto indenne. I mezzi usati
sono rudimentali: cilindri di gas esplosivo,
imbottiti di chiodi e vari
oggetti contundenti, che scoppiano
contro persone e cose… Non sono
«bombe intelligenti»!
Gli ordigni esplodono presso le
sedi di polizia, nel cuore del paese,
vicino alle chiese. Per cui le bombe
fanno scempio pure degli edifici sacri
(cfr. Missioni Consolata, giugno
2000). Una conseguenza del terrore
è l’esodo dalle campagne verso i
centri urbani, anche perché dal
campo la popolazione non trae più
mezzi sufficienti per vivere. E le città
diventano megalopoli, circondate
da misere favelas. Ogni anno a Bogotà
arrivano circa 300 mila individui,
si dice… Nel paese si contano 2-
3 milioni di sfollati interni: devono
lasciare tutto per sfuggire alla violenza;
ma, approdati altrove, non
trovano lavoro. La disoccupazione
è al 21%.
Né si dimentichi il narcotraffico.
I cartelli di Medellín e Cali sono spariti.
Però ci sono gli eredi. E le guerriglie
controllano le coltivazioni di
coca e i ricchi traffici di cocaina.
Un altro problema gravissimo è la
corruzione politica, con fiumi di denaro.
E tutto resta impunito. Impuniti
anche i reati contro i diritti umani,
che riguardano spesso i paramilitari.
I processi iniziano, ma non
finiscono, perché di solito mancano
le prove di colpevolezza.

QUALE PROCESSO DI PACE?
Bisogna accennare anche del processo
di pacificazione. Il presidente
della repubblica, Andrés Pastrana,
ne ha fatto la bandiera del suo
governo. Non ancora eletto, si incontrò
subito con Manuel Marulanda,
capo delle Farc, sorprendendo
tutti. Qualcuno criticò il gesto.
Pastrana incominciò a governare
il 7 agosto 1998 tra grandi aspettative.
In vista della pacificazione con
la guerriglia, il presidente stabilì una
«zona di distensione», smilitarizzata:
42 mila chilometri quadrati
nel Meta e Caquetà (dove operano
i missionari della Consolata).
Fino al natale 1998 ci furono ostacoli
per iniziare i colloqui tra governo
e Farc: per esempio, a San Vicente
del Caguán, c’era un battaglione
di 1.500 soldati, che secondo
le Farc dovevano essere tutti ritirati;
ima, secondo il governo, almeno
100 dovevano restare per opere di
manutenzione. Alla fine vi fu il ritiro
di tutti i soldati; solo il sindaco
poteva restare. Intanto si organizzò
una guardia civica, composta da
simpatizzanti delle Farc, per controllare
il territorio.
Il 7 febbraio del 1999 Pastrana
subì un grave smacco. Quel giorno
si doveva inaugurare ufficialmente a
San Vicente il processo di pace. Tutto
era pronto, però Maluranda non
si presentò. Il processo tuttavia incominciò,
ma senza risultati concreti.
L’unico aspetto positivo è stato
«un inizio» di dialogo, varie volte sospeso
e ripreso.
Nell’agosto 2000 Pastrana lanciò
anche il «Piano Colombia», ispirato
e finanziato dagli Stati Uniti, con
il quale progettava di sradicare 60
mila ettari di coltivazioni di coca.
Dato il legame tra guerriglia e coca,
il Piano mirava a indebolire le Farc
e i narcotrafficanti, invece di affrontarli
sul campo di battaglia.
Però gli attacchi ai civili sono continuati
fino ad oggi, con numerose
vittime. Il governo, criticato per il
suo atteggiamento arrendevole verso
la guerriglia, ha imposto alle Farc
delle condizioni per continuare il
dialogo, e cioè: rispettare la vita dei
civili e non coinvolgerli in conflitti;
sospendere i sequestri di persona e
abbandonare i blocchi stradali per
estorsioni (la cosiddetta «pesca miracolosa»).
Ma la matassa non si dipana, perché
le Farc (ad esempio) comprendono
72 fronti, e ognuno fa ciò che
vuole. Si pone allora il quesito: nelle
trattative Marulanda chi rappresenta?
La guerriglia, una parte e quale?

«I VESCOVI LAMENTANO…»
Il processo di pacificazione, nato
tra grandi speranze, sta naufragando?
Le critiche verso il presidente
Pastrana sono dure, perché avrebbe
scontentato tutti. Ma anche i governi
precedenti non hanno conseguito
risultati. Pastrana, se è stato
indulgente verso la guerriglia, è stato
pure coraggioso. Gli altri non lo
sono stati altrettanto.
E l’atteggiamento della chiesa? In
questo contesto ho la sensazione che
non stia svolgendo il ruolo che dovrebbe.
La chiesa è presente nel processo
di pace, però non con una posizione
autonoma: infatti la guerriglia
ritiene che il presidente della
Conferenza episcopale al processo
sia quasi una voce del governo.
L’analisi della realtà è buona; però
le belle riflessioni terminano con un
generico «i vescovi lamentano…». È
troppo poco in un clima di violenza
e ingiustizia. La presenza della chiesa
non appare incisiva, profetica.
Si sapeva che il processo di pace
sarebbe stato lungo e tortuoso. Ma
sono già trascorsi tre anni! Quanto
bisogna attendere ancora? C’è chi
ricorda con amarezza il detto latino:
dum Romae consulitur Saguntum espugnatur
(mentre a Roma si discute,
Sagunto viene presa).
In Colombia le vittime
sono già state un esercito.

San Vicente del Caguán, 19 gennaio 2002: il governo e i portavoce delle
Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) siglano un accordo
per attuare il piano di pace. Sono presenti anche membri della chiesa cattolica
(fra cui Francisco Múnera, missionario della Consolata e vescovo di
San Vicente) e rappresentanti delle Nazioni Unite.
Per uscire dal conflitto, che da 37 anni insanguina il paese, si dovrà seguire
i punti concordati. Le Farc non si oppongono allo sradicamento manuale
delle coltivazioni illegali di coca, pur ribadendo che devono essere
consultate le comunità interessate. I punti principali dell’intesa:
– immediato studio sulle modalità per il «cessate il fuoco»;
– sospensione dei sequestri di persona da parte della guerriglia;
– lotta del governo contro i paramilitari.
Una commissione internazionale verificherà che i punti siano stati rispettati
e aiuterà a superare eventuali ostacoli. La firma dell’accordo concreto
sulla cessazione delle ostilità si dovrà avere entro il 7 aprile 2002.
L’«area di distensione» resterà in vigore fino al 10 aprile.
L’incontro era iniziato male. Infatti il giorno prima era stato assassinato
padre Arias Garcia, 30 anni, impegnato nella sua parrocchia di Florencia
(Caldas) in un negoziato tra guerriglieri e paramilitari locali.
D’altro canto i paramilitari hanno denunciato l’accordo; hanno tacciato
il presidente Pastrana di codardia, accusandolo di «aver concesso tutto
in cambio di niente».

Claudio Brualdi




LOTTE DI SUCCESSIONE

Colonia francese dalla fine del secolo
XIX, la Costa d’Avorio ottenne l’indipendenza
nel 1960. La stabilità politica,
garantita all’autoritarismo patealista
del presidente Félix Houphouët-
Boigny, e la manodopera a buon mercato
attirarono nel paese gli investimenti
inteazionali, procurando una
crescita economica pari quasi al 10%
annuo. Ma a partire dal 1979, tale crescita
fu azzerata dalla recessione dell’Occidente:
il debito estero fu quadruplicato,
siccità e calo dei prezzi dei prodotti
di esportazione (cacao, caffè,
cotone, zucchero…) aggravarono la crisi
economica del paese.
Gli «aggiustamenti strutturali» imposti
dal Fondo monetario per raddrizzare
la situazione appannarono la figura
del presidente, che nel 1990 aprì la
strada alla democrazia pluralistica.
Nel 1993, la morte di Boigny (88 anni,
33 di potere incontrastato) innescò
la lotta per la successione. Lo sostituì il
presidente dell’Assemblea nazionale,
Henri Konan-Bédié, che costrinse il contendente,
il primo ministro Alassane
Ouattara, a dare le dimissioni. Passato
all’opposizione, questi fondò il Raggruppamento
dei repubblicani (Rdr), appoggiandosi
a musulmani e stranieri. Ma
le elezioni presidenziali del 1995, boicottate
dall’opposizione, furono stravinte
da Bédié, che, per mettere del tutto
fuori il suo rivale, fece una legge, poi
inserita nella costituzione e approvata
con referendum, che dichiarava ineleggibile
alla presidenza chi non avesse entrambi
i genitori di origine avoriana.
Nato nel nord della Costa d’Avorio
(1942), ma da un capo tradizionale
dell’Alto Volta (oggi Burkina Faso),
Ouattara trascorse la giovinezza nel
paese paterno, studiò negli Usa e lavorò
nel Fmi come voltaico, finché riapparve
sulla scena politica avoriana nel 1982.
I suoi avversari lo dicono «venuto non
si sa da dove»; ma lui sostiene che gli
si nega la candidatura alla presidenza
«perché musulmano e uomo del nord».
Nelle varie tornate elettorali (presidenziali,
parlamentari e municipali), lo
sventolio della bandiera dell’«avorianità
» da parte dei politici continuò a
esasperare le tensioni, provocando
scontri etnici e religiosi: tra il 1999 e il
2000 si sono avute oltre 300 vittime,
senza contare il danno economico causato
dalla fuga di decine di migliaia di
lavoratori stranieri. In tale contesto, nel
natale 1999, avvenne il colpo di stato
militare, in cui il generale Guéi s’impose
come garante dell’ordine. Salutato da
Ouattara e compagni come «una rivoluzione
dei garofani», tale evento aggravò
i disordini, rischiando di sfociare in
guerra civile.
Alle elezioni presidenziali dell’ottobre
2000, boicottate dall’opposizione,
Guéi si dichiarò vincitore, ma le
proteste scoppiate in varie città e il responso
del Comitato per le elezioni diedero
ragione allo sfidante, Laurent
Gbagbo, capo del Fronte popolare avoriano,
eletto col 59,3% dei voti.
Per ricomporre l’unità del paese,
Gbagbo convocò un Forum per la riconciliazione
nazionale, che si svolse da ottobre
a dicembre 2001. I 750 rappresentanti
di partiti, gruppi religiosi, sindacati,
amministrazioni locali e
associazioni varie hanno esposto le proprie
idee e suggerito soluzioni per risolvere
la crisi sociale, politica ed economica
del paese. Le proposte sono state
consegnate al presidente, cui spetta
metterle in atto. Tra le varie raccomandazioni
figura anche quella di restituire
piena cittadinanza avoriana a Ouattara.
La calma sembra tornata nel paese;
ma Ouattara continua a pestare i piedi,
reclamando nuove elezioni.

Benedetto Bellesi




«PUNTI» E «NODI»…PER LEGARE ANCORA DI PIÙ

RETE DI LILLIPUT
la grande assemblea di Marina di Massa

Chi sono i «lillipuziani»? Sono ragazzi e ragazze
in «jeans», ma anche uomini in cravatta
e donne in «tailleur».
Erano in 500 (autofinanziati) a Marina di Massa
per il loro incontro nazionale;
rappresentavano migliaia e migliaia di italiani.
Il fine? Un’economia di giustizia.
E non solo.
Se il piccolo «davide» abbatte da solo
il gigante «golia», che succederà se tanti «davide»
uniranno le loro fiondate?
Ecco perché è sorta la «rete dei lillipuziani».
Chi sono i «lillipuziani»? Sono ragazzi e ragazze
in «jeans», ma anche uomini in cravatta
e donne in «tailleur».
Erano in 500 (autofinanziati) a Marina di Massa
per il loro incontro nazionale;
rappresentavano migliaia e migliaia di italiani.
Il fine? Un’economia di giustizia.
E non solo.
Se il piccolo «davide» abbatte da solo
il gigante «golia», che succederà se tanti «davide»
uniranno le loro fiondate?
Ecco perché è sorta la «rete dei lillipuziani».

NON-VIOLENZA SEMPRE
«Jambo a tutti i lillipuziani!». Con
questo saluto affettuoso di padre Alex
Zanotelli, si è aperta la seconda
Assemblea nazionale della «Rete di
Lilliput», svoltasi a Marina di Massa
il 18-20 gennaio 2002.
Era un appuntamento molto atteso.
Centinaia di gruppi e persone, che
da oltre due anni lavorano insieme
per una economia di giustizia, sentivano
il bisogno di riflettere sul proprio
cammino, anche perché il 2001
fu un anno drammatico. Le violenze
inaudite durante il vertice dei G8 a
Genova e l’incredibile tragedia
dell’11 settembre negli Stati Uniti
(con la guerra in Afghanistan) hanno
scosso l’animo fortemente pacifista
della Rete di Lilliput.
L’incontro di Marina di Massa ha
ribadito, in modo netto, l’opzione
della non-violenza come scelta strategica.
Questa ha rappresentato il filo
conduttore dei lavori, che si sono intrecciati
nei tre giorni di dibattito.
Sulla non-violenza è intervenuto
un gruppo di lavoro specifico: ha
programmato un percorso di formazione
teorica e pratica, con lo scopo
di fornire alcuni nuovi strumenti di
comunicazione; ha indicato un modo
più consapevole di stare in piazza e
progettare le mobilitazioni. Per concretizzare
quella che rischia di essere
solo un’adesione ideale a principi, si
prevede di organizzare gruppi di azione
non-violenta distribuiti sul territorio.

UNA «RETE» ARTICOLATA
Uno scoglio da appianare è stato
quello dell’organizzazione. La Rete
di Lilliput in questi anni si è estesa e
il contesto si è fatto più complesso;
da molti membri si avverte l’esigenza
di darsi una struttura, di individuare
dei ruoli, pur non perdendo di vista
la volontà di arrivare sempre a «decisioni
comunitarie», frutto del pensiero
della totalità dei lillipuziani.
Infatti uno dei punti cardine della
Rete di Lilliput, oltre alla non-violenza,
è la democrazia partecipativa, che
si manifesta nel dare a tutti la possibilità
di incidere nelle scelte, senza
creare sovrastrutture o ruoli di leadership.
Obiettivo non facile da rag-giungere, vista la vastità e capillarità
della Rete sul territorio italiano.
Il cammino decisionale è iniziato
a settembre dello scorso anno, con
il dibattito all’interno di ogni singolo
«nodo» della Rete, che ha visto una
prima sintesi negli incontri regionali.
Questi si sono svolti a Milano,
Firenze e Roma, rispettivamente
per i «nodi» del nord, centro e sud
della penisola; hanno prodotto dei
documenti che sono stati portati all’Assemblea
di Marina di Massa e
discussi in un apposito gruppo.
Nel gruppo si sono confrontati i
referenti di ogni «nodo», tutti accompagnati
da un osservatore. Il risultato
è confluito in un documento
di 11 punti, che raccolgono i principi
basilari e i criteri condivisi da tutti
gli aderenti alla Rete. Fra questi: la
non-violenza, il rifiuto del personalismo,
la professionalità nell’impegno
politico, la fiducia reciproca, l’esauriente
e rapida circolazione delle
informazioni.
Si è definito il «punto» di Lilliput,
che rappresenta il primo momento
di incontro per le realtà locali, dove
non esiste ancora un «nodo» articolato.
L’evoluzione dei «punti» è rappresentata
dai «nodi», elementi fondanti
della Rete: essi sono luoghi di
incontro per associazioni, gruppi e
singoli, aventi il compito di estendere
la Rete nelle realtà locali, portandovi
contemporaneamente la dimensione
nazionale e quella internazionale.
Ogni «nodo» gode di una
propria autonomia e non è auspicabile
l’adesione ad esso di partiti politici
o sindacati.
Vi è poi l’Assemblea nazionale
(come quella di Marina di Massa),
cui è affidato il compito di verificare
il percorso fatto e di proporre iniziative
per l’anno successivo. L’Assemblea
si tiene con decorrenza annuale
ed è aperta a tutti.
A livello nazionale esistono pure i
«gruppi tematici di lavoro», aperti
a tutti, con il compito di approfondire
gli argomenti ritenuti importanti
per la Rete (non-violenza, ecologia,
economia di giustizia); inoltre
propongono iniziative concrete.
Infine, a Marina di Massa, la Rete
ha raccolto i temi delle campagne di
mobilitazione generale del passato.
Si sono organizzati gruppi di lavoro,
per fare il punto sulle attività presenti
e discutere gli impegni da privilegiare
quest’anno.

ECOLOGIA E BANCHE ARMATE
Ebbene, che sta facendo e cosa intende
fare la Rete di Lilliput?
Circa la cosiddetta «impronta e-cologica e sociale», è in corso il progetto
«pagine arcobaleno»; esso mira
a censire l’offerta di servizi e prodotti
rispondenti a criteri di eticità e
compatibilità ambientale, per offrire
strumenti utili (database on line e
guide regionali) sui produttori e fornitori
di beni a chi è attento alla qualità
dei propri consumi.
Questo si inserisce in un più ampio
percorso di formazione e sensibilità
verso il mercato; vorrebbe favorire
un cambiamento degli stili di
vita, a partire dalla propria quotidianità,
e aprire un approfondito
dibattito su nuovi indicatori di benessere,
in grado di dare strumenti
adeguati ai decisori politici e alla società
civile, ridimensionando la funzione
del prodotto interno lordo.
È già stato fatto un lungo lavoro di
elaborazione teorica, che ha portato
alla formulazione di un sistema di indicatori
che tengano in considerazione
anche i parametri ambientali e
sociali, oltre a quelli economici. Il
progetto è stato anche presentato al
Forum sociale mondiale di Porto Alegre
in un laboratorio organizzato
dalla Rete di Lilliput.
Analizzando gli aspetti più commerciali
e finanziari, un gruppo di
lavoro ha individuato nella campagna
«banche armate» un possibile
tema unificatore del lavoro di tutti i
«nodi». Considerata l’attuale situazione
di guerra e ribadita la scelta di
non-violenza, è emersa come urgente
la necessità di spostare risorse dalle
armi ad altre attività.
Pertanto si continuerà l’opera di
pressione sulle banche: si chiederà
maggiore trasparenza sugli investimenti
e si solleciterà che non siano
più finanziate attività legate al traffico
d’armi, mettendo in rilievo le
conseguenze drammatiche che il fenomeno
ha nei paesi del Sud del
mondo. Inoltre è stato proposto di
chiedere il disimpegno dal settore
«armi» alla Sace (Agenzia italiana di
credito all’esportazione), che copre
con fondi pubblici i rischi degli investitori
privati all’estero.
La campagna «banche armate» si
inserisce in un più ampio progetto
di opposizione alla guerra. I lillipuziani
si impegneranno per la «resistenza
» alla guerra dei cittadini e cittadine,
per l’obiezione alle spese militari,
nonché per la partecipazione
a missioni inteazionali di pace.
IL MONDO DEL PALLONE
Se, data la politica degli organismi
inteazionali, è sorto un gruppo di
lavoro nazionale per monitorare i
negoziati dell’Organizzazione mondiale
del commercio (Wto), Lilliput
non dimentica l’aspetto dell’agire
locale. La «lente sulle imprese» ha
ricordato la necessità di scrutare l’operato
delle ditte operanti sul nostro
territorio, dopo un’adeguata formazione
sulle tecniche di raccolta dei
dati.
A questo si affiancherà una campagna
di mobilitazione in vista del
campionato mondiale di calcio, avente
come scopo la denuncia delle
multinazionali negative che sponsorizzeranno
l’evento e la pressione,
affinché la Fifa adotti i principi del
Codice di condotta del 1996, concordato
con il sindacato internazionale
e mai sottoscritto…
Tanti progetti in cantiere, quindi,
per una rete che sta crescendo e ha
voglia di far sentire la propria voce.
Gli stimoli e l’entusiasmo scaturiti
nei giorni di Marina di Massa sono
stati davvero arricchenti.
Ora si tratta di rimboccarsi le maniche
e lavorare sulle tematiche individuate,
portando in casa e città…
«ancora una volta la voglia di agire
concretamente per un cambiamento
globale dal basso, che terrà uniti
i percorsi individuali e di gruppo,
per la costruzione di un mondo diverso
e sicuramente migliore» (dalla
dichiarazione finale,
accolta con un lungo applauso).

Luca Graziano e Cristina Coppo




IL GIGANTE IN TRAPPOLA

La Rete di Lilliput è nata nel 1998 dall’incontro tra
alcune associazioni nazionali (Aifo, Ctm, Mani Tese,
Pax Christi, Beati Costruttori di Pace, Wwf Italia, Rete
Radiè Resch, Centro nuovo modello di sviluppo, ecc.),
la rivista Nigrizia e diversi promotori di campagne nazionali di pressione e sensibilizzazione (Chiama l’Africa,
Sdebitarsi, Campagna per la riforma della Banca Mondiale,
ecc.).
Il nome e il significato di «Rete di Lilliput» derivano
da un’analogia ed una riflessione. Nella favola «I viaggi
di Gulliver» (1725), dello scrittore e politico irlandese
Jonathan Swift, i minuscoli «lillipuziani», alti appena
pochi centimetri, catturano Gulliver, il gigante
molto più grande e potente di loro,
legandolo nel sonno con centinaia di fili.
Gulliver avrebbe potuto schiacciare
qualsiasi «lillipuziano» sotto il suo stivale,
ma la fitta rete di fili lo immobilizza
e lo rende impotente (cfr. Missioni
Consolata, gennaio 2000).
D i fronte a poteri schiaccianti e istituzioni
globali, cittadini e associazioni
possono usare le forze modeste di
cui dispongono ed unirle a quelle di altri individui
e movimenti in vari luoghi. Il sogno è che
tanti gruppi, presenti in ogni angolo del paese, diventino
una grande voce, capace di farsi sentire e incidere
sulle scelte economiche che stanno alla base dei gravi
problemi sociali e ambientali che affliggono il pianeta.
In concreto, la Rete di Lilliput crea collegamenti con
tutte le realtà locali e nazionali che già operano nell’economia
di giustizia, nella non-violenza, nella difesa
dell’ambiente e nei diritti umani, per rendere più efficace
la promozione di nuovi stili di vita, la denuncia dei
rischi sull’ambiente di scelte politiche (che dovrebbero
invece contribuire allo sviluppo sociale). La Rete promuove
pressioni su governi e istituzioni nazionali e inteazionali,
affinché intraprendano iniziative concrete
per la pace e il benessere dei popoli.
I «lillipuziani» non sono mancati alle principali mobilitazioni:
per esempio, durante il vertice dei G8 a Genova,
quello di Mobilitebio nel 2000, la marcia per la
pace Perugia-Assisi nel dicembre scorso. I «lillipuziani»
hanno partecipato ad entrambe le edizioni del World Social
Forum di Porto Alegre (Brasile).
O ggi in Italia esistono 69 «nodi» della
Rete di Lilliput: sono il riflesso di
una presenza omogenea sulla nazione
e la prova di un forte incremento numerico
nel corso di questi anni (in
particolare si è registrata una crescita
alta in occasione dei G8 di Genova).
Nei «nodi» operano gruppi, associazioni
e individui, che non si sono dati regole
scritte o un’organizzazione formale,
ma decidono secondo il consenso generale in
assemblea. Esistono «gruppi tematici di lavoro» che
hanno carattere nazionale; ad essi partecipano persone
aderenti a un «nodo» e particolarmente interessate
all’argomento.
Il gruppo tematico più «antico» è quello sull’«impronta
ecologica e sociale». È già attivo uno nuovo, che
si occupa di non-violenza e conflitti. Altri gruppi sono
stati promossi durante l’assemblea di Marina di Massa.

Luca Graziano e Cristina Coppo




I NOSTRI VICINI DI CASA

Per prepararsi a diventare diacono, un’avventura missionaria…«fuori porta». Che, ribaltando dubbi e pregiudizi, spinge a una condivisione senza sconti.

Raccontare i miei tre mesi in
Albania non è facile: specialmente
se penso ai «luoghi
comuni» sugli albanesi, cui sono legate
le nostre menti. Poi, quando si
parla di «missione», non si pensa ad
un luogo vicino geograficamente…
Quindi i pregiudizi da superare sono
tanti. È lo sforzo che bisogna fare
anche per incontrare l’Albania
nella sua verità. Una terra così vicina
e così lontana da noi.
Dopo aver trascorso due anni in
una parrocchia di Brescia con molti
immigrati, ho desiderato «vedere
» una loro nazione di provenienza.
E sono andato in Albania.
Sono partito per compiere un’esperienza
forte, in vista della mia ordinazione
diaconale: imparare che
nella vita è importante sentirsi piccoli,
non sempre con le soluzioni in
tasca. Ma non immaginavo che vivere
in un luogo di cui conoscevo la
lingua solo in modo rudimentale e
dove non potevo adottare nessuna
«strategia» pastorale… mi avrebbe
aiutato a guardare con più umiltà al
dono del diaconato.

ALBANIA SCONOSCIUTA
È il giorno della partenza. Mi attende
un lungo viaggio in camion da
Brescia a Bari, l’attraversata dell’Adriatico
in traghetto e l’arrivo a Durazzo,
finalmente in Albania! Ma è
solo l’inizio.
Dopo due giorni per sbrigare le
pratiche doganali (altro che la burocrazia
italiana!), mi metto in viaggio
per la diocesi di Rrëshen, dove
vivrò. La diocesi si trova nel nord
del paese e confina con la Macedonia.
Gli spostamenti sono lunghi,
perché le strade sono pessime ed è
necessaria molta attenzione per evitare
le capre e gli asini che si incontrano
lungo il tragitto.
La gente saluta con entusiasmo e
i bambini si aggrappano con facilità
al camion, per vedere cosa trasporta.
Sembra che mi aspettino da tanto.
E forse è vero: per troppo tempo
ci siamo dimenticati di questi
«vicini di casa», e loro sono lì, come
per dirci: «Finalmente!».
Dopo tre giorni di viaggio, arrivo
a destinazione. Una sosta a Rrëshen
per la scorta d’acqua (di potabile ce
n’è ben poca!), il saluto a padre Cristoforo,
amministratore apostolico
(uno dei soli tre preti nella diocesi)
e sono a Fanë, la meta finale. È un
villaggio nascosto fra le montagne,
raggiungibile con una strada sterrata,
che offre però paesaggi stupendi.
Pochi minuti per ambientarsi e,
subito, sono sommerso da una folla
di bambini, che accorrono per vedere
il nuovo arrivato. In quei volti,
in quel desiderio di conoscere e
accogliere, in quelle mani sporche
(segno del lavoro a cui sono sottoposti
i più piccoli)… c’è l’Albania
sconosciuta.
Intanto gli amici, che mi hanno
accompagnato in camion, ripartono
per l’Italia. Io mi ritrovo «solo».
Alcune suore mi danno la carica e
non c’è troppo tempo per i convenevoli:
la gente e i giovani aspettano.
E, siccome la voce della donna
non è sempre ben accolta, una suora
subito mi catapulta in mezzo a loro,
accompagnato da un giovane,
per la lingua.
Ho poco a disposizione, se non la
bibbia, unico libro tradotto in albanese,
e con questa faccio tutto: catechesi,
incontri sulla vita, giochi, visite
alle famiglie. A volte lo stupore
mi blocca: i giovani fanno ore di
cammino per venire ad ascoltarmi,
per parlare con me; poi, digiuni, ritornano
al villaggio. Nessuno ha mai
parlato loro della dignità della vita,
come il vangelo insegna… ed è della
vita, vissuta in grande e con riferimenti
a Dio, che scoprono di avere
bisogno.
Il regime comunista albanese aveva
cancellato ogni traccia di umanità
nelle persone. La maggioranza dei
giovani incontrati non aveva mai
sentito parlare di Dio prima del
1990: per loro Dio è «una scoperta
recente»! Ma se succede (magari attraverso
la testimonianza di un missionario),
non riescono più a fae a
meno.
L’amore di Dio, manifestato nella
condivisione di vita, entra nel loro
cuore indurito e fa quasi toccare
con mano che deve esserci Qualcuno
più grande e veramente buono.

IMPARANDO AD AMARE
Chi fa sperimentare questa presenza?
Certo, i missionari. Ve ne sono
in Albania? Nelle città, dove tutto
è più o meno comodo, anche la
presenza religiosa è considerevole;
ma nelle diocesi intee, dove manca
acqua, la corrente elettrica c’è solo
7/8 ore al giorno e la vita è «schiava
» delle tradizioni… la presenza religiosa
è rarissima. A Rrëshen, su un
territorio di 4 mila kmq, dal 1991 vi
sono tre solo missionari vincenziani,
alcune suore e… basta. Le condizioni
locali invitano chiunque ad andarsene.
Durante la mia permanenza ho
visto molti religiosi venire, guardare
e andarsene: troppo difficile restare.
Ho percorso in lungo e in largo
la diocesi con un padre vincenziano;
nel guardare la gente lontana
da Rrëshen (dove la chiesa cattolica
non è arrivata), ci domandavamo:
«Qui chi annuncerà Gesù Cristo?».
Una domanda che tuttora mi pongo
ogni volta che prendo in mano la
bibbia.
Prima di lasciare una di queste
zone «inesplorate» e ritornare alla
missione, abbiamo fermato la jeep
sul ciglio della strada; dopo aver appeso
una corona del rosario ad un
albero, abbiamo pregato ricordando
le parole di Gesù: «Ci sono altre
pecore che non sono di questo ovile;
anche queste io devo condurre».
Sì, anche questi fratelli hanno il diritto
di sentire la vicinanza del Signore.
I giorni vissuti a Fanë sono paragonabili
(per intensità) a quelli degli
«esercizi spirituali»: ti segnano
«dentro» e ti spingono a cambiare
vita. Ogni giorno era un esercizio di
disponibilità verso i bambini e ragazzi
che, sin dal mattino, bivaccavano
al cancello della missione in attesa
di un abbraccio, una parola. Era
difficile accontentare tutti, ma
non impossibile: bastava un po’ di
entusiasmo. A volte, di fronte al loro
carattere difficile, veniva voglia
di essere altrettanto scontrosi; ma
scattava «l’esercizio» di amare senza
contraccambio, richiesto dal Signore.
Ma è stato pure arricchente gustare
l’ospitalità delle famiglie nelle
loro povere case: ti davano l’unica
sedia e loro, seduti per terra, aspettavano
una parola diversa. Spendevano
i pochi soldi che avevano, per
comprarti una bibita (dato che l’acqua
è poco affidabile); venivano a
prenderti alla missione e ti riportavano.
Ne nasceva pure una passeggiata,
cui si aggregavano decine di
ragazzi. Poi facevano a gara per invitarti
a casa loro.

CON I GIOVANI
Ho svolto il mio servizio quasi esclusivamente
fra i giovani, ed è attraverso
loro che ho incontrato il
volto dell’Albania che spesso non ci
giunge: quello di gente accogliente,
desiderosa di sapere e sperimentare
sentimenti di amicizia vera, di capire
che la vita (anche quella di un
albanese!) è una vocazione.
Ricordo i ragazzi che stanno facendo
un cammino propedeutico al
seminario: vedendo i padri e le suore,
hanno sentito il desiderio di imitarli,
anche se la strada è lunga. Il
cammino consiste nel far loro compiere
un’esperienza di Gesù nella
preghiera e, soprattutto, nella disponibilità
al servizio gratuito verso
i coetanei: un compito difficile, anche
per la povertà dei mezzi a disposizione.
In qualcuno di loro Dio
ha seminato il germe della vocazione.
Ora tocca a noi aiutarli a farlo
crescere con il nostro amore.
Forse questo, più che una testimonianza,
è uno sfogo. Ritengo che
sia anche necessario gridare dai tetti
che vi sono fratelli vicini a noi, bisognosi
di aiuto; che non sono come
li immaginiamo, perché esiste
anche un’Albania diversa dai «soliti
fatti negativi». È tempo di pensare
che l’amaro non fa distinzioni,
ma richiede solo una grande disponibilità.
Se può essere più facile aiutare
una nazione lontana (perché
non ci tocca più di tanto), interessarsi
ad una vicina può chiederci un
coinvolgimento maggiore, soprattutto
per eliminare pregiudizi e stereotipi.
Provate a dire che avete aiutato…
un albanese e poi osservate la reazione
dell’interlocutore; provate a
dire che partite in missione per l’Albania
e avrete reazioni curiose.
Ame questo non importa. Ho incontrato
Dio in Albania e Lui
sta cercando di parlare al cuore della
gente; ma chiede anche la nostra
disponibilità per manifestare il suo
amore verso chi, fino a ieri, ha conosciuto
quasi solo repressione e
violenza.
Se abbiamo la coscienza di essere
stati amati gratuitamente, non possiamo
esimerci dal fare altrettanto.
Questo l’ho scoperto grazie anche agli
albanesi. Ora ad essi
offro, anche se piccolo, il
mio amore.

Roberto Ferranti




ZE’ DOCA (BRASILE): il vescovo Walmir Valle in redazione

LE SFIDE DI UN «PELE’» MANCATO


«La mia casa è la stessa di 13 anni fa, come l’hai vista
tu. Nulla è cambiato. Ultimamente mi sono ritrovato solo. Così ho fatto
anche il portinaio, il cuoco, il lavandaio…». Confidenze di un vescovo
semplice, immerso tuttavia in grandi problemi, data la povertà e
l’isolamento della sua diocesi nel Maranhão.

 

«Benvenuto
nella sala-giornali della redazione della rivista Missioni Consolata! Buon
giorno…».


L’«intruso», un po’ sorpreso, sussulta. Ma si riprende subito e dice
sorridendo: «Ieri c’è stato il sorteggio degli accoppiamenti delle squadre
nazionali di calcio che giocheranno il campionato mondiale in Corea e
Giappone. Sto sfogliando il giornale per conoscere gli avversari del
Brasile».

Secondo
lei, chi vincerà il trofeo?

La palla è
rotonda, dite voi giustamente in italiano…

Forse
abbiamo colto in fallo un… monsignore. È Walmir Valle, vescovo
brasiliano di Zé Doca (Maranhão) e tifoso di foot ball. C’è chi giura che,
se Walmir non si fosse fatto prete, sarebbe diventato un vero campione. A
Torino, dove ha studiato teologia, molti ricordano ancora le sue imprese
calcistiche, degne di Pelé, «il re».

«Sono
passati più di 40 anni da allora – afferma il vescovo scuotendo la testa
-. Oggi…». Oggi è missionario della Consolata e, da 16 anni, anche
vescovo. Recentemente ha costruito una nuova cattedrale.


Una bella
cooperazione

Nel 1998
dom Walmir bussò alla porta dell’organizzazione cattolica tedesca Adveniat,
per ottenere 100 mila reais (circa 162 milioni di lire). Il vescovo aveva
puntato in alto per accontentarsi poi di 30 mila reais. «Non so se ce la
caveremo con tale somma» disse il vescovo ai sacerdoti e fedeli.

Iniziarono
a lavorare, inglobando la vecchia chiesa. Ma subito furono costretti a
demolie una parte, perché volevano allungare la costruzione, passando
dai precedenti 28 metri agli attuali 41. Inoltre sorsero altre difficoltà.
Pertanto del vecchio complesso rimase solo il campanile. Quanto al nuovo
progetto…

«Quanto al
nuovo progetto, siccome bisognava risparmiare soldi, l’ho fatto io stesso
con il muratore capo. Man mano che la costruzione cresceva, apportavamo
delle modifiche secondo le esigenze. Abbiamo lavorato sodo per 15 mesi, e
ce l’abbiamo fatta in tempo per il giubileo del 2000. Oggi la nuova
cattedrale è una meraviglia. Lo dicono tutti. A noi piace soprattutto
perché è opera nostra».

Anche il
comune diede un contributo, rimuovendo le macerie dei muri abbattuti e
foendo la terra per alzare il livello della nuova costruzione di 50
centimetri rispetto a quella vecchia. La gente pagò mille sacchi di
cemento, mentre la Direzione generale dei missionari della Consolata offrì
20 mila reais.

Al termine
la spesa complessiva fu di 90 mila reais, per un’opera che si avvalse
della solidarietà internazionale (Adveniat tedesca e Missionari della
Consolata), dell’apporto dell’autorità locale e del concorso dei fedeli.
Un bell’esempio di cooperazione.

«Proprio
così – conferma il vescovo -. Naturalmente tutto dipendeva dal come si
chiedeva. Non bastava lanciare appelli generici; bisognava impegnarsi di
persona, casa per casa. Io sono abbastanza esplicito e, quando chiedo,
ottengo quasi sempre qualcosa».

La
costruzione della cattedrale è ancor più meritoria, se si tiene conto del
contesto sociale. Nel 1994 il Brasile adottò la nuova moneta real (plurale
reais): una divisa forte, superiore persino al dollaro. Il rapporto con il
«biglietto verde» era di 0,80 a 1. Dopo un periodo di stabilità forzosa e
costosa, nel febbraio 1999 il real fu svalutato del 50% e l’inflazione
riprese a correre. Oggi occorrono 3 reais per 1 dollaro.

Oggi, con
la globalizzazione-privatizzazione, il Brasile dipende dal capitale
estero. Il fenomeno ha aumentato la disoccupazione, specialmente nelle
grandi città di São Paulo, Rio de Janeiro, Porto Alegre… dove operano le
industrie. E pesano i macigni di sempre: la mancata riforma agraria e
l’iniqua distribuzione della ricchezza.


Una diocesi
in chiaroscuro

Nel 1988
eravamo a Zé Doca, ospiti del vescovo Valle. Allora il presule lamentava
la scarsa collaborazione della gente alla vita della diocesi. Oggi si
registra un mutamento in meglio. La costruzione della cattedrale lo
dimostra.

È
d’accordo dom Walmir?

C’è stato
un cambiamento positivo. Tuttavia la partecipazione del popolo è ancora
ridotta. In occasione della costruzione della cattedrale, sono riuscito ad
ottenere la collaborazione di tutti; ma in genere è ancora difficile,
specialmente per la formazione di lidares laici e per il sostentamento dei
sacerdoti.

È arduo
trovare persone che si assumano il servizio di animazione e cornordinamento
delle comunità. «È – commenta il vescovo – la sfida più forte. Abbiamo
offerto ai lidares la possibilità di formarsi: per esempio con la scuola
di teologia pastorale. La scuola si svolge nell’arco di quattro anni
consecutivi con varie lezioni. Vi sono due scuole: una sulla costa e
un’altra all’interno del territorio; si tratta di realtà assai diverse,
non solo per posizione geografica, ma anche per formazione religiosa. La
partecipazione alla scuola è stata pure diversa: 60 persone nel litorale e
25 nell’interno».

Per
risolvere il problema del sostentamento del clero, il vescovo ha invitato
i fedeli di versare alla chiesa «la decima». Ma la proposta è rimasta
quasi lettera morta. Si è cercato di sensibilizzare le comunità con un
libretto, ricco di citazioni bibliche che ricordano ai fedeli «l’obbligo
di mantenere il loro sacerdote». Anche questo ha sortito scarsi risultati.

«A
prescindere dalla povertà reale – precisa il vescovo -, la causa della non
partecipazione della gente ci porta indietro nel tempo, quando i
missionari italiani garantivano tutto il necessario. Così le comunità si
sono abituate a “dipendere”, senza alcun loro apporto. Questa mentalità
resiste ancora. Il problema del sostentamento è grave per lo stesso clero
locale, che proviene da famiglie bisognose».

Dunque,
monsignore, la diocesi non dispone di fondi per venire incontro alle
esigenze dei sacerdoti?

No, perché
non ha denari per tutti.

Mancando
il sostegno della diocesi, i sacerdoti si mantengono con le offerte delle
messe e degli altri sacramenti. E pare che ci stiano riuscendo. «Gli unici
che versano ancora qualcosa per la diocesi – precisa il vescovo – sono i
tre missionari fidei donum di Torino».

La diocesi
di Zé Doca è stata dimenticata anche dai missionari della Consolata?

No. Il
nostro Istituto versa ogni anno 50 mila dollari per la formazione dei
seminaristi.

E proprio
dal seminario sono venute le migliori consolazioni per il vescovo.
All’inizio del suo apostolato a Zé Doca non poteva contare su alcun
sacerdote del luogo. Oggi sono sette, con un discreto numero di studenti
nel seminario maggiore di São Luis.


I tempi sono
cambiati

«C’era una
volta la chiesa brasiliana» afferma oggi qualcuno, non nascondendo la
propria delusione. La chiesa del coraggio, della denuncia delle
ingiustizie sociali, la chiesa dei vescovi Mathias Schmidt, Helder Camara,
Paulo As, Luciano Mendes, Ivo e Aloisio Lorscheider, Aldo Mongiano…
Figure coraggiose, profetiche, oggi defunte o ritirate, mentre i
successori sono diversi.

Dom Walmir,
come giudica l’odiea chiesa brasiliana?

Rispetto a
30-40 anni fa il paese è più democratico. I movimenti di lotta
sociopolitica contro il governo si sono sciolti, perché sono mutate le
situazioni. Oggi i lavoratori, più che con lo stato, devono fare i conti
con la globalizzazione, le transnazionali…

Però il
governo c’entra, perché può schierarsi o da una parte o dall’altra.

E la
chiesa deve schierarsi con i deboli. Credo che lo stia facendo. I profeti
ci sono ancora.

Per
esempio?

In
occasione dei 500 anni della scoperta del Brasile, c’è stata la festa di
Porto Seguro, contestata dagli indios, che hanno ricordato i massacri e le
discriminazioni sofferte nella storia. Circa 2 mila indios si sono diretti
a Porto Seguro per incontrare il presidente Cardoso; ma la polizia li ha
fermati con violenza. Anche i vescovi Masserdotti e Balduino, che erano
con gli indigeni, sono stati arrestati per cinque ore… Allora i profeti
ci sono e si fanno sentire.

Che dire
della sua diocesi?

A Zé Doca
c’è stata la marcia-pellegrinaggio della gioventù, durante la quale
abbiamo pregato, cantato e denunciato i mali che affliggono il paese. Il
tema «Cittadinanza e fede» ci ha consentito di riflettere sui gravi
problemi legati al Movimento dei contadini senza terra.


Politicamente come agite?


Lavoriamo senza tanto rumore. Ma a Zé Doca la comunità, con il parroco in
testa, ha presentato e sostenuto i propri candidati nelle elezioni
comunali.

A quale
partito appartengono?

Al
Partito dei lavoratori (PT). Ma il candidato sindaco, per vincere le
elezioni, si è dovuto alleare con altri partiti…

  Nella
sala-riviste di Missioni Consolata si ode un vociare, che proviene
dall’esterno. Dom Walmir si affaccia alla finestra e vede alcuni ragazzi
che rincorrono un pallone. «Quanto mi piacerebbe giocare con loro!».

 

 Visita
pastorale a São João do Caru

La
parrocchia di Bom Jardim è una delle più estese della diocesi: dista 30
chilometri da Zé Doca, è affidata ai due frati francescani conventuali,
molto giovani, e comprende più di 100 comunità.

Pochi
anni or sono ne è sorta una nuova: la comunità di São João do Caru.
D’accordo con il parroco, avevo deciso di visitarla durante la stagione
delle piogge. São João dista da Bom Jardim, in linea d’aria, circa 90
chilometri ed è raggiungibile solo in barca durante il tempo delle piogge.

 Il
programma prevedeva che mi trovassi alle sette del mattino a Bom Jardim.
Da qui un frate ed io, in camion, avremmo raggiunto il fiume per
proseguire in una canoa a due posti fino a São João. Però il camion (data
la pessima strada) non poteva marciare. Allora prendemmo una moto-taxi. La
distanza era modesta: 12 chilometri. Ma ci impiegammo oltre un’ora, perché
fummo costretti a fermarci una dozzina di volte a causa del fango.

Giunti
al fiume, salimmo in barca: io davanti e il giovane frate dietro, al
volante, vicino al motore. Dopo mezz’ora ci fermammo ad Alto Alegre per il
rifoimento di carburante. Ripartimmo con due ospiti, che ci avevano
chiesto un passaggio: poiché l’imbarcazione era piccola, due persone in
più costituivano un bel rischio. Ma tutto andò bene.


Sennonché, ad un certo punto, udii un tonfo, seguito da un grido del frate
guidatore.

– Cosa
è successo?

– Il
motore è caduto in acqua!

– Cosa?…
E ora? C’è un remo?

– No.

Si
disperava il giovane frate, inesperto, anche perché sapeva che era colpa
sua, non avendo fissato bene il motore sulla barca.

Era
mezzogiorno e fummo costretti ad abbandonarci alla corrente del fiume,
sotto un sole cocente. Non furono bei momenti… Finché il rumore di
un’altra imbarcazione ci sollevò il cuore. Ritornammo a Porto Alegre.

Quanto
al motore, nuovo di zecca, ma caduto nel fiume, potevamo scordarcelo per
sempre.

 

A São
João do Caru ritornammo cinque mesi dopo, via terra questa volta, in
Toyota, messa a disposizione dal sindaco locale. Ma quasi subito l’auto ci
piantò in asso per un guasto meccanico. Un camion, superaffollato, ci
portò a destinazione dopo sei ore di viaggio su una strada… che non
c’era! Erano le 5 del pomeriggio.


L’accoglienza della popolazione fu straordinariamente giorniosa: con tante
foto-ricordo, perché era la prima volta che un vescovo metteva piede in
quel paese… La visita pastorale continuò il mattino successivo con
l’amministrazione delle cresime.

Per il
ritorno c’era ancora il camion, ma in ritardo. Partimmo alle due del
pomeriggio. Percorsi una decima di chilometri, il camion si fermò per
caricare alcuni sacchi di farina. Poi incominciò a piovere come Dio voleva,
e ci impantanammo. Bisognava aspettare che spiovesse. Io, intanto,
camminai per circa tre chilometri, finché il camion mi raggiunse.


Seguirono sette ore di scivolate, sbandate e testacode. Ma, grazie alla
Madonna Consolata, arrivammo a Bom Jardim sani e salvi.

Nella
diocesi di Zé Doca si vivono anche queste avventure.

Francesco Beardi




PLATI’ (CALABRIA): MISSIONARI DI FRONTE ALLA MALAVITA

COME UNA ROCCAFORTE INESPUGNABILE?


Che ci fanno i padri Luigi ed Enrico in un paese
considerato un covo dell’«ndrangheta»? Ieri, però, è stato preso
l’«imprendibile». Ma la battaglia per la legalità è ancora lunga e
difficile. «Popolo di Platì, svegliati e unisciti a noi per costruire un
futuro di pace per i nostri figli».


Tristemente
famoso

La gente
ci domanda sovente come ci troviamo e che cosa pensiamo di questa «punta
di spillo nel cuore dell’Aspromonte», come Avvenire ha definito il
paesino. Recentemente la «punta di spillo» ha fatto rumore nei notiziari
dei canali ufficiali e privati, nei giornali di grossa e modesta tiratura.

Il
programma televisivo «Terra» di Canale 5, del 16 dicembre scorso, ha
narrato in dettaglio l’arresto del pregiudicato Barbaro Giuseppe,
soprannominato «l’imprendibile». È stato braccato nel suo bunker, la notte
dell’11 dicembre, dalle forze speciali di polizia, coadiuvate dai
carabinieri locali, dopo 11 anni di latitanza, molti dei quali trascorsi
nel confortevolissimo tunnel sotto casa. In questa circostanza, più che in
altre del passato, Platì si è sentito amaramente segnato a dito.


Tristemente celebre nel recente passato per i sequestri di persona, con i
sequestrati tenuti in ostaggio forse nel bunker del superlatitante (dove
sentivano suonare le campane e recitare il rosario nella nostra vicina
chiesa), Platì sta vivendo oggi momenti particolari: timidi, ma
riconoscibili sono i segni di volontà di cambiamento.

Però la
popolazione si sente umiliata. Bisognerebbe fare un po’ di giustizia:
perché è più facile disfare la speranza che edificarla. Secondo il cinese
Lao Tze, è meglio accendere una lanterna che maledire l’oscurità.

Platì è
stato definito pittorescamente una «città a due piani», uno in superficie
e uno sotterraneo: e in parte è vero. È stato paragonato ad una
«roccaforte talebana»: e anche questo è un po’ vero (il bunker era un
marchingegno di elettronica sofisticata: porte scorrevoli, chiusure
antiproiettile, scalini mobili)… Siamo inoltre stati descritti come
«gestori dell’erba», maestri consumati dell’ndrangheta, cittadini
corazzati nell’omertà.

Omertà ce
n’è, ma non al livello che si vuole far credere. La verità è che tanti non
sanno veramente nulla, né si accorgono di nulla. Tra costoro si
annoverano, sovente, gli stessi familiari e le stesse mogli dei
malavitosi. Ne siamo convinti. Osservatori laici ed ecclesiastici della
zona lo confermano.

Il
malaffare è portato avanti da «specialisti», che vivono nel paese a
stretto contatto con i vertici della criminalità (spesso residenti
altrove), vuoi nell’ordine nazionale vuoi in quello internazionale.


Sono caduti
in basso?

La
risposta è semplice: perché siamo missionari. Siamo qui per la profezia
della speranza, per il ministero della consolazione, per illuminare,
purificare e sostenere la religiosità popolare. Siamo qui per temprarci ed
essere maggiormente i missionari dell’«oltre».

O dobbiamo
eternamente discutere, rivedere e programmare la nostra identità a livello
cartaceo, senza buttarci mai nella mischia?

Non siamo
eroi, anche se siamo coscienti che questi primi mesi (per una combinazione
di fatti che sarebbe troppo lungo descrivere) ci hanno portato a vivere al
limite della capacità di pazienza e adattamento. E, benedetto sia il
nostro fondatore, Giuseppe  Allamano, che ci insegna a vivere la missione
insieme! Da soli non ce la faremmo.

Siamo qui
per obbedienza e coerenza. L’ultima conferenza dei missionari della
Consolata in Italia si era fatta promotrice di un’urgenza profetica,
espressa dal X Capitolo generale: è l’ora dell’ad gentes anche per
l’Europa. E la direzione regionale, raccogliendo l’indicazione, ha deciso
così di iniziare una presenza missionaria nella Locride, una zona piena di
sfide ecclesiali e socio-ambientali.

E siamo
caduti a Platì. La nostra destinazione è stata decisa in una corsia
preferenziale, forse per non lasciare adito al pentimento. E abbiamo
trovato un micromondo insospettato: gente che darebbe volentieri
l’ostracismo a chi ha inventato il lavoro e gente che lavora come bestie,
ma con garbo, genialità e (non è poco) con il sorriso sulle labbra:
proprio come chi trova gusto, affetto e gratificazione nel lavoro.

Gente che
mette piede in chiesa soltanto per le «onorate circostanze», insieme con i
rispettivi compari e comari, e gente che viene tutti i giorni a messa,
digiuna due volte la settimana, si prodiga nel silenzio in ogni necessità
(ammalati, anziani, bisognosi).

Gente che
è ingolfata nel malaffare fino al collo e gente che, come dicevamo, pur
vivendo ad un palmo dalle abitazioni dei malavitosi, non sa assolutamente
niente dell’illecito che si orchestra, soprattutto nelle ore delle
tenebre.

Sentiamo
compassione per tanta popolazione, molto dispiaciuta, perché di Platì si
parla esclusivamente nelle circostanze negative. È scontato: da sempre i
poveri fanno notizia solo nelle sciagure, nei «peccati», mentre i «ricchi»
e «color che sanno» si mantengono immacolati nel loro impudico
puritanesimo.

I platesi
ammettono che il loro paesino sta andando alla deriva da qualche decennio
a questa parte… al punto che tanti preferiscono mandare i figli a
studiare nei paesi vicini.

Platì,
alla pari di un centro napoletano, detiene il primato della natalità in
Italia e, forse, anche in Europa. Purtroppo è simile a una madre che
genera generosamente le sue creature, le avvolge di tenerezza
nell’infanzia, le vede allontanarsi da casa nella gioventù per motivi di
studio e lavoro, le vede scompaginarsi ai quattro angoli della terra:
Torino, Milano, New York, Toronto, Sidney… E Platì langue.

Quarant’anni
fa il paese contava 7 mila persone, scese oggi a 3 mila. Platì era un
rinomato centro agricolo, commerciale, artigianale (chi non ha sentito
parlare delle pipe di Platì?); era stimato e invidiato da tutti per la
creatività, laboriosità e ospitalità dei suoi abitanti. Resistono alcune
vestigia: falegnami, veri maestri del legno, e foai che distribuiscono
il fragrante «pane di Platì» ad una ventina di paesi nella provincia di
Reggio Calabria.


Una fiaccolata storica

Come
sacerdoti, data la scarsità di clero in diocesi, oltre Platì, serviamo
altre due modeste parrocchie. E siamo contentissimi della vita un po’
spartana. Ci organizziamo la giornata, prevenendo l’uno le difficoltà
dell’altro per alleggerire i pesi di entrambi. Rinunciamo a ogni
privacy… con un unico camino, che a volte ci rallegra nel tepore, a
volte ci inumidisce gli occhi per il fumo. Uno cucina e l’altro lava i
piatti; uno scopa la casa e l’altro bada alla lavatrice.

Ma non ci
esauriamo nel fare: è essenziale il confronto quotidiano con la parola di
Dio e uno sguardo ai giornali. E predicazioni, confessioni, apostolato
spicciolo. Alla sera siamo così ubriachi di sonno che, recitando il
rosario, il più forte deve svegliare energicamente il più debole, quando
dalla contemplazione dei sacri misteri scivola in braccio al pagano
Morfeo.

Ci
ripromettiamo, quando saremo in tre, di collaborare attivamente con la
diocesi nella missionarietà specifica ad gentes: lo desidera anche il
vescovo, Giancarlo Brigantini. È un trentino di pura razza, ma
visceralmente inculturato nei valori nobili della Locride e della antica e
gloriosa Magna Grecia.

Presieduta
dal vescovo, abbiamo organizzato il 15 dicembre scorso una
processione-fiaccolata per svegliare la coscienza della popolazione
dinanzi al ripetersi del gravissimo fenomeno della sparizione di persone
(7 in 8 anni, di cui 3 da luglio a novembre 2001).

Prima
della fiaccolata, durante la messa, concelebrata dal vescovo e dai
sacerdoti della vicaria, coraggioso e commovente è stato l’intervento di
una mamma. Dal pulpito ha pronunciato parole pesanti, come i macigni
disseminati su queste colline, e brucianti come il fuoco di lupara: parole
che hanno sfidato ogni trincea di omertà.

«Popolo di
Platì, svegliati e unisciti a noi per costruire un futuro di pace per i
nostri figli. Siamo contro ogni forma di violenza e vandalismo: uniamoci
per punire i misfatti! Abbandonati da tutti, abbiamo sempre chinato la
testa con triste rassegnazione. È tempo di far sentire la nostra voce. Un
grido di pace e perdono contro ogni male. Impegniamoci a riscattare il
paese per quanto è successo nel passato e nel presente».

Anche i
cartelloni, preparati dai giovani e portati dagli adolescenti nella
marcia-fiaccolata, osannavano alla pace, alla responsabilità, alla vita.
Uno fra tutti: «Caino, dov’è tuo fratello?».

Nelle
acque stagnanti un sassolino è stato lanciato. Piccoli circoli d’onda si
propagheranno lenti, ma indefettibili, fino alle più remote profondità
delle coscienze. Ne siamo certi. Confidiamo nel Signore della vita, che
dalle tenebre dell’odio è risorto alla luce, vincitore del male.

 

*I padri Luigi Manco ed Enrico
Redaelli, già missionari della Consolata in Argentina e Mozambico, sono
oggi impegnati nell’animazione missionaria-vocazionale in Italia. Gli
unici in Calabria.


«Restituite
questi giovani»

Sabato a
Platì è salito il vescovo Giancarlo Brigantini che, assieme ad un nutrito
gruppo di sacerdoti, ha concelebrato la messa alla presenza di alcuni
familiari delle persone scomparse e di tanti giovani e ragazzi delle
scuole locali, che hanno raccolto l’invito a non starsene in disparte.

Platì è
salito agli onori della cronaca per fatti poco edificanti: i sequestri di
persona e il traffico di droga, in primo luogo. Il parroco, padre Luigi
Manco, tra il silenzio generale ha elencato i sette nomi e le date della
scomparsa, parlando di «sette ferite aperte nella comunità locale e in
tutta la società».

Dal canto
suo monsignor Brigantini ha detto: «Abbiamo pronunciato i nomi perché non
si faccia finta di non vedere. Non serve tacere purtroppo tanti sanno ma
tacciono».


 L’iniziativa è servita a raccogliere attorno al dramma delle famiglie
interessate gran parte della cittadinanza che, con una fiaccola accesa in
mano, ha percorso le vie cittadine alternando il silenzio a momenti di
preghiera…

La
comunità di Platì ha dimostrato di apprezzare il gesto della chiesa,
rimarcando col vescovo il no al male e all’odio, il sì al bene ed alla
misericordia. Prima di terminare la fiaccolata, Brigantini ha detto:
«Fermatevi, restituite questi giovani ai familiari e ricordatevi che Dio
vede anche chi, in un modo o nell’altro, è stato complice di tali
misfatti».

Giovanni
Lucà


(liberamente tratto da «Avvenire», 18 dicembre 2001)

Luigi Manco Enrico Redaelli




16 FEBBRAIO: APPUNTAMENTO CON IL BEATO ALLAMANO

ASPETTANDO LE ROSE


Il 16 febbraio 1926, «dies natalis» del beato Giuseppe
Allamano, fa parte della storia dei missionari e missionarie della
Consolata, e non solo. È però «curioso» notare come il loro Istituto sia
stato fondato da un uomo che sapeva ridimensionarsi, relativizzare,
attendere. Con lui c’era Giacomo Camisassa, l’amico insostituibile.

Padre
Umberto Costa, uno dei primi missionari della Consolata, morto a soli 33
anni, riporta una confidenza del fondatore, il beato Giuseppe Allamano: «È
un poco che non ci vediamo più, perché ho avuto un malessere che mi ha
costretto a star chiuso in camera, eppure il mondo è andato avanti senza
di me, l’Istituto è andato bene senza di me. In questi casi si medita, ed
io ho meditato come non v’è nessuno necessario; quando un’opera è di Dio,
egli la fa procedere senza bisogno di alcuno».

Poche
parole per cogliere dalla sua stessa voce una personalità senza finzione,
temperata all’ombra dei vigneti di Castelnuovo d’Asti, piccolo centro
agricolo, dove religione e onestà si fondevano in una stessa liturgia di
vita e di morte, e i rintocchi dell’Ave Maria scandivano le ore della
fatica e del riposo rincorrendosi su e giù per le colline, lungo i filari
di viti.

A
Castelnuovo Giuseppe Allamano nasce nel 1851 e conclude la vita a Torino
nel 1926 presso il santuario della Consolata, di cui è stato rettore per
46 anni. Il santuario, ampliato e ristrutturato, è uno dei suoi
capolavori.


A tu per tu
con Leone XIII


L’occasione per uscire da Torino gli viene offerta dai festeggiamenti che
tutto il mondo tributa al pontefice Leone XIII (1810-1903) nel 50° della
sua ordinazione sacerdotale, il 1° gennaio 1888. Eletto papa all’età di 68
anni, quasi a conclusione di una vita intensa di lavoro, il pontificato di
Leone XIII non è, come le previsioni l’hanno preconizzato, di transizione,
ma d’incontenibile dinamismo e innovazione.

La chiesa,
per 40 anni condizionata all’interno da una mentalità conservatrice e,
all’esterno, da leggi restrittive fatte eseguire con metodi violenti e
giacobini, si muove ora su un nuovo versante: domina lo spirito di
concordia e dialogo con tutte le realtà che popolano il vasto orizzonte
del cristianesimo.

Ne fanno
fede le tante encicliche che papa Leone, più avanti del suo tempo, scrive
nei suoi 25 anni di pontificato: ad esempio sull’abolizione della
schiavitù (In plurimis, 1888); sull’istituzione di seminari per i
sacerdoti autoctoni e la creazione della gerarchia ecclesiastica locale
(Ad extremas Orientis oras, 1893).

Il papa
scrive pure sulle devozioni care all’Allamano: il Rosario (Supremi
Apostolatus, 1883), San Giuseppe (Quamquam pluries, 1889), la Santa
Famiglia (Novum argumentum, 1890), il Sacro Cuore (Annum Sacrum, 1899). La
questione sociale, che esplode tra poco con la pubblicazione
dell’enciclica Rerum novarum, è uno dei tanti temi passati al vaglio da
Leone XIII.

C’è un
altro argomento al centro del magistero leoniano, «la missione della
chiesa», destinato ad aprire vasti orizzonti sul mondo. È su di esso che
il pensiero dell’Allamano si identifica con quello di papa Pecci: «La
città santa di Dio che è la Chiesa – scrive Leone XIII, – non essendo
circoscritta da alcun confine di regioni, ha la forza trasfusale dal
fondatore di “allargare ogni giorno lo spazio della tenda e di stendere i
teli della dimora senza risparmio” (Is 54, 2)».

A Roma l’Allamano
avvicina alcune personalità del mondo missionario (ciò fa supporre che sia
questa la principale ragione del suo viaggio), in particolare il card.
Giovanni Simeoni e mons. Domenico Jacobini, rispettivamente prefetto e
segretario di Propaganda Fide, nonché il cappuccino card. Massaja. A
costoro, presumibilmente, sottopone la prima bozza del Regolamento
dell’Istituto, con lo scopo di «raccogliere giovani sacerdoti aspiranti
alle missioni, prepararli convenientemente e quindi metterli a
disposizione di Propaganda Fide, che li avrebbe inviati nelle missioni
alle dipendenze delle varie Congregazioni già esistenti».

L’Allamano
incontra anche il papa, ma non lascia alcun commento scritto su quell’incontro,
che ha come scopo principale quello di sondare la fattibilità di un
progetto ancora in fase preliminare. L’udienza dura quanto basta per
ricevere una benedizione per il santuario, i sacerdoti del convitto, e una
raccomandazione: «Bene, bene quel santuario… Sì, do una speciale
benedizione. Dite loro che studino molto».

Una
raccomandazione scontata per un uomo che è dichiaratamente contrario a
qualsiasi forma di ignoranza nella chiesa e che ha offerto la sua vita
alla formazione del giovane clero.

Sulla
tabella dei festeggiamenti, oltre alla messa giubilare del papa, è
compreso anche un avvenimento di risonanza mondiale, promosso da
Propaganda Fide con il concorso degli istituti missionari. Si tratta
dell’Esposizione vaticana. È una rassegna dei doni e degli oggetti di
valore inviati dall’Europa cristiana in omaggio al papa, un pastore che
con abilità e tatto è riuscito ad attenuare il dissidio tra lo stato
moderno e la chiesa cattolica, dimostrando che le due realtà erano
diverse, non opposte.


L’Esposizione, inoltre, presenta una grande varietà di manufatti di
carattere etnografico provenienti dalle missioni di Indocina, India,
Giappone, Cina, Corea, Africa.

Sotto
l’aspetto culturale, la mostra si inserisce nel contesto dei canali di
comunicazione sociale, di cui il magistero papale e la missione odiea
fanno largo uso. Si calcola che i visitatori della mostra siano stati 380
mila. Tra essi c’è pure l’Allamano, che prende visione del mondo
missionario e raccoglie immagini e consigli utili per la sua futura opera.

La
permanenza a Roma si conclude il 15 gennaio 1888, con la partecipazione
alla solenne canonizzazione di san Pietro Claver, missionario tra gli
schiavi di Cartagena, in Colombia. Il mercato sul quale si svolge la
compravendita di esseri umani, trasportati dalle coste dell’Africa
occidentale, segna l’inizio di un cammino di dolore e orrore, destinato a
consumarsi nelle piantagioni di tabacco, cotone, canna da zucchero e nelle
miniere aurifere.

Pietro
Claver morì l’8 settembre 1654. L’Allamano gli affiderà la protezione del
nascente istituto.

Uomo
avvezzo a marcare pazientemente i ritmi delle cose e a dare a ciascuna il
suo valore, l’Allamano osserva con occhi disincantati gli avvenimenti.
Egli sa che non gli resta che attendere il momento giusto, senza forzare i
tempi, per non correre il rischio di costruire sulla sabbia.

Conta
sulla collaborazione di una personalità eccezionale, Giacomo Camisassa.
Tra i due corre una affinità di sentimenti, vedute e obiettivi, anche se
non di stile. È determinante il contributo del Camisassa in ogni
realizzazione che porti la firma dell’Allamano.

Insieme
attendono il fiorire delle rose. La pazienza non è forse la virtù dei
forti?

(*)
L’articolista, missionario

della
Consolata in Kenya, è autore

di
numerose pubblicazioni.


Significativa l’ultima opera

sul beato
Giuseppe Allamano:

La mia
vita per la missione,

Emi,
Bologna 2001.

Giovanni Tebaldi