BOLIVIA – “Che fatica essere boliviani”

Con l’Argentina e Venezuela, la Bolivia è nell’occhio del «ciclone latinoamericano»; ma con differenze sostanziali: per esempio, non ha un accesso al mare.
La povertà si tocca con mano. Povero anche democraticamente, specialmente se si vive sotto tutela. E si muta governo ad ogni batter di ciglio.

All’inizio del nuovo millennio le nazioni che possono essere definite «democrazie» sono 86 su 193. Se un sistema politico è democratico allorché garantisce partecipazione alle decisioni e pluralismo politico, la Bolivia è un paese che può e vuole definirsi tale. Ma ha sofferto a lungo (e ancora soffre) per tale conquista.
Della Bolivia ci ha parlato Mauro Bertero Gutiérrez (*), stimolato da alcune domande e considerazioni.
STORIA POLITICA TORMENTATA
«Con il presidente Heán Siles Zuazo, 20 anni fa – ricorda il dottor Bertero -, siamo tornati alla democrazia. In una lunga storia repubblicana, caratterizzata da frequenti golpe di stato (oltre 170 presidenti in circa 150 anni), la Bolivia ha subìto gravi perdite territoriali nelle guerre coi vicini. Nella guerra contro il Cile (1879) la perdita vitale dell’accesso al mare: il Litoral marítimo, ancora oggi rivendicato (per questo le relazioni diplomatiche tra Bolivia e Cile si limitano a rappresentanze consolari e non di ambasciata); nel 1904 la cessione al Brasile dell’Acre, ricco di caucciù; nel 1933 il Chaco nel conflitto con il Paraguay. Complessivamente i territori perduti ammontano a circa 1 milione di kmq».
La mancanza di una via diretta al mare ha segnato i destini della Bolivia sia in senso commerciale, sia limitando l’immigrazione, specie verso l’Europa. La Bolivia annovera una numerosa popolazione indigena, che supera il 57% degli abitanti.
Dottor Bertero, che cosa è successo nella struttura politica boliviana dal 1982 ad oggi?
«Per capire, bisogna risalire alla rivoluzione nazionale del 1952, paragonabile a quella del 1900 in Messico e a quella cubana alla fine degli anni ’50. La rivoluzione boliviana poggiava su tre pilastri: voto universale (prima del 1952 indigeni e donne non votavano: ndr), riforma agraria e nazionalizzazioni.
Sono seguiti 12 anni di governo rivoluzionario con il cambiamento della Costituzione nel 1964 e un colpo di stato».
«Nel 1969-70 si sono avuti vari governi, sino al colpo di stato che ha portato al potere il generale Juan José Torres, di sinistra, ma che ha governato pochi mesi, perché destituito dal colonnello Hugo Banzer Suárez. Questi ha stretto forti legami con gli Stati Uniti e ha instaurato una rigida dittatura, tentando di rilanciare lo sviluppo economico, a spese però delle masse popolari, sollevando un’ondata di agitazioni che ne hanno determinato l’isolamento del paese».
E dopo questo evento?
«Nel 1978 c’è stata la pressione statunitense di Jimmy Carter e, sino al 1982, si sono succeduti sei governi di transizione, in seguito ai quali è ritornata la democrazia con Heán Siles Zuazo, che sosteneva: È necessario che questa terra continui ad essere la terra di uomini liberi! Il suo governo ha tentato invano di varare misure anticrisi, suscitando il malcontento delle masse popolari; ha rinunciato al suo mandato un anno prima della scadenza, per consentire nuove elezioni e stabilizzare l’economia con un nuovo governo».
«Nel 1985 è tornato al potere Victor Paz Estenssoro, leader del Mnr, che ha affrontato con qualche successo il riordino della finanza statale; più difficile si è rivelata la lotta alla corruzione e narcotraffico, divenuto una piaga nazionale».
Fino al 1982 in Bolivia i partiti politici sono stati un segno di speranza, mentre oggi sono forse la sommatoria di tutti i mali. Fino al 1982 c’è stata la possibilità di costruire una vera democrazia; ma in questi ultimi anni la situazione è diventata cruciale a causa di una politica «tradizionalista», per molti versi mal gestita e ingannevole. Dal 1952 al 1985 la Bolivia è passata dal capitalismo di stato a un’economia neoliberista.
È così, dottor Bertero?
«Dissento da tale modello, perché l’unica cosa che si è fatta nel 1985 è stata la stabilizzazione economica, con un modello rispondente alla disciplina fiscale: limitare le uscite rispetto alle entrate. Oggi ci ripetiamo le stesse domande: qual è il mezzo migliore per generare più crescita economica? Come trovare una più razionale ed equa distribuzione delle entrate? Come proteggere l’economia nazionale nei cicli critici dell’economia mondiale?».
Oggi in Bolivia l’indice di povertà è del 70% (34% in città): 7 individui su 10 non si alimentano a sufficienza. Sorge spontanea la domanda:
si può essere così «conservatori», senza recare insulto alla dignità di un essere umano?
«Ciò dipende da una falsa democrazia, che è solo rappresentativa e non partecipativa. Bisogna cambiare. Occorre rimpiazzare un modello economico che, finora, ha creato opportunità solo per pochi e ha lasciato ai margini una grandissima parte della popolazione. La società civile non si accontenta di essere rappresentata; vuole partecipare attivamente a proposte e soluzioni, rigettando ogni intermediazione».
FUGA DEL PRESIDENTE

Nell’ottobre 2003 si è dimesso il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada. Aveva già governato dal 1993 al 1997, instaurando la capitalizzazione dello stato e facendo regredire tutto ciò che si era ottenuto dal 1952. Ritornato al potere nel 2002, non ha dato alcuna risposta positiva alle istanze del popolo, che chiedeva: Assemblea nazionale costituente, referendum sulla politica energetica di esportazione del gas (contro la legge sugli idrocarburi), l’annullamento della legge sul mercato della terra e la fine della libera contrattazione, la ridistribuzione della terra, il rispetto dei diritti sociali dei lavoratori e della proprietà comune originaria, la riattivazione dell’apparato produttivo nazionale, rigettando il libero commercio dell’Alca (Area di libero commercio delle Americhe), voluto dagli Stati Uniti.
Sanchez de Lozada è fuggito sottraendosi al giudizio-accusa di genocidio: 140 sono stati i morti durante le sommosse popolari di ottobre 2003. La gente è insorta in difesa della democrazia e delle risorse naturali del paese.
E commenta Bertero: «Noi crediamo molto nel governo, presieduto oggi da Carlos Mesa Gisbert, noto scrittore e profondo conoscitore della storia e cultura del paese. Egli è deciso a riportare l’ordine attraverso due strade: un referendum vincolante per l’Assemblea nazionale costituente e un governo senza partiti politici».
Poche risorse
molte necessità
Dottor Bertero, Washington non vede bene il nuovo presidente, e questo potrebbe far ritornare, come ai tempi della dittatura, la legge marziale. Cosa ne pensa?
«Certo, il governo di Washington ha avuto un ruolo nella crisi. Ma vi hanno contribuito anche alcuni nostri interventi, in quanto si prevedeva il rischio che a Sanchez de Lozada subentrasse Evo Morales, un leader dell’opposizione (rappresenta i coltivatori di coca nel Chapare, ndr). Secondo la Costituzione boliviana, se si dimette il presidente, gli subentra il vice presidente, evento che si è appunto verificato».
Il nuovo presidente ha riconosciuto la gravità della crisi, definendola strutturale, fonte di ribellioni, perché esclude i popoli indigeni. Sarà possibile riscrivere il contratto sociale e rifondare la nazione?
«La rifondazione è urgente. Carlos Mesa ha già dimostrato la sua sensibilità nella crisi politica che la Bolivia sta vivendo: per questo ha chiesto al Congresso di fare un governo senza partiti politici, riducendo la notevole pressione. Inoltre ha lanciato importanti messaggi, dimostrando di essere vincolato ad una società che domanda di partecipare alla vita democratica reale».
Ciò che preoccupa maggiormente Washington è l’Assemblea costituente, che potrebbe portare la Bolivia a una soluzione «alla venezuelana». È un timore fondato?
«Tutti i boliviani devono capire che bisogna favorire il cambio e non essere “conservatori”: non si può continuare a vivere in una democrazia basata sulla povertà. Abbiamo bisogno di cambiamenti strutturali: chi ha troppi privilegi deve rinunciarvi in parte, per una più equa ridistribuzione di beni e servizi».
Però, è impossibile un passo avanti, senza incidere nella politica latifondista in mano a poche famiglie? È possibile un’apertura in favore della collettività meno abbiente?
«Al riguardo c’è già un processo, iniziato qualche anno fa. Se un latifondista ha 100 mila ettari e li fa produrre, creando 2 mila impieghi, egli compie una funzione sociale ed economica. Invece preoccupa chi ha molte terre e non produce per il bene comune. Credo che sia possibile ridistribuire le risorse e, nel contempo, far capire alla gente che la terra bisogna lavorarla: con la riforma agraria del 1952, a ogni contadino si sono distribuite terre, ma non assistenza tecnica, credito agricolo… È indispensabile, per così dire, democratizzare lo sviluppo sia politico che economico».
Sarà possibile, con una democrazia più partecipata, la rifondazione istituzionale per un nuovo patto sociale?
«I partiti politici tradizionali vogliono che Carlos Mesa finisca il mandato nel 2007; capi dell’opposizione, invece, Evo Morales e Felipe Quispe, vogliono elezioni immediate, perché credono di vincerle. Mesa ha parlato di governo di transizione di almeno un anno. Ma i problemi non sono stati risolti con il cambio del presidente, a partire da quelli strutturali dell’intera economia».
Forse la Bolivia non sarà più la stessa, soprattutto per le troppe ferite subite in passato e di recente: lei è più ottimista?
«Il fallimento del processo rivoluzionario è dipeso dal non avere creato le condizioni per una identità nazionale: la vera sfida della Bolivia è «cominciare a essere Bolivia». Al nostro interno ci sono regioni che credono di avere la prevalenza sull’unità nazionale; per questo si teme la federazione. La sfida, quindi, è credere in uno stato in cui potersi identificare e che non può escludere lo sviluppo umano.
Personalmente sono ottimista: si può e si deve cambiare la pseudo democrazia in vera democrazia. Un cambiamento che deve avvenire attraverso l’istituzione di un governo capace di amministrare bene poche risorse per molte necessità. Ossia: privilegiare lo sviluppo umano e le necessità di chi ha meno». •

(*) Mauro Bertero Gutiérrez, 45 anni, boliviano di origine piemontese.
Dal 1985 al 1989 presidente della Banca Nazionale di Agricoltura e, dal 1989 al 1992, ministro dell’Agricoltura. Portavoce del presidente nel 1997 e poi ministro dell’Informazione. Oggi è segretario del partito «Azione democratica nazionalista». Si è laureato in Economia in Brasile e ha conseguito il «Ph.D.» in Scienze economiche alla Coell University di Ithaca, New York.

L’articolista ringrazia Domenico Bertero Gutiérrez, Console generale di Bolivia a Torino dal 1991, per avergli dato l’occasione di intervistare il fratello Mauro.

Eesto Bodini




GUATEMALA – L’ingiustizia non è un mondo divino

… ma dipende dall’uomo. Nel paese centroamericano poche famiglie detengono l’intero potere economico; poche famiglie posseggono quasi tutte le terre fertili; la corruzione e il crimine organizzato imperversano. Il ruolo delle sètte
evangeliche statunitensi è rilevante. Riuscirà il neo-presidente Oscar Berger
a portare un minimo di giustizia a sette anni dalla firma della pace?
Ne abbiamo parlato con padre Rigoberto Pérez Garrido, un prete di frontiera,
che per contribuire a portare pace e giustizia nel suo paese da anni rischia la vita.

Stringe il registratore tra le mani, quasi per «inchiodarvi» i pensieri. Parla a voce bassa, ma le sue parole sono pesanti e lasciano poco spazio all’immaginazione. Folti capelli neri e baffetti, Rigoberto Pérez Garrido è un sacerdote guatemalteco di 37 anni.
Ordinato sacerdote nel 1994, da cinque anni Rigoberto è parroco a Santa Maria de Nebaj, nel Quiché, una provincia ad altissima presenza maya. «Sono parroco in una parrocchia di gente maya – ci spiega -, ma io non sono un indigeno. Questo però non è mai stato un problema: con la gente ho un rapporto straordinario».

TRA FOSSE COMUNI
E CIMITERI CLANDESTINI
Rigoberto è una figura conosciuta, perché ha collaborato moltissimo con monsignor Gerardi. È stato il responsabile per la diocesi del Quiché del progetto Remhi per il recupero della memoria storica ed ha cornordinato l’azione degli agenti della pastorale, religiosi e laici, che dovevano raccogliere le testimonianze delle persone. Quando, nel gennaio del 2000, arrivò a Nebaj, padre Rigoberto iniziò ad aiutare le persone che volevano recuperare i resti dei desaparecidos, che i militari avevano buttato in fosse comuni o in cimiteri clandestini. La gente del luogo sapeva, ma non aveva mai osato fare qualcosa. Fu aiutata da padre Rigoberto, che per questo suo attivismo si attirò addosso attenzioni molto pericolose.
Una notte del febbraio 2002 gli incendiarono la casa parrocchiale, sperando di eliminarlo. Per sua fortuna, si trovava a Santa Cruz del Quiché. «Mi fu offerta una protezione – racconta il sacerdote -, ma io la rifiutai dicendo che la cosa migliore era continuare a fare quello che stavo facendo. Ho potuto contare sull’affetto di tutti, sulle loro preghiere, sul loro esempio, sulle loro testimonianze. Questo mi ha molto rallegrato».
Le minacce di morte continuarono e continuano tuttora tanto che il suo caso è stato preso in carico anche da Amnesty Inteational.
«Con l’assassinio di monsignor Gerardi – continua il sacerdote -, il paese è ripiombato in quelle tenebre che si credevano superate a partire dalla firma degli accordi di pace. Si sono riattivate tutte le strutture che, per 36 anni, avevano generato morte e sofferenze indicibili, strutture collegate agli ambienti politici ed economici. Con il governo del Fronte repubblicano guatemalteco (Frg) si è intensificato l’accanimento contro i difensori dei diritti umani e le persone impegnate nel processo di trasformazione. Per sostenere il potere, sono riapparsi anche i gruppi paramilitari che, in Guatemala, si chiamano Pattuglie di autodifesa civile (Pac). La scorsa estate, poco prima delle elezioni, migliaia di ex patrulleros sono calati in capitale per intimidire gli avversari di Rios Montt».

IL PERDONO,
MA ANCHE LA GIUSTIZIA
Il Guatemala ha una percentuale di popolazione indigena del 60% o più. E gli indigeni furono la popolazione più colpita durante il conflitto armato.
Perché? Che successe in quei 36 anni di conflitto? Chi furono i responsabili? Chi le vittime?
Presto ci si accorse che, per costruire un paese diverso, occorreva dar vita ad un processo di chiarimento storico. Era un’operazione ad alto rischio. Monsignor Gerardi sosteneva che era doloroso affrontare la realtà, ma che, d’altra parte, era un’azione necessaria e liberatrice: per poter superare il passato, era necessario conoscere e da questa conoscenza si poteva partire per costruire il futuro.
I collaboratori del progetto Remhi hanno potuto documentare 422 massacri, di questi 263 (ben 234 ad opera dell’esercito e dei paramilitari) vennero commessi nel Quiché e di questi decine a Nebaj, la zona dove opera anche padre Rigoberto.
«Nella regione del Quiché – spiega il sacerdote – il piano diocesano ha avuto come prioritaria la riconciliazione, che però può scaturire soltanto dalla verità, dal perdono e dalla giustizia. Posso testimoniare che il perdono c’è stato. Io stesso ho celebrato messe di commemorazione di massacri e i familiari (gente che perse i propri cari o che venne torturata) sono riusciti a perdonare: è una grande qualità della popolazione guatemalteca, incredibile ed impressionante».
«Purtroppo, sulle responsabilità e quindi sulla giustizia, il problema rimane aperto: ci sono casi di pentimento ai livelli più bassi, ma non a quelli più alti. Qui la porta è rimasta chiusa; mi riferisco ai livelli intellettuali e di comando, da dove cioè partirono gli ordini per distruggere la popolazione del Guatemala».
«Ciò che la società guatemalteca ad alta voce ha chiesto e chiede non è vendetta (ché altrimenti il paese sarebbe precipitato nuovamente in una spirale di violenza incontrollabile). Le vittime chiedono però che i responsabili riconoscano le loro colpe e diano segni concreti di pentimento, contribuendo anche a risarcire i danni causati. Su questa linea si muovono alcune associazioni per la difesa dei diritti umani, che stanno promuovendo processi contro i responsabili dei crimini. La società guatemalteca valuta positivamente queste iniziative, sebbene sia molto scettica a causa dell’alto grado di impunità che c’è nel paese».
La conclusione di padre Rigoberto è in perfetta coerenza con il suo ragionamento: «Noi speriamo che, alla fine di tutto questo, possa sorgere una nuova società, un nuovo Guatemala con più vita per tutti, compresi coloro che hanno commesso i crimini: anche loro hanno diritto a vivere la grazia di Dio».
Milioni di esistenze sono state segnate dalle vicende della guerra: per loro ricominciare una vita normale è un’impresa.
Padre Rigoberto lo sa: «Il dopoguerra presenta nuove sfide considerando tutte le indelebili sofferenze patite dalla popolazione. Perché, dopo un conflitto, restano gli scomparsi, gli orfani, le vedove, le comunità distrutte e disarticolate; restano i cimiteri clandestini e i genitori che cercano i propri figli; restano il dolore, la paura, i traumi. Nel dopoguerra bisogna occuparsi di tutte queste realtà, delle loro cause e delle loro possibili soluzioni».

IL MIRAGGIO
DELLA RIDISTRIBUZIONE
Da gennaio di quest’anno in Guatemala c’è un nuovo presidente e un nuovo partito di maggioranza. Cambierà qualcosa? «L’importante – spiega il padre – è stata la sconfitta di Rios Montt e del Frg, responsabili dei maggiori crimini nei 36 anni della guerra civile e di un governo fondato sulla corruzione».
Il partito del neo-presidente (Gran alianza nacional, Gana) è nato dalla nomenclatura economica del paese, cioè dagli industriali, nonché da politici e da militari che sono riusciti a darsi una patina di rispettabilità. Ma anche tra le sue fila si celano responsabili di crimini, come ammette amaramente padre Rigoberto: «I partiti credono che senza gli espertos en matar nessun governo potrà stare a lungo al potere».
Dicevamo che Gana ha avuto l’appoggio degli imprenditori. Questo potrebbe essere un piccolo vantaggio, se si considera che il problema economico è un’assoluta priorità. La povertà raggiunge livelli elevatissimi, in particolare nelle aree rurali e nelle periferie delle città.
La disoccupazione è molto alta e lo stato non svolge i propri compiti, soprattutto nei servizi primari. «È vergognoso – sbotta il sacerdote – che si spendano più soldi per il bilancio militare che per quello della salute e dell’educazione».
In quanto a capo di una coalizione di destra, difficilmente il presidente Berger intraprenderà una politica di ridistribuzione del reddito. L’analisi del padre guatemalteco è lucida e rigorosa.
«Il problema economico – spiega – ha radice in un sistema che concentra la ricchezza in poche, anzi in pochissime mani (en muy, pero muy pocos manos), creando diseguaglianze abissali. Il potere è detenuto da un ristretto gruppo di famiglie guatemalteche e alcune straniere residenti nel paese. Un’altra fetta dell’economia è appannaggio delle multinazionali. A queste si debbono, ad esempio, gli altissimi prezzi dei combustibili e dei medicinali».
Insomma, anche a guerra finita, la maggioranza dei guatemaltechi continua a vivere in condizioni disumane. E, come sempre accade, questa povertà colpisce soprattutto la parte più debole (ancorché maggioritaria) della società, gli indigeni.
La discriminazione risalta in tutta la sua evidenza nell’agricoltura, che è il settore economico a cui fa riferimento la maggioranza della popolazione guatemalteca.

LA TERRA,
UN PROBLEMA TABÙ
A partire dal 1800 si diffusero in Guatemala le monocolture da esportazione: prima il caffè, poi il banano. Con le banane arrivò in Guatemala la multinazionale «United Fruit Company», oggi nota come Chiquita. La compagnia nordamericana divenne talmente potente da condizionare la vita del paese. L’esempio più clamoroso si verificò nel periodo 1951-’54. All’epoca, il governo del presidente Jacobo Arbenz varò la prima riforma agraria nella storia del Guatemala. La United, sentendosi colpita nei propri interessi, informò del problema la Cia e l’amministrazione di Washington. Venne così organizzato un esercito, che entrò nel paese e rovesciò il legittimo governo di Arbenz.
Oggi le multinazionali nordamericane continuano a monopolizzare (come in tutti i paesi dell’area) il mercato delle banane, con comportamenti e politiche certamente poco rispettosi dei lavoratori, dell’ambiente e dell’etica.
L’altro pilastro dell’agricoltura del Guatemala è il caffè. Negli ultimi anni, il settore ha sofferto enormemente, a causa del crollo del prezzo sul mercato internazionale. Molti latifondisti hanno scaricato la riduzione degli introiti sugli stagionali, già ampiamente sfruttati. Alcuni proprietari hanno addirittura deciso di non fare la raccolta.
Tuttavia, per i contadini guatemaltechi, come per gran parte dei contadini dell’America Latina (e del mondo), il problema fondamentale è un altro: la proprietà della terra.
Secondo dati attendibili, in Guatemala l’85% della terra è in mano al 10% della popolazione. «È tremendo, lo so», ammette con sconforto padre Rigoberto.
Dopo gli accordi di pace, si è tentato qualcosa, ma i latifondisti hanno attaccato chi lottava per avere un pezzo di terra e coloro che appoggiavano queste rivendicazioni. Ci sono state molte minacce di morte, anche al vescovo Ramazzini, che si occupa di queste problematiche.
Si è tentata anche la strada dell’acquisto della terra per i contadini. Ma il risultato è stato l’incremento dei prezzi fino a 10 volte.
«Purtroppo, nel mio paese – conclude amaro Rigoberto – la questione della terra continua ad essere un tabù».
Difficile che la soluzione del problema sia nell’agenda di Oscar Berger, l’uomo che dallo scorso gennaio ha in mano le sorti del Guatemala. A sette anni dalla «pace».

(Fine – la prima parte
è stata pubblicata su MC di febbraio)

La chiesa cattolica e le sette evangeliche
Durante gli anni della guerra civile, la chiesa cattolica fu duramente perseguitata: migliaia di catechisti, dirigenti delle comunità cristiane, agenti pastorali, sacerdoti furono assassinati. Nonostante l’altissimo prezzo pagato, le diocesi continuarono ad emanare documenti che denunciavano le vessazioni contro la popolazione. Così come faceva la Conferenza episcopale.
Chiediamo a padre Rigoberto se l’attuale gerarchia della chiesa cattolica guatemalteca abbia proseguito sulla strada segnata da monsignor Gerardi, anche dopo il suo assassinio.
«Io vivo tra la gente e non nei palazzi – si scheisce -. Certo, la chiesa si è fatta dei nemici, soprattutto nel potere economico e in quello militare. Tuttavia, mi sembra che in questo ultimo periodo sia diventata un po’ silenziosa rispetto a prima, quando era guidata da Prospero Penados del Barrio, che fu praticamente annientato. Oggi è in pensione, perché molto malato; io lo definirei un martire vivente, che continua ad essere molto amato dalla gente».
Attualmente, la carica di arcivescovo primate e quella di presidente della Conferenza episcopale sono concentrate in una sola persona, l’arcivescovo Rodolfo Quezada Toruño. «Forse – chiosa il sacerdote – c’è troppo potere concentrato in una persona sola».
Abbiamo già spiegato (si veda MC di febbraio) in che modo il generale Rios Montt abbia utilizzato le sètte evangeliche. «Le sètte – racconta Rigoberto – entrarono nel paese nel 1891, quando governava il generale Justo Rufino Barrios. Venivano dagli Stati Uniti su impulso delle famiglie più potenti, interessate a trasformare i paesi dell’America Latina in luoghi ideali per lo sfruttamento. Il loro imperativo era: dividi e vincerai. Si moltiplicarono enormemente durante gli anni di maggiore violenza politica, cioè a partire dal 1980. È inutile fare nomi, dato che esistono più di 4.000 denominazioni differenti».
È durissimo il giudizio di padre Rigoberto. «Le sètte – dice – utilizzano la religione per contrastare la forza profetica della chiesa cattolica e per giustificare i crimini commessi durante il conflitto armato; oggi, invece, vorrebbero perpetuare quel sistema che tanti danni ha prodotto nel passato. Io credo che il compito fondamentale delle sètte sia di produrre inganno e confusione tra la gente e, soprattutto, anestetizzarla davanti alla realtà. Purtroppo, la religione mal utilizzata può diventare uno strumento molto utile per il dominio delle coscienze e quindi delle persone».
Pa.Mo.

Rigoberta Menchú Tum: aiutare Berger?

Il Guatemala è conosciuto in Italia soprattutto per merito di Rigoberta Menchú Tum (*). L’india maya riuscì a rompere il muro di silenzio che gravava sul suo paese grazie al libro Mi chiamo Rigoberta Menchú e poi alla campagna per assegnarle il Nobel per la pace. Il conferimento del prestigioso premio certamente diede la possibilità al suo paese di essere conosciuto in tutto il mondo. Tuttavia, come spesso capita, nemo propheta in patria: Rigoberta, in Guatemala, non è amata.
Spiega Maria Rosa Padovani del «Comitato di solidarietà» di Torino: «Periodicamente, si lanciano contro Rigoberta campagne denigratorie, accusandola di vivere nel lusso, di essere sempre in giro per il mondo, campagne orchestrate dai poteri che continuano ad essere presenti e operanti in Guatemala. Tra il popolo c’è chi la ama, c’è chi non la conosce e c’è chi si lascia influenzare dalle campagne».
Rigoberta da alcuni anni vive in Messico per le minacce che continuamente riceve». Ma nel suo paese ha messo in piedi la «Fondazione Rigoberta Menchú», che lavora soprattutto nel campo dei diritti umani e nella promozione dei diritti degli indigeni. C’è una sede della fondazione anche in Messico ed una più piccola a New York per via della sua collaborazione con l’Onu. Rigoberta lavora molto a livello di istituzioni inteazionali, soprattutto per le popolazioni indigene ed è tuttora ambasciatrice di buona volontà dell’Unesco. Va sempre in giro per il mondo, partecipando a moltissime iniziative. «Noi – spiega convinta Maria Rosa – la conosciamo bene. Abbiamo visto la semplicità con cui vive in Messico in una piccolissima casa dietro la Fondazione, con suo marito e con il figlio adottivo. Sappiamo che Rigoberta è sempre Rigoberta. Certo, il suo ruolo è cambiato: non può più venire quando un gruppo di solidarietà la chiama, perché ha un’agenda pienissima e ha anche bisogno di ricercare finanziamenti per i progetti della sua Fondazione. Quindi, il suo ruolo è cambiato. Forse in Guatemala c’erano più aspettative nel senso che si pensava che lei avrebbe lavorato solo a favore del suo paese, ma Rigoberta, come premio Nobel, si considera un po’ al servizio delle cause di tutte le popolazioni indigene del mondo, non soltanto di quelle del Guatemala».
Nel paese centroamericano la percentuale dei votanti è molto bassa, attorno al 30-35%. Questo avviene anche perché bisogna iscriversi alle liste elettorali e l’iscrizione si fa nel luogo dove si è nati. «Tutto ciò – spiega padre Rigoberto – costa: troppo, per gente già poverissima. Senza dimenticare che bisogna avere i documenti di identità che moltissimi, anzi la maggior parte, non hanno, soprattutto nelle zone rurali. E allora una delle campagne promosse dalla Fondazione Menchú è proprio questa: aiutare la gente a partecipare alla vita pubblica e civile del paese».

A fine dicembre, appena eletto presidente, Oscar Berger ha offerto un posto nel suo governo a Rigoberta Menchú. Tra conferme e smentite, la premio Nobel ha tentennato a lungo, accettando alla fine il ruolo di «ambasciatrice di buona volontà degli accordi di pace».
Un ruolo aleatorio per una scommessa comunque rischiosa: potrà Rigoberta aiutare il suo popolo attraverso il governo del conservatore Berger senza rimanee «bruciata»?
Pa.Mo.

(*) Si veda: «Incontro con Rigoberta Menchú Tum», di Marco Bello e Paolo Moiola, su Missioni Consolata n.5 del maggio 1996.

Paolo Moiola




IRAQ – Quelle pesantissime stellette

È giusto, opportuno e coerente il ruolo della chiesa nel mondo militare?
È compatibile con gli insegnamenti di Gesù Cristo la presenza di cappellani (con tanto di gradi) sui fronti di guerra?
Con l’accurata analisi di un sacerdote di Pax Christi e un’intervista a don Mariano, cappellano militare italiano a Nassiriya, continuiamo il nostro viaggio critico all’interno della guerra irachena.

UN RUOLO DA DISCUTERE
«“Senza far uso strumentale della storia, senza intenti di polemica fine a se stessa, Pax Christi chiede, nuovamente, che si ritorni a discutere sul ruolo dei cappellani militari, non per togliere valore alla presenza e all’annuncio cristiano tra quanti, soprattutto giovani, stanno vivendo la vita militare, ma per essere più liberi, senza privilegi e senza stellette”.
Sono parole che si leggevano nel comunicato di Pax Christi distribuito a Barbiana il 26 giugno ’97 in occasione del 30° anniversario della morte di don Milani. Parole che non hanno smarrito lo smalto dell’attualità nell’anno del giubileo».
Iniziava così l’editoriale dell’ottobre 2000 di Mosaico di pace, la rivista promossa da Pax Christi e voluta da don Tonino Bello, presidente del movimento fino al 20 aprile 1993, giorno della sua morte. Queste riflessioni mi sono ritornate alla mente nel mio ultimo viaggio in Iraq lo scorso novembre 2003.
Con una piccola delegazione di Pax Christi siamo stati più volte in quella terra segnata da troppe guerre, passate e presenti, che hanno sempre visto un ruolo attivo anche dell’Italia: vendita a Saddam Hussein di armi, mine, gas e, ora, coinvolti – di fatto – in una presenza militare che si può anche chiamare operazione di pace, ma è, a tutti gli effetti, una presenza in zona di guerra.
E se in Iraq la guerra non è finita, come sostengono anche alcuni autorevoli generali italiani, allora anche l’Italia è in guerra e i nostri militari sono andati… in guerra. Certo, con tutti i buoni propositi del caso, con scopi di pace, si dice. Ma, come afferma il papa nel messaggio per la Giornata mondiale della pace: «… i governi democratici ben sanno che l’uso della forza contro i terroristi non può giustificare la rinuncia ai prìncipi di uno stato di diritto. Sarebbero scelte politiche inaccettabili quelle che ricercassero il successo senza tener conto dei fondamentali diritti dell’uomo: il fine non giustifica mai i mezzi!».

A IMMAGINE DI… BUSH
In questo ultimo viaggio, e anche nello scorso maggio 2003, a Mosul, nel Nord Iraq, dopo aver partecipato alla consacrazione episcopale di padre Louis Sako, vescovo di Kirkuk, ho avuto modo di incontrare alcuni cappellani militari Usa. Il loro ragionamento è lineare, semplice: sembra di sentire parlare Bush in persona. E dire che un cappellano dovrebbe fare riferimento quantomeno al vangelo e al magistero della chiesa. Non c’è dubbio che le posizioni del papa siano abbastanza lontane da quelle di Bush: la guerra è avvertita come avventura senza ritorno, sconfitta dell’umanità. Anche il papa è un pacifista, disfattista e amico di Saddam o degli integralisti islamici?
«Siamo venuti in Iraq perché Saddam doveva essere fermato in quanto troppo pericoloso – mi dice Chester Egert, cappellano militare dell’esercito Usa – perché l’Iraq era collegato ad Al Qaeda e preparava attentati terroristici in tutto il mondo. Siamo qui non per fare la guerra ma per portare pace. In alcuni casi, la pace va imposta».
Sono senza parole. Cerco di dire qualcosa, ma don Chester è determinato: «Sì, la pace si impone, come stiamo facendo noi».
E lo scorso mese di maggio, chiedevo ad un altro cappellano Usa, come conciliasse il vangelo o il testo di Isaia «forgeranno le loro spade in vomeri», con la guerra, con i bombardamenti e l’uccisione di tanti innocenti. Lui mi rispondeva di aver avuto una visione (e anche qui siamo sulla linea religiosa-illuminata di Bush) in cui il Signore lo chiamava a questo ruolo di difensore e portatore di pace.
Ci si rende conto di come il ruolo di militari, arruoli anche il vangelo e Gesù Cristo. Sembra fuori da ogni logica la vita e l’insegnamento di Gesù, le sue parole «rimetti la spada nel fodero…».

«EMBEDDED»: CAPPELLANI
COME GIORNALISTI
Si è usata molto la parola embedded (arruolati) per i giornalisti. Credo che a maggiore ragione si possa e si debba usare per i cappellani militari, anche perché hanno pure le stellette! Per questo può essere interessante ripercorrere la riflessione che, in questi anni, Pax Christi ha cercato di fare sul ruolo della chiesa e dei cappellani militari all’interno dell’esercito.
«Il 19 novembre prossimo – continuava l’editoriale di Mosaico di pace – piazza S. Pietro ospiterà il giubileo dei militari e francamente, consideriamo quest’appuntamento un “segno dei tempi” che rattrista e inquieta. Un altro dei segnali che ci preoccupano perché vediamo crescere una cultura di guerra e di morte nella politica, nell’economia, nella società, e nella chiesa. Non dimentichiamo che soltanto il 6 maggio 1999 si è concluso il «Primo sinodo della chiesa ordinariato militare in Italia» evento assolutamente inedito, destinato a rafforzare l’attuale modalità di presenza di sacerdoti e vescovi nel mondo militare. Mentre cresce il numero delle guerre, aumenta vertiginosamente l’export di armi (in Italia +40%), si studiano e si sperimentano nuovi sistemi d’arma per realizzare guerre umanitarie con bombe intelligenti, ci sembra davvero anacronistico e incomprensibile alla luce del vangelo, parlare di chiesa militare e di giubileo dei militari.
Ai nn .572-573 del documento finale del Sinodo citato, nel capitolo intitolato La via militare alle Beatitudini si legge: «Consapevole che Dio ha affidato la costruzione di un mondo nuovo ai poveri di spirito, ai miti, ai misericordiosi, ai puri di cuore, agli assetati di giustizia, il militare cristiano che porta le armi e sa di poter essere costretto ad usarle, sappia che la sua vita è inserita nello spirito delle Beatitudini che gli conferisce il ruolo di “operatore di pace”».
Risulta davvero interessante leggere queste affermazioni alla luce di quanto è scritto nei «Lineamenti di sviluppo delle forze armate negli anni ’90», documento presentato in Parlamento nell’ottobre ’91. Lì si parla di «concetti strategici di difesa degli interessi vitali ovunque minacciati o compromessi»; e questi interessi vitali da difendere riguardano «le materie prime necessarie alle economie dei paesi industrializzati». Onestamente non ci sembra che questa prospettiva possa portare a definire i militari cristiani «operatori di pace».
«In occasione del giubileo dei militari – continua Mosaico di pace – diventa auspicabile all’interno della chiesa italiana una riflessione aperta, serena ma ferma sul ruolo dei cappellani militari e sulla loro completa integrazione all’interno dell’apparato militare. Ma l’appuntamento giubilare è anche l’occasione per alcune domande.
Non potrebbe essere questo il momento significativo, in cui i cappellani scelgano di rinunciare alle stellette e ai privilegi che esse comportano? Perché, infine, non cogliere questo momento propizio per chiedere perdono a don Milani e a tutti coloro che hanno scelto l’obiezione di coscienza? Ci spiace ricordare che la sentenza di condanna non è stata mai cancellata e pesa ancora nei registri penali ai danni del priore di Barbiana».
Mi sembra che questo editoriale, riportato quasi integralmente, ponga bene la questione. Oggi più che mai urgente perché la guerra è una tragica realtà che ci vede coinvolti.
Pax Christi aveva già posto il problema con un appello ai vertici ecclesiali e ai politici, senza molto successo, in occasione del Convegno della chiesa italiana a Palermo, nel 1995. E ancora in occasione del 30° anniversario della morte di don Lorenzo Milani, come si ricordava nell’editoriale di Mosaico già citato.
Anche per il Congresso eucaristico a Bologna, dove è prevista una celebrazione eucaristica presieduta dall’ordinario militare, Pax Christi interviene chiedendo di «aprire un dialogo sul ruolo dei cappellani militari: la loro smilitarizzazione potrebbe essere un gesto significativo e concreto di conversione, proprio in occasione del Congresso eucaristico, anche alla luce del giubileo del 2000, per iniziare il terzo millennio più fedeli al vangelo di Cristo nostra pace» (20 settembre ’97).
L’appuntamento più importante su questo tema dei cappellani militari è stato senza dubbio il seminario di studio che si è tenuto alla Casa per la pace di Firenze nel novembre ’97, promosso in collaborazione con il Centro studi economici e sociali per la pace: «Cappellani militari oggi e… domani», con relazioni di giuristi, di un rappresentante autorevole dell’Ordinariato militare e di Pax Christi.
«Si è ribadita pertanto la necessità – si legge nel comunicato finale – di un sempre maggiore impegno non solo della chiesa presente tra le forze armate, di cui s’è riscontrata la disponibilità al dialogo, ma di tutta la chiesa italiana per un cammino sempre più determinato sulla via della nonviolenza e della pace».
È stata la prima e per ora l’unica occasione di confronto ufficiale tra un rappresentante dell’ordinariato militare e Pax Christi. C’è da augurarsi che il dialogo possa continuare, alla luce delle nuove situazioni di guerra in atto.
Per concludere, vanno rilanciate alcune domande.

PARLIAMO DI GRADI
E DI… SOLDI
Perché non scegliere anche per i cappellani nell’esercito un ruolo di presenza sul modello della polizia di stato o degli istituti penitenziali, dove ci sono dei cappellani, con accordi ma senza essere inquadrati nella struttura? Insomma, senza stellette e senza (so di toccare un tasto delicato…) stipendio. Lo stipendio di un cappellano militare è quasi il triplo di quanto percepisce un normale prete dall’Istituto di sostentamento del clero. E, oltre alla tredicesima, sono coperte anche tutte le spese per ufficio, telefono, macchina e autista. Questo mi diceva tempo fa un amico cappellano-capitano. Stipendi, quindi, in rapporto ai gradi militari. E l’ordinario militare è equiparato ad un generale. Perché allora non tornare ad essere, preti come gli altri, inseriti in una diocesi come gli altri e non in una diocesi castrense come avviene oggi?
Questo sicuramente aiuterebbe ad essere più liberi. A non rispondere come mons. Marra, già ordinario militare negli anni passati, che parlando della situazione balcanica (non c’era stato ancora l’intervento militare della Nato) ebbe a dire al settimanale diocesano di Udine, La vita cattolica: «Monsignor Bettazzi e il compianto monsignor Bello scrivevano che era urgente operare per risolvere il problema della Bosnia- Erzegovina, ma imploravano che non si usasse la forza: una posizione troppo idealistica e, a mio avviso, inoperosa e inconcludente».

IL RIPENSAMENTO
DI MONS. SUDAR
Due citazioni, autorevoli, possono essere la conclusione di quanto fin qui esposto, con la speranza che il tema della guerra e della pace, della violenza e nonviolenza possa essere di nuovo affrontato anche con chi crede che l’unica strada sia quella delle armi.
La prima citazione è di mons. Luigi Bettazzi, già presidente di Pax Christi che, subito dopo la tragedia di Nassiriya del novembre 2003, scrive: «È tardi, ma non troppo tardi, per ridare all’Onu non una funzione di servile copertura, ma un’autentica autorità per aiutare il popolo iracheno a realizzare la democrazia e lo sviluppo, con un governo non sospetto e una ricostruzione non interessata. Lo chiede la volontà di pace della maggioranza dell’umanità, lo esige il sangue di questi nostri giovani morti nell’illusione di poter diventare operatori di pace».
La seconda, che ci riporta in Bosnia, è del vescovo ausiliare di Sarajevo, mons. Pero Sudar, che sulla rivista dell’Azione cattolica italiana Segno nel mondo, n. 4 del 16 marzo 2003, scrive:
«La guerra nella mia patria e le sue tragiche conseguenze mi hanno costretto ad immaginare il corso della storia senza le guerre, con cui si intendeva combattere le ingiustizie ed abbattere i sistemi ingiusti. Riconosco di essere stato convinto anch’io che l’uso della violenza sia utile e necessario quando si tratta della libertà dei popoli. Dopo aver visto e vissuto da vicino che cosa vuol dire la guerra di oggi, non la penso più così. Sono profondamente convinto, e lo potrei provare, che l’uso della violenza ha portato sempre un peggioramento».
«(…) tutto questo obbliga la chiesa – continua Sudar – a farsi segno di contraddizione e ad unire la sua voce a tutte quelle che gridano la pace anche nelle condizioni che, a prima vista, postulerebbero la guerra… Occorre applicare letteralmente il monito di Cristo rivolto a Pietro che con la spada voleva proteggere la vita del giusto e dell’innocente: … basta così! (Lc.22,5). Oggi l’unica scelta della chiesa è la nonviolenza, perché questa è l’unica strada, magari lunga e sofferente, alla pace che viene garantita dalla giustizia».

COMANDI, DON MARIANO!

Nassiriya, natale 2003. Nella base italiana di Nassiriya (An Nassiryiah, nella dizione locale) l’inverno picchia duro ed al freddo si sommano la paura e la nostalgia per una casa lontana. Molti soldati cercano conforto in Cristo, in quella chiesa che non abbandona nessuno e che, in questo sperduto angolo di deserto iracheno, è rappresentata da don Mariano.
Don Mariano è un bell’uomo dallo sguardo fiero ed il fisico scattante. Appuntata sul petto ha una croce al posto del grado da capitano che potrebbe mettere. Forse fra tutti quelli che ho conosciuto è l’ufficiale più ruvido e netto.
È il cappellano militare della Brigata Sassari ovvero il fulcro del contingente militare italiano che da diversi mesi opera a Nassiriya, nel sud dell’Iraq.

«Noi siamo qui per difendere e non per offendere», mi dice un giorno durante un’intervista.
«E la pace va difesa anche con le armi in pugno come stanno facendo questi soldati. Perché dovremmo andare via? Ci sono stati dei morti che hanno versato il sangue per la patria e noi cosa dovremmo fare per onorarli? Scappare? Andare via?».
Domando: cosa risponde a quei settori della chiesa cattolica che si oppongono a questa guerra e alla conseguente occupazione militare? Non l’avessi mai chiesto, don Mariano mi fulmina con le parole e con lo sguardo: «Noi italiani non siamo in guerra con nessuno e soprattutto non siamo una forza di occupazione, questo deve essere ben chiaro. Noi siamo operatori di pace. A quei settori della chiesa che vogliono la pace a tutti i costi non so cosa dire, forse che sono lontani dal mondo reale quello che c’è qui a Nassiriya…».
Cosa pensa dei pacifisti?, insisto. «Ho un senso di nausea quando vedo certe manifestazioni… Ognuno poi è libero di pensare un po’ quello che vuole, anche mio fratello è un pacifista ed io non posso certo impedirglielo. Ma quando vedo certi personaggi… Ho sentito che ultimamente alcune Ong che avevano tanto criticato l’intervento armato hanno chiesto una scorta armata per entrare nel paese. E io non gli avrei dato un bel nulla! Vi siete opposti alle armi? Siete pacifisti? Allora dovete rifiutare le armi sempre non solo quando vi fa comodo, quando siete a casa vostra comodi comodi. E poi come si chiama quel medico…. milanese?».
Gino Strada?, domando incuriosito. «Ecco quello non lo posso proprio sopportare, da lui non prenderei nemmeno una medicina perché è un assassino!».
Come un assassino? Gino Strada? E perché?, chiedo allibito. «Perché lui con il suo pacifismo voleva tenere in piedi Saddam che era un killer, un dittatore spietato e quindi ne era complice!».
Meglio cambiare discorso… E per natale, don Mariano, cosa farete a mezzanotte? «Faremo la messa nella piazza della base, i carri armati verranno disposti per sembrare una piccola grotta e lì celebreremo il rito della nascita di Gesù».
Vorrei tanto dirgli: «Ma come Gesù, l’uomo della fratellanza e del perdono, lo fate nascere in mezzo a dei carri armati?», ma fedele al mio ruolo non dico nulla, anzi faccio il solito sorrisetto di circostanza e gli auguri di buon natale.
La tenda che funge da chiesa per tutto il campo è accogliente e ben riscaldata anche se piccolina (può contenere al massimo un centinaio di persone).
Conclude don Mariano: «Molti ragazzi stanno riscoprendo la fede proprio in questo frangente, in questa situazione di pericolo e lontananza dagli affetti di casa. Io sono qui per questo, per aiutare le anime di questi uomini che sono disposti a sacrificarsi per il bene comune».

Fuori dalla tenda è buio assoluto. La base, oscurata nella notte per motivi di sicurezza, è situata in mezzo al deserto iracheno.
Alcuni soldati, finita la messa di mezzanotte, imbracciano il fucile ed escono di pattuglia. Don Mariano li ha appena benedetti. Don Mariano ha appena detto loro che quel fucile è uno strumento di pace.

Renato Sacco




Poveri & isolati

Un missionario, non più giovane, sperduto nella selva colombiana,ma
con la voglia di rimboccarsi le maniche di fronte ai molti problemi
causati da lontananza abbandono, sfruttamento del suolo,guerriglia…
E chiede una mano, soprattutto per i bambini.

Solano, con la sua foresta meravigliosa e, nello stesso tempo, piena di insidie; non esclusi gli scontri tremendi tra guerriglia, paramilitari e narcotrafficanti, che generano solo morte, distruzione, paura e, soprattutto, famiglie distrutte, bambini soli, anziani abbandonati a se stessi e tanta (ma tanta!) povertà.
Mi trovo, ormai alla soglia dei 60 anni, a lavorare in questo paese, dopo un periodo trascorso in Venezuela, tra gli indios guajiros, con la salute traballante (11 operazioni in dieci anni), ma contento di essere missionario della Consolata. Siamo due padri e quattro suore Carmelitas misioneras, tutti colombiani, tranne il sottoscritto.
Qui la vita (se si può chiamare così) è lotta dura; fin da bambini ci si educa all’arte di arrangiarsi come uno meglio può. Un contatto strettissimo con le varie famiglie delle veredas (comunità rurali: ne abbiamo 145), mi ha aiutato a fissare l’attenzione sul problema molto grave e urgente di questi bambini: molti sono disabili; altri con il labbro leporino, a causa della coca; la maggior parte senza genitori, fuggiti a causa della guerriglia, ammazzati, o spariti nel nulla.

Tentazione «della foglia»
Il comune di Solano è situato nel trapezio amazzonico colombiano, sulla sponda sinistra del fiume Caquetá, a 170 chilometri da Florencia, capoluogo della regione. È il comune più esteso della Colombia: 43 mila chilometri quadrati, la maggior parte costituito da foresta vergine.
La zona è solcata da due grandi fiumi: il Caquetá, affluente del Rio delle Amazzoni, e l’Orteguaza che, nelle vicinanze di Solano, confluisce nel primo.
Non esistono strade: uniche vie di comunicazione sono i fiumi. Gli abitanti, circa 20 mila, sono per la maggior parte contadini. Provengono da diverse regioni della Colombia ed è quindi difficile parlare di cultura «caquetegna». Parecchi agglomerati umani nascono, crescono e muoiono in poco tempo. Gli unici mezzi di trasporto sono la canoa e il cavallo; non essendoci strade, sono molto disagiati e costosi. La commercializzazione dei prodotti agricoli diventa quasi impossibile.
Unitamente ai contadini, esistono alcune comunità indigene di witotos, inganos, tamas, karijonas e coreguajes. Quasi tutti questi gruppi si sono in parte integrati col resto della società; altri, più isolati, conservano ancora tradizioni, lingua e abitudini culturali. Solo in questi anni il governo sta favorendo una politica del territorio riservato agli indigeni, ma sia i contadini come gli indigeni vivono la stessa situazione di emarginazione e abbandono.
La popolazione vive di un’agricoltura di sussistenza (che produce manioca, mais, banane) e qualche forma di allevamento di bestiame. La vera sorgente di guadagno, però, a cui la maggioranza dei contadini si dedica, è la coca. Nonostante i rischi connessi all’attività della «foglia», il suo mercato sicuro, il suo facile trasporto e il pagamento in contanti l’hanno convertita nella coltivazione più comune e pratica.
Nel Caquetá è raro che un contadino non coltivi coca, anche se in realtà questa non lo fa ricco, pur aiutandolo a sopravvivere. Il boom della coca ha causato una crescita esorbitante del costo della vita e sta strangolando l’economia familiare. Il prezzo della coca è fluttuante, mentre i beni di prima necessità continuano a rincarare. Inoltre, il cemento e la benzina – prodotti importanti per l’economia della regione – hanno prezzi esorbitanti e continuano a scarseggiare per il fatto che sono pure gli elementi essenziali nella lavorazione della coca.

Privi di (quasi) tutto
La droga ha portato in questa regione la perdita dei valori umani. Dilagano violenza, vendetta, sfiducia verso gli altri, immoralità e corruzione a tutti i livelli. I contadini sono coscienti del degrado che la droga apporta, ma proseguono nella sua coltivazione, perché non ricevono alcun sostegno nel tentativo di coltivazioni alternative.
I problemi economici si riflettono anche sulla scuola. Pochi privilegiati riescono a terminare i cinque anni di scuola elementare; solo 40, delle 145 comunità del comune di Solano, hanno scuola e maestro. Circa il 60% della popolazione in età scolastica non siederà mai su un banco di scuola, a causa delle grandi distanze e difficoltà di trasporto.
Il problema della salute non è meno preoccupante. Nel comune di Solano il servizio medico è disimpegnato da due dottori. La popolazione è affetta dalle tipiche malattie tropicali: malaria, ameba, tifo, infezioni e febbre gialla. Sono frequenti i casi di denutrizione e mortalità infantile, mentre altre malattie potrebbero essere evitate con un minimo di medicina preventiva.
L’alimentazione è basata sul mais, manioca, riso, banane e raramente si consumano altre verdure e frutta; l’acqua è tratta dai fiumi. Le case sono, per la maggior parte, palafitte di legno, disadoe e spesso animali di tutti i generi (serpenti compresi) vi hanno libero accesso.
L’ecosistema di questo territorio ha sofferto gravi alterazioni negli ultimi anni, soprattutto a partire dalle coltivazioni: i coloni hanno abbattuto indiscriminatamente la foresta, per trasformarla in pascoli e campi coltivabili. Anche se la maggior parte del terreno continua ad essere foresta, il danno inferto alla natura già si sta notando nel cambiamento dei ritmi delle precipitazioni.
Le alternative
La parrocchia di Solano si è fatta promotrice di sviluppo e partecipa a un vasto piano di promozione sociale. Da almeno 10 anni, ha iniziato un processo di riflessione, con alcuni contadini, sui problemi che la coltivazione della coca ha portato nella zona. Si è iniziato a proporre la coltivazione di caucciù, cacao, sesamo e arachidi in sostituzione della coca. Si sono aiutati i contadini con corsi di addestramento e la distribuzione di semi e strumenti di lavoro. Coltivazioni nuove stanno già dando i primi frutti.
La sostituzione della coca non è un fatto puramente economico, ma deve essere accompagnato dal risveglio di altri valori umani e cristiani. Si è, allora, favorito il dibattito sulle realtà sociali, alcornolismo, aids, scuola… iniziando pure corsi di alfabetizzazione e avviamento professionale.
La comunità cristiana è intensamente attiva in programmi di salute, assistenza ai poveri e anziani, microimprese e interventi socio-economici di vario tipo; non ultimo, il grave e urgente problema dei bambini abbandonati.
Il nostro è un progetto molto semplice, dato che da noi non ci sono strutture statali. Abbiamo in mente di raggruppare questi bambini e prestare loro aiuto, a secondo delle necessità. Qui, a Solano, vorremmo costruire due saloni con una cucina, per dare la possibilità ai bambini soli ed abbandonati di continuare gli studi. Il terreno lo abbiamo, manca tutto il resto.
Tra i casi più urgenti e gravi, una bambina, che si chiama Maria Yaqueline Anturi Nieves, nata con una malformazione al cervello. Ha solo un anno e ha bisogno di una operazione molto costosa. Ho perfino interpellato il vicepresidente della Colombia, ma, a tuttoggi, niente.
Non perdiamo la speranza, anche se, guardandoci attorno, lo scoraggiamento invade il cuore e viene voglia di mollare tutto. Viviamo con la sfiducia di trovare gente di buona volontà, che in qualche modo ci venga incontro.
Perché noi missionari doniamo sì la vita, ma senza l’aiuto di chi può darci una mano, nulla riusciremo a fare, in favore di chi è davvero nel bisogno.

Renato Riboni




Iraq – “Aspettiamo la pace. Con pazienza”

Si chiama Emmanuel III Karim Delly
la nuova guida della chiesa caldea irachena. Pur arrivando con una fama di moderato,
il patriarca di Baghdad non evade le domande della nostra inviata. Sulla guerra: nessuno
in Iraq la voleva. Sulle truppe d’occupazione: dovrebbero andarsene,
ma gradualmente. Sull’islam: sono ottimi i nostri rapporti con i musulmani. Sull’Arabia Saudita: non lavora per la pacificazione. Sui compiti delle guide spirituali: indicare ai fedeli la retta via. Con un obiettivo preciso:
riportare un minimo di normalità nel paese.

Basilica di San Pietro, 5 dicembre 2003. In una suggestiva atmosfera, l’aramaico, la lingua che discende da quella di Gesù e che è patrimonio della maggioranza dei cristiani iracheni, è riecheggiato tra le volte sottolineando i momenti più salienti della cerimonia di nomina del nuovo patriarca della chiesa cattolica caldea, Emmanuel III Delly.
Gli auguri del pontefice sono arrivati attraverso la voce del cardinale Ignazio Daoud Moussa, prefetto della Congregazione per le chiese orientali. Nel suo messaggio, Giovanni Paolo II ha rinnovato l’unione tra la chiesa caldea e quella romana che, con altee vicende, ha avuto inizio ben 502 anni fa quando dal monastero di Rabban Hormizd, nel nord dell’Iraq, l’abate Yohanna Sulaqa partì alla volta di Roma per ricercare l’unione che la chiesa d’Oriente, cui tutti i cristiani della Mesopotamia appartenevano, aveva perso nel 431 A.D. al Concilio di Efeso, quando era stata accusata di eresia per aver sposato la dottrina di Nestorio.
La nomina di mar («mio signore», in siriaco antico) Emmanuel III, come sarà chiamato dai suoi fedeli, non è stata priva di problemi. Prima di tutto è avvenuta in un momento molto delicato per la storia dell’Iraq; in secondo luogo, per essa si è dovuto fare ricorso al canone 72 del codice di diritto canonico per le chiese orientali, secondo il quale se, durante il sinodo elettivo, nessun candidato raggiunge almeno i 2/3 dei voti, la decisione sul nome del patriarca passa al pontefice romano. Nessun nome infatti era uscito dal sinodo tenutosi a Baghdad (dal 19 agosto al 2 settembre 2003).
La scelta di mar Emmanuel III appare allora il frutto di un’equilibrata politica vaticana tesa a dare alla chiesa cattolica caldea una guida spirituale in grado di sedare le tensioni venutesi a creare dopo la scomparsa (avvenuta a Beirut il 7 luglio 2003) del precedente patriarca, mar Raphael I Bedaweed, tra i vescovi residenti in Iraq e quelli della diaspora caldea, più risoluti a partecipare attivamente alla vita politica del paese.
Mar Delly, inoltre, sembra, almeno per ora, avere un atteggiamento più collaborativo nei riguardi dei nuovi organi di governo iracheni di quanto avrebbe potuto avere il defunto patriarca, distintosi negli anni nella difesa ad oltranza del governo di Saddam, ed essere, di conseguenza, più gradito agli stessi.

Mar Emmanuel III Karim Delly è nato a Telkeif, un villaggio vicino Mosul, nel 1927. Nominato vescovo nel 1963 ed arcivescovo nel 1967, si è ritirato nell’ottobre del 2002. Il 21 dicembre, data della cerimonia di consacrazione svoltasi a Baghdad, ha coinciso con il compimento del suo 53° anno di servizio sacerdotale.
Il giorno dopo la sua nomina romana lo abbiamo raggiunto per una breve intervista dai toni pacati.

Beatitudine (termine con cui ci si rivolge ai patriarchi caldei, ndr), la chiesa caldea, che accoglie circa il 70% dei cristiani iracheni ha di nuovo una guida spirituale. Che riflessi avrà la sua nomina, in un momento così delicato?
«La mia nomina non cambierà le cose perché il cammino della chiesa è immutabile nei secoli e la sua missione rimane quella di essere portatrice di pace e fratellanza come ci ha insegnato nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo bisogno di pace e serenità perché abbiamo sofferto troppo; le guerre contro i curdi e contro l’Iran, la guerra del Golfo, 13 anni di embargo ed ora questo conflitto non ancora finito hanno stremato la popolazione irachena, ed i cristiani non fanno eccezione.
I problemi sono ancora molti, così come sono molti gli iracheni, specialmente giovani, che vorrebbero abbandonare il paese. Prima volevano farlo per evitare il servizio militare che durava anni ed era durissimo, ora a spingerli sono le difficoltà economiche e quelle legate alla mancanza di sicurezza e lavoro. Purtroppo però è ancora molto difficile per gli iracheni ottenere i visti da paesi stranieri».

Come vede il futuro del paese?
«Nessuno in Iraq, cristiano o musulmano, voleva la guerra, perché la pace non si dà con essa, ma con il dialogo. Noi siamo grati alla Francia ed all’Italia la cui popolazione si è espressa contro la guerra. D’altra parte, colgo l’occasione per porgere le mie più sentite condoglianze alle famiglie dei carabinieri e dei soldati italiani che hanno perso la vita nell’attentato di Nassiriya. E per ringraziare tutti quei bravi ragazzi, italiani e non, che erano lì per servirci e proteggerci, ma purtroppo hanno trovato la morte».

Questi episodi sono atti di terrorismo o di resistenza?
«Bisognerebbe sapere chi li compie, ed io non lo so. Ciò che so è che nessun uomo di fede, che sia cristiano o musulmano, se segue le parole del vangelo o del corano, può compiere tali crimini. La maggior parte degli iracheni, infatti, non vi è coinvolta e non li approva, ma certamente ci sono ancora elementi fedeli al Baath, altri legati ad Al Qaeda e qualche paese straniero che vuole un Iraq instabile».

Qualche nome?
«L’Arabia Saudita, ad esempio, che non gradisce che l’Iraq diventi una democrazia e che le sue ricchezze possano essere, come ci auguriamo, patrimonio non più solo del regime, ma dell’intero popolo. Se così sarà, la famiglia saudita che invece detiene tutte le ricchezze del paese (che in campo petrolifero sono addirittura superiori a quelle irachene) potrebbe soffrire nel paragone con noi».
I tempi per il raggiungimento della pace hanno di gran lunga superato quelli della guerra intesa come confronto tra eserciti. Che speranze ci sono perché essa si realizzi?
«Ci hanno promesso la pace, ma per averla ci vuole pazienza ed io dico “dateci tempo, abbiate pazienza”. Dobbiamo sperare e chiediamo a tutto il mondo, quello cristiano e non, di pregare e di affidare a Dio il destino di questa terra di pace, la terra di Abramo».
Il nuovo corso della politica americana in Iraq vede un’accelerazione del disimpegno Usa nel paese ed un più rapido passaggio di potere agli iracheni. Qual è la sua opinione al riguardo?
«Certamente le truppe di occupazione dovranno lasciare l’Iraq, ma sarebbe auspicabile che lo facessero gradualmente. Se si comporteranno in maniera appropriata, saranno gli stessi iracheni a chiedere loro di rimanere».
Se ho ben compreso, lei dice che le truppe rimangano pure, ma a ben precise condizioni. Quali?
«A condizione che rivedano da subito i loro comportamenti. Non si possono uccidere 54 persone in un solo giorno accusandoli di essere terroristi, perché non tutti sono terroristi, come non tutti gli iracheni facevano parte del Baath, il partito al potere. Gli americani hanno anche sbagliato a licenziare tutti i funzionari, i soldati ed i poliziotti con l’accusa di complicità con il regime, perché così facendo hanno ridotto sul lastrico intere famiglie lasciate senza alcun reddito. Avrebbero dovuto distinguere tra i criminali da condannare e le persone normali».
Perché questa guerra?
«La guerra all’Iraq è stata fatta per tutti i beni che la terra irachena possiede. Volevano i nostri beni? Bene! Che se li prendano, ma che li usino a favore del popolo iracheno, depredato di essi dal passato regime che li usava per acquistare armi. Che li usino a favore delle popolazioni povere del Medio Oriente e dell’Africa».

Che rapporti ci sono ora tra la comunità cristiana e quella musulmana?
«Ottimi. Da quando sono stato nominato patriarca ho già ricevuto delle telefonate di congratulazioni proprio da alcun capi religiosi musulmani, sunniti e sciiti. Quando toerò in Iraq mi recherò personalmente nelle loro case per ringraziarli e iniziare il dialogo necessario per vivere in pace nel futuro».

Il ministero degli Affari religiosi che regolava ogni aspetto della vita religiosa del paese è stato sciolto. Chi e cosa ne fa le veci?
«Sono state create 3 distinte commissioni: una per i sunniti, una per gli sciiti ed una per i non musulmani che si occuperanno degli affari amministrativi. La presidenza della commissione per i non musulmani è stata affidata ad un cristiano cattolico caldeo».

I decreti che il regime di Saddam Hussein aveva approvato e che discriminavano la popolazione non cristiana sono ancora in vigore?
«Quasi tutti i decreti approvati dal Baath sono stati annullati. Ora possiamo battezzare i nostri bambini con qualsiasi nome: non dobbiamo più scegliere tra quelli biblici ma presenti anche nel corano, e non siamo più obbligati ad usare la loro versione araba.
Per quanto riguarda i figli di un genitore cristiano convertito all’islam, ai quali veniva di fatto imposta la conversione ad esso, è un problema non ancora risolto ma ho fiducia che lo possa essere nel futuro».

Potrete riaprire le scuole confessionali, confiscate e nazionalizzate in passato?
«Sì. Potremmo farlo fin da ora, ma abbiamo deciso di aspettare un po’. Le scuole hanno bisogno di essere rimesse a posto e gli insegnanti devono poter contare su adeguati stipendi. Tutte cose che, per ora, sono al di fuori della nostra portata, ma che sicuramente realizzeremo».

C’è ancora l’obbligo di dichiarare sui documenti di identità la propria appartenenza etnica (arabo o curdo) e la propria religione (musulmano o non musulmano)?
«Anche questo è un problema ancora non risolto. Ciò che io mi auguro è che un domani i nostri documenti possano riportare solo la scritta “iracheno” senza nessuna aggiunta. La religione è solo di Dio e spero che questo sarà ben chiaro nella nuova costituzione».

Che ruolo avrà la chiesa nel processo di pacificazione del paese?
«I capi religiosi iracheni, cristiani e musulmani, hanno il compito di instillare nei propri fedeli la pazienza di sopportare l’attuale situazione. Per quanto riguarda i cristiani il nostro dovere è di seguire le parole di San Paolo che ci hanno insegnato ad obbedire ai nostri superiori. Abbiamo obbedito al passato governo e lo faremo con il prossimo».

Quale sarà il suo coinvolgimento nel futuro politico del suo paese?
«Non bisogna chiedere ad un medico di costruire una casa perché quella casa crollerebbe, né chiedere da un ingegnere di operare un paziente perché quel paziente morirebbe, così non si può chiedere ad un religioso di fare il politico. Il compito dei capi spirituali, sia cristiani che musulmani, è conoscere la politica ma non impegnarsi attivamente in essa. Ciò che possiamo fare è guidare i nostri fedeli, consigliando loro la retta via, secondo i precetti della religione. Ma possiamo, appunto, solo consigliarli, non obbligarli. E sperare che seguano le nostre parole».

È troppo presto per valutare se il desiderio espresso dal nuovo patriarca caldeo di occuparsi delle anime dei suoi fedeli e non di politica potrà avverarsi. Certo dovrà lottare per farlo, se nel collegio romano, che ha ospitato i partecipanti al sinodo, a soli due giorni dalla sua nomina, era presente di persona, armato di volantini propagandistici, Minas Ibrahim al Yusufi, presidente di uno dei tanti partiti nati nel dopo Saddam, l’Iraqi Christian Democratic Party, alla ricerca di visibilità ed appoggi.

Luigia Storti




Iraq – Che succede tra Caldei e Assiri?

L’Iraq è un paese a maggioranza musulmana, ma è anche terra di antichissima cristianità, dove la parola di Dio giunse già dal 54 A.D., quando San Tommaso, nel suo viaggio verso l’Estremo Oriente, la predicò nell’area che ancora era chiamata Mesopotamia.
Guerre e persecuzioni hanno contribuito a diminuire drammaticamente il numero dei cristiani d’Iraq, ridotti oggi a non più di 600 mila. Sono pochi ed anche divisi i cristiani d’Iraq. Se non si contano le confessioni di derivazione anglosassone (protestanti, evangelici, avventisti) la maggior parte di essi appartengono alle chiese assira dell’est, sira, armena e soprattutto cattolica caldea che ne accoglie circa il 70%.
Nell’Iraq del dopo Saddam dove l’ansia di libertà si è concretizzata nel sorgere di una miriade di partiti (si dice ce ne siano già 85) anche i cristiani stanno cercando una loro visibilità politica. Per adesso, sono rappresentati, nell’Iraqi Goveing Council, il governo provvisorio iracheno voluto ed insediato dall’amministrazione Usa nel luglio scorso, da Yonadam Kanna, capo dell’Assyrian Democratic Movement, ma da subito questa nomina ha creato dei malumori, specialmente tra i membri della chiesa caldea che, forti del loro essere maggioritari, chiedono un proprio rappresentante nell’organismo di governo. Ne abbiamo parlato con monsignor Jacques Isaak, segretario generale del sinodo dei vescovi caldei e rettore dell’Università pontificia di Baghdad.

«Le differenze tra caldei ed assiri, che fanno quasi tutti capo alla chiesa assira dell’est, esistono – dice monsignor Isaak – e la più grossa è che la chiesa caldea vuole e riconosce l’autorità del pontefice romano, mentre la chiesa dell’est la rifiuta».
«Noi caldei, inoltre, rappresentiamo la maggioranza dei cristiani in Iraq, e sebbene il nostro atteggiamento verso i diversi poteri che si sono succeduti nel nostro paese sia sempre stato di maggiore accettazione rispetto a quello tenuto dagli assiri, ora è venuto il momento di avere una rappresentanza politica distinta».
Rappresentanza politica distinta chiesta ufficialmente da 19 vescovi sui 20 che hanno partecipato al sinodo che si è tenuto ad agosto a Baghdad per nominare il nuovo patriarca, e che hanno emesso a proposito un documento ufficiale ispirato da monsignor Sarhad Jammo, vescovo dell’eparchia di San Diego in Califoia.
«Ho cominciato a pensare che fosse necessario stabilire dei confini politici tra gli assiri ed i caldei già 30 anni fa – ci dice monsignor Jammo -, ma sono stato sempre frenato nel farlo dalla posizione ufficiale al riguardo assunta dal nostro precedente patriarca, Mar Bedaweed I, che nel 2000 dichiarò di essere un assiro dal punto di vista etnico ed un caldeo dal punto di vista religioso».
«Noi non accettiamo chi si fregia del titolo di rappresentante dei “caldeo-assiri” – continua monsignor Jammo – perché questo è un tentativo da parte degli assiri di inglobare i caldei e di fae un punto di forza. Gli assiri in Iraq sono pochi, e sanno di non poter contare nulla nel paese, se non in alleanza con i caldei. Sebbene già in passato io abbia riconosciuto la legittimità di entrambi i nomi, non accetto la denominazione comune di caldeo-assiro, e per questo sostengo il congresso dei partiti e delle associazioni caldee che si terrà a Baghdad il 24 febbraio del 2004, e che finalmente ci vedrà protagonisti non solo della vita religiosa del paese, ma anche di quella politica».
Gli assiri, pochi in Iraq e molti in diaspora, hanno un’abitudine radicata al confronto politico, i caldei, molti in Iraq e meno all’estero, solo ora, con la caduta del regime e la scomparsa del precedente patriarca, sono quindi liberi di esprimere le proprie rivendicazioni sulla scena politica.

Questi contrasti sicuramente daranno vita ad un dibattito che promette di essere agguerrito ed interessante, dal quale però è tenuta fuori l’istituzione che in Iraq vede lavorare insieme i cristiani: il Babel College, l’Università pontificia affiliata all’Università urbaniana di Roma, che accoglie studenti caldei, assiri, siri ed armeni.
Il Babel College è diretto da monsignor Jacques Isaak che ha proibito la diffusione di volantini e scritti che trattino la questione politica. È un uomo di cultura monsignor Isaak, e quali siano le sue posizioni politiche, vuole che esse non guastino l’atmosfera di collaborazione ed amicizia tra studenti appartenenti alle diverse chiese, che ha sempre caratterizzato il suo collegio.
«C’erano due studenti, un caldeo ed un assiro che distribuivano volantini al riguardo, li ho chiamati ed ho detto loro che erano liberi di farlo al di fuori delle mura del collegio, ma non all’interno. È nostro compito trasmettere i valori della cristianità ma anche offrire ai nostri studenti, la maggior parte laici, gli strumenti culturali adatti ad affrontare il futuro del paese. Bisogna tenere la cultura divisa dalla politica, almeno per ora, e dare ai giovani la possibilità di formarsi, studiando, un’opinione personale. Il dialogo potrà aiutare il paese nel cammino verso la pace, dialogo sia tra le diverse confessioni cristiane, sia con i musulmani: per capirsi bisogna parlarsi».
Il Pontifical Babel College di Baghdad, che accoglie studenti delle diverse confessioni cristiane, è in questo senso un’istituzione unica. Per l’anno accademico 2002-’03 gli studenti iscritti erano 280, la maggior parte laici e tra essi c’erano anche molte donne.
I corsi, che durano 7 anni e che comprendono materie come filosofia, teologia, lingua siriaca, araba ed inglese sono stati interrotti il 17 marzo, ma il giorno stesso della caduta della statua di Saddam in piazza al Furdus, evento che ha mediaticamente segnato la caduta del regime, si è tenuta la prima riunione operativa dei dirigenti del collegio.
Durante il conflitto le postazioni missilistiche che l’esercito iracheno aveva posto lungo le mura estee hanno fatto del collegio un bersaglio. I danni sono stati ingenti. Sono stati distrutti il Centro dell’Arte Sacra, la sala computer, molti infissi estei e l’impianto di condizionamento dell’aria, ma la volontà di ricominciare era tanta ed i lavori sono iniziati appena possibile con un criterio di priorità che potesse favorire la ripresa degli studi.
Infissi, impianti di condizionamento e nuovi servizi igienici hanno avuto la precedenza, ma si è proceduto anche al recupero del Centro dell’Arte Sacra e della sala computer che conta oggi 13 postazioni, ed alla sistemazione ed ampliamento della biblioteca per passare dai 12 posti a sedere ai 90 attuali, e per accogliere i libri che sono stati ad essa destinati per lasciti ereditari, compreso quello del defunto patriarca Mar Bedaweed I.
Ad aspettare, invece, dovrà essere la St. Aprham Hall, la sala conferenze da 750 posti la cui costruzione era iniziata da qualche anno. Nei giorni successivi alla caduta del regime i saccheggiatori hanno colpito anche il Babel College portando via ciò che era più facilmente asportabile. Nel caos generale monsignor Isaak aveva chiesto protezione agli americani che però non l’hanno accordata. A distanza di mesi quella mancata protezione è considerata provvidenziale. «Ora abbiamo solo 5 guardie armate, 3 musulmani e 2 cristiani, ed è meglio così. Se gli americani avessero accettato di proteggerci saremmo stati accomunati a loro. Il fatto che le guardie siano locali, invece, ci ha fino ad ora accordato una sorta di immunità perché la gente può distinguere tra noi, cristiani iracheni e gli americani, forza di occupazione».
Che i rapporti tra questa massima istituzione di studio cristiana ed il mondo musulmano siano improntati alla collaborazione più che allo scontro lo si capisce dal fatto che da quando, ad ottobre, i corsi sono ripresi, il numero dei docenti musulmani che si occupano dell’insegnamento della filosofia è passato da 5 a 7, e che ci sono già stati dei contatti tra il Babel College e la facoltà di studi islamici di Baghdad che ha richiesto un docente che possa spiegare agli studenti musulmani la storia del cristianesimo. Una facoltà ecumenica ed interreligiosa, quindi, che rappresenta una speranza ed un augurio in un paese che deve fare i conti con divisioni etniche e religiose.
I progetti per il Babel College sono molti, monsignor Isaak, malgrado impegnato anche a dirigere due riviste: Nagm al Mashrik (Stella d’Oriente) e Beit Nahrein (Mesopotamia) è un vulcano di idee ed iniziative.
«Vogliamo che il Babel College diventi anche una facoltà di lingue perché non è un bene che i nostri sacerdoti parlino solo l’arabo. A questo proposito abbiamo già contattato l’ambasciata di Francia che si è impegnata ad inviarci da Parigi un docente, ed anche l’ambasciata britannica. Speriamo, in un prossimo futuro, di poter insegnare anche l’italiano».
Oltre alla facoltà di teologia e filosofia il Babel College ospita il Cathechetical Christian Institute dove, in 3 anni di corsi, vengono formati i catechisti. Il college si trova in una zona difficile da raggiungere per molti studenti, e si è così deciso di trasferire temporaneamente i corsi presso la chiesa di Mar Elyia e di istituire dal prossimo anno una sede dell’istituto anche a Mosul per evitare agli studenti provenienti dalle regioni del nord il viaggio bisettimanale di andata e ritorno da Baghdad.
Molte idee e progetti quindi che sicuramente sotto la guida di monsignor Isaak si realizzeranno perché all’interno delle mura del collegio, ora libere da missili, tutti i cristiani, ed anche i musulmani, possano imparare a convivere pacificamente.
Luigia Storti

Luigia Storti




“La violenza è come un virus”

Lo scorso novembre l’ex dittatore Efraín Ríos Montt non è riuscito a farsi eleggere presidente. Ma questa è la sola buona notizia che proviene dal paese centroamericano. Dietro i colori sgargianti che contraddistinguono la sua gente, si nascondono povertà, disoccupazione e violenza. La guerra civile durata 36 anni è formalmente terminata, ma le ferite inferte al paese sono difficili da rimarginare. E gli accordi di pace del 1996 sono rimasti sulla carta.

«Gli avevano tagliato la lingua. Era bendato con fasce e cerotti sugli occhi. Aveva fori ovunque (…) Era irriconoscibile; solo perché io ho vissuto per molti anni con lui e sapevo di alcune cicatrici, capii che era mio marito» (1).
Sono due le date che caratterizzano la storia recente del Guatemala: dicembre 1996 e aprile 1998. La prima ha segnato la fine di una guerra civile durata 36 anni, la seconda la morte di una persona che su quei 36 anni aveva indagato svelandone le atrocità e le responsabilità.
Mons. Juan José Gerardi Conedera, vescovo ausiliario del Guatemala, era cornordinatore generale dell’«Ufficio per i diritti umani dell’arcivescovado guatemalteco» (Oficina de derechos humanos del Arzobispado de Guatemala, Odhag).
Fu assassinato domenica 26 aprile 1998, soltanto 48 ore dopo aver presentato, nella cattedrale metropolitana di Città del Guatemala, il rapporto Guatemala: nunca más, risultato finale del progetto interdiocesano Recuperación de la memoria histórica (Remhi).
Aveva detto: «Quando si affrontano temi economici e politici, molta gente reagisce dicendo: “perché la chiesa si occupa di queste cose?”. Vorrebbero che ci dedicassimo unicamente ai ministeri. Però la chiesa ha una missione da compiere nell’ordinamento della società, che comprende i valori etici, morali ed evangelici».
Valeva la pena spendere 3 anni di lavoro per raccogliere migliaia di interviste (individuali e collettive) in 15 idiomi maya? «Il chiarimento storico – si legge in una famosa lettera pastorale (2) – non solo è necessario, ma indispensabile perché il passato non si ripeta (…). Finché non si saprà la verità, le ferite del passato rimarranno aperte e non potranno cicatrizzarsi».
L’obiettivo di Nunca más era, pertanto, duplice: preservare la memoria storica attraverso l’accertamento dei fatti e tentare di ricostruire il tessuto sociale, disintegrato da 36 anni di atrocità.
«Conoscere la verità fa soffrire però è, senza dubbio, un’azione altamente salutare e liberatrice», aveva concluso mons. Gerardi, in quella domenica del 26 aprile 1998.

LE ORIGINI DEL CONFLITTO
Cosa dette origine a un conflitto durato dal 1960 al 1996? La risposta la troviamo nelle parole di monsignor Próspero Penados del Barrio, scritte nella presentazione del rapporto: «Se riflettiamo sulle condizioni in cui viveva un’altissima percentuale della popolazione, emarginata per la carenza delle sue più elementari necessità (cibo, salute, educazione, casa, salario dignitoso, diritto di organizzazione, rispetto del proprio pensiero politico, ecc…) che non le permetteva di svilupparsi nelle condizioni a cui ha diritto ogni essere umano; se riflettiamo sull’anarchia che viveva in quel momento il nostro paese (…); se pensiamo che per alcuni gruppi furono chiusi gli spazi politici, possiamo comprendere che la guerra (…) era qualcosa che non si poteva fermare. Il desiderio di cambiamento per creare una società più giusta e l’impossibilità di portarlo avanti (…) provocò un coinvolgimento nella rivoluzione non solo di coloro che volevano il cambiamento della società secondo logiche socialiste, ma di molti che – pur non essendo marxisti e non avendo una posizione politica impegnata – si convinsero e si videro costretti ad appoggiare un movimento che sembrava essere l’unica via possibile: la lotta armata».
Chi fu il vincitore della guerra?, si chiede monsignor del Barrio: «Tutti abbiamo perso. Non credo che alcuno abbia il cinismo di salire sul carro della vittoria carico di migliaia di morti (…)».
Nei 36 anni di guerra le vittime accertate furono almeno 200 mila. Per non parlare delle vittime indirette (bambini orfani e donne vedove), delle persone segnate per sempre dalla violenza, dei villaggi distrutti, delle comunità disgregate.

EFRAÍN RÍOS MONTT,
L’«UNTO DEL SIGNORE»

L’impegno della chiesa cattolica guatemalteca nella ricerca della pace trovò (e trova) il proprio contrappasso proprio nel modus operandi del generale Efraín Ríos Montt, che fece della religione uno strumento del proprio dominio, a tal punto da proclamarsi «unto del Signore».
In questo Ríos Montt non si è discostato dal comportamento di altri dittatori latinoamericani (si pensi al generale cileno Pinochet o alla giunta militare argentina), anche se il suo percorso personale è stato diverso.
Nel 1978 Ríos Montt abbandonò la fede cattolica e aderì alla Iglesia del Verbo, una setta evangelica-pentecostale di cui divenne pastore. I 17 mesi della sua dittatura (dal marzo 1982 all’agosto 1983) furono i più sanguinari della storia recente del Guatemala; gran parte dei massacri avvennero in quel breve periodo (192 nel solo 1982).
I suoi discorsi erano infarciti di citazioni bibliche. Lui, «unto del Signore», aveva il compito di combattere «i quattro cavalieri del moderno Apocalisse»: la fame, la miseria, l’ignoranza e la sovversione.
Ma chi erano i sovversivi? Chiunque, direttamente o indirettamente, potesse favorire la «minaccia comunista». L’attenzione di Ríos Montt si concentrò, in particolare, su contadini e indigeni, poiché – così si giustificava – la loro immaturità verso i valori patriottici e il loro analfabetismo li rendevano particolarmente vulnerabili di fronte al proselitismo del comunismo internazionale.
Nella concezione del generale-pastore a volte il «buon cristiano» deve sapersi districare «con la bibbia e con la mitraglietta».
«Il suo eloquio fanatico – ha scritto una guatemalteca vittima della dittatura (3) -, che manipolava i sentimenti e i timori religiosi, era trasmesso da radio e televisione in piccole dosi domenicali, nelle quali mescolava abilmente citazioni bibliche e messaggi che inducevano al senso di colpa».
Scrive il rapporto Nunca más: «Il far sentire le vittime e i sopravvissuti colpevoli e responsabili di quanto succedeva fu un elemento centrale nella strategia controinsurrezionale. Per raggiungere questo obiettivo, l’esercito utilizzò vari meccanismi, i più importanti dei quali furono: la propaganda e la guerra psicologica, la militarizzazione, le pressioni – con ogni mezzo – per ottenere la massima obbedienza, servendosi in particolare delle Patrullas de autodefensa civil e delle sétte religiose. (…) La paura di professare la religione cattolica, che l’esercito considerava una dottrina sovversiva, fu il motivo più frequente per bloccare la pratica religiosa nell’area rurale. Le pratiche religiose, tanto della religione maya come di quella cattolica, dovettero per forza cambiare a causa della perdita delle cappelle e dei luoghi sacri. (…) La penetrazione crescente delle sétte evangeliche, che cominciavano allora a diffondersi, colmò il vuoto religioso lasciato dalla repressione e fu favorita dall’esercito come una forma di controllo della gente.
Le sétte diffusero la loro versione della violenza, incolpando le vittime e promuovendo una ristrutturazione della vita religiosa delle comunità basata sulla separazione in piccoli gruppi, su messaggi di legittimazione del potere dell’esercito e di salvezza individuale, con cerimonie che favorivano lo sfogo emotivo di massa. La violenza divenne allora il più potente propulsore delle sétte evangeliche, con una grande diffusione in buona parte del paese».
Nonostante le pesantissime responsabilità nella guerra civile, il generale-pastore Efraín Ríos Montt, l’«unto del Signore», è riuscito a rimanere il vero uomo forte del paese centroamericano fino alle presidenziali del novembre 2003. E non è affatto detto che quella sconfitta elettorale lo abbia effettivamente posto fuori gioco…

LA VIOLENZA
COME STILE DI VITA

In tempi di guerra globale e continua, appaiono drammaticamente attuali le parole di Edgar Gutiérrez, responsabile del progetto Remhi: «La violenza è come un virus. Penetra in tutto il corpo e si propaga in forma epidemica. Quando diviene endemica, si trasforma in irrazionalità pura».
Su questo concetto della violenza come patologia sembrano concordare in molti.
«L’esercito – ha scritto Dante Liano (4) – non solo ha vinto la guerra con le armi, ma ha creato uno stile di vita fra la gente. La mentalità dominante è la violenza e dappertutto regna la volgarità da caserma, in un paese che era famoso per i modi cortesi e cerimoniosi. Quasi tutti girano armati e chi non lo fa, si circonda di guardie del corpo. Ci sono uomini armati con fucili a canne mozze nelle banche, nei magazzini, nei centri commerciali, nei parcheggi privati, negli ingressi alle zone ricche della capitale. (…) Forse, dopo una guerra durata quarant’anni in cui sono stati commessi dei massacri inauditi, il corollario naturale è questo: una società dominata da una mentalità violenta, arbitraria e prepotente».
Il problema è che oggi, a 7 anni dagli accordi di pace, in Guatemala non sono affatto mutate le situazioni che furono alla base del conflitto: povertà estrema, emarginazione, fame, disoccupazione, clima di impunità, corruzione, concentrazione delle terre in pochissime mani.
(Fine 1a. parte – continua)

(1) Caso n. 3031 datato 1981 riportato nel rapporto Nunca más.
(2) In Urge la verdadera paz, lettera della Conferenza episcopale del Guatemala (1996).
(3) «Il trionfo del genocida», di Ana Lucrecia Molina, su Latinoamerica n. 78 – 1.2002. Il fratello quindicenne di Ana fu sequestrato dall’esercito nel 1981.
(4) «Il vento del terrore», di Dante Liano, su Latinoamerica n. 73 – 4.2000. Liano, guatemalteco, insegna letteratura ispanoamericana a Milano.

Paolo Moiola




Guatemala – Donne dalla pelle dura

«Mio padre sparì per mano dei militari nella notte del 9 luglio 1982. Dopo tre giorni i militari tornarono e dissero a mia madre di non cercarlo più perché era già morto. La sua sorte non era stata uguale a quella di tanti altri che trascorsero anni, tra sofferenze infinite, nelle prigioni dell’esercito. Mio marito era un dirigente campesino. Scomparve nel maggio del 1985. Non ho mai saputo dove lo portarono, dove abbandonarono il suo corpo. Soprattutto non ho mai potuto dire con sicurezza ai miei figli se il loro papà sarebbe tornato».
I lunghi capelli neri le cadono sul coloratissimo scialle. Piccola e robusta come la maggior parte delle donne maya, Rosalina Tujuc ha lo sguardo di chi ne ha viste tante, ma il suo sorriso rimane dolce e disarmante. La sua storia fa rabbrividire, ma non è un’eccezione in Guatemala. Anzi, si può dire che sia la regola. I 36 anni di guerra civile hanno, infatti, prodotto 40.000 vedove. Nel 1988, un gruppo di queste decise di unire le forze in un’associazione battezzata Coordinadora nacional de viudas de Guatemala (Conavigua).
«Il nostro lavoro – ci spiega Rosalina – inizia nel settembre del 1988, quando donne dell’occidente e del nord cominciano a lavorare per fermare la militarizzazione del paese, per impedire che i nostri figli siano portati nelle caserme, ma anche per ritrovare i nostri mariti, i nostri familiari, assassinati dall’esercito e abbandonati in cimiteri clandestini. Un altro compito è quello di ricercare forme di sopravvivenza per le donne: il 25% delle donne che lavorano in Conavigua sono vedove di guerra. Ma ci sono anche donne sposate, nubili, madri nubili: quello che ci unisce è il desiderio comune di batterci, di lottare per la giustizia e contro l’impunità. All’inizio di questa esperienza la maggioranza di noi non sapeva o aveva appena imparato a parlare lo spagnolo; la gran parte non sapeva leggere né scrivere e quindi il nostro lavoro con le compagne era tutto a voce, orale».
Oggi Conavigua raggruppa circa 10 mila donne. Una realtà ancora più straordinaria, se si considera che essa è nata ed opera in un paese dove il machismo continua ad essere una caratteristica dominante della società.

Prima di lavorare con Conavigua, Rosalina Tujuc è stata deputata, arrivando anche a rivestire la carica di vicepresidente del parlamento guatemalteco. La sua conoscenza del paese è quindi molto approfondita.
«La situazione economica – spiega l’esponente maya – è molto difficile. La firma degli accordi di pace del dicembre 1996 ha portato a terminare con gli scontri armati, ma gli altri pilastri degli accordi non hanno avuto una reale attuazione. Per esempio, non sono riusciti a cambiare le strutture militari ed economiche del paese e quindi ancor meno si sono potuti risolvere i problemi della povertà, della discriminazione, dell’esclusione dei popoli indigeni.
In Guatemala la disoccupazione è grande. Gli accordi di pace avevano, tra l’altro, l’obiettivo di realizzare una serie di misure tributarie, che non sono state fatte; al contrario, si è proceduto con le privatizzazioni. I capitali privati, a quanto pare, non vengono investiti all’interno, ma vengono dirottati fuori dal paese. Quindi, direi che la situazione di povertà, prima concentrata nelle campagne, ora è diventata generalizzata. Tutto questo non ha permesso al Guatemala di aprirsi allo sviluppo economico.
Da un punto di vista politico, non si è riusciti ad organizzare un piano di sicurezza per tutti i cittadini; ancora oggi i più implicati in violazioni dei diritti umani continuano ad essere i membri della polizia. Assistiamo anche a continue intimidazioni, rivolte soprattutto contro le organizzazioni per i diritti umani: i loro uffici vengono assaliti, derubati dei computers, si arriva alle minacce di morte per chi vi lavora».
Prima di salutarci, torniamo a parlare della condizione delle donne, le più colpite dalla disastrosa situazione economica del paese.
«Le donne – ci conferma Rosalina – raggiungono il 60-70% di disoccupazione. Inoltre, quasi tutte le indigene non hanno un’educazione. Senza lavoro e senza speranza, dunque. Ma anche quando hanno un lavoro le donne sono vittime. Penso soprattutto alle zone urbane o comunque vicine alle città dove ci sono molte maquilas (fabbriche che producono esclusivamente per l’estero, ndr). In queste fabbriche non ci sono garanzie per un lavoro dignitoso e rispettoso della persona. Se però le donne cominciano a lottare per i loro diritti, subiscono violenze e torture. Quando non vengono uccise».
Pa.Mo.

Paolo Moiola




Noi, i figli dei marziani

Gli esperti di marketing, quelli che attraverso le giuste tecniche di lavaggio del cervello riescono a creare il bisogno per qualsiasi baggianata nell’indifeso consumatore occidentale, hanno come cardine del loro sapere un assunto: «Spàrala grossa, inventa, non avere limiti e non temere mai di essere ridicolo. Qualcuno riderà, ma qualcun altro ti seguirà e comprerà il tuo prodotto».
Claude Vorilhon, fondatore del culto raeliano, quando smise di fare il giornalista sportivo di scarso successo, divenne il profeta di questa «nuova religione» o, a seconda dei punti di vista, uno dei più grandi strateghi di marketing che la storia recente ricordi.
Il 13 dicembre del 1973, mentre girovagava nei pressi di una formazione vulcanica a Clermont Ferrand, nel cuore della Francia, venne rapito da alcuni alieni, alti come bambini; portatolo sulla loro astronave spaziale, essi gli impongono il nome di Rael (il messaggero) e gli comunicano una serie di consigli e rivelazioni sulle verità sull’Antico e sul Nuovo Testamento. Almeno questo è quello che lui racconta.
In un remoto passato, gli extraterrestri riuscirono a creare la vita artificialmente attraverso complesse tecniche di ingegneria genetica. Questo provocò una sollevazione popolare sul loro pianeta e gli scienziati, o elohim, ovvero «coloro che sono venuti dal cielo», vennero costretti a proseguire i loro esperimenti sulla terra, luogo sul quale nacque l’uomo attuale. Una storia un po’ complessa, ma comunque interessante.
L’uomo si ribellò e venne cacciato dal paradiso terrestre; successivamente, accoppiatosi con delle terrestri originarie, diede vita al popolo ebraico. Il resto ricalca più o meno le vicende principali della bibbia, dal diluvio universale, a Mosè, a Gesù… con l’aggiunta di qualche tocco di colore etnico, ad esempio l’inclusione di Maometto e Buddha tra i profeti.
Ma nel 1945, con lo scoppio della bomba atomica a Hiroscima, è iniziata l’epoca dell’apocalisse: la «rivelazione», l’era in cui la verità può essere presentata in termini scientifici e non più allegorici e simbolici.
Le sparate non mancano e l’unione della tecnologia con il sacro è un campo ancora abbastanza inesplorato. Rael racconta inoltre che, dopo la prima rivelazione, venne rapito ancora dagli ufo, che gli spiegarono chi fossero i suoi genitori: Jahvé, capo degli elohim, il babbo, e una donna rapita e inseminata artificialmente, la mamma.
Altre rivelazioni furono: l’inesistenza di Dio, del paradiso e dell’inferno; la presenza di un partito politico il cui capo è Satana, che vuole la distruzione degli uomini; l’inesistenza dell’anima e la ri-creazione post mortem di tutti i meritevoli sul pianeta degli elohim.

T utto questo, molto probabilmente, non bastava. Ci voleva il botto per avere un successo planetario e vendere il proprio brand (marchio) in tutto il mondo; e doveva essere davvero storico: tale da lasciare tutti senza fiato (o almeno coloro che hanno accesso ai mezzi di comunicazione).
Il botto è arrivato nel febbraio del 2003 e ha preso il nome di clonazione del primo essere umano nella storia. Nome della sventurata: Eva… Che fantasia! La notizia fece il giro del globo e, in poco tempo, la notorietà dei raeliani è diventata universale.
Mai nessuno aveva osato clonare un essere umano; ci avevano provato con le pecore, tori, topi, scarafaggi… ma con l’uomo mai. Troppe difficoltà tecniche, alti i rischi di creare mostri infelici, calpestata la morale, che, fino a prova contraria è quella che divide ancora il bene dal male.
Subito scattò lo scetticismo della comunità scientifica e l’anatema della chiesa, che duramente condannò l’avvenuto esperimento genetico. La prima venne rassicurata con vaghe promesse di test scientifici per provare l’avvenuta clonazione; mentre la seconda fu derisa e tacciata di oscurantismo.
Ovviamente, mai nessuno scienziato indipendente ha potuto confutare la veridicità delle affermazioni dei raeliani; il che fa capire che, fortunatamente, l’obbrobrio della creazione della vita in laboratorio è ancora lontano dall’essere concretizzato. Si capisce, soprattutto, che l’annuncio della clonazione era una pagliacciata per attirare l’attenzione e, quindi, denari da convogliare all’interno della comunità raeliana per il finanziamento delle varie attività, anche scientifiche, che portano avanti.
L a comunità raeliana conta circa 44 mila adepti in tutto il mondo, con la particolarità che essi, più o meno, credono nelle sparate teologiche di Rael, ma sono interessati soprattutto al finanziamento della ricerca scientifica, riguardante la clonazione umana. E chissà che un giorno, magari, i primi ad essere riprodotti saranno i soci. Infatti, la religione atea dei raeliani si è divisa in due branche: una spirituale e una scientifico finanziaria.
Nella prima, chiamata «struttura», ristrettissima e dove vivono solamente 1.500 persone, è presente una rigida gerarchia, con a capo Rael. E proprio perché è capo, egli gode anche di vantaggi pratici; quello più vistoso è costituito dall’«ordine degli angeli di Rael», cioè le sei donne che si prendono cura di lui. All’interno della comunità non esiste il matrimonio e la sessualità è molto disinvolta.
La seconda branca, invece, può vantare addirittura una società per azioni, la Clonaid, dove lavorano decine di scienziati, proiettati totalmente verso il raggiungimento della clonazione umana. Il laboratorio per gli esperimenti sarebbe alle Bahamas, dove pare che la clonazione sia legale.
Fenomeno marginale in fatto di proselitismo, il culto dei raeliani ha avuto un impatto mediatico senza precedenti nella storia delle religioni: nel giro di una settimana sono ascesi alla notorietà planetaria e hanno ottenuto lo scopo che si prefissavano, ovvero che si parlasse di loro, nel bene come nel male.
In Italia i raeliani sono circa 500, presenti in molte città e formano comunità piccole, ma ben organizzate, che propongono serate di dibattito e studio. Frequenti anche gli inviti nei vari talk show sulle più importanti emittenti nazionali, dove ovviamente amano stupire, sparandole grosse.
Da notare, però, che dopo la madre di tutte le sparate (la clonazione della bimba Eva), la loro smania di protagonismo è scemata e, da marzo, quasi non si hanno più notizie di loro e, soprattutto, della bimba. «Vi daremo tutte le risposte quando lo riterremo opportuno» sono soliti rispondere a chi fa notare che è passato un po’ di tempo dall’annuncio in mondovisione.
Concludiamo con il dire che il ritorno degli elohim è previsto per il 2035 e, per questo, è prevista la costruzione di Ufoland, una città religiosa tecnologica, che ospiterà gli illustri ospiti; il tutto, in Canada, che è anche la patria di Claude Vorilhon e paese dove hanno avuto maggiore successo i raeliani.

La prima puntata, dedicata alla televisione Tbne, è stata pubblicata su Missioni di settembre 2003.

Maurizio Pagliassotti




Una scintilla nell’incendio

Abbè Pierre, fondatore di Emmaus

Già partigiano e deputato all’Assemblea nazionale francese, l’Abbé Pierre resta l’anima carismatica di Emmaus, movimento
da lui fondato per dare speranza ai disperati
e lottare contro la miseria e le sue cause.
In questo incontro privilegiato con i lettori
di Missioni Consolata, egli rivela la sua visione sull’Africa e sul mondo, proiettata nel futuro.

Ouagadougou. Piccolo, con una lunga barba bianca e gli occhi azzurri vivissimi. Si sposta con l’aiuto di una sedia a rotelle o di un bastone. Eppure la sua presenza è costante, importante. Ha superato i 91 anni, ma è venuto in Africa per partecipare alla decima assemblea del movimento da lui fondato nel 1949. Sempre disponibile all’ascolto, ci accoglie nella sua stanza d’albergo il giorno della partenza, dopo una settimana passata tra riunioni plenarie, visite a gruppi e una marcia contro la miseria. Prima di tutto ci chiede di noi, ci fa raccontare. Capiamo di essere al cospetto di un grande…

Abbé Pierre, i conflitti nel mondo e in Africa sono in aumento, perché?

«In Africa essi derivano da gravi fattori specifici. All’epoca della colonizzazione furono tracciate le frontiere, senza tenere conto del passato e delle relazioni tra i diversi gruppi. Tale divisione, nella prima fase post coloniale, non provocava particolari rischi, perché gli eroi dell’indipendenza godevano di tale prestigio da disinnescare eventuali tensioni e mantenere i rispettivi paesi nella pace. Ma con la graduale sparizione di questa generazione di leaders, le aspirazioni separatiste si sono riaccese diventando motivi di conflitto.
Altre cause di guerra sono i problemi d’interesse e dominio, di potere economico e politico: molte guerre in Africa sono dovute alle ambizioni di personaggi che vogliono appropriarsi delle risorse del continente, materie prime, petrolio e minerali.
A tutto ciò si aggiungono le legittime proteste di popoli che si sentono sfruttati, impediti di sviluppare le potenzialità del proprio paese. Ne è un esempio la coltura del cotone in Burkina Faso: il paese è in ginocchio perché altri paesi produttori, come gli Stati Uniti, sovvenzionano i loro agricoltori, che possono vendere i loro prodotti a un prezzo inferiore al costo reale. Allo stesso modo milioni di tonnellate di cotone prodotto da vari paesi africani non trovano uno sbocco sul mercato mondiale. Questo può arrivare a essere un motivo d’insurrezione.
Se allarghiamo lo sguardo sul resto del mondo, vediamo che non ci sono solo le grandi guerre. C’è anche il terrorismo. Un gruppo di fanatici può mettere in ginocchio la più grande potenza del mondo, nonostante la sua impressionante forza tecnica e militare. Purtroppo stiamo constatando che le guerre di questo secolo appena cominciato non saranno solo quelle tradizionali, ma tendono a evolversi forme e manifestazioni di terrorismo».

Alcune grandi potenze occidentali hanno scelto una strategia di lotta al terrorismo…

«Non sarà facile né breve superarlo. Non dimentichiamo che in Europa abbiamo vissuto analoghi problemi e tensioni, con la differenza che non ci si combatteva con bombardieri ed elicotteri, ma a colpi di frecce e lance. Il terrore è stato superato in Occidente grazie all’impegno di personaggi eccezionali, con una vita evangelica diffusa a tutti gli strati della popolazione, facendo forza sul sentimento espresso nel Padre nostro, insegnando a ogni popolo a riconoscere la frateità con gli altri popoli.
È certo che, se non ci fosse stata questa predicazione del vangelo, le cose non si sarebbero potute evolvere come le vediamo oggi. Al tempo stesso, è evidente che, per fermare il terrorismo occorre un instancabile lavoro al fine di ottenere una diversa ripartizione delle ricchezze della terra; un’opera che si protrarrà per generazioni.
Sono due fattori della stessa importanza, benché su livelli diversi: uno è morale e interiore, l’altro politico e materiale».

Che consiglio darebbe a George Bush?

«Da un lato suggerirei di applicarsi a vivere i valori del vangelo nella vita personale; dall’altro di diventare competente nei problemi economici, politici del mondo, sempre più complessi, per potere poi sostenere quei governi che sono determinati di imboccare la strada della pace. Si tratta, al tempo stesso, di un problema intimo, di testimonianza di vita, e l’essere qualificato per esercitare una pressione positiva sugli stati».

Secondo lei, è possibile un vero sviluppo senza esclusione, ovvero la ridistribuzione di risorse a livello mondiale?

«Bisogna che i paesi poveri, come hanno dimostrato con determinazione nella recente conferenza di Cancun, si uniscano e si esprimano con un’unica voce sui problemi che hanno in comune. Questa conferenza, da tutti giudicata un fallimento, lascerà il segno nella storia: abbiamo visto tutti che le vittime dell’ingiustizia, in maniera inedita e inattesa, hanno fatto blocco e detto «no!». Questa presa di posizione degli stati del terzo mondo, uniti, è un avvenimento.
Bisogna incoraggiare ognuno di loro a continuare queste alleanze. Noi lavoriamo per fare una unione europea, ma c’è la necessità di un’unione africana forte e allo stesso tempo solidale con l’Asia e l’America Latina».

Quest’unità è stata fatta dai governanti dei paesi, ma la società civile che ruolo ha?

«I governi sono stati spinti a prendere tali posizioni perché sentivano che era quello che voleva la loro opinione pubblica. C’è stata una pressione, e questo li ha incoraggiati ad agire, per una vera democrazia, nella quale si è realizzato quello che voleva la gente».

La marcia che avete fatto come movimento Emmaus, a Ouagadougou, cosa voleva dire?

«Un piccolo segno. Ma è moltiplicando tali partecipazioni e prese di posizione che, nonostante la loro piccolezza, da un lato potremo diffondere e radicare la condivisione nello spirito evangelico, dall’altro rafforzare la resistenza alle grandi potenze.
Queste ultime non sono solo perversione e cupidigia, che rifiuta la condivisione; sono soprattutto causa di cecità. Se interroghiamo dei semplici cittadini negli Stati Uniti, ci rendiamo conto che non sono coscienti di quello che il loro governo sta facendo. Vuol dire che c’è un’educazione da fare «da popolo a popolo». E il vostro lavoro nella stampa è uno dei più validi strumenti».

Qual è il ruolo del movimento Emmaus nella società civile mondiale?

«È una scintilla in un incendio. Ognuno è molto piccolo, ne siamo coscienti. Qualsiasi partecipazione, in un qualsiasi movimento, è poco, ma è con tutte queste scintille che il fuoco diventa una forza capace di trasformare la materia!».

Emmaus dichiara «guerra alla povertà». Cosa vuol dire?

«Chiediamo che ogni famiglia abbia l’indispensabile, per dare ai bambini quello di cui hanno bisogno. Per questo è necessario trasformare noi stessi, per poi contagiare gli altri. San Francesco d’Assisi, per esempio, ha contribuito a stimolare queste evoluzioni interiori durante i secoli.
Allo stesso tempo ritorniamo sulla necessità di diventare competenti. I problemi mondiali attuali non hanno nulla a che fare con i dilettanti. Spesso, anche con le migliori buone intenzioni, facciamo delle stupidaggini e otteniamo risultati contrari a quello che volevamo. Come sacerdote, so di essere poco competente. Il mio ruolo è piuttosto quello di provocare il risveglio psicologico di ognuno: lavorare, studiare, essere ben informati per sapere disceere tra i programmi politici degli uni e degli altri, e appoggiare quelli positivi, mobilitando energie.
Ho 91 anni, si ricordi. È una follia».

Ma lei è sempre molto dinamico. Come lo spiega?

«Non ho spiegazioni; bisogna assolutamente farlo e anche voi dovete farlo. Dio mi ha lasciato la voce, ma ognuno di questi giorni di assemblea, di incontri personali, mi lascia sfinito. Quando mi vedono in forma arrivano tante chiamate, tutte valide, che mi chiedono di andare da una parte e dall’altra. Ma io non posso».

Come vede il futuro del movimento Emmaus?

«Non ho alcuna inquietudine, il movimento ha i suoi fondamenti, che si basano sul «Manifesto universale d’Emmaus», fatto 45 anni fa. In questi decenni il movimento ha conosciuto azioni di grande efficacia in determinati momenti storici; quotidianamente e ha portato avanti azioni minime, ma tutto ha contribuito al risveglio delle coscienze. Quando accolsi un uomo disperato, se mi avessero detto: «Un giorno ci saranno 400 persone di 47 paesi che si riuniranno nel centro dell’Africa per riprodurre le stesse azioni», io avrei detto: «Sognate!».
Certo, in ogni tappa e in ogni luogo del mondo è stato necessario trovare delle persone capaci e responsabili. Ma non ho inquietudini, a condizione che rinnoviamo periodicamente il nome e il fuoco di ciascuno, perché si rimetta a bruciare».

LA SVOLTA AFRICANA

Ouagadougou. H anno i colori dei quattro continenti, ma tutti con il loro bedge al collo: sono i 400 e più delegati di oltre 300 gruppi Emmaus, provenienti da 47 paesi dei quattro continenti. Per la loro decima assemblea generale (17-22 novembre 2003) hanno scelto Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.
Nella sala dei congressi dell’Uemoa, al tavolo di presidenza, spicca un anziano con la barba bianca, vestito di nero: è l’Abbé Pierre, il sacerdote francese che 50 anni fa fondò il movimento. Anima i dibattiti il presidente di Emmaus internazionale, Renzo Fior, responsabile della Comunità di Villafranca (VR), rieletto per altri 4 anni.
Con l’aiuto di esperti africani, discutono sulla situazione del mondo attuale, con le sue speranze e le sue ingiustizie. Quindi rieleggono le cariche, emendano gli statuti, tracciano le linee operative per i prossimi 4 anni.
La base del movimento Emmaus sono le comunità, aperte a quanti vogliono condividere vita, lavoro e solidarietà con i poveri del mondo. Identica rimane la convinzione del fondatore: anche le persone più semplici, o gli esclusi dalla società competitiva, sono capaci di «piccole-grandi cose» e di forti provocazioni. Due sono i pilastri del movimento: servire per primi i più sofferenti; lottare per distruggere le cause della miseria. «Il primo è più facile e immediato – afferma un delegato -; più difficile il secondo: richiede lavoro di riflessione, attività che vanno nel senso dell’autonomia, solidarietà di lunga durata».

E mmaus non impianta progetti nei paesi del Sud. Persone e gruppi che, conosciuta la filosofia del movimento, chiedono di entrarvi, prima si mettono in contatto con i rappresentanti nazionali o regionali; quindi seguono visite per stabilire legami di conoscenza e amicizia reciproca; infine prende forma la comunità.
«È importante che ogni gruppo faccia un’attività economica per raggiungere l’autosufficienza – spiega il presidente Renzo Fior -. Fin dall’inizio deve esserci questa preoccupazione, altrimenti si crea una relazione di assistenza e dipendenza, dove chi dona, vuole poi controllare e giudicare i progetti. Gli africani ci dicono: siamo noi che viviamo qui, conosciamo realtà, abitudini, tradizioni e difficoltà; quindi spetta a noi valutare; l’aiuto deve essere uno scambio e la verifica fatta insieme. Dobbiamo stare attenti a non sostituire un colonialismo economico politico con “colonialismo solidale” degli aiuti».
S e si eccettua quella iniziale di Montreal, l’Assemblea generale di Ouagadougou è la prima tenuta fuori dall’Europa. L’evento è stato possibile solo ora, perché, secondo gli statuti, tocca ai gruppi locali a organizzarla.
La scelta del Burkina Faso è stata motivata da vari fattori. Prima di tutto è proprio qui che, 10 anni fa, è sorto il primo gruppo Emmaus. Il secondo fattore deriva dalla posizione che il continente occupa, oggi, nel panorama mondiale: l’Africa è il continente dimenticato. «Tenendo il momento più alto della vita del nostro movimento in Burkina, uno dei paesi più poveri del mondo – continua il presidente – vogliamo dare un messaggio forte all’opinione pubblica. Inoltre abbiamo voluto dare alla gente del movimento la possibilità di conoscere l’Africa e di rendersi conto delle difficoltà in cui vivono gli africani».

È soddisfatto il presidente di Emmaus internazionale per i risultati? «Più che all’interno del movimento, l’Assemblea ha guardato all’esterno, al suo ruolo nella società civile mondiale, all’insegna dello slogan: “Insieme, agire, denunciare”. Insieme: perché crediamo nel valore del movimento. Agire: perché operiamo in situazioni di miseria e mancanza di diritti, cercando di ristabilire una certa giustizia. A partire da tale situazione abbiamo il diritto e dovere di denunciare.
Abbiamo sempre avuto questo ruolo, ma dopo quest’incontro la denuncia diventa pane l’agire quotidiano. Ma non è la denuncia del teorico, ma di gente semplice, che per tutta la settimana raccatta cose che gli altri buttano via, dà loro un valore e vi ricava quanto serve a realizzare tante attività. Se viene da un gruppo che agisce, la denuncia diventa più credibile. Se una realtà tanto piccola riesce a risolvere certi problemi, vuol dire che chi ha più possibilità e capacità potrebbe farlo in maniera definitiva.
I nuovi statuti di Emmaus non hanno niente di rivoluzionario, ma sono stati codificati vari punti in maniera chiara e sistematica: denunciamo la politica neoliberale e coloniale, le guerre come scelta dei paesi ricchi per continuare a sfruttare le risorse economiche dei paesi del Sud; denunciamo il blocco e la chiusura del nostro mondo sviluppato nei confronti dei prodotti che vengono dal Sud; denunciamo le politiche perverse degli organismi inteazionali che, con le loro proposte di aggiustamenti strutturali, aumentano il numero dei poveri e hanno creato un’altra forma di colonialismo, ammantata di preoccupazione per lo sviluppo».
I delegati hanno elaborato anche un documento con le linee di lavoro per i futuri quattro anni: un manuale operativo centrato su 5 temi: economia di giustizia, coscientizzazione liberatrice, nuovi stili di vita e di consumo, finanza etica, pace e nonviolenza, lotta al terrorismo.
«Sono cose molto concrete. E il fatto che i gruppi si sentono impegnati a metterle in pratica provoca una riflessione all’interno delle realtà locali e importanti conseguenze concrete. Circa la finanza etica, per esempio, la comunità deve verificare se esiste sul proprio territorio, mettersi in contatto e depositare i propri soldi. Il problema della pace spinge a denunciare la produzione e commercio di armi. Per i nuovi stili di vita si chiede a ogni comunità di fare un’analisi chiara sui consumi e cercare nuove forme di energia. La coscientizzazione liberatrice sprona a creare una coscienza critica nei confronti dei meccanismi di potere, insegnando le varie materie».

D all’Assemblea sono emerse anche le due anime del movimento Emmaus. Quella maggioritaria pensa a un’organizzazione forte, capace di rispondere alle sfide di oggi; quella minoritaria rivendica l’autonomia di gruppo. «Una parte di noi ha paura che tutto, attività e politica, venga deciso dall’alto. Nessuno vuole che succeda, poiché la vita di Emmaus nasce dai gruppi locali, non è decisa a tavolino, nelle discussioni fatte a Parigi o altrove. Tuttavia un movimento internazionale è un sostegno per il gruppo e amplificazione del problema – rincara il presidente e porta un esempio: «Alcuni gruppi indiani fanno un lavoro di difesa dei diritti degli intoccabili nel sud dell’India. Che questa lotta rimanga circoscritta nell’ambito indiano può essere utile; se invece, a partire da questa esperienza, si riesce ad allargae l’eco e il movimento la fa propria, le persone sul posto saranno meno esposte».
«Il risultato politico è positivo – conclude Renzo Fior -. Ma ci sono alcune remore ancora esistenti all’interno. La dichiarazione finale è passata quasi all’unanimità, ma essa non si è tradotta sulla parte politica degli statuti. Leggo comunque la volontà e la possibilità di poter lavorare, perché il movimento è già su questa strada».

Marco Bello