EGITTO – Glorie antiche e nuove miserie

Scorci di vita, arte e fede nella modea,
caotica e problematica città del Cairo.
È risorta l’antica biblioteca di Alessandria.

Incomincia alle quattro il canto del muezzin. È ancora buio e la voce è fonda, inquietante. Poi, canta il gallo. Dopo un’ora, il richiamo si ripete, più vicino, forte e insistente. Il suono vibra nell’aria: è tutto un richiamo, da moschea a moschea. Forse sono centinaia le moschee del Cairo e le più belle e antiche non sono lontane dal quartiere dove mi trovo.
Ieri ho percorso le strade tortuose, brulicanti di vita e traffico, che scendono dalla cittadella e si ricongiungono sotto le mura, a Bab Zuweila.
dall’alto di un minareto
Case e minareti dall’architettura preziosa, ma bisognose di restauri e pulizia, compongono un insieme di grande fascino, unico al mondo. Passano ancora i carretti con l’asino e i taxi sgangherati, ma audaci nell’evitare gli intoppi. Gli uomini per lo più fumano il narghilè o giocano a domino. Chi ha un commercio è grasso, seduto comodo, conta i soldi e fa lavorare qualche disgraziato, come servo. La vita pare quella del tempo dei mamelucchi, ha qualcosa di crudele. Le ingiustizie continuano e la sopravvivenza è dura.
Sono salita in cima al minareto di una delle tante moschee: una scala buia e stretta, piena di polvere e calcinacci, mi ha portato su un balconcino diroccato e polveroso. La vista al tramonto era commovente.
Il guardiano ha chiesto la mancia e mi ha lavato le mani con la sua bottiglia. La sporcizia è indescrivibile, copre ogni cosa. I tetti delle case sono terrazze colme di pattume e rifiuti. Le folate di vento sollevano la polvere e la spostano sulla città. Dicono che vivere e respirare, al Cairo, è come fumare un pacchetto di sigarette al giorno.
Ma la città mi affascina. Stamattina il cielo è limpido, dopo il vento della notte. Sono scesa in strada a cercare un luogo dove bere un tè. Nel quartiere non ci sono locali, tolto qualche fumeria per soli uomini. Ho chiesto informazioni e subito un signore mi ha portato una sedia e ha chiesto a un vecchietto magro, col turbante, di andare a farmi il tè. Il bottegaio vicino ha voluto pagare e mi ha pure dato da sgranocchiare una cialda di gelato.
Un drappello di curiosi si è fermato a darmi il benvenuto. Nel quartiere, la gente è accogliente. Molti sono cristiani e parlano francese. Chiese e scuole sono una accanto alle altre, con le moschee. Ci sono maroniti e greci ortodossi, cattolici di rito copto e armeni, melchiti, caldei e tanti altri, ma la grande maggioranza dei cristiani d’Egitto è copta. Le chiese sono numerose e i riti antichi durano ore e ore.
I francescani sono presenti in Egitto da 500 anni e hanno un santuario in città, Sant’Antonio, dove incontro il superiore provinciale, padre Samuele. Ai tempi delle crociate, san Francesco arrivò fin quaggiù, in Egitto, che è terra santa. A Damietta fu ricevuto dal sultano, che lo prese a benvolere. Ma prima, era stato imprigionato e picchiato.
«secolari», ovvero Laici

Ci sono anche egiziani che in moschea non ci vanno proprio. «Siamo secolari» mi dicono tre amici che incontro in un caffè di Zamalek, il bel quartiere residenziale nella grande isola sul Nilo, cuore della città. «Volete dire che siete laici?» domando. Non avevo mai sentito un’affermazione simile dai musulmani.
Gamal, Nabil e Ahmad sono giornalisti e ammettono di non andare mai a pregare. Lavorano per il più importante settimanale arabo, diffuso in tutto il mondo, Al Ahram. Ciascuno di loro è specializzato in un settore: economia, studi politici e strategici, politica internazionale.
Stiamo bevendo un cappuccino all’italiana: ho la sensazione di essere in una città europea. La loro mente è aperta, hanno viaggiato e conoscono il mondo. Non hanno evidentemente problemi economici e si confrontano spesso con persone di altre culture.
Cerco di sapere qualcosa di più sui problemi del paese, specialmente per quanto riguarda l’integralismo islamico. Ma non ottengo molto, solo notizie generiche. Più tardi, sfogliando il loro giornale, noto che anche le notizie pubblicate mancano di critica, sono elusive. Un articolo parla della carità pubblica durante l’epoca mamelucca, ma potrebbe andare bene anche nella situazione odiea: pochi eletti, che hanno grandi ricchezze, qualche volta si compiacciono di aprire un’istituzione di beneficenza per i molti diseredati.
La madonna «Sospesa»
Le carrozze del nuovissimo metrò sono stipate di studentesse che ritornano a casa dopo le lezioni. Quasi tutte hanno il velo sul capo. In pochi minuti, da piazza Ramses raggiungo il nucleo più antico del Cairo, la Babilonia di fondazione romana, del secondo secolo, di cui rimangono parte delle mura.
Un tempo ricca di chiese, è sempre stata la roccaforte del cristianesimo copto. Sono in corso lavori di restauro (era ora!) nelle cinque chiese cristiane rimaste, collegate tra loro da strette vie acciottolate. Ne trovo aperta solo una, quella dedicata alla Madonna, detta «la sospesa», perché costruita sopra i bastioni della porta romana.
Bishoy è uno studente universitario, che desidera fare conversazione in francese e in inglese. Originario di Wadi Natrun, è figlio di un avvocato e studia per diventare guida turistica. Insiste per accompagnarmi nella visita, parla anche un po’ di italiano e mi fa notare tutti i simbolismi nelle decorazioni della chiesa. L’iconostasi è in legno intarsiato, di cedro, ebano e avorio; il pulpito in marmo, con le tredici colonnine che simboleggiano gli apostoli e Gesù.
«I miei antenati hanno sempre pagato le tasse» afferma Bishoy, quando gli chiedo come è stato possibile mantenere la fede cristiana in tanti secoli di egemonia islamica. Per molti secoli, dopo l’invasione araba, pagare era l’unico modo per poter conservare la propria fede. Chi non poteva farlo, doveva convertirsi.
I copti, cristiani d’Egitto, sono molto forti e mantengono ottimi rapporti con i musulmani. Pare non si sentano assolutamente una minoranza, anche se sono solo 3 milioni. Due ministri dell’attuale governo sono copti, il nipote di Boutros B. Ghali (ex segretario generale dell’Onu) e una donna, anche lei di famiglia molto facoltosa.
Non ci resta che pregare!
Noha è orgogliosa di essere egiziana, ma ha passaporto canadese e lavora tra Dubai e Usa. Le vacanze le ha passate al Cairo, in famiglia, e ora ci troviamo in partenza insieme, all’aeroporto. Le ho appena confidato le mie perplessità su quello che ho visto e sentito in due settimane. Un islam forte, seguito e praticato come non avevo mai visto in altri paesi, moschee piene di uomini in preghiera, cinque volte al giorno, anche i bambini, che imparano dal papà a fare abluzioni e genuflessioni.
«Dove va il denaro del petrolio, del turismo, del canale di Suez? Questo presidente lo fa sparire, all’estero – spiega Noha -. Il suo entourage e la famiglia si sono arricchiti scandalosamente e continuano a sfruttare la situazione. La gente comune è disperata, paga le tasse e riceve paghe da fame».
Pare che l’Egitto stia passando una grave crisi economica. Persino le banche si rifiutano di soddisfare richieste di prelevamenti consistenti. «Quando si vive nella miseria più disperata – insiste Noha – non resta altro che pregare».
Coloro che vengono in gruppo per ammirare le ricche testimonianze di un’antica civiltà non si rendono conto della situazione reale del paese. Il nuovo aeroporto è ora collegato alla capitale da un viale fiorito, circondato da ville e alberghi di lusso; ma le guardie che vi fanno servizio, afferma l’amica egiziana, non ricevono più di 150 lire egiziane al mese (equivalente di 45 euro), gli spazzini circa 30.
Nel quartiere di Heliopolis vive anche Mubarak, in un palazzo fiabesco. «La verità non la trovi certamente sui giornali – aggiunge Noha, che collabora con alcune reti televisive americane -; il paese è tenuto sotto controllo col pugno di ferro. Ma la corruzione è a tutti i livelli. Esercito, polizia turistica e polizia segreta sono ovunque, specialmente nei luoghi frequentati dagli occidentali. Ma qui si può comprare chiunque, tutti sono corruttibili».
Altri dati me li fornisce Aldo, un tecnico di origine friulana che lavora in Egitto da sette anni. La sua vita l’ha trascorsa in cantieri di tutto il mondo. L’impresa francese per cui lavora ha costruito il metrò, ponti e sottopassi in città, e tra poco aprirà un cantiere di una diga sul Nilo, in alto Egitto. Dopo aver dato lavoro a migliaia di egiziani, ora ha incominciato a licenziare.
Aldo mi spiega: «Le imprese con più di 100 operai devono avere una moschea e lasciare il tempo ai dipendenti per partecipare alle cinque preghiere giornaliere. Nei primi tempi, i miei tecnici non andavano a pregare, ora ci vanno tutti!».
Un ingegnere riceve 300 euro al mese, ma se vuole far studiare i figli deve pagare una scuola privata: quelle buone costano molto care, fino a 1.500 euro al semestre. Gli operai ne prendono 75-100.
Gli italiani come Aldo sono numerosi in Egitto. «Avevo chiesto un appartamento piccolo, perché la mia famiglia non ha voluto seguirmi questa volta. Ma qui le case per gli stranieri, nei quartieri eleganti e pieni di verde, sono tutte molto ampie. Non ci sono mezze misure, come non esiste la classe media. Pochissimi hanno i soldi, gli altri sono poveri, ma pagano le tasse».
La situazione per il futuro si presenta tutt’altro che rosea.

DAI PAPIRI A INTERNET

F ondata da Alessandro Magno nel 332 a.C., Alessandria fu scelta da Tolomeo i (325-285), luogotenente del conquistatore macedone, come capitale dell’Egitto. Grande cultore del sapere, il monarca volle fae anche la capitale della cultura, con la raccolta sistematica di testi su tutto lo scibile del tempo, per preservarli e metterli a disposizione del pubblico. Con la collaborazione del letterato greco Demetrio Falerio, nel 292 a.C., diede vita a due istituzioni: la biblioteca e il museo. Nella prima venivano raccolti i testi; nel museo (casa delle muse) erano fatte le edizioni critiche dei testi e ricerche di carattere scientifico.
Museo e biblioteca furono una vera fucina di cultura. Di lì passarono i più grandi cervelli dell’epoca, tra i quali il matematico Euclide, il pittore Apelle, Erofilo di Calcedonia, fondatore dell’anatomia scientifica, il poeta Callimaco, Eratostene (244 a.C.), che calcolò la circonferenza terrestre, con uno scarto di appena 70 km.
Qui fu tradotta in greco la bibbia ebraica (la famosa traduzione dei Settanta), vennero scritte opere come il libro biblico della Sapienza e Filone cercò di armonizzare la teologia dell’Antico Testamento con la filosofia greca.
L’ambiente alessandrino ebbe un notevole influsso anche sul cristianesimo primitivo, soprattutto nel campo teologico e missionario.

S i dice che, ai tempi di Cleopatra, la biblioteca contenesse 700 mila opere, tra papiri e pergamene. Ma proprio durante il suo regno, 40 mila rotoli andarono in fumo, quando Giulio Cesare, nel 48 a.C., appiccò il fuoco alla flotta egiziana e le fiamme si propagarono anche alla biblioteca.
Più gravi furono gli incendi dei secoli seguenti, tra cui quello provocato da Zenobia, regina di Palmira, nel 269 d.C., dell’imperatore romano Diocleziano, nel 295, e di Teofilo o Cirillo, vescovi di Alessandria, nel 391.
Gli storici si sbizzarriscono per sviscerare le leggende e spiegare i motivi di tante distruzioni. La classe sacerdotale egiziana avversava gli scritti esoterici di altre religioni, con relativi segreti e formule di alta magia; i romani, cominciando da Cesare (si dubita che il rogo sia stato accidentale), temevano i testi di alchimia, con i quali l’Egitto avrebbe potuto cambiare il ferro in oro (così si credeva), mettendo a rischio la supremazia dell’impero romano; c’erano invidie campanilistiche tra Alessandria e Pergamo, altro centro culturale di quel tempo, dalla cui biblioteca Pompeo sottrasse 100 volumi per regalarli a Cleopatra. Infine, con lo sviluppo del cristianesimo, la biblioteca era l’ultima roccaforte del paganesimo.
Ma il colpo di grazia venne dalla conquista araba. Nel 642 Alessandria fu presa e saccheggiata dalle truppe del generale Amr Ibn-el-as. Un cristiano studioso di Aristotele, Giovanni Filopono, cercò di persuaderlo a risparmiare la grande biblioteca. Il generale chiese consiglio al suo sovrano, Omar i, califfo di Baghdad, che gli rispose: «Se i libri contengono cose difformi dal Corano, vanno distrutti perché non dicono il vero; se il loro contenuto si accorda col Corano, vanno distrutti ugualmente perché inutili».
Si dice che i rotoli furono usati come combustibile dei bagni termali della città, che erano circa 4 mila; ci vollero sei mesi per bruciarli tutti, incenerendo così il patrimonio culturale pazientemente raccolto per quasi un millennio.

A 14 secoli di distanza, un nuovo tentativo di raccogliere in un unico luogo il sapere umano. Sotto la direzione dell’Unesco e con i contributi inteazionali (1 milione di euro dall’Italia) è stata ricostruita, più o meno sui resti dell’antica, la nuova Bibliotheca Alexandrina, inaugurata ufficialmente il 16 ottobre 2002, destinata a diventare la più grande biblioteca del mondo: può contenere 8 milioni di volumi.
Per la struttura, il nuovo edificio non ha molto a che fare con l’antico. Si sviluppa in altezza per 11 piani: 4 nel sottosuolo e 7 in superficie; ha la forma di un disco solare (simbolo di Ra, il dio del sole) di 160 metri di diametro: un lato è rivolto verso il Mediterraneo, l’altro verso il cielo; il tetto assomiglia a un microchip, emblema di modeità.
I testi delle tradizioni religiose sono nei piani inferiori; in quelli superiori le scienze modee; nei piani più alti l’high tech. Anche la disposizione simboleggia l’incontro tra passato e presente, storia antica e modea.
La biblioteca è infatti dotata di modei supporti informatici, strumenti multimediali, audiovisivi, sofisticati strumenti ottici per analizzare nel dettaglio gli antichi papiri.
Sulla facciata del corpo principale sono incisi 4 mila caratteri, espressione di tutte le lingue del pianeta.
È dotata pure di un ottimo sistema antincendio. Eppure, all’inizio di marzo 2003, il fuoco sviluppatosi al quarto piano, ha distrutto molti uffici e intossicando lievemente una quarantina di persone, ma senza danni per le opere.
C’è ancora qualcuno che non vuole questa biblioteca?

B.B.

Claudia Caramanti




Il mago del fil di ferro

N el cuore del Burkina Faso, Ouagadougou si estende in tutte le direzioni, come una macchia d’olio su un piano senza barriere naturali. Da alcune centinaia di migliaia di abitanti degli inizi anni ’80 si stima oggi superi il milione e duecentomila, il 10% dell’intero paese. Continua l’esodo dei contadini dalle campagne in cerca di fortuna verso l’antica capitale dell’impero Mossì. Così i quartieri periferici si allargano, si gonfiano in una distesa di case basse, quasi tutte a un piano, massimo due.
La polvere è l’elemento onnipresente e, quando si solleva l’harmattan (il vento che soffia dal Sahara), avvolge ogni cosa. L’aria è resa irrespirabile da quel centinaio di migliaia di moto e motorini che sono diventati una caratteristica imprescindibile di questa città.
Solo in centro, alcuni palazzi a più piani, uffici amministrativi, banche, si elevano sul panorama urbano. Molti di questi edifici si concentrano lungo l’avenue Kwamé Nkrumah, la via dei grandi hotel e negozi con le vetrine della capitale. Ma intorno al corso a due carreggiate, girato l’angolo di una qualsiasi traversa, ci troviamo su strade sterrate, in un quartiere in cui molte case sono ancora in banko intonacato (mattoni di fango essiccato).
Siamo a Zangoetin, quartiere storico di Ouaga (come gli abitanti chiamano famigliarmente la città), che il governo ha deciso di demolire per edificarvi una zona commerciale, di strade asfaltate e palazzi con l’aria condizionata. È l’operazione Zaca, che porterà allo sfratto degli abitanti di cinque quartieri storici che, è previsto, saranno indennizzati.
Nei meandri
Entriamo in una di queste vie, a due passi dalla Nkrumah: è così stretta che due macchine non ci passano. Un’entrata sulla strada apre in una corte intea, piccola e piena di vita. Diverse porte di altrettante stanze danno sullo spazio aperto, ognuna è la dimora di una o più persone.
Ci accoglie un uomo di media corporatura, con le orecchie a sventola e un largo sorriso, a cui mancano un paio di denti. È Tasseré Derrà e questa è la casa di suo padre, dove la famiglia ha sempre vissuto per decenni. Il vecchio ha oggi più di cento anni.
Tasseré parla un buon francese, oltre che la sua lingua madre, il moore. Ha un problema a un piede, che lo costringe a camminare zoppicando. «Da piccolo – ricorda – ebbi una malattia e al dispensario mi fecero un’iniezione che mi paralizzò la gamba. Mia madre, allora, mi portò al suo villaggio di origine e qui i medici tradizionali, quelli che usano le erbe, riuscirono dopo vari giorni a farmi camminare».
Tasseré è un artista. Non solo. Con l’arte si guadagna la vita, sostiene la famiglia e dà lavoro ad alcuni ragazzi. È conosciuto nel paese e all’estero e tutto quello che fa, in pratica, lo costruisce con un solo semplice elemento: il fil di ferro.
«Sono nato a Ouaga nel 1962 e, all’età di 5 anni, mio padre mi mandò in Mali a frequentare la scuola coranica. Sono tornato nel ’74, a causa della guerra tra il Mali e l’Alto Volta, come si chiamava fino al 1984 il Burkina Faso. Qualche anno più tardi ho frequentato la scuola franco-araba di Ouaga, dove ho imparato il francese. Mi sono reso conto che stavo crescendo; mio padre invecchiava ed eravamo molto poveri. Decisi di lavorare e incominciai ad aiutare mio fratello commerciante a vendere al mercato».
La bicicletta
È qui, a Rood Woko, il grande mercato centrale di Ouagadougou, fatto costruire da Thomas Sankarà, il presidente rivoluzionario, negli anni ’80 e distrutto da un incendio lo scorso maggio, che il giovane vede macchinine fabbricate con il fil di ferro. Quasi ovunque, in Africa, i giochi per bambini sono semplici oggetti che sovente loro stessi ricavano con materiali di recupero: filo, scatolette di latta, strisce di camere d’aria. Un cerchione di bicicletta, un aquilone, le macchinine sono classici esempi.
Tasseré, per scherzo, inizia a copiare quanto vede, poi crea la moto e inventa una bicicletta giocattolo, con le parti meccaniche in movimento. «Alcuni amici francesi mi dissero che non avevano mai visto nulla di simile in Africa dell’ovest. Mi incoraggiarono e iniziai a produrre biciclette in fil di ferro».
Un giorno Pierre Ouedraogo, giornalista della televisione nazionale burkinabè, si mette sulle tracce dell’artigiano che fa biciclette. Un suo amico straniero gli aveva chiesto di trovarlo. «Philippe Chatela, dell’ong Enfants du Monde aveva visto una delle mie bici: dal 1991 al ’97 ne ordinò 650 pezzi».
Sotto tale stimolo, Tasseré inventa altri oggetti: portacandela, animali, portabiglietti da visita, oamenti, lampade, tutto rigorosamente in fil di ferro e si organizza per venderli.
Nel frattempo aveva insegnato ad alcuni bambini a fare le bici, e l’oggetto aveva invaso i mercati e chioschi di artigianato della capitale. «Ma non è la stessa qualità: oggi, come dieci anni fa, io faccio al massimo quattro bici in un giorno di lavoro. Gli altri ne fanno otto o dieci: e la differenza si vede».
Un ragazzo, Adama Zongo, resta a lavorare con lui. «Aveva 12 anni e, durante le vacanze scolastiche, suo padre lo affidava a me. Io gli ho insegnato tutto quello che so». Oggi Adama ha aperto il suo atelier e i due amici continuano a collaborare.
Incontro fatale
Nel ’98, l’artigiano incontra una coppia di padovani: Andrea e Federica Pozza, all’epoca residenti a Ouagadougou. «Andrea cercava un elefante in fil di ferro un po’ speciale. Piacque loro la mia realizzazione e ne ordinarono 100 per il loro matrimonio».
Inizia un’amicizia che avrà un certo peso nella vita di Tasseré. «Videro quello che producevo e portarono vari amici a comprare i miei oggetti. Ma, ancor più importante, mi insegnarono come meglio organizzare il lavoro. Per esempio, ad avere prodotti finiti in magazzino da proporre ai clienti, invece di lavorare solo su ordinazione, investire subito i ricavi in materiale. Federica mi ha insegnato l’uso del computer e della posta elettronica, strumento importante per avere ordini dall’estero. Nasce Artifer-creation».
Ma sono soprattutto i contatti umani e quella sua vivacità nel saperli sempre cogliere, che fanno la fortuna del mago del fil di ferro. Federica gli presenta Christophe.
Personaggio emblematico, direttore di grandi hotel a Parigi, questo francese ha lasciato tutto per creare, con un gruppo di artisti africani, la Fondazione Olorum a Ouagadougou. La fondazione crea arte modea africana che esporta in Europa.
Christophe aiuta Tasseré a esporre al Salone internazionale dell’artigianato di Ouagadougou (Siao), spazio dove ogni due anni artigiani e artisti di tutta l’Africa si ritrovano per mostrare i loro prodotti, vendere, scambiare contatti. «Era il Siao dell’anno 2000 e portai le mie opere al “padiglione della creatività”. Mi ero organizzato e lasciai una presentazione con numero di telefono e indirizzo di posta elettronica». Il talento fa il resto. Le opere piacciono e molti sono quelli che iniziano a contattare l’artigiano. Ma non basta. Christophe porta gli oggetti di fil di ferro fino alla Galerie Lafayette a Parigi.
Commercio… equo
Oggi Tasseré vende prevalentemente a stranieri, o a burkinabè che poi rivendono all’estero. Espone in modo permanente al Villaggio Artigianale di Ouagadougou, in alcuni mercati e in una boutique a Zogona, quartiere bene della capitale.
Grazie ancora a Federica e Andrea è entrato nel circuito del commercio equo in Italia: distribuisce attraverso la bottega La Tortuga di Padova; i suoi candelabri e animali in fil di ferro si possono trovare anche all’ong Cisv di Torino.
C’è poi una squadra ciclistica di Padova, la «Castellana», che continua ad acquistargli partite di biciclettine con i pedali che fanno girare la ruota posteriore.
Con lui lavorano in modo permanente quattro ragazzi di 16 e 17 anni, di cui uno è suo figlio. Gli altri sono della famiglia allargata e lui li alloggia e li nutre. Si è trasferito in una zona periferica di Ouaga, dove ha costruito una casa per sé e la famiglia con una piccola sala esposizione-vendita e un atelier per la fabbricazione.
I materiali sono sempre gli stessi: fil di ferro galvanizzato da 2 millimetri è il più usato.
Altre sezioni di fil di ferro (o di rame, come quello recuperato dai motori elettrici), bombolette di insetticidi, da cui ricava parti per i portacandele, perline di terracotta che produce suo fratello, vernice di vario colore.
«Cerco di migliorare sempre, aggiungendo piccoli particolari, come la terracotta». Studia nuove forme e sta sperimentando lavori con ferri più grossi, per i quali deve utilizzare la saldatura.
Continua a seguire la sua vocazione di insegnante: tiene corsi di «atelier di fil di ferro» ai bambini delle elementari di una nota scuola francese da ormai cinque anni e corsi privati a chi vuole cimentarsi con il filo.
Nella sua attività oggi pensa e realizza le nuove creazioni, tiene i contatti con i clienti (varie ambasciate, privati e vendita all’estero), partecipa a mercati natalizi e promuove il suo prodotto. Non è mai fermo: o muove le mani o è in sella del suo motorino per le vie della capitale. •

Marco Bello




All’ombra dei faraoni

Fuori dai grandi circuiti turistici,
la vita di gente semplice e povera.
Sempre in bilico
tra rivalità religiose,
sforzo di accoglienza e qualche… dispetto.

D opo giorni roventi e afosi, ha piovuto. Una bufera di vento, seguita da enormi goccioloni, presto assorbiti dalla terra. Oggi il cielo è rosato e il mare blu. Una brezza leggera s’infila nei vicoli, dove nessuno si è mai curato di rimuovere mucchi di rifiuti.
Siamo a El Quseir, porto abbandonato sul mar Rosso, da dove solevano partire i pellegrini per La Mecca. Restano le barche in secca e qualche bell’edificio in stile arabo-turco sul lungomare. Un signore svedese si è invaghito di questo posto e vi ha fondato un centro per scambi culturali tra insegnanti.
due santini
Incontro Peter e Alex, due giovani svedesi che stanno finendo il loro stage di sei mesi, entusiasti dell’esperienza, anche se ammettono di avere trovato qualche difficoltà di ambientamento. L’unica ragazza è già ritornata a casa, non ce la faceva più.
Per arrivare quaggiù, dal Cairo, ci sono volute quasi dieci ore di pullman, comprese le fermate: la prima, dopo Suez, lungo la costa arida e vuota; la seconda, per il cambio autista, a Hurghada. Siamo arrivati che era buio, dopo le dieci, ma chi continuava il viaggio fino in Sudan sarebbe giunto alle cinque del mattino.
Sono passata da Teresa, per salutare la famiglia. Il marito era in un angolo, accovacciato sulla sedia. Una gran febbre (forse la polio), da bambino, lo ha lasciato handicappato; ora si sposta solo con una moto speciale, datagli dallo stato. Così può anche andare a lavorare all’ufficio postale; ma oggi è a casa. Una stanzetta sul vicolo, dove parcheggia la moto, e altre due sul retro, tutte dipinte in un bel colore azzurro, per la moglie e due bambine.
Per sposarsi, Edel era andato a Esna, vicino a Luxor, dove c’è una comunità cristiana. Ha trovato Teresa, una ragazza povera, ma bella e molto dolce. Le bambine sono sagge, per la loro età. Marsa e Mariam mi mostrano le immagini incoiciate della Vergine e santa Barbara. Poi Edel mi regala due santini: la Madonna e san Giorgio, che qui chiamano Mar Girgis e venerano molto. Giù nel vicolo ci sono le botteghe del sarto e del ciabattino. Sono tutti cristiani copti. Loro lavorano fino a sera tardi, mentre il resto del paese bighellona tra fumerie e caffè.
La fabbrica italiana di fosfati è chiusa e gli italiani se ne sono andati da molti anni. Restano le case per i tecnici sul lungomare e il complesso di palazzine e capannoni, con la chiesetta. Tutto del 1920, in stile italiano dell’epoca. I camion arrugginiti e il piazzale vuoto mettono malinconia, ma la chiesa è stata ceduta a due abuna copti, che vivono nella casa accanto, con le loro famiglie.
In tutto ci saranno una trentina di famiglie copte in paese, che hanno ottimi rapporti con il resto della comunità. Le tensioni del Cairo e delle città sul Nilo qui sembrano smorzate dalla brezza del mare. Un mare bellissimo, ricco di pesci e meraviglie, ma che rischia di venire sfruttato: tra qualche mese si aprirà un nuovo aeroporto e, forse, questa cittadina perderà l’atmosfera antica.
seduzione… occidentale
Il padre di Nasser, El Sudany, lavorava nella miniera di fosfati. Beduino del Sinai, anche se il nome tradisce un’origine sudanese, ora deve fare molti chilometri per raggiungere l’impianto di Safaga, l’unico ancora in funzione. Nasser, invece, fa il guardiano alla centrale, ma stasera ci ha invitato a casa sua: la moglie preparerà il pesce.
Il matrimonio è stato combinato dalle famiglie, come d’uso, ma Nasser è inquieto e vorrebbe cambiare stile di vita. Lo stato gli ha dato in affitto un appartamento in periferia e lui l’ha arredato con mobili vistosi e lucidi, comprati con i soldi di due stagioni da tassista a Hurghada.
La moglie dovrebbe essere felice, con le due belle bambine, visto il relativo benessere della famigliola. Ma Nasser non è più lo stesso, da quando ha visto la vita degli occidentali. «Le russe sono bellissime», mi dice; ma poi aggiunge: «Hanno uomini mafiosi, sono gelide, cattive». E preferisce gli italiani e, appena può, scende in paese a cercarli.
Lasciamo il mar Rosso con Nasser che, per accompagnarci, si è fatto prestare un’auto quasi nuova. A Safaga ci uniamo al convoglio scortato dalla polizia e andiamo veloci, attraverso le montagne e il deserto.
Prima di Qena, si scatena il finimondo. I grossi pullman pieni di turisti fanno a gara per arrivare primi, superandosi con manovre rischiose, a più di 100 all’ora, senza rispettare le distanze. Questa, per loro, è la gita a Luxor, un breve intervallo culturale durante la vacanza. Molti gli italiani, francesi, tedeschi e russi. Ho notato che le donne sono spesso vestite in modo indecente, con calzoni corti e maglie scollate. Mi pare offensivo e pericoloso, in un paese islamico tradizionalista. Un motivo in più per farsi odiare.
La città di Luxor (antica Tebe, capitale dell’Alto Egitto), con i suoi templi e necropoli, non ha perso il suo fascino, nonostante il turismo di massa. I turisti sono sulle navi da crociera e pochi si avventurano nelle sue strade, piene di vita. La casa di Schiapparelli, il famoso archeologo italiano autore di importanti scoperte, è ora affidata alle suore francescane del Cuore immacolato di Maria. Sono egiziane e alcune di loro giovanissime.
Suor Carmelita è qui da 14 anni, ma è originaria di Malta. Oggi è molto arrabbiata, ma non vuole assolutamente che lo scriva. «La polizia segreta lo verrebbe a sapere e noi passeremmo dei guai. Controllano tutto, chi va e chi viene. Non possiamo fare nulla, neppure dare il bianco in cortile, senza il loro permesso» dice indignata.
Le suore gestiscono una scuola, un dispensario e un piccolo orfanotrofio, dove vengono curati gli orfani dei villaggi cattolici. Ma anche quello è meglio non dirlo. «I villaggi cattolici, sparsi nelle campagne intorno a Luxor, sono molto poveri. Nostro compito è quello di aiutarli a non perdere la fede».
Quello che la scandalizza è lo stile di vita dei musulmani. «Appena hanno due soldi, fanno gli schiavisti: prendono un poveraccio – qui se ne trovano sempre di disgraziati – lo fanno lavorare come una bestia e loro si siedono a far niente!».
una «calda» atmosfera
Accanto alle suore, la chiesa e la casa dei padri. Due i frati, un anziano italiano e l’egiziano padre Cyrillus: un viso da faraone con barba e occhi vivaci dietro le lenti spesse.
Per tanti anni Cyrillus ha vissuto ad Assyut, una città più a nord, sul Nilo, dove c’è una chiesa bellissima e un vescovo che porta il suo stesso nome. Ma è impossibile andarci: la polizia non permette agli stranieri di viaggiare fuori Luxor, eccetto che con un convoglio scortato. Ci sono stati disordini e uccisioni di cristiani, ma Cyrillus minimizza. «Ho sempre avuto un ottimo rapporto con musulmani e polizia. Bisogna fare le cose alla luce del sole. Chiedo, spiego i lavori che intendo fare e loro me lo permettono. Anzi, sono contenti. Noi lavoriamo per la popolazione».
Anche coi copti le cose vanno bene; anzi, sono proprio le suorine copte del monastero di san Taddeo che preparano e ricamano le tonache al padre francescano.
Accompagno padre Cyrillus nel deserto, in un pomeriggio rovente: il termometro supera i 38°. Attraversiamo il nuovo ponte sul Nilo. Il paesaggio è stupendo: i campi rigogliosi sono bordati da palmeti e le fattorie sembrano castelli di fango.
Lasciamo la strada asfaltata che conduce a Medinet Habu, il tempio di Ramses iii, e troviamo con qualche difficoltà la pista che conduce alla bassa costruzione di fango, oata da numerose, piccole cupole.
L’interno del monastero richiama la struttura di un’antica moschea: il cortile è circondato da celle a cupola; la chiesa è un labirinto di archi bassi come tende beduine; i tappeti logori e polverosi sul pavimento di pietra. Suor Anastasia ci apre il portone e madre Eufemia ci accoglie con grandi sorrisi. Hanno abito, tonaca e copricapo neri, col velo che incoicia il volto, stretto al mento. Luce e aria provengono da fori al centro delle cupole; il caldo sfinisce e, nell’attesa, ci viene offerta l’acqua del pozzo, nelle anfore di coccio, fresche e umide. Il padre scherza e l’atmosfera è serena. Non sento la tensione che pare vi sia tra ortodossi e cattolici.
Emil, il tassinaro
La moglie è mancata da pochi mesi e lui si occupa delle bambine. Sono tre, molto carine, bene educate e si chiamano Maryam, Mariana e Madonna. Quest’ultima ha un sorriso grande più di lei, che ha solo 10 anni. Gli occhi sgranati della mamma, quasi spaventati, mi guardano da una foto grande, appesa alla parete del piccolo soggiorno della loro casa, nel centro di Luxor. La povera donna soffriva da alcuni anni, ma solo da pochi mesi avevano scoperto il tumore allo stomaco che l’ha stroncata. Emil è rimasto solo e in casa ha pure mamma e suocera anziane da accudire. Ma è un uomo in gamba, si è fatto tutto da solo. Da niente, ora ha due pullman e tre taxi. I rapporti con la polizia sono ottimi e si fa stimare da tutti.
Emil è cattolico, ma in chiesa nessuno l’ha mai visto. Ci andava sua moglie alla messa, regolarmente, e ci portava le bambine. «Una donna molto pia», mi aveva detto padre Cyrillus. Questa sera sono invitata a cena e le ragazze mi circondano e premono con le loro domande ingenue. Studiano l’inglese, ma è chiaro che non hanno mai fatto una vera conversazione. Il pollo è buonissimo e l’insalata pure; così pure le banane, mature e dolcissime.
Passiamo nella stanza di famiglia, anch’essa decorata con tante foto del padrone di casa. Qui incontro il professore che dà ripetizioni di inglese alle ragazze. Un modo per arrotondare il magro stipendio di insegnante e dare una mano a Emil, che è preoccupato per le figlie e vuole dare loro una buona educazione.
Domani partirò e mi dispiace. Mi sono sentita bene, accolta come amica anche in questo paese. Ho visto cose bellissime. La tomba di Nefertari, la grazia delle immagini della regina e delle divinità, i colori vivi, i templi grandiosi. Ne avrò certamente nostalgia.
la culla dei faraoni
Assuan si trova in Nubia, una regione desertica tra Alto Egitto e Sudan, fino al xv secolo tutta cristiana.
Nel museo della Nubia, da poco inaugurato da Mubarak sulla collina che domina la prima cateratta del Nilo, vi sono le foto dei resti di numerose chiese e monasteri, risalenti ai primi secoli. Il museo è riparatore dell’ultima delle violenze subite da questo popolo fiero e bello. Il lago Nasser, creato con la grande diga, ha costretto gli abitanti delle rive del Nilo a migrare al nord, lasciando gli antichi villaggi di case di fango.
La bellezza della prima cateratta mi era rimasta nel cuore, dalla mia prima visita in Egitto, 15 anni fa. Ora il paesaggio è stato aggredito dalla speculazione edilizia: su una delle preziose isole, dalla vegetazione rara, è stato costruito un enorme albergo a cinque stelle, pare di proprietà del figlio del presidente.
Su una feluca, tradizionale e bella imbarcazione a vela, sospinta dalla brezza del mattino e guidata da due marinai nubiani, risaliremo fino all’isola di Sehel, sotto la vecchia diga. I massi di granito portano i segni dell’acqua che si è ritirata. L’isola, un tempo, era verde e coltivata; ora è un deserto, con le belle case nubiane dipinte di giallo e blu. La gente è povera; i giovani lavorano in città e il villaggio sopravvive come un museo all’aperto.
Sulla via del ritorno, mi fermo sull’isola Elefantina, che si trova nel centro di Assuan. Qui le case nubiane sono ancora più povere e la sporcizia invade le strade polverose. Eppure, è un luogo importante nell’antica storia d’Egitto: da qui vennero i faraoni della quinta dinastia.
la sfida
Oggi sono riuscita a sentire le campane. Mi hanno dato gioia: erano le sei del mattino. Di solito sento solo il richiamo del muezzin, che mi angoscia. Ho dovuto attraversare la città per arrivare nella piccola chiesa dei comboniani, nel cuore della città e del mercato.
È la domenica delle palme e i cristiani li riconosci per via di quelle sottili foglie che da ieri portano sottobraccio. Trovo padre Vittorio assorto, in piedi davanti al portone, sorvegliato da due giovani poliziotti col mitra.
Originario di Padova, dopo un periodo in Libano e 20 anni in Sudan, è approdato qui, in Alto Egitto. Le sue parole sono soffocate dal grido del muezzin. L’altoparlante della moschea vicina è posizionato in direzione della chiesa. «Fanno sempre così: lo fanno apposta, quasi per sfida».
Padre Vittorio è molto polemico e mi invita a entrare nel suo ufficio. Parliamo della guerra dimenticata, in Sudan, dove si continua a bombardare qualsiasi cosa, mandrie e villaggi. «In Sudan sono stati uccisi tre milioni di persone, una vera pulizia etnica. Le cause? Il paese è ricco di petrolio, uranio e altri minerali». Naturalmente sono sempre i cristiani i primi a essere perseguitati. Devono sparire, deve vincere l’islam, come vuole il governo fondamentalista.
Vittorio poi mi indica, accanto alla chiesa cattolica, la scuola tenuta dalle suore. Alcune sono italiane. «I maggiorenti della città iscrivono qui i loro figli e gli allievi sono per metà musulmani. Non ci sono problemi tra i ragazzi; ma l’islam rivela presto il suo lato aggressivo. Una sposa cristiana è molto ambita nelle ricche famiglie islamiche. Ma i figli devono crescere nella fede del padre; anche la sposa finisce poi per perdere i contatti con la chiesa».
Il missionario mi fa anche notare un altro problema. I cristiani sono pochissimi e, non potendosi sposare che tra di loro, rischiano pure di avere generazioni segnate da tare ereditarie. Anche i rapporti con i copti sono difficili, per i cattolici; migliori sono quelli con i musulmani, di cui condividono una certa mentalità. •
(continua)

Claudia Caramanti




Cara Anna maria

CARLO
URBANI
lettere
a una
claustrale

Solo dopo la sua morte è venuto alla ribalta l’impegno umanitario, professionale e scientifico di Carlo Urbani.
Una prima biografia ne delinea anche il suo mondo interiore, con molti scritti inediti e privati, tra i quali le lettere a suor Anna Maria Vissini, sua «assistente spirituale», del monastero di Castelplanio.
Ne pubblichiamo alcuni stralci,da cui traspaiono fede, ideali e valori di un uomo che si è donato senza posa.

«Le lettere, alcune delle più significative, che dono alla lettura di chi desidera entrare nell’interiorità di Carlo, manifestano anche la particolare relazione spirituale che ha avuto con me, in quanto religiosa e sorella nel Signore. Esse sono come una piccola finestra sul balcone del mondo, da cui esce un fascio di luce così intensa da stupirci: un faro che, illuminando la realtà e le vicende dell’oggi, permette di individuare i lati più luminosi della generosità e della forza d’animo». (Suor Anna Maria)
VOGLIO TORNARE A VOLARE
C ara suor Anna Maria,
non è facile scriverti. Ho pochi argomenti per brillanti conversazioni, ne avevo. Ho poca possibilità di farti sorridere, ne avevo. Ho pochi progetti da esporti, per farti brillare gli occhi, ma ne avevo. E se già stai pensando «ma guarda questo come si è depresso, che momentaccio che ha scelto per scrivermi», credimi se ti dico che ti sbagli. Ho scelto un momento in cui mi sento più sereno…
Da adolescente, verso il 2°-3° anno di liceo, seguivo un personaggio carismatico: l’insegnante di filosofia. In freddi pomeriggi invernali, io e un gruppetto di compagni andavamo a farle visita. Davanti a una tazza di tè, parlavamo dei personaggi nei quali più credevamo: noi. A tuo ci faceva sedere al centro del salotto e autorizzava gli altri a martellare di domande il protagonista dell’incontro.
A volte le domande graffiavano, colpivano nell’intimo, con la cattiveria che in quegli anni era utilizzata come arma: qualcuno scoppiava a piangere. Poi lei mediava, aiutava, suggeriva e concludeva, disegnando sempre, con nostro grande stupore, i tratti della personalità dell’intervistato. Quando venne il mio tuo non piansi; anzi, riuscivo a divertire i compagni e la professoressa, rispondendo in modo brillante e ironico a tutte le domande…
Quella sera uscimmo tutti con allegria e insieme con la professoressa andammo a prendere una pizza. Per il freddo camminavamo a braccetto; la mia insegnante si strinse al mio fianco: «Carlo, ammiro la tua forza; so che non ti mancherà mai e che ti permetterà grossi traguardi».
Ricordo bene quelle parole, perché da allora ogni tanto me le ripeto. Allora, a 17 anni, sentirmele dire da chi ritenevo una grande autorità, fine conoscitrice della psiche, è stata una incredibile vittoria. Divenni così anche più forte…
Crebbi con questo motto: so difendermi. Con gli anni conobbi sempre prove più impegnative, dure, dolorose. Conobbi il dolore di altri e passai pomeriggi per cercare di trasmettere questo mio pensare positivo all’amico in difficoltà.
Maturavo col tempo nella fede: riuscivo tanto bene a trasmettere speranza che mi trovai invitato a predicare in una settimana missionaria in un paese del Saleitano…
E la vita continuava, conobbi anche l’esperienza dei primi pianti da adulto, ma duravano poco e ne uscivo con un sorriso… E prego Dio perché un giorno, dopo questo tempo di prova, le vele riprendano tono.
Quando volo mi piace osservare, ai miei fianchi, la tela delle ali del deltaplano che, tesa dal vento, mi fa galleggiare sul mondo che amo. E quando ogni volta mi separo dalla mia ombra, che resta sotto di me dopo il decollo, sento l’alito dell’universo circondarmi e sorreggermi, provo infinita pace.
Ho provato più volte che una manovra errata ti può mettere in una cattiva posizione rispetto a quell’alito; allora la tela delle ali non vibra più, si affloscia; per un attimo non senti il vento sul viso, tutto si ferma, non sai bene cosa sta succedendo; e mentre pensi a questo, già inizi a precipitare, lo stomaco ti arriva in bocca, a stento elabori le azioni per interrompere la caduta: una piccola pressione sulla barra, un po’ di potenza al motore ed esci da quella caduta, che si chiama stallo. E riprendi a volare.
Suor Anna Maria: da questo stallo io non so uscire. Ho provato tante manovre, che per un attimo mi hanno fatto riprendere quota, ma volo sempre più in basso. Che Dio abbia pietà di me… Voglio tornare a volare al più presto, ma non ci riesco. Nelle preghiere ho già detto a Dio quanto tu sia brava. Se ne ricorderà!
Con grande affetto e stima,
Carlo
Castelplanio, 7 gennaio 1995
PICCOLI LUMI
IN UN MAGMA DI DOLORE
Carissimi don Mariano (parroco di Castelplanio ndr) e suor Anna Maria,
scusate se mi indirizzo a voi nella stessa lettera; vi assicuro, non lo faccio per risparmiare sui francobolli! In realtà le giornate scivolano via strapiene… Allora ho pensato di parlarvi insieme, perché tutto sommato siamo abituati a parlare insieme: in entrambi ho sempre trovato la calda attenzione dell’amico e la dolce acutezza dell’assistente spirituale…
Cosa sto facendo della mia fede? Beh, qualche volta, magari incollati a un ventilatore per il caldo torrido che c’è anche di notte, diciamo insieme qualche preghiera; ogni 15 giorni partecipiamo alla messa per la comunità francofona nella missione.
La messa è molto piacevole, semplice, sentita. È bello scoprire come quella famiglia di figli di Dio, alla quale diciamo di appartenere, ma che in realtà immaginiamo come un concetto astratto, in realtà esiste in carne e ossa ed è pronta ad accoglierti tra le sue braccia anche in posti lontani come questo.
Ma poi nella fede cerco, soprattutto in questo tempo, la luce per rispondere ad angoscianti interrogativi che mi tengono sveglio. Il primo è la fatidica questione sulla vera natura dell’uomo. Quanto vedo qui, quanto sento nei racconti dei colleghi provenienti dalle mille ferite di questa terra, campi di battaglia, campi profughi, profonda povertà delle bidonvilles, assurde lotte fratricide, carceri grondanti sangue di tutti i regimi dittatoriali del mondo… tutto questo scoraggia un po’; a volte vedere qualche cosa di buono nell’altro, in chi ti è «prossimo», diventa veramente difficile e invita a chiudersi in se stessi.
Ma i piccoli lumi, che brillano nei cuori di quanti si prodigano in questo magma di dolore, lasciano sperare; e il ricordo di chi ha deciso di scendere in questo scenario di continui soprusi e guerre, per poi morire su una croce, mi fa credere che una luce di pace sarà pure nascosta dietro qualche orizzonte.
Vi so vicini e a volte vorrei che vedeste con i miei occhi, per fissarvi su quegli sguardi di chi ha perso tutto, la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la diarrea, i risparmi per un ladro, o per scaldarvi il cuore alla vista di una donna che partorisce sola, in una palafitta, lontano da tutto e da tutti, con il marito inginocchiato al fianco, un legno che arde in un braciere per scaldarla… non credo che in altre scene potreste vedere meglio rappresentato il mistero della natività, di questa che ho visto due settimane fa, a Sdau, piccolo villaggio nel nord.
Spero risentirvi presto. Ricordiamoci nella preghiera. Con affetto,
Carlo
Phnom Penh, 11 febbraio 1997
DOVE SCOPRO LA SUA BELTÀ
Carissima suor Anna Maria,
… poche sere fa, sfogliavo per addormentarmi un libro di preghiere di varie religioni e ho trovato questa di tradizione indiana: «Signore, fai che il mio lavoro nel mondo e per il mondo diminuisca giorno dopo giorno. Vedo che il mio lavoro, moltiplicandosi, minaccia di impedirmi sempre la Tua beltà! A volte immagino di compiere i miei doveri quotidiani senza essere attaccato alle cose del mondo, ma non so in quale misura mi illuda e veramente lavori senza attaccamento. Faccio la carità ed ecco che cerco di brillare agli occhi degli uomini. Proprio non so come fare».
Questa è la sensazione con la quale qualche volta la sera mi addormento. Mai come in questo periodo sono stato tanto preso dal lavoro. Sono come entrato in un vortice, dove l’amore per la professione e la scoperta che il lavoro che faccio incarna gli ideali che sempre hanno aleggiato sul mio cammino, sono come sirene alle quali non riesco a sottrarmi. Non credo che sia solo per brillare agli occhi degli uomini, ma è che mi sento un grande privilegiato, al quale il Padre Buono ha offerto una vita ricca, dove alcuni campi fertili non aspettano altro che vi semini responsabilmente i miei talenti.
A volte riscopro la Sua beltà nell’oggetto del mio lavoro, nei misteriosi fiumi che risalgo, fiumi d’acqua e fiumi di conoscenze, nei volti dei magri bambini nati come Lui in una capanna, o nei sorrisi coraggiosi di chi condivide il mio lavoro.
Credimi, è bello muovere passi in questo grande villaggio e scoprie le ferite e le glorie. Credo che la Sua beltà ci si manifesti in mille modi; benché convinto che nel silenzio di un monastero o nelle limitazioni della clausura sia visibile, amo troppo scoprirla in nuovi orizzonti o dietro nuovi occhi… Con affetto ti auguro un sereno natale.
Carlo
Macerata, 24 dicembre 1997
PRIORITÀ DEL PADRE BUONO
Carissima sorella,
… qui la vita scorre, la mia abbastanza comodamente, quella della gente un po’ meno, a causa della povertà e malattie che ne derivano. Ammiro comunque l’orgoglio e forza di volontà di questo popolo; invidio un po’ il loro senso di appartenenza a una nazione…
Sono occupato con meeting a livello centrale qui ad Hanoi, per discutere con le autorità sanitarie la situazione del Vietnam, riguardo i parassiti intestinali, che rappresentano una priorità, soprattutto nei bambini. Ma poi mi sposto spesso nei villaggi più remoti, per verificare se la situazione sul terreno è come mi viene presentata ad Hanoi…
Ovviamente il tempo che trascorro sul terreno è il più piacevole e interessante. Ammiro la dignità che accompagna la povertà e la profonda gratitudine che manifestano verso chi si interessa ai loro problemi. E sì che il solo interesse non li risolve…
Quello che colpisce nelle campagne è la presenza di chiese. Sapevo che il cattolicesimo sta rimontando in Vietnam: il 14% circa sono cristiani; ma è uno strano spettacolo vedere enormi costruzioni con bizantini campanili dominare villaggi di povere casupole. Sembrano astronavi atterrate da chissà quale pianeta. Molte di queste chiese risalgono agli anni della colonia. Ed ora i vietnamiti, convertendosi, se devono fare una chiesa, la costruiscono nello stesso modo: appariscente e costoso.
È facile porsi degli interrogativi. Ne discutevo durante un viaggio con il mio interprete. Mi chiese se credevo in Dio. Gli risposi di sì. Lui replicò: «Allora credi nel papa e nei vescovi?». «Non esattamente – dissi -. Credo in Dio e apprezzo quello che il papa e vescovi a volte dicono per aiutarci a essere bravi cristiani; ma, ad esempio, non sarei d’accordo con il vescovo che decida di costruire una chiesa in un villaggio dove i bambini si ammalano e muoiono di malattie parassitarie perché non ci sono latrine».
Scoppiò a ridere, dicendomi: «Secondo te, il vostro Dio preferisce che ci siano latrine per i poveri, piuttosto che chiese per onorarlo?». Gli risposi che la mia opinione non rappresenta forse quella della chiesa, ma la risposta è decisamente sì.
Abbiamo continuato su questo tono, dicendo lui (ridendo) che, se così fosse, la mia religione è vicina al popolo forse come il comunismo!
So cosa stai per replicarmi: che la fede è molto più che promuovere il sociale; che tante altre cose sono importanti nella fede, oltre a curare i malati e costruire ripari per i poveri. Ma cosa è prioritario? Cosa farebbe un Padre Buono per i suoi figli, se non curarli e coccolarli sotto un confortevole tetto?
Sono certo che nel determinare conversioni qui gioca molto questo aspetto di potenza che le grosse chiese suscitano, quasi di qualcosa che va temuto e che potrebbe proteggerli materialmente dalle difficoltà della vita. Non credi sia scorretto presentarsi così?
E tu, come va? Ricordati che sono sempre il tuo medico (almeno spero)! Come io non esiterei a dirti che mi fa male un ginocchio, anche se tu ti occupi dello spirito, apprezzerei sapere che, se avrai un problema dell’anima, magari me lo accennerai!
Fatti sentire e sii forte.
Con affetto,
Carlo
Vietnam, 10 ottobre 1998
BIANCO E NERO
Carissima suor Anna Maria,
… avrei voglia di rivederti, anche per sapere di te e della tua vita divenuta preghiera. Non che non lo fosse prima, ma ora ti immagino più tesa verso l’Altissimo che prossima agli uomini. E questa dimensione la conosco meno, a volte ho anche difficoltà a immaginarla e mi piacerà sentire da te cosa sia.
La mia dimensione «verticale» invece credo sia sempre meno evidente, o meglio, si vede meno, ma credo di sentirla con lo stesso calore. A volte sussurrare una Ave Maria in silenziosi tramonti mi causa leggeri brividi di emozione; non smetto di raccomandarmi al Signore ogni volta che vedo una prova sul mio cammino. Non so se questo basti; anzi, immagino che ci si aspetti di più da un «bravo cristiano», per cui sto quasi pensando di rimuovere il «bravo» dal cristiano che sono! Ma non ho dubbi che il Padre Buono saprà sempre alzare una mano per appoggiarmi carezze sul capo, almeno spero!
Nella vita sono sempre più esigente. La superficialità mi è divenuta intollerabile, l’indifferenza mi fa diventare quasi violento. Si dice in genere che non esiste mai una situazione con il bianco e il nero ben distinti, ma che si può trovare della ragione e del torto ovunque. Io invece, per una dolorosa passione e romanticismo, continuo a credere che si possa dire senza titubare «questo è sbagliato» o «questo fa schifo».
Occorre saper distinguere dove il Bene sta, e dove il Male si annida. Le altre letture più equilibrate e moderate mi sembrano sempre più gravi ipocrisie. A tutto si tenta di trovare giustificazioni. Sia nei fatti gravi che nel quotidiano.
Io sto con quelli che dicono che l’Afghanistan non si bombarda, che il morto americano vale esattamente quanto l’ignoto pastorello afghano o irakeno; lo stesso vale per Israele e gli abusi commessi in Palestina. Così continuo a dire che il mercato è malato e va cambiato, e così via…
Nella più semplice vita privata purtroppo ho lo stesso rigido schema mentale. Questo mi rende difficile avere amicizie con persone di cui non condivido la visione, almeno nelle cose più importanti.
Ma credimi, serpeggia un sentimento così fastidioso di razzismo, paura/rifiuto del diverso, superiorità sociale, tra gli stranieri della parte «importante» della comunità internazionale di Hanoi (qui come altre capitali) che a volte mi prende la nausea a sentire certi discorsi durante feste e ricevimenti. Sono tutti pronti a chiamarsi tra i «buoni» e condannare razzismo e violenza, ma poi dovresti vedere come trattano le baby sitters dei loro figli, o come pagano i loro dipendenti!
Per me vivere all’estero deve essere una testimonianza di barriere abbattute. Se sto in Vietnam, pur se continuo a sognare i miei dolci colli e saporiti salumi delle Marche, mi piace mangiare vietnamita, essere loro ospite quando capita, scoprire i loro costumi e cultura, ed a questo abituare i miei figli. Con loro devo dire che sono proprio contento.
Come sto? In generale sento che ho raggiunto la mia leggenda personale. Nella vita credo di aver saputo distinguere gli indizi che mi hanno guidato fino a qua; per arrivarci ho accettato di affrontare burrasche e scogli, ma ora non chiederei di meglio dalla vita.
Ringrazio Dio per tanta generosità nei miei confronti e mi sforzo di sdebitarmi, lasciando che i miei «talenti» producano germogli e piante. Vorrei fare di meglio, non tanto nel lavoro, dove do tanto, ma con gli affetti più prossimi. So quanto Giuliana, Tommaso, Luca e Maddalena (moglie e figli ndr) abbiano un dannato bisogno di me. D’altra parte ognuno di loro è per me parte essenziale della vita; a volte, soprattutto al rientro dai numerosi viaggi, avrei voglia di guardarli e toccarli per ore, per sentirli miei e far sentire loro il mio affetto.
Viaggio molto, in Cina, Thailandia, Laos, Cambogia, Filippine, altrove… Mi capita anche di fare viaggi «sul terreno», come diciamo in gergo. Lì trovo l’essenza del mio lavoro, sento l’odore della povertà e della privazione che alimenta come benzina il fuoco che anima la mia passione.
La settimana scorsa ho portato Giuliana, Luca e Maddalena in una zona montagnosa, tra minoranze etniche. Godevo al vedere i miei figli dentro capanne affumicate, a curiosare tra il nulla che costituisce la vita dei poveri.
Vorrei continuare a parlare con te… ma ti sto rubando troppo tempo. Ti abbraccio, risentendo il sapore della fratellanza in Cristo.
Con grande affetto,
Carlo
Hanoi, 5 maggio 2002

Benedetto Bellesi




KENYA – Abbondanza di mucche e di… parole

Alcuni fortunati europei hanno potuto assistere
a una cerimonia che da secoli
si ripete uguale tra i masai di Kenya e Tanzania,
per ottenere benedizione e salute.

L’ orologio che scandisce la vita pastorale dell’etnia masai (Kenya e Tanzania) ha un ritmo lento, ma perseverante. In questa nostra era, è davvero inimmaginabile imbattersi in cerimonie tribali, celebrate così raramente che, a volte, la memoria umana non riesce più a registrarle.
Il fotoreportage illustra una di queste cerimonie solenni: erano ormai più di trent’anni che non veniva celebrata!

Siamo nel profondo cuore della riserva masai del Kenya, verso i confini del Tanzania, dove vivono gruppi di masai che, salvo l’orologio al braccio o la radiolina a pile, potrebbero benissimo essere scambiati per pastori di secoli fa, guidati dal sole e dalla luna, dalle piogge e dalle immigrazioni degli animali della savana.
Alcune suore cattoliche e una dottoressa italiana, per gentile invito, hanno potuto partecipare a questa solenne cerimonia e immortalare, per la prima volta nella storia, alcuni momenti del rito della fertilità.
Nell’immenso spiazzo (boma) lasciato libero temporaneamente dai numerosi greggi di capre e mandrie di mucche, si è radunata tutta la comunità femminile della regione. È il più solenne e sacro raduno delle mamme masai dei dintorni. Siamo a El Kisongo, uno sperduto puntino nell’area geografica del Kenya, territorio non ancora intaccato dai furori della civiltà.
I soli uomini presenti sono i grandi dignitari, rappresentanti i vari clan che ruotano intorno alle zone di pascolo di El Kisongo. Spicca tra tutti ’loiboni o grande sacerdote. Ostenta una parrucca di peli di coda di mucca, una sgargiante coperta azzurra, orecchini nuovi e collane dal significato a noi sconosciuto. Regge una zucchetta contenente latte, che sarà usato durante la cerimonia.
Gli altri assistenti, avvolti nelle coperte rosse, i fianchi cinti da un perizoma, sono rasati di fresco (segno di purificazione). Tutti si sono portati appresso il famoso scranno treppiede (a volte anche quadripiede): grande segno di autorità.
Le donne – tutte mamme – in lunghe vesti coloratissime, fanno girotondo nell’ampio recinto. Quelle ancora giovanissime si sono portate dietro i pargoletti appesi alla schiena, ben protetti sia dal sole, come dal vento che spira (a volte pungente) dal vicino Kilimangiaro. Anche se la giornata è serena e il sole abbacina, il manto di cotone che tutti e tutte portano allacciato alla spalla, ripara e, nello stesso tempo, dona un colore di festa.

Il primo atto della cerimonia è il sacrificio di un bue, alla presenza del gran sacerdote e dignitari. Il luogo del sacrificio viene così considerato «santificato»: sarà il centro di tutte le cerimonie che via via verranno effettuate.
Davanti a un grande drappo nero appeso a due paletti, viene scavata una buca, che viene poi ricoperta di pelli e in cui si verserà del latte di vacca. Ogni donna e anche la sua bambina (non i maschietti) passeranno a lavarsi i piedi in quel latte, sotto il controllo di un anziano.
Accanto al drappo nero, garrisce al vento una fronda di palma. Questa ha un particolare significato e sarà uno dei temi della grande preghiera del ’loiboni durante la benedizione finale: la foglia di palma che si lacera al vento, formando così altrettante foglie, vuole indicare l’uomo e la donna che si ripetono in tanti figli, trasmettendo in essi la loro stessa vita.
La fila di donne passa davanti al gran sacerdote, che impone su ognuna una speciale collana e, come segno di benedizione di Enkai (Dio), colora la fronte di caolino bianco e latte. Anche gli anziani ripetono la cerimonia del gran sacerdote. Bere latte fresco di mucca e latte cagliato significa partecipazione comunitaria delle donne alla «preghiera della fertilità». Le bevute si susseguono… mentre passano le ore. Non sembra vi sia fretta alcuna, se gli strilli dei pargoli ogni tanto richiamano alla realtà di allattamenti soccorritori. Pluff!… con curiosa manovra la mamma fa saltare con destrezza il piccolo, che se ne sta dietro la schiena, e lo riceve delicatamente sul davanti… pronto alla pappa!
La preghiera comunitaria guidata dal ’loiboni invoca, ora, su tutta la gente ogni bene:
«Enkai, tu resterai fermo
al di sopra di tutte le cime dei monti
del monte splendente (Kilimangiaro).
Sii lacerato come le orecchie
della palma
lacerata dal vento…» (allusione alla frasca di palma, che sta davanti al panno nero, simbolo della divinità).
Le richieste a Dio di «beni» comprendono l’abbondanza di mucche (sempre prime nella scala dei valori), di piogge, di pascoli, di mamme e di prole. Si chiede a Dio protezione contro gli animali feroci e le malattie del bestiame e degli uomini. E siccome, invitati speciali di onore ci sono le suore e una dottoressa, si chiede anche per loro «che possano essere mamme di tanti figli e curare tutti i loro malanni».
La cerimonia finale, come segno di partecipazione alla grande festa, sarà l’imposizione di una strisciolina di panno nero, messo al braccio destro di ogni mamma (simbolo dell’accompagnamento di Dio). Infine, tra canti e danze a Enkai, la distribuzione di vari amuleti protettori.
Il sipario si chiude quando il sole traccia ombre lunghe sul boma. Già intorno ci sono le mucche e le capre, tornate dal pascolo, in attesa di entrare nel recinto per essere munte del poco latte (un bicchiere appena). E poi i guerrieri, con le loro lance, si metteranno in guardia tutt’intorno, per proteggere il loro tesoro contro le bestie feroci della notte.

Non lontano, le nevi splendenti del Kilimangiaro continueranno a riflettere la luce della luna, testimoni, da secoli, di vita e cerimonie di un popolo che non ama calendari e tanto meno il ruggire di motori e fermate di autobus; o arrembaggi di uffici alla ricerca di un segretario che abbia la pazienza di scrivere una carta d’identità dove, insieme a un nome, ci sia anche la compiacente definizione «over 18», con la quale si fa livello di tutte le età, dai diciotto anni ai cento.
Con buona pace di tutti quanti.

Giuseppe Quattrocchio e Francesca Lipeti




Giù il mitra, signore!

Gesù subisce violenza, e non solo
perché viene crocifisso. Per esempio: riceve uno schiaffo dal servo del sommo sacerdote. Però non ritorce il gesto
e neppure presenta l’altra guancia,
ma chiede ragione dell’ingiusta
offesa subita (cfr. Gv 18,22-23).
Un comportamento emblematico
di nonviolenza del figlio di Dio.

C’é dio e… dio

La bibbia è parola di Dio, ma con espressioni umane. Il messaggio di salvezza ci giunge attraverso immagini prodotte da uomini e donne, secondo vari contesti storico-culturali. Pertanto, anche nella bibbia, è necessario distinguere «Dio» dalle «immagini su Dio», perché il Signore è sempre altro e non può essere ritratto da alcuna raffigurazione.
Noi conosciamo Dio attraverso le esperienze che altri ci hanno trasmesso: Mosè, Davide, i profeti, gli apostoli… Si pone, allora, il problema dell’autenticità e della verità delle immagini: in quale misura esse esprimano la vera identità di Dio. Il problema si fa cruciale quando la bibbia (specie l’Antico Testamento) presenta un «dio violento».
L’Eteo appare come il Giano bifronte, avvolto in un mysterium tremendum: dona la vita ad alcuni (popolo d’Israele) causando la morte ad altri (egiziani); offre la terra a Israele strappandola ai cananei; salva il popolo d’Israele a spese di altre genti… Però queste violenze non sono opera di Dio, ma gli sono attribuite da uomini violenti in situazioni violente.
L’immagine di un «dio guerriero» risponde, in fondo, all’intimo bisogno dell’uomo che sulla terra si faccia finalmente giustizia. Quindi, per una causa giusta, non si esita a giustificare la violenza anche da parte di Dio e del suo popolo eletto.
Questa visione è superata da Gesù Cristo. Le pagine dell’Antico Testamento, che presentano Dio come amore e misericordia, trovano pieno compimento nella rivelazione di Gesù, immagine del Dio vivente (cfr. Col 1,15): un Dio che preferisce gli ultimi, i poveri, gli oppressi, i peccatori; un Dio che ricostruisce le persone dal di dentro e le reintegra nella società; un Dio che non usa violenza, mai e con nessuno. Anzi, egli stesso ne è vittima.
Alla luce della morte di Gesù (l’innocente) e della sua risurrezione, si intende meglio il senso della passione del giusto: egli accetta su di sé le sofferenze degli altri; non annienta i suoi carnefici, ma li perdona; abbatte con il suo martirio il muro che divide i popoli, per fare di tutti una sola nuova famiglia (cfr. Ef 2,14). Pertanto si inaugura un nuovo stile di vita; si rifiuta la violenza come mezzo per risolvere i conflitti.
Il giudizio finale e universale, impostato su «avevo fame e mi avete dato da mangiare» ecc. (cfr. Mt 25, 35-40), è molto più di un’esortazione morale. L’identificazione di Gesù con i poveri impone alla chiesa una scelta preferenziale per essi (cfr. Giovanni Paolo ii, Novo millennio ineunte, 49).
Da qui scaturiscono alcune direttrici per il comportamento del cristiano:
– essere persone mosse dal Creator Spiritus, che costruiscono e portano ovunque immagini positive di Dio, amore-grazia-pace-misericordia, che rifiuta la violenza;
– essere chiesa-comunità più povera e libera, senza troppi appoggi ufficiali, senza cedere agli integralismi;
– resistere alle attrazioni distruttive, all’inganno delle soluzioni sbrigative, inservibili per la pace.
La vera immagine
Gesù Cristo rivela l’immagine vera e definitiva di Dio. Dio è proprio come Gesù ce lo mostra. Gesù è la guida che conduce a Dio. Fidarsi di Gesù è garanzia di verità, autenticità e identità su Dio, prima ancora di essere impegno morale di sequela.
In Gesù, con il quale i cristiani si identificano, l’ideale e la prassi della nonviolenza assumono una solida consistenza. In tal modo si supera il rischio di fermarsi solo ad un programma, sia pur generoso, per seguire una persona.
Gesù è un facitore nonviolento di pace, oltre che un ispiratore di nonviolenza. Il regno di Dio in bocca a Gesù è nonviolento. Il «siate perfetti» di Matteo (5,48), comprensibile all’ambiente giudaico, viene espresso da Luca con «siate misericordiosi» (6,36), in termini più universali di benevolenza e gratuità.
La shalom di Gesù è radicata nella bibbia, soprattutto nell’identificazione tra giustizia e pace, sorelle gemelle. La prassi di Gesù rivela l’agire di Dio: un agire misericordioso verso i peccatori e gli infelici, che tende continuamente a ristabilire il diritto di giustizia e che è forza liberante (non spiritualista) degli oppressi e diseredati.
Gesù è lontano dal messianismo degli esseni di Qumran, suoi contemporanei. Questi, insieme all’assoluta purezza interiore, propugnavano la condanna del peccatore e teorizzavano sulla guerra santa. Invece Gesù, oltre alla beatitudine della pace, offre la sua «pace», diversa da altre: il suo programma coniuga la gloria di Dio e la pace in terra.
Ecco alcune prospettive per un’azione globale di pace e nonviolenza:
– più consistente deve essere la riflessione nella teologia, spiritualità e pastorale, nelle pubblicazioni, nei circoli di studio e nelle assemblee;
– la nonviolenza diventi spiritualità incarnata, aderente alla storia, senza evadere dai problemi veri;
– pace e nonviolenza sono frutti che maturano nel tempo; la loro acquisizione è un lento cammino verso le sorti dell’umanità (cfr. Giovanni Paolo ii, Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2004);
– bisogna riscoprire la Pacem in terris di Giovanni xxiii (1963), che definì la guerra «alienum a ratione». «La guerra è roba da matti» disse il compianto vescovo Tonino Bello.
Oltre a predicare la nonviolenza, come ha chiesto Giovanni Paolo ii nell’Angelus del 30-11-03, vi sono scelte operative quotidiane, quali: il consumo critico, la banca etica, l’adesione alle campagne e dichiarazioni a favore di pace e nonviolenza.
Fondamenti storici e culturali
«La verità e nonviolenza sono antiche come le montagne» (Gandhi), ma è altrettanto vero che la violenza è la regina della storia. Tuttavia la gente continua a lavorare e soffrire per la pace. La speranza della nonviolenza risiede nel popolo.
I modelli di nonviolenza sono tanti e ricchi. Accanto a personaggi e avvenimenti celebri (Martin Luther King, Nelson Mandela, la resistenza nelle Filippine nel 1986, il crollo del muro di Berlino nel 1989, ecc.), vi sono altri casi significativi, anche se meno noti: casi di non collaborazione, disubbidienza civile, obiezione di coscienza, disarmo.
La nonviolenza è una galassia, un ecosistema. È interessante esplorae i fondamenti culturali e antropologici:
– trovare in se stessi qualcosa che ci fa sentire vicini all’altro;
– applicare la regola d’oro (di tutte le religioni): «Fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te» e «non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te»;
– uccidere è la ragione della guerra e «non uccidere» (presente in tutti i codici dei popoli) è il motivo della non guerra;
– prendere e far prendere coscienza che «uccidere» va contro il Creatore, che è l’atto più irreligioso; per la guerra vale «mors tua vita mea», per la pace conta «vita tua vita mea»;
– «non uccidere e non lasciare uccidere» era già un insegnamento di Budda; se è il sistema che porta alla distruzione, è necessario fermarlo;
– capire il senso e il limite del potere, di qualunque potere, per evitare che, «scambiando il mondo per un chiodo da battere» (F. W. Nietzsche), si compiano violenze fisiche, economiche, culturali, religiose;
– il potere legittimo, nato dal voto, non è matematicamente sinonimo di democrazia; questa è tale solo se favorisce la circolazione di idee e valori per la ricerca del bene comune (Amartya Sen, premio Nobel per l’economia);
– essere testimoni di un monoteismo garante di convivialità fra tutti i popoli; il mistero di Dio è così sfaccettato che nessuna religione può esaurirlo; tutte le religioni si completano a vicenda (possono scambiarsi doni) nella comprensione dell’unico Dio; allora nasce una visione tollerante verso le religioni quali vie a Dio, senza però cadere nel relativismo secondo il quale una religione vale l’altra;
– vincere l’intransigenza religiosa, per cui si vorrebbe far scendere il fuoco dal cielo o strappare subito la zizzania (cfr. Lc 9,54; Mt 13,28);
– opporsi alla rassegnazione di chi considera la guerra come un male inevitabile, essendo parte del sistema.
«Tra mezzi e fine esiste lo stesso rapporto che c’è fra seme e albero: non ci si può aspettare frutti buoni se si semina violenza» (Gandhi). La pace si costruisce con mezzi pacifici.
trasformare i conflitti
Alla base dei comportamenti violenti c’è un «nemico» in ciascuno di noi: pregiudizio, rifiuto degli altri, odio. In ognuno c’è aggressività dovuta pure a stress, corse, orari. Basta poco per «saltare» in famiglia, sul lavoro, nel traffico.
Emerge il nocciolo fondamentale: non c’è pace estea senza quella intea, se il cuore non è in pace. E non ci sarà pace senza il coinvolgimento personale nei valori dell’accoglienza verso tutti, del perdono e della riconciliazione.
Tuttavia l’amore ai nemici è alieno da sentimentalismi; può convivere con l’indignazione, il dispiacere, la preghiera. È pure necessario distinguere fra «ricordare» e «odiare»: non si ha un potere assoluto sulla memoria, mentre si può controllare gli atti di volontà. È possibile ricordare senza odio.
I conflitti si possono trasformare in opportunità di vita. Il conflitto non è sinonimo di guerra, né di violenza. I conflitti vanno guidati, tenendo presente che le vittime della violenza strutturale sono più numerose di quelle della violenza fisica (il rapporto è di 24 a 1).
È possibile intervenire sul conflitto, prima che degeneri in violenza, grazie a metodi di prevenzione e progetti socioculturali; durante il conflitto, operare con forze nonviolente, per ridurre i mali; dopo il conflitto, favorire la riconciliazione e costruzione (vedi i casi di Sudafrica, Mozambico, Perú, Rwanda, Guatemala, Argentina, ecc.).
La nonviolenza è un processo di liberazione interiore da complessi e paure sia negli oppressi sia negli oppressori. In tale processo è fondamentale la comunicazione tra gli uni e gli altri, come pure tra questi due gruppi e le «parti estee» al conflitto, dentro o fuori del paese. Però occorre che non intervengano strumentalizzazioni.
La riconciliazione è un processo a tappe, quali: accertamento della verità dei fatti, pentimento, confessione, perdono, pena, pietà. Molto opportunamente Giovanni Paolo ii, nella Giornata missionaria mondiale del 2002, ha rilanciato il perdono.
Il processo di pace, nonviolenza e riconciliazione ottiene i migliori risultati quando si comincia dal basso, dagli enti locali, che sono più disponibili, meno condizionati. «Ogni popolo guardi il dolore dell’altro – disse nel 2003 il cardinale Carlo M. Martini – e sarà pace».
Per i missionari e le loro comunità emergono compiti esigenti:
– essere attivi nelle scuole di nonviolenza per formare le coscienze;
– operare coraggiosamente la riconversione economica degli stili di vita, assumendo stili alternativi;
– vivere la missione come scambio di doni alla pari, grazie all’interculturalità, della quale i missionari hanno una particolare esperienza.
spiritualità della nonviolenza
È significativa la testimonianza di Gandhi, un laico che ha saputo coniugare spiritualità e politica in modo sistematico e durevole, dando un notevole contributo alla riforma della spiritualità in genere.
Anche Gesù (un altro laico!) opera un rinnovamento della vita religiosa: la sua legge consiste nell’amare i nemici (cfr. Mt 5), fino al perdono dalla croce. Gesù conferisce pure un valore comunitario ai precetti della legge, che di norma erano vissuti a livello individuale, quasi spiritualista, senza incidenza pubblica. Invece Gesù «sobilla il popolo» (cfr. Lc 23,2) e per questo viene ucciso.
La nonviolenza, di cui Gesù è un modello e maestro, non è una nuova religione, ma è previa a tutti i credo religiosi, perché si riferisce ad un patrimonio comune: la fratellanza universale, spesso però minacciata e distrutta da violenze e guerre. Se le religioni non si ritrovano su questa «spiritualità», non hanno alcun servizio da rendere all’umanità.
La spiritualità della pace nonviolenta deve fronteggiare alcune sfide:
– affrontare la vita politica ed economica valutando con cura le mediazioni, ma senza transigere sui valori morali;
– dare la preminenza alle relazioni interpersonali, basate su solidarietà, fratellanza ed empatia, preferendole alle tattiche furbesche dei politici;
– non fermarsi alla conversione individuale, ma puntare alla conversione delle strutture di peccato (cfr. Giovanni Paolo ii, Sollicitudo rei socialis, 1987);
– la critica all’attuale modello di società è legittima e doverosa.
Un altro mondo è possibile. Anzi, solo un altro mondo è possibile, di fronte (per esempio) al pericolo dell’inquinamento globale.
E che dire delle armi di distruzione di massa? Giovanni Paolo ii, per contrastare guerre e armi, convoca tutte le religioni a scegliere sempre e solo la pace: non ci deve più essere guerra. Se ogni religione (ciascuna con i suoi seguaci), attingendo al pozzo comune della frateità, è per la pace, la guerra è sconfitta.
Il no alla corsa armamentistica per il cristiano non ammette alternative o concessioni; deve essere totale e risoluto. È immorale (perché contro la vita) che si spendano ogni anno 1.000 miliardi di euro (400 miliardi negli Stati Uniti) per armamenti, destinati ad uccidere, mentre i diritti di 5 miliardi di poveri passano in secondo ordine. Il no alla produzione di armi è una scelta per la vita, in nome del vangelo.
E non basta sapere. È indispensabile l’invocazione dello Spirito di sapienza. Gandhi parlava di «forza attiva della verità».
Per un cristiano la spiritualità della nonviolenza è per fede trinitaria. Padre-Figlio-Spirito Santo sono in comunione perfetta. Sono sorgente e modello di vita, donata a tutti e in abbondanza (cfr. Gv 10, 10).

L’articolo rielabora la sintesi conclusiva di padre Romeo Ballan, comboniano, del Convegno «Spiritualità e prassi della nonviolenza: linee e sfide per l’animazione missionaria in Italia».
Il Convegno, organizzato dal Suam (Segretariato unitario di animazione missionaria in Italia), si svolse a Pacognano (NA) il 3-7 febbraio 2004.
Segretario nazionale del Suam è padre Gottardo Pasqualetti, missionario della Consolata.

Francesco Beardi




Ma quanto mi costi!

Il dono nuziale, o dote, sigilla la conclusione del matrimonio
nella società siriana. Ma le pretese sono troppo alte per tante famiglie:
sposarsi rimane un sogno irraggiungibile.

La laurea in lingue e letterature orientali e il lavoro mi hanno portata a soggioare per lunghi periodi in Medio Oriente. Soprattutto la Siria è stata una delle mie mete più frequentate. Il mondo delle donne in particolare mi ha sempre affascinata e incuriosita.
La vita di una donna in Siria, come in altri paesi musulmani, ruota attorno al matrimonio, alla procreazione e alla creazione di una famiglia, vista come pilastro della società. Mi sono dedicata molto allo studio delle tradizioni e consuetudini matrimoniali, che riguardano non solo la comunità musulmana, ma anche quella cristiana. Infatti uno dei miei approfondimenti è stato proprio quello di tracciare dei paralleli tra le due comunità.
SICUREZZA PER LA SPOSA
Per concludere un matrimonio, nei paesi di religione musulmana, occorre la stipulazione di un contratto bilaterale privato. Non è necessario solennizzarlo con un rito religioso: basta che i due futuri sposi si scambino la promessa di matrimonio alla presenza di due testimoni qualificati, solitamente due notai, abilitati a redigere atti del genere e obbligati a trasmettee copia allo stato civile.
La stipulazione del contratto viene generalmente accompagnata dalla recita della fatiha (il primo capitolo del Corano). Ma il contratto risulta valido solo se sono rispettate alcune condizioni. Una di queste è il pagamento di una dote o dono nuziale (mahar).
La dote non è un costume introdotto dall’islam; nei paesi musulmani si parla di dote molto tempo prima dell’arrivo di Maometto.
In Mesopotamia, durante la dinastia babilonese, Hammurabi (1792-1750 a.C.) compilò il primo codice legislativo, ispirandosi a vari testi giuridici più antichi. Riguardo al matrimonio, il codice prescriveva un contratto in cui il fidanzato doveva fare una donazione, in denaro o in natura, al futuro suocero; questi, in compenso, costituiva una dote alla figlia, di cui la donna avrebbe goduto personalmente i benefici.
Oggi, come all’epoca di Hammurabi, la dote è un dono, un’offerta, una concessione; non è, come si è portati a pensare, un prezzo per la donna. Non è una tariffa per poter godere della donna, ma è un segno del rispetto a lei dovuto.
La dote è un diritto legittimo della sposa; al tempo stesso è una prova di fedeltà dell’uomo. Come dice un versetto del Corano: «Date spontaneamente alle donne la dote e se a loro piace farvene partecipi, godetevela pure in pace e tranquillità (Sura iv, versetto 4).
Purtroppo, non è l’esistenza della dote in sé a creare un problema, quanto piuttosto il suo ammontare. In molti paesi musulmani l’eccessivo prezzo della dote è di ostacolo alla conclusione di matrimoni. Per alcuni, come la Siria, sta diventando addirittura un enorme problema sociale, in quanto i matrimoni diminuiscono sempre più.
Ma che cosa esattamente comprende la dote? Che cosa comporta la dote per la famiglia di uno sposo?
«Normalmente, la dote consiste nel versamento di una somma di denaro» cerca di spiegarmi il trentenne Firas, che vive a Damasco e gestisce con il padre un negozio di antichità. «Questa somma è divisa in due parti, una pagata prima della consumazione del matrimonio, generalmente durante la stipulazione del contratto, l’altra versata in caso di divorzio o al decesso del marito».
La scissione in due parti della dote è usuale nel mondo islamico. Nata inizialmente per facilitare lo sposo non ricco, questa usanza ha assunto in seguito altre due valenze. Poiché rimane nelle mani della donna, la metà della dote diventa una sorta di arma contro il pericolo del ripudio: la minaccia di un reclamo della seconda parte di dote serve infatti a dissuadere l’uomo da potenziali intenzioni di separazione.
Questa quota di dote serve inoltre ad assicurare l’assistenza della donna dopo la fine del matrimonio, sia per decesso del marito, sia per divorzio. Molte famiglie esigono una seconda parte alquanto sostanziosa, di modo che il marito sia costretto a riflettere a lungo prima di volere la separazione dalla moglie.
La sharia, la legge islamica, non fissa un limite massimo o minimo, ma lascia questo aspetto materiale allo sposo, che calcola il poco e il tanto da sborsare; soprattutto tale calcolo dipende da consuetudini e tradizioni, diverse da paese a paese; l’importante è la reciproca intesa.
SOLO SE LA SPOSA… È RICCA
«Purtroppo il prezzo della dote ha assunto delle proporzioni vertiginose – prosegue Firas – in rapporto ai nostri redditi. Per noi musulmani la dote è obbligatoria, non come per i cristiani; essa viene segnata nel contratto matrimoniale. Durante il primo incontro tra le famiglie dei due futuri sposi si stabiliscono, oltre alle date di fidanzamento e matrimonio, anche l’ammontare delle due somme. Ed è la famiglia della sposa che fissa le cifre da pagare».
«Nella forma siriana – aggiunge Firas con rammarico – vengono completamente tradite le intenzioni del profeta, che in uno dei suoi hadith (detti) aveva affermato: “Sposatevi e moltiplicatevi; io mi glorificherò di voi il giorno del giudizio universale”. Attualmente la dote è diventata un grosso ostacolo al matrimonio.
Per noi siriani la procreazione e il matrimonio sono i fattori più importanti nella vita di un uomo. È il modo di vivere al quale tutti aspirano, non esiste una vita serena al di fuori della realtà matrimoniale. Una donna per essere completa deve avere al suo fianco un uomo, che si occupi di lei, del suo futuro, che le dia una casa, dei figli. Purtroppo, per motivi economici spesso ci è impossibile aspirare a formare una famiglia.
Io ho 30 anni e vorrei tanto potermi sposare; ma al momento mi è impossibile: la mia famiglia non ha sufficiente denaro; unica soluzione è che trovi una donna ricca, che possa pagare tutto lei» conclude Firas sorridendo.
Certamente non è un caso sentire parlare di matrimoni in cui la donna, anzi la sua famiglia, paga tutto. I genitori, pur di non tenere una figlia zitella, si sobbarcano a tutte le spese, anche al pagamento della dote.
NELLE FAMIGLIE CRISTIANE
L’usanza di dare una dote alla sposa esiste anche presso i cristiani, anche se non fa parte del contratto matrimoniale. Me lo conferma Raife, una cristiana (massihiyya: da al-masyh, il messia). Non si è mai sposata, perché scelta dalla famiglia a restare nella casa patea, a Bab Tuma nel quartiere cristiano di Damasco, per accudire la madre molto anziana. In compenso si è occupata del matrimonio di tutti i suoi fratelli e parecchi nipoti.
«Mio fratello Attaf ha tre figli maschi – dice Raife preoccupata -, ma a causa dell’eccessivo prezzo della dote non riesce a sposarli tutti. La dote, considerata presso i musulmani come somma da versare al padre della sposa, esiste anche presso noi cristiani, benché essa non venga inserita nel contratto di matrimonio. È una consuetudine molto antica e ancora molto rispettata anche nelle famiglie cristiane».
Un matrimonio in Siria ha dei costi considerevoli, che superano spesso i redditi medi di una famiglia. «Sulla famiglia dello sposo pesa l’onere più alto – spiega Raife -. Oltre alla dote da versare, deve sobbarcarsi alle spese per l’organizzazione del matrimonio e della festa di fidanzamento. Tra l’altro, presso noi cristiani, vi è la consuetudine che il padre dello sposo regali alle parenti più prossime dei vestiti per festeggiare il matrimonio del figlio».
Anche per i cristiani la dote viene pagata in due volte. «La prima parte viene consegnata al padre o a un rappresentante legale della futura sposa – riprende Raife -. Ma ciò non significa assolutamente che il genitore consideri la dote come prezzo di sua figlia; ma è semplicemente indice della cultura patriarcale della famiglia. Inoltre, considerata la sua giovane età, la ragazza è spesso poco esperta e poco qualificata per fare gli acquisti per le nozze e per gestire l’ingente somma. La seconda parte viene pagata, come per i musulmani, in caso di divorzio o di decesso del marito».
«A volte in alcune famiglie cristiane della Siria – aggiunge Raife – viene pagata la dutta o ba’ina, una dote alla rovescia, in quanto è il padre della sposa a versare denaro al genitore dello sposo. Tuttavia, a parte casi rari, le spose cristiane pretendono le doti dai futuri mariti, alla maniera musulmana».
In base alla legge, la donna è libera di disporre della sua dote. Sia tra i cristiani che tra i musulmani, una parte della somma viene utilizzata per comprare il corredo, che la sposa porterà nella casa nuziale. Per tradizione, esso dovrebbe comprendere vestiti, biancheria e giornielli per la sposa, mobili e oggetti per la casa, materassi, coperte e cuscini.
Attualmente, però, buona parte della dote viene spesa per l’acquisto di vestiti e, soprattutto, giornielli. È molto importante che nel giorno del matrimonio la ragazza indossi molto oro, per valorizzare la sua avvenenza, ma anche per dimostrare il suo stato di sposa.
Anche se nel Corano l’oro non è sempre tollerato, la bramosia è tale da contagiare anche i musulmani, di tutti i livelli sociali.
PREZZI DA ABBASSARE
I giuristi musulmani contemporanei dedicano molte pagine a questo argomento. Pur confermando l’importanza della dote, essi ne contestano l’elevatezza del prezzo, sottolineano le difficoltà che essa crea per i giovani desiderosi di sposarsi e rivendicano un ridimensionamento al ribasso.
Dai loro studi è emerso che già agli inizi del ’900 in Siria vi erano dibattiti sull’eccessivo valore del dono nuziale. A Damasco, negli anni ’30, fu addirittura creato un comitato d’azione per l’abbassamento del prezzo della dote: in un bollettino vennero esposte le cause del problema, denunciati gli effetti negativi e invitate le famiglie siriane a combattere tale tradizione.
Questo bollettino fu pubblicato sui giornali; le idee furono diffuse attraverso il comitato, con l’appoggio dei capi religiosi di Damasco, ma senza portare molto frutto. Il loro appello alla riduzione della dote si scontrava con la mentalità dei siriani, che vedono la felicità di una sposa solo nella ricchezza e opulenza, con la conseguenza di dissipare il valore del dono nuziale nell’acquisto di lussuosi corredi per le spose. Anzi, molti genitori, come sottolinea il comitato, si considerano umiliati se accettano doti basse.
A quasi 80 anni di distanza la situazione in Siria non è cambiata. I matrimoni diminuiscono sempre più, soprattutto nelle città, dove il tenore di vita è più alto. Nella società siriana contemporanea la dote è forse ancora più consistente di quanto non fosse in passato. È diventato un reale problema sociale, che balza agli occhi leggendo il giornale, ascoltando la radio o guardando la televisione.
Parlando con ragazzi e ragazze, prima o poi si arrivava ad affrontare questo argomento. Il matrimonio per alcuni giovani è quasi un sogno. Impossibile per molti riuscire a racimolare almeno una piccola parte di quello richiesto dalla famiglia della ragazza.
La situazione delle ragazze non è tanto migliore; spesso si vedono proporre uno sposo molto più attempato di loro: un uomo che, per accumulare una dote, si sposa in età più che matura.

Elisabetta Bondovalli




Il buddhismo impegnato

Continua il viaggio nel buddismo (Cfr M.C. dicembre
2003), attraverso l’incontro con due grandi«movimenti» impegnati
nella pace,nella nonviolenza
e nel sociale.
Seguirà nei prossimi mesi l’inchiesta su islam, cristianesimo, ebraismo.

SOKA GAKKAI
SCUOLA DI PACE

«Q uando gli esseri viventi assistono alla fine di un kalpa1 e tutto arde in un grande fuoco, questa, la mia terra, rimane salva e illesa, costantemente popolata di dèi e di uomini.
Le sale e i palazzi nei suoi giardini e nei suoi boschi sono adoati di gemme di varia natura.
Alberi preziosi sono carichi di fiori e di frutti e là gli esseri viventi sono felici e a proprio agio.
Gli dèi suonano tamburi celesti creando un’incessante sinfonia di suoni.
Boccioli di mandarava piovono dal cielo posandosi sul Budda e sulla moltitudine.
La mia pura terra non viene distrutta, eppure gli uomini la vedono consumarsi nel fuoco: ansia, paura e altre sofferenze predominano ovunque» 2.

I l mondo sofferente è la «pura terra» del buddismo mahayana: la felicità non è in un luogo lontano e futuro, ma qui e ora, mentre si soffre, si lotta e si giornisce. Cioè, semplicemente, si vive. E tutti ne sono degni: uomini e donne, grandi e piccini, deboli e potenti, e di tutte le nazionalità. Il mondo intero, dunque. Tutti hanno la «buddità» e possono farla emergere dal profondo della propria esistenza, dovunque si trovino e in qualunque momento lo decidano, senza attendere momenti migliori, altre vite o altri mondi. È una condizione innata, permanente, ma… nascosta nelle profondità dell’essere. E va tirata fuori.
Questo è il messaggio «rivoluzionario» del monaco giapponese vissuto nel 1200: Nichiren Daishonin, un importante riformatore della corrente buddista mahayana.
Sul Sutra del Loto, uno dei testi sacri tramandati dal Buddha Shakyamuni (vedi M.C. dicembre 2003), il Daishonin incentrò la propria dottrina e insegnamento, sia a livello pratico sia teorico, basato sull’incoraggiamento, diretto a uomini e donne di ogni ceto sociale, a far riemergere la «buddità», l’illuminazione, dalla propria vita e a intraprendere così una rivoluzione umana, che porta anche a un profondo cambiamento nella società.
«Nel secolo xi il Giappone fu percorso da una serie di guerre tra monasteri che, diventati centri di potere economico, erano protetti da monaci guerrieri (sohei).
Dall’anno Mille il buddismo cominciò a conoscere un periodo di decadenza, mentre il paese era scosso da disastri di vario tipo; per questo motivo si svilupparono correnti di riformatori: lo Zen (con le due scuole di Soto e Rinzai), l’Amidismo e la scuola del monaco Nichiren Daishonin.
Quest’ultimo merita una speciale rivalutazione, perché la sua opera di riformatore (basata sul Sutra del Loto), molto decisa nelle confutazioni dottrinali e assolutamente nonviolenta nella pratica, per lungo tempo è stata giudicata, anche su importanti testi di storia del buddismo, intollerante e violenta. Lo spirito che animava il Daishonin era quello di restaurare il corretto insegnamento buddista, che si era perso anche per il connubio dei monasteri con il potere economico-politico»3.
A causa delle proprie idee, subì persecuzioni, esili, condanne. Ciononostante continuò la predicazione insegnando la strada verso l’illuminazione.
Nato in Giappone nel 1222, Nichiren aveva iniziato a studiare giovanissimo, com’era tradizione, in un tempio, divenendo monaco. Nel 1253 aveva proclamato che l’unico modo per raggiungere l’illuminazione e portare la pace nel paese era recitare il titolo del Sutra del Loto (in sanscrito, Saddharma-pundarica sutra, in giapponese Myo ho renge kyo) facendolo precedere dal titolo devozionale di Nam. Questo mantra si può tradurre con «Mi dedico alla mistica legge del Loto» (dove il Loto simboleggia la legge di «causa-effetto» presente nell’universo).
Come pratica, era ed è prevista la recitazione di questo mantra, e di due capitoli del Sutra: Hoben e Juryo. In Hoben «Shakyamuni afferma che la buddità è accessibile a tutti gli esseri e che ci si arriva solo con la fede (non con la conoscenza); in Juryo viene rivelato il Budda originale, cioè l’essenza e la saggezza cui tutti i budda partecipano.
Qual è la differenza tra un budda e una persona normale? Nessuna, secondo il Daishonin: «Quando una persona è illusa – scrive Nichiren – è chiamata comune mortale, ma una volta illuminata è chiamata Budda. Anche uno specchio appannato brillerà come un giorniello se viene lucidato. Una mente annebbiata dalle illusioni, derivate dall’oscurità innata della vita, è come uno specchio appannato, che però, una volta lucidato, diverrà chiaro e rifletterà l’illuminazione alla verità immutabile. Risveglia in te una profonda fede e lucida il tuo specchio notte e giorno. Come puoi lucidarlo? Solo recitando: Nam myo ho renge kyo».
«Oggetto di culto» davanti a cui recitare sutra e mantra è il gohonzon, «oggetto perfettamente dotato», il mandala che egli incise nel 1279 «per osservare la propria mente».

L a Soka Gakkai (Società per la creazione di valore) è uno dei movimenti del buddismo mahayana giapponese che si rifà alla scuola Nichiren. Fu fondata nel 1930 dal pedagogo Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944), insegnante, direttore scolastico e saggista. Egli fu perseguitato per i suoi modelli pedagogici, che si opponevano all’autoritarismo della scuola giapponese e per la sua avversione alla guerra. Morì in carcere nel 1944.
Oggi i membri della scuola da lui fondata sono presenti in tutto il pianeta e ammontano a oltre 14 milioni (30 mila in Italia). Essi provengono dalle più diverse esperienze esistenziali, culturali e sociali.
L’attuale presidente della Soka Gakkai internazionale, lo scrittore e pacifista giapponese Daisaku Ikeda, è promotore di messaggi di nonviolenza, tolleranza e difesa dei diritti umani e sociali in tutto il mondo.
Obiettivo di questo movimento è l’incoraggiamento a compiere la propria auto-riforma interiore, vincere limiti e paure e raggiungere i propri obiettivi nel pieno rispetto della dignità della vita e dell’ambiente.
Caro alla Soka Gakkai è il principio di kosen rufu: atteggiamento di compassione, tolleranza e lotta per i diritti dell’uomo e dell’ecosistema e diffusione della pace a livello planetario. Una pace che, prima di tutto, parte dal superamento dei conflitti interiori, delle lacerazioni intee e si estende all’ambiente circostante.

Thich Nhat Hanh
sfida alla violenza
dei singoli e nazioni

«Q uando siamo arrabbiati, lo sappiamo, dovremmo evitare di reagire, in particolare di fare o dire qualunque cosa. Non è saggio dire o fare qualcosa quando sei in collera; è più urgente tornare a te stesso per prenderti cura della tua rabbia.
La rabbia è un campo di energia, fa parte di noi, è un bambino che soffre di cui dobbiamo prenderci cura. Il modo migliore di farlo è generare un altro campo di energia che possa abbracciare la rabbia e prendersene cura. Questo secondo campo è l’energia della presenza mentale. È l’energia del Budda; ne possiamo disporre perché siamo capaci di generarla con il respiro e la camminata consapevoli. “Il Budda dentro di noi” non è un mero concetto, non è una teoria o una nozione, è una realtà: noi tutti siamo capaci di generare l’energia della presenza mentale.
Presenza mentale significa essere presenti, essere consapevoli di ciò che sta accadendo» 4.

M onaco buddista-zen, vietnamita,Thich Nhat Hanh è famoso in tutto il mondo per il coraggioso impegno contro le guerre, le violenze e ogni forma di intolleranza religiosa, politica e culturale. Ha circa 80 anni, ma ne dimostra molti di meno.
Pacifista instancabile, negli anni della guerra in Vietnam si è adoperato senza sosta per la riconciliazione tra il nord e il sud del paese; ha soccorso i boat people e ha presieduto la delegazione buddista ai colloqui di pace di Parigi. E ancora oggi si schiera a favore dell’umanità sofferente, senza distinzione di fedi, di nazionalità o di ceto. Coraggiose sono le sue posizioni contro lo sfruttamento delle risorse terrestri, degli esseri umani e contro ogni forma di conflitto.
Negli anni ’60, a causa dell’impegno contro la violenza che stava colpendo la sua gente, è stato bandito sia dal governo non comunista sia da quello comunista; dal 1966 vive in esilio in Francia, dove, agli inizi degli anni ’80, ha fondato una piccola comunità. Qui insegna, scrive, lavora la terra e opera in favore dei rifugiati di tutto il mondo.
È molto attivo nel condurre training di «pienezza mentale» in Europa e Nordamerica, in aiuto di veterani, bambini, psicoterapeuti, artisti e migliaia di persone alla ricerca di pace interiore e planetaria.
Thich Nhat Hanh è monaco dall’età di sedici anni. È conosciuto in molti paesi sia come scrittore (in Italia sono decine i libri pubblicati da varie case editrici), relatore e, soprattutto, come leader religioso di un movimento noto come buddismo impegnato, che unisce le tradizionali pratiche di meditazione con la disobbedienza civile attiva nonviolenta. Da questo movimento, a Saigon, è sorto il più importante centro di studi buddisti: An Quang Pagoda.
Tra le sue tante iniziative ricordiamo la creazione di un’organizzazione di raccolta fondi per la ricostruzione dei villaggi vietnamiti distrutti; l’istituzione di una «Scuola giovanile per il servizio sociale» e di un corpo di pace per buddisti che lavorano in questo ambito; la pubblicazione di una rivista dedicata a tematiche pacifiste. È inoltre molto attivo nell’incoraggiare i leaders mondiali a usare lo strumento della nonviolenza nella risoluzione dei conflitti.
Lasciando il Vietnam, Thich Nhat Hanh si era posto l’obiettivo di diffondere il buddismo in tutto il mondo: nel 1966 si era recato negli Stati Uniti e, durante discorsi in campus universitari, incontri con politici e amministratori, aveva spiegato quale strada percorrere per porre fine alla guerra con il Vietnam. L’anno seguente, il premio nobel per la pace, Martin Luther King, lo aveva candidato per la stessa onorificenza.
Il vecchio sogno di Thich Nhat Hanh, realizzare una comunità dove la gente impegnata in opere di trasformazione sociale possa trovare momenti di riposo e nutrimento spirituale, si è concretizzato nel Plum Village, costruito nel cuore dei vigneti di Bordeaux, sud-ovest della Francia, che ospita una trentina di monaci, suore e laici. Migliaia sono anche i residenti transitori, uomini e donne, provenienti da tutto il mondo (e delle più diverse nazionalità, religioni e culture) a cui il monaco zen spiega come vivere in armonia e piena consapevolezza il momento presente e come apprezzare la vita.
La sua filosofia non è limitata a strutture religiose preesistenti, ma si rivolge al desiderio di pienezza e di calma interiori dell’individuo.

«V orrei soffermarmi sulle “cinque facoltà”, così come vengono insegnate e praticate nella tradizione buddista.
La prima è la fede. È una facoltà che abbiamo dentro di noi; e sappiamo che la fede è molto importante. La fede è un’energia che ci rende pienamente vivi. Prova a guardare negli occhi una persona senza fede: non ha vita. Se invece quella persona è animata dall’energia della fede, i suoi occhi scintillano; gliela leggi sul viso o nel sorriso. Quindi non possiamo permetterci di non avere fede. È una forma di energia, di potere.
Talvolta le “cinque facoltà” vengono presentate come cinque poteri. La fede è un potere. Con il potere della fede diventi molto attivo, non ti fermi davanti ad alcuna difficoltà o stanchezza, puoi far fronte a qualsiasi avversità.
L’energia della fede porta alla seconda facoltà: la diligenza. Sei attivo e hai in te energia e gioia. Ti piace… uscire e andare tra la gente per aiutarla a trasformare la propria sofferenza e cominciare ad assaporare la gioia del praticare. Ti piace innaffiare i semi positivi della consapevolezza e lasciare inaridire quelli negativi.
Spinto dalla fede, diventi una persona attiva e, praticando con diligenza, sviluppi dentro di te un altro tipo di energia chiamata presenza mentale, che è la terza facoltà…
La presenza mentale ti aiuta a guardare alle meraviglie della vita come fonte di nutrimento e guarigione. Ti aiuta anche ad abbracciare le tue afflizioni e a trasformarle in gioia e libertà.
Secondo gli insegnamenti del Budda, la vita può essere vissuta solo nel momento presente. Se sei distratto, se la tua mente non è lì con il corpo, perdi il tuo appuntamento con la vita…
Se c’è presenza mentale, allora c’è anche un altro tipo di energia, quella della concentrazione: la quarta facoltà… Quando vivi con concentrazione entri in contatto profondo con il mondo che ti circonda e inizi a comprenderne la profondità. Questa si chiama visione profonda…
Questo genere di comprensione è chiamata visione profonda, ed è l’ultima delle “cinque facoltà”. La visione profonda è frutto di un’esperienza diretta… Se vivi con una persona e non sai molto di lei, significa che non vivi con la realtà di quella persona, ma con il concetto che tu hai di lei…
Sei passato attraverso la sofferenza, la felicità, il confronto diretto con ciò che esiste, ed è su questo che si basa la tua fede. Nessuno te la può portare via. Può solo continuare a crescere. Se alimenti questo tipo di fede dentro di te, non diventerai mai un fanatico, perché la tua fede è una fede vera e non l’aggrapparsi a un concetto»5.

I suoi scritti. Sono più di settantacinque, tra saggi, raccolte di poesie e preghiere. Tra quelli pubblicati in Italia, ricordiamo il bellissimo volume Spegni il fuoco della rabbia, edito negli oscar Mondadori; Il segreto della pace. Trasformare la paura, conoscere la libertà e La luce del Dharma. Dialogo tra cristianesimo e buddhismo, sempre per la Mondadori; Insegnamenti sull’amore, per la Neri Pozza; Il Buddha vivente, il Cristo vivente, Editrice Tea; Perché un futuro sia possibile. Il Sutra per i discepoli laici del Buddha, Astrolabio; Essere pace, Ubaldini. •

Note

(1) Un lunghissimo periodo di tempo.
(2) Capitolo «durata della vita del Tathagata, ne Il Sutra del Loto, Milano 1998, e in «Felicità in questo mondo», ne Gli scritti di Nichiren Daishonin, cap. 4.
(3) Da Buddismo, a cura di R. Minganti, Firenze 1996.
(4) Thich Nhat Hanh, Spegni il fuoco della rabbia, Mondadori, Milano 2002, pag. 53.
(5) Thich Nhat Hanh, La luce del Dharma. Dialogo tra cristianesimo e buddhismo, Milano, 2003, pagg. 61-63.

Angela Lano




Missione a Plati

Cari missionari,
un amico mi ha consegnato Missioni Consolata indicandomi l’articolo «Lamponi a Natale» (dicembre 2003). Con mia grande sorpresa e gioia si afferma: «È giunta l’ora della missione ad gentes anche in Europa»!
Da anni vivo in un campo rom alla periferia della bella e turistica Pisa, mosso dalla convinzione che gli istituti missionari (appartengo ai Saveriani) oggi sono chiamati ad «allargare» ad intra la dimensione ad gentes… Mi rallegra sapere che voi ponete la questione sul tavolo. Vi fa onore. Buona missione.

L’articolo «Lamponi a Natale» riguarda Platì (RC), dove la missione «scotta». Anche per i missionari ad gentes.

p. Agostino Rota




NO ALLA ZIZZANIA

San Pedro / Incontro con Barthélemy Djabla (Costa d’Avorio)
Nato nel 1936, sacerdote dal 1964, rettore
del seminario di Abidjan, mons. Barthélemy Djabla
è da 12 anni vescovo di San Pedro, diocesi grande
tre volte il Veneto. Attento alla vita del paese,
ha partecipato al Forum per la riconciliazione
nazionale ed è impegnato nella ricostruzione
della convivenza tra tutte le popolazioni
della regione sud-occidentale della Costa d’Avorio.

Monsignore, qual è la situazione
attuale della Costa d’Avorio?

La popolazione della Costa d’Avorio, nel
suo insieme, è molto accogliente. Siamo
il paese dell’ospitalità e frateità.
Numerose persone dei paesi della Comunità
economica degli stati dell’Africa
dell’Ovest (Cedeao) e di altre parti
del continente sono immigrati nel nostro
paese. Il fenomeno si è accentuato
dopo l’indipendenza (1960). Li abbiamo
accolti e continuiamo ad accoglierli
frateamente. Vorrei ricordare
che la Costa d’Avorio è il paese al mondo
con la più alta percentuale di stranieri:
ufficialmente sono il 26%. È giusto
che questo si sappia all’estero.

Cos’è che attira tanti immigrati
nel paese?

Prima di tutto cercano pace; poi guadagnarsi
da vivere. Abbiamo milioni di
ettari di foresta e le porte del commercio
sono aperte a tutti. Questi nostri
fratelli si sono stabiliti in città e villaggi
per il piccolo commercio; altri sfruttano
le foreste con la coltura del cacao,
caucciù, caffè e piantagioni varie.
Ben presto essi hanno trovato tempo
per il divertimento e per lavorare, naturalmente;
grazie all’accoglienza fratea,
si sono bene integrati nelle nostre
comunità e nei villaggi.

Sembra che la pacifica convivenza
tra locali e immigrati dal
Burkina Faso sia in pericolo:
monsignore, cosa sta capitando
realmente?

Come ho già detto, la Costa d’Avorio è
un paese di accoglienza: i burkinabé
vivono mescolati ai vari gruppi etnici
locali. Non c’erano problemi fino a pochi
anni fa. Per capire ciò che sta accadendo,
bisogna analizzare le cose in
profondità e non è difficile.
Nel 1990 il presidente Houphouët Boigny
mise un economista a capo del governo:
fu un errore, anche perché non
risolse i problemi economici del paese.
Questo primo ministro si chiama Alassane
Dramane Ouattara: approfittando
della sua posizione, ha iniziato un lavoro
sotterraneo per destabilizzare la
situazione. Aveva ambizioni politiche,
ma ha agito in modo scorretto: ha messo
gli stranieri in opposizione agli avoriani.
Questa è la realtà.
La situazione è precipitata col colpo di
stato del natale 1999: in varie città ci
sono stati disordini socio-politici, violenze
e scontri sanguinosi. Ma il male
viene da là.
Qualcuno ha parlato di xenofobia…
Gli scontri etnici non hanno nulla da
spartire con la xenofobia e il razzismo,
che in Costa d’Avorio non esistono affatto.
Tutto viene da là: alcuni politici,
calpestando leggi e diritto, sfruttano
le differenze etniche degli autoctoni
per metterli in contrasto tra loro
e i burkinabé contro le popolazioni locali
della regione sud-occidentale del
paese.

Quindi anche nella diocesi di San
Pedro si sono avute violenze?

Nel novembre 1999, dopo decenni di
pacifica convivenza con gli stranieri,
commercianti e agricoltori, nella parrocchia
di Tabou i burkinabé si sono
scontrati con i locali sulla questione
terriera. Alcuni sono morti. Ma il problema
è fondiario e non etnico.
Per sfuggire alle violenze, 2-3 mila persone
si sono rifugiate nella missione,
dove hanno trovato protezione e aiuti
per sopravvivere. Superata l’emergenza,
bisognava trovare i mezzi per
promuovere la riconciliazione: la missione
cattolica di Tabou ha radunato
a Grebo i preti della diocesi insieme ai
capi locali e burkinabé per discutere,
chiarire e appianare i problemi tra stranieri
e autoctoni. Abbiamo concluso
l’incontro con la messa e tutti si sono
stretti la mano.

Si è parlato pure di guerra di religione:
come sono i rapporti tra
cristiani e musulmani?

In Costa d’Avorio le relazioni tra cristiani
e musulmani sono state sempre
buone e amichevoli. Poi è venuto un
individuo che, per motivi politici, ha
seminato la zizzania della discordia tra
autoctoni e stranieri, tra cristiani e musulmani.
Per colpa di tale individuo ci
sono state gravi incomprensioni nel
paese, sfociate in distruzioni e saccheggi
di edifici religiosi nell’ottobre
del 1999. I musulmani si sono armati.
Sono state trovate armi nascoste nelle
moschee: una scoperta che non ha fatto
piacere ai cristiani.
Anche in questa diocesi cristiani e musulmani
vivevano in pace, finché il seminatore
di zizzania non ha portato la
discordia. Ora la situazione è migliorata;
ma bisogna lavorare per ricucire
gli strappi e riparare il male fatto.
C’è chi afferma che, dopo i presidenti
cristiani e del sud, sia
ora che un uomo del nord e musulmano
guidi le sorti del paese.
Dall’indipendenza a oggi nella Costa
d’Avorio si sono succeduti presidenti
cattolici: Boigny, Bédié e l’attuale
Gbagbo. Ma il ragionamento è del tutto
sbagliato. La presidenza del paese
non è un problema di chiesa o di religione,
ma di gioco democratico. La
gente sceglie il candidato che presenta
il programma migliore. La chiesa
non s’immischia in politica, nel senso
che non si schiera con nessuno, né indica
quale candidato votare, ma lascia
ai fedeli piena libertà di scelta.
E poi, dividere il paese tra nord musulmano
e sud cristiano è totalmente falso;
tale divisione esiste solo nella testa
dei politici. Nel nord i musulmani sono
più numerosi che nel resto del paese,
ma ci sono anche molti cristiani e la
maggioranza della popolazione segue
la religione tradizionale e simpatizza
più per il cristianesimo che per l’islam.

Qual è il ruolo della chiesa nella
vita del paese?

La maggioranza degli avoriani pratica
la religione tradizionale. I cristiani non
raggiungono il 20%. La chiesa cattolica
è una minoranza, ma gode di grande
prestigio agli occhi di tutti, cristiani,
pagani e musulmani, a tale punto
che, quando sorge una situazione difficile,
tutti guardano alla chiesa, ai vescovi,
a cosa dicono e come si comportano;
e i loro suggerimenti vengono
accolti con rispetto e attenzione.
Tale prestigio deriva dal fatto che la
chiesa lavora per la pace e la giustizia,
è coinvolta nell’azione sociale, educazione
e campo sanitario per il bene di
tutta la popolazione, senza alcuna distinzione:
la chiesa è per tutti e, come
dice il papa, «è esperta in umanità».
Monsignore, lei ha partecipato
al Forum per la riconciliazione…
Tra ottobre e dicembre 2001 si è svolto
tale evento che abbiamo accolto con
favore. Vi ho partecipato come rappresentante
della chiesa e come testimone
dei problemi che hanno provocato
le violenze nella diocesi. Oltre 700 delegati
di partiti politici e gruppi religiosi
hanno affermato la volontà di rimarginare
le ferite e ricostruire la convivenza
pacifica delle varie componenti
sociali. Sono state prese delle decisioni,
che ora devono essere attuate. Il
vero lavoro deve ancora incominciare e
siamo tutti coinvolti e responsabili.
Anche a San Pedro vogliamo contribuire
a tale processo. Stiamo preparando
un sinodo dal tema: «Annunciare
la buona novella di Gesù Cristo alle
popolazioni del sud-ovest della Costa
d’Avorio». Usiamo il plurale di proposito,
poiché tali popolazioni, autoctone
e straniere, sono numerose, ma devono
costituire una famiglia unica nel
sud-ovest avoriano; tutte devono vivere
in pace. È questa la missione nostra
e della chiesa in Costa d’Avorio: far sì
che tutte le etnie vivano e lavorino frateamente.

A proposito, qual è la situazione
della diocesi di San Pedro?

È una diocesi giovane: è stata creata il
23 ottobre del 1989, staccandola dal
territorio di Gagnoa. Si estende per una
superficie di 35 mila kmq e conta oltre
un milione di abitanti: è una popolazione
cosmopolita, composta da stranieri
di molte nazionalità africane e
tutte le etnie autoctone del paese.
In questi 10 anni abbiamo accelerato
l’organizzazione pastorale con la creazione
di nuove parrocchie: ora sono 13.
Abbiamo un buon numero di agenti di
pastorale: missionari stranieri, preti fidei
donum, tre sacerdoti autoctoni e
numerose suore: tutti, missionari e
missionarie, religiosi e clero locale lavorano
insieme in perfetta comunione.
Inoltre abbiamo trasferito la cattedrale
dalla città in questa zona, poiché la
cappella costruita nel primitivo quartiere
era troppo piccola e non c’è spazio
per sviluppare altre opere. In questa
zona, ribattezzata quartiere cattedrale,
abbiamo ottenuto un grande
terreno in cui sono stati già costruiti
un centro di formazione, l’episcopio,
una scuola cattolica e un grande salone,
che per ora funge anche da chiesa
parrocchiale.
La cattedrale è ancora in fase di progettazione;
ma un giorno riusciremo a
realizzare anche quest’opera.

Quali problemi e quali speranze
per San Pedro?

La regione del sud-ovest è stata trascurata
prima e dopo l’indipendenza.
La diocesi è molto estesa e buona parte
è foresta. Fino a una dozzina di anni
fa una pista congiungeva Abidjan a
San Pedro e Tabou. Ora abbiamo la strada
asfaltata che lega la capitale alla
frontiera con la Liberia. Ma le vie di comunicazione
con l’interno sono ancora
costituite da piste e sentirneri impraticabili,
specialmente durante i mesi delle
piogge. Speriamo che, con lo sviluppo
economico della regione, sia possibile
estendere l’evangelizzazione anche a
quei villaggi che non hanno ancora incontrato
un missionario.
Inoltre le strutture (scuole, chiese…)
sono scarse e mancano mezzi e personale
per costruirle.
La pastorale vocazionale è una priorità
della diocesi. Le vocazioni ci sono; bisogna
seguirle e formarle per avere preti
autoctoni. Abbiamo due diaconi diocesani;
presto saranno ordinati preti.
La carenza maggiore riguarda le comunicazioni
sociali, indispensabili per
l’evangelizzazione: abbiamo bisogno di
una radio cattolica, giornali e pubblicazioni
di vario genere per trasmettere
il messaggio del vangelo anche ai villaggi
più isolati.

Quali sono le iniziative più significative
nel campo della promozione
umana?

La Caritas è attiva in tutte le parrocchie.
Religiosi e religiose sono impegnati
in numerose iniziative di promozione
umana, come le varie attività di
formazione umana e religiosa che i padri
della Consolata hanno intrapreso
nella baraccopoli di San Pedro; un fratello
della Consolata si occupa della salute,
con il dispensario di Grand Béréby
e la formazione di agenti di pastorale
sanitaria nelle comunità della foresta.
In molte comunità esistono scuole di
alfabetizzazione.

Un’ultima domanda, monsignore:
cosa si aspetta per il futuro
dai missionari della Consolata?

Prima di tutto li ringrazio per aver portato
nella diocesi uno spirito veramente
missionario e un entusiasmo di cui
abbiamo bisogno. Grazie soprattutto
per la disponibilità: hanno scelto di lavorare
nella baraccopoli del Bardot, la
zona più difficile della diocesi; hanno
aperto una missione a Sago, nel cuore
della foresta; hanno accettato una terza
missione a Grand Béréby.

Per il futuro? Auguro loro di continuare
a lavorare come sanno fare. Se aprissero
una nuova missione, non potrei
chiedere di più.

Benedetto Bellesi