Non basta il silenzio delle armi

Incontro con mons. Celestino Migliore, nunzio apostolico presso l’Onu

L’ambasciatore del Vaticano non nega la crisi del Palazzo di vetro, ma allo stesso tempo vede segnali importanti di rinnovamento. Perché le Nazioni Unite non siano una «Torre di Babele» al servizio del potere.

New York. Nella metropoli statunitense ha sede il segretariato delle Nazioni Unite dove sono prese alcune delle principali decisioni politiche a livello intea-
zionale. Le trattative e negoziazioni sono discusse durante l’Assemblea generale dai rappresentanti permanenti, ovvero dagli ambasciatori dei 191 stati membri.
Anche la Santa Sede è presente all’Onu, però solo come «osservatore», ovvero, come altre organizzazioni inteazionali ivi presenti (per esempio, la Lega degli stati arabi, il Comitato internazionale della Croce Rossa, etc.), pur partecipando ai dibattiti, non ha diritto di voto in Assemblea generale.
Il rappresentante della Santa Sede (altrimenti detto «nunzio apostolico») presso le Nazioni Unite è un diplomatico di carriera: mons. Celestino Migliore, arcivescovo di Canosa. Mons. Migliore, piemontese di Cuneo, oltre a godere di un’eccellente reputazione a livello internazionale, ha un importante curriculum professionale e una preparazione accademica unica.

Monsignore, cosa significa essere un diplomatico della Santa Sede?
«Rappresentare il papa. Tra i suoi titoli c’è quello di Sommo pontefice, che, nonostante l’aulicità dei termini, significa una gran bella cosa e cioè: colui che più di tutti cerca di costruire ponti. In questo senso, la diplomazia della Santa Sede è anzitutto uno strumento pastorale a disposizione del papa per cercare di realizzare l’ideale della coesistenza dei popoli nella pace, nella solidarietà, nella cura reciproca e nel senso della comune dipendenza da Dio».

Come concilia l’attività diplomatica con quella di sacerdote?
«Ogni mattino nella messa la preghiera eucaristica mi fa ringraziare il Signore“ per averci ammessi alla sua presenza a compiere il servizio sacerdotale”. Il mio servizio sacerdotale comincia subito all’inizio di ogni funzione, quando si riconosce il nostro stato di peccato: in quel momento porto davanti al Signore i peccati miei e quelli della famiglia Onu che possono essere lentezze che penalizzano i poveri, verbosità e fumosità di certi discorsi che tradiscono inazione, egoismi nazionali o regionali a scapito del bene comune, impertinenze di chi vuole sostituirsi a Dio in tante maniere. La meditazione quotidiana sulla parola di Dio getta luce sulle questioni all’ordine del giorno. Le parole “questo è il mio corpo” voglio pronunciarle con la fede che il miracolo operato da Gesù non si fermi alla trasformazione del pane in corpo suo, ma si estende al corpo mistico della chiesa, della società umana. Una lezione di umiltà e di tenacia allo stesso tempo, perché i conflitti li avremo sempre tra noi, ma l’unità la crea lui.
Negli incontri quotidiani con funzionari e diplomatici, non è infrequente sentirmi dire: “preghi per me”, “dia una benedizione perché l’iniziativa vada in porto”, “ho bisogno della sua preghiera” … intenzioni che amo tener presenti nella preghiera dei salmi o nel rosario, perché esse manifestano la convinzione di molti che tutti viviamo nella dipendenza da Dio».

Il suo incarico di rappresentante della Santa Sede presso l’Onu cosa comporta concretamente? Quali sono i suoi compiti?
«Nell’ambito dell’Onu, la Santa Sede ha scelto di essere non un membro a pieno titolo, ma osservatore. Il che significa che esercita tutte le funzioni normali dei membri ad eccezione del voto e della partecipazione nella gestione istituzionale e amministrativa dell’organismo. Essa contribuisce al dibattito sulle grandi questioni come la pace, la sicurezza, lo sviluppo, l’ambiente; i diritti del bambino, della donna, dell’anziano; questioni sociali e altre riguardanti il diritto alla vita; l’informazione, la cultura e la collaborazione delle religioni alla costruzione della pace. Segue da vicino i vari negoziati che si intavolano sulle questioni appena accennate ed altre ancora».

Perché è importante partecipare nei negoziati dei testi adottati dall’Onu?
«Perché quelli giuridicamente vincolanti – anche se vincolano solo i paesi che li ratificano – entrano a far parte della normativa internazionale. Anche i testi con valenza politica creano quella che viene comunemente detta soft law, ma la tendenza di ogni parlamento nel mondo è quella di legiferare tenendo un occhio su tali indicazioni e pertanto quello che oggi si dichiara all’Onu domani molto facilmente entrerà nelle legislazioni nazionali. Infine, c’è un altro compito della mia attività dell’Onu che forse è quello che maggiormente assorbe tempo e forze ma che offre anche una certa gratificazione. Con un po’ di presunzione, la chiamerei “dar voce a chi non ha voce”. Ma è proprio così. Quante volte dalle comunità cattoliche, e non solo, sparse nel mondo qualcuno scrive al papa o va ad incontrarlo ed espone situazioni di guerra o di fame o di violazione dei diritti umani che sembrano non aver né fine né soluzione. A volte si tratta di parlare in nome loro, ma spesso è invece il caso di aiutarli ad incontrare chi può far qualcosa, ad esporre essi stessi, perorare la loro causa con le loro proprie parole e il loro carico di speranza».

Quali sono i più grandi ostacoli che vede in questo momento nel processo di riforma dell’Onu? Perché l’Onu è in crisi?
«È forse questione della bottiglia mezzo piena o mezzo vuota. Ciò che vedo in questo momento e mi pare giusto sottolineare è la parte mezzo piena. Nonostante un evidente clima di crisi, il processo di riforma sta producendo misure importanti. È stata adottata la commissione per il consolidamento della pace, che segna un importante passo avanti: e cioè, si è riconosciuto che la pace non è il solo silenzio delle armi, ma va preparata e costruita con strutture nuove o riformate a livello politico, giuridico e sociale; essa va consolidata con processi di accertamento della verità storica e di riconciliazione; essa va coltivata con modalità che coinvolgono i singoli vincitori e vinti. È in dirittura d’arrivo la riforma del meccanismo di monitoraggio e implementazione internazionale dei diritti dell’uomo (1). Ne sono in cantiere altre, intese a rendere il Palazzo di vetro sempre più dimora della trasparenza e del servizio alle popolazioni, più che non all’equilibrio del potere. Evidentemente, si registrano problemi, ritardi, ostacoli, resistenze. Nell’Onu, dove si trovano ogni giorno, gomito a gomito, rappresentanti di tutti i paesi del mondo, si riflette in modo evidente la grande frammentazione culturale di oggi che a volte rischia di rendere questa istituzione una Torre di Babele. La globalizzazione unifica il mondo su tanti livelli, non su quello culturale, anzi sembra accentuae le differenze. Essa va avanti con una sua logica ferrea, ma le manca un’etica comune».

Barbara Mina da New York

(1) Il 15 marzo 2006 l’Onu ha deliberato la fine della «Commissione dei diritti umani» e la nascita del «Consiglio dei diritti umani», anch’esso con sede a Ginevra

Barbara Mina




CHIAMATEMI LADINIA

Per quasi 2 mila anni i ladini hanno sviluppato la propria cultura nelle valli dolomitiche, un’area geografica che dovrebbe chiamarsi Ladinia.
Le vicende storiche dell’ultimo secolo hanno frantumato la loro coesione sociale e culturale, per assimilarli ai dominatori di tuo. Lingua e religione cementano ancora la loro identità. Il frutto illustre di tale identità cristiana è san Giuseppe Freinademetz, per 30 anni missionario in Cina.

Grande cultura, quella ladina, che si incunea tra le cinque vallate della Val Gardena, Badia, Fassa, Livinallongo e del cadorino, raggruppando 30 mila persone.
Grande cultura se si tiene presente che è riuscita a sopravvivere nonostante sia sempre più stritolata tra il ceppo italiano e quello germanico; nonostante la storia, tra cui si insinuano due guerre mondiali, l’abbia sempre vista sconfitta; nonostante Austria, Germania e Italia abbiano cercato in tutti i modi di scaificare il tessuto culturale, per utilizzarlo come cuscinetto che oliasse le frizioni tra le etnie principali: quella tedesca del Tirolo a nord e quella italiana del Trentino a sud.

Lingua e religione:
identità della Ladinia

La cultura ladina si è mantenuta viva grazie alla lingua, derivata dalla trasformazione del latino volgare, portato da Tiberio nel 15 a.C., mischiandosi con la parlata dei reti, prendendo corpo tra l’viii e il ix secolo d.C., apparentandosi con l’occitano e il catalano.
«Lingua ladina, dunque, non dialetto alpino» scrisse il regista Pierpaolo Pasolini, ladino friulano anch’egli.
«Essendo ladino, ci tengo a parlare ladino, anche se le mie radici sono inserite in un contesto che mi impone di parlare altre lingue, che imparo comunque volentieri» dice Leander Moroder, direttore dell’Istituto ladino di San Martino in Badia, interpretando il pensiero aperto e accogliente della maggioranza dei ladini.
Ma la sopravvivenza della ladinità, si esplica anche attraverso un secondo elemento fondamentale: la religione. Fu il sacerdote badiota Micurà de Ru a elaborare la prima grammatica ladina. E la religiosità cattolica ladina, da sempre cemento di coesione tra le diverse vallate, si è sempre contraddistinta per un forte senso comunitario tipico delle vallate montane.
«La tradizione religiosa accomuna i ladini di tutte le cinque valli e non è un caso che, per separare il nostro popolo, si è pensato di dividere le cinque vallate tra le diocesi di Bressanone, Trento e Belluno» afferma Hilda Pizzinini, figura storica per tutto il popolo ladino e, fino al 2004, presidente dell’Union Generela di Ladins dles Dolomites.
Le feste cristiane diventano così eventi di comunione e di incontro tra le popolazioni, ma sprizzano anche di influssi germanici, più che italiani. La festa di San Nicola, la predilezione per i santi e gli ordini monastici nordici si riconducono a uno stretto legame tra le popolazioni ladine e quelle tirolesi; legame non sempre pacifico e rispettoso.
Se nel xii secolo il ladino era parlato in quasi tutto l’arco alpino centro orientale, nel xvii secolo, con la germanizzazione dell’Alta Val Venosta, la lingua e le tradizioni ladine vennero prima vietate e poi represse con violenza.

Lavaggi… linguistici

Da parte italiana la colonizzazione non fu meno feroce e brutale. Il fascista Ettore Tolomei, definito da Gaetano Salvemini «l’uomo che escogitò gli strumenti più raffinati per tormentare le minoranze nazionali in Italia», gettò le basi politiche e ideologiche per la creazione della regione Trentino Alto Adige, scatenando l’irredentismo sudtirolese.
La data che fa da spartiacque di questa colonizzazione è il 10 ottobre 1920, quando l’annessione del Trentino e dell’Alto Adige al regno d’Italia venne sancita in sede diplomatica. La violenza e la determinazione con cui fu attuata l’italianizzazione, può essere evidenziata con un solo dato: in soli due anni, gli italiani residenti nelle valli sudtirolesi quintuplicarono, passando da 8.000 a 37.000.
La tesi ufficiale che diede inizio alla nazionalizzazione tricolore, il 29 settembre 1923, fu che «la maggior parte della popolazione del Tirolo meridionale è costituita da latini, i quali hanno dimenticato la loro origine e sono diventati tedeschi. Bisogna quindi “recuperarli”, riscoprendo il “sostrato” latino più antico e genuino per ogni nome locale tedesco e ladino». Brixen divenne Bressanone, La Ila si trasformò in La Villa, Cianacei in Canazei, Gherdeina in Gardena…
Per i ladini non fu il primo «lavacro dei cognomi», dato che già dal 1700, sotto il dominio tedesco e asburgico, molte famiglie furono costrette ad adottare cognomi tedeschi. Qualche esempio? Zanon in Senoner, Ruac in Rubatscher, Murena in Moroder (Giorgio Moroder, il famoso compositore di musica per film è ladino di Ortisei).

Identità disgregata

Ma il fascismo, con l’intento di debellare ogni forma di ribellione politica e culturale, attuò una ben più profonda cesura: la tripartizione della comunità ladina, prendendo spunto dalla precedente divisione napoleonica del 1810. Tra il 1923 e il 1927 i ladini vennero divisi in tre province: l’Ampezzo, Livinallongo e Colle Santa Lucia passarono alla provincia di Belluno, la Val di Fassa a quella di Trento e la Val Badia e Gardena a quella di Bolzano. Una disgregazione dittatoriale che dura tuttora e nell’estate scorsa i comuni cadorini di Cortina, Livinallongo e Colle Santa Lucia hanno tentato di annullare chiedendo l’unione con la provincia di Trento. Quella fascista non fu solo una mossa amministrativa, ma un tentativo, in parte perfettamente riuscito, di dividere politicamente l’identità ladina.
Ancora nel 1939, con l’accordo italo-tedesco sull’opzione, si lasciò ai sudtirolesi la possibilità di scegliere tra restare in Sud Tirolo, diventando italiani a tutti gli effetti, o emigrare nella Germania nazista. Per i ladini, la cui identità è differente sia da quella tedesca che da quella italiana, non venne concessa una terza opzione: o si era Dableiber, sudtirolesi italiani fascisti o Auswanderer, sudtirolesi tedeschi nazisti.
Neppure la fine della Seconda guerra mondiale, con l’appoggio di Stati Uniti e Francia all’autodeterminazione tirolese e, in separata sede, anche a quella ladina, per creare una potenziale nazione che avrebbe dovuto fungere da stato cuscinetto tra Italia e Germania, fu liberatoria per il popolo ladino. In questo caso fu Alcide De Gasperi a vanificare tutte le speranze di autodeterminazione. Con il pugno di ferro ritirò le promesse fatte a Parigi di un’autonomia ladina e, anzi, suggellò definitivamente lo status quo fascista: tripartizione e istituzione della regione Trentino Alto Adige.
Secondo De Gasperi il movimento politico ladino, Zent ladina, fondato nel 1946 al passo Gardena con l’obiettivo di riunificare le cinque vallate ladine, era un’accozzaglia di «austricanti». I mezzi per sconfiggere questa «marmaglia» anti italiana furono subdoli e infidi: le Olimpiadi invernali del 1956 a Cortina servirono da pretesto a Roma per ridurre del 40% la presenza ladina sul territorio, favorendo l’immigrazione di italiani.
E se i sudtirolesi di lingua tedesca reagirono alla colonizzazione italiana, dando vita a un movimento separatista, i ladini scelsero la strada della politica, con la fondazione dell’Union Generela di Ladins dles Dolomites e del Movimento politico ladino.
La risposta italiana non si fece attendere. Sul fronte religioso, nel dicembre 1964, Livinallongo, Colle Santa Lucia e Ampezzo vennero staccate dalle diocesi di Bressanone; su quello politico, per non aprire un terzo fronte in Sud Tirolo, Roma lasciò che a giocare la questione ladina fosse la Sud Tiroler Volkspartei.

Senza voce in capitolo

La mossa fu azzeccata, tanto è vero che il gruppo tedesco ancora oggi soggioga quello ladino, escludendolo da ogni decisione politica. «Se voi avete Berlusconi, noi abbiamo la Svp – dice Giovanni Mischi, presidente del Movimento Ladins -. Subiamo forti repressioni derivanti dagli accordi tra la vecchia Dc e la Svp e che vengono mantenuti ancora oggi. Non abbiamo potere decisionale».
«Il Movimento politico ladino in Val Gardena e Val Badia ha retto per 10 anni – spiega Hilda Pizzinini -; poi la pressione della Svp ha schiacciato il partito e ora, nonostante i ladini rappresentino demograficamente il 4,8% della popolazione sudtirolese, abbiamo solo un rappresentante in provincia. E la gente si chiede quale contributo può dare alla causa ladina».
Neppure l’indotto economico che le valli ladine garantiscono alla regione Trentino Alto Adige, di gran lunga superiore al loro peso demografico, è riuscito a dare una svolta alla politica regionale. «Noi ladini non siamo riusciti a metterci d’accordo e questo è uno dei motivi per cui noi non contiamo nulla a livello amministrativo provinciale e regionale – lamenta Leander Morder -. Val Badia e Val Gardena, anziché creare un comprensorio unico ladino, hanno preferito aggregarsi a due entità economiche diverse: quelle dello Sciliar e della Pusteria».
Come spesso avviene, il successo economico, se da una parte ha giocato un ruolo positivo nel limitare l’emigrazione verso i centri più sviluppati, dall’altro ha sradicato la cultura. Dagli anni ‘70 la cementificazione ha imperato, snaturando (in senso letterale) la regione, in particolare la Val Gardena, Val di Fassa e Ampezzano. Non occorre essere un ambientalista per inorridire di fronte agli enormi complessi alberghieri costruiti per soddisfare le esigenze di un turismo d’élite, che una classe speculativa, formata da amministratori e impresari, ha voluto trascinare in queste valli. Un turismo d’élite che non ha nulla a che fare con la cultura contadina, che per secoli ha abitato masi e villaggi. Un turismo d’élite che ben poco conosce della cultura che li ospita e che, quando parla di cavalli, il pensiero viene rivolto allo stilista e non ai quadrupedi che un tempo popolavano le verdi vallate ladine.

Piergiorgio Pescali




Sarò cinese anche in paradiso

San Giuseppe Freinandemetz (1852 – 1908)

«Ecco, trovato quel paese che già da anni pregavo Iddio di voler mostrarmi; trovato la mia patria nuova, che da tanto tempo sospiravo di vedere, arrivato io sono finalmente nella chiesa». Queste poche righe, scritte il 28 aprile 1879 e ricevute dalla famiglia a Oies, in Val Badia, qualche mese dopo, annunciavano l’arrivo del ventisettenne padre verbita Giuseppe Freinademetz in terra di missione: la Cina.
Era una Cina, quella che accolse il sacerdote badiota, umiliata dalle potenze europee, vincitrici delle guerre dell’oppio (1840-42). I governi occidentali, consci dell’odio creato attorno a loro nell’animo dei cinesi con l’imposizione di trattati iniqui, si fecero precedere nell’espansione nel Paese di Mezzo da avanguardie di evangelizzatori. Armati di crocifisso e vangelo, questi missionari, preparavano il terreno all’arrivo di eserciti ben più cruenti e violenti, composti non solo da soldati, ma da amministratori corrotti e impresari senza scrupoli.
Per i cinesi tutti gli europei sono i «nasi lunghi». Non sorprende, quindi, che i primi passi di Giuseppe in terra cinese furono ben poco conciliatori: «L’adulto cinese ci deride in pubblico, i bambini ci gridano alle spalle. Sembra che perfino i cani provino un gusto particolare a rincorrerci e abbaiarci contro. Il missionario è odiato da molti, tollerato da pochi, amato da nessuno» scriveva in una delle sue prime lettere.
Un atteggiamento di ostilità e incomprensione dapprima contraccambiato da molti sacerdoti, a cui neppure Freinademetz seppe venir meno. Nelle sue prime lettere l’ardore e il fuoco del giovane missionario è, a dir poco, militaresco. Giuseppe arriva in Cina «per menar guerra contro il diavolo e l’inferno, per gettar a terra i templi dei falsi dèi, per impiantar al loro luogo il legno della croce».

Questo ostracismo dura però solo una stagione. Nonostante tutto, già nei primi anni, Giuseppe confessa: «Essere missionario in Cina è un onore che non cambierei colla corona d’oro dell’imperatore d’Austria» (a quell’epoca la sua terra natale apparteneva alla monarchia austro-ungarica).
Ben presto Giuseppe Freinademetz si accorge di quanto male facciano gli europei all’Asia e, in particolare alla sua missione nello Shantung del sud, cui la Santa Sede aveva affidato alla congregazione dei Verbiti l’evangelizzazione. «Beh, non c’è da meravigliarsi sullo scetticismo nei confronti degli europei e sul loro comportamento, in quel tempo. Penso inoltre che lui stesso, conoscendo le persone più a fondo, abbia mutato anche il suo giudizio sui cinesi» afferma il vescovo di Bressanone, mons. Wilhelm Egger.
Già nel 1884 Freinademetz inizia a vestire come i suoi parrocchiani, parla il mandarino, porta la treccia e, soprattutto, adotta un nome cinese: Fu Shen-Fu (padre della fortuna). Scrivendo a un familiare in Sud Tirolo afferma: «Sono ormai più cinese che tirolese. E non ho altro desiderio che morire con loro e essere sepolto tra di loro. Desidero essere cinese anche nel cielo».
La politica dei paesi europei incomincia a nausearlo; alla madre scrive: «Il maggior flagello per noi e per i poveri cinesi cominciano a essere tanti europei senza fede e perfettamente corrotti, che adesso cominciano a inondare tutta la Cina. Sono bensì cristiani, ma sono peggiori dei pagani, non si curano d’altro che di far denaro e di andare dietro a tutti i piaceri mondani».
All’opposto, rivaluta completamente le sue idee iniziali sui locali, giungendo a rivelare che «in molti punti sorpassano gli europei. Lo sanno anche loro stessi, perciò odiano tutti gli stranieri… Sono veramente la prima nazione al mondo, solo manca loro il cristianesimo».
Eppure, Giuseppe in Cina non ebbe vita facile: la rivolta dei Boxer nel 1900, la persecuzione cristiana, le malattie resero la sua opera di evangelizzazione, dura e pericolosa. Fino al 1908, anno in cui morì stroncato dal tifo a Taikia, dove fu sepolto, continuò a scrivere alla madre e agli amici nel suo italiano stentato o in tedesco, non dimenticando, però, la sua cultura natale: il ladino. «Chi non è chiamato dal Signore non abbandoni la bella Badia», scrisse in uno dei tanti momenti di nostalgia, in cui ricordava con piacere i tre anni trascorsi come parroco a San Martino in Badia (1875-78) o la sua infanzia felice con i 12 fratelli all’ombra delle vette dolomitiche.
Ed è forse proprio questo il miracolo di san Giuseppe Freinademetz: conosciuto da pochi, è entrato nel cuore di tutti i tirolesi. «Già quando era ancora parroco le persone locali si sono accorte che lui era una figura eccezionale. Le uniche reliquie che abbiamo di san Giuseppe sono i capelli, che la perpetua ha tagliato prima che partisse per l’Olanda (1878), dove era la sede dell’ordine dei Verbiti e li ha tenuti con sé quasi presagendo la santità che era in lui. Quando era parroco a San Martino in Badia la gente faceva anche 6-7 ore di cammino per ascoltare le sue omelie» spiega mons. Egger.

Oggi quasi ogni casa badiota mostra l’effigie di Giuseppe Freinademetz, beatificato nel 1975 da Paolo vi e proclamato santo il 5 ottobre 2003 da Giovanni Paolo II. Anche se in 30 anni di missione in Cina non è mai tornato in patria, Giuseppe ha conservato intatto, attraverso le sue lettere, il rapporto con gli amici, la famiglia, la sua gente e la sua valle; questo rapporto non si è mai interrotto; egli ha continuato a vivere, anche dopo la sua morte, non solo nella Val Badia, ma in tutto il Sud Tirolo.
«Mio padre, nato nel 1900, mi raccontava che si ricordava ancora quando in valle arrivò la notizia della morte del missionario – racconta padre Pietro Irsara, custode della casa natale del santo -. Nella nostra famiglia, come in molte altre della valle, si pregava per la beatificazione e poi per la canonizzazione di Giuseppe. Si notava già un’aria di santità in questa persona. Pochi anni dopo la sua morte scoppiò la Prima guerra mondiale e la gente si rivolgeva al missionario per chiedee l’intercessione. Quando, durante il fascismo c’è stato il problema dell’Opzione, molti, ancora indecisi, si rivolgevano a lui per chiedere consiglio sulla scelta da compiere».
Oggi la casa di san Giuseppe Freinademetz è meta di pellegrinaggi che vengono dal Sud Tirolo, dall’Austria e dalle città d’Italia dove sono presenti i missionari del Verbo Divino. «Alla gente che viene qui in pellegrinaggio – continua padre Pietro – ricordo la fede eroica che egli ci ha lasciato in eredità. Una fede che occorre vivere, non nascondere. Mi piace anche ricordare il rapporto di san Giuseppe con il dolore e la sofferenza. Lui ha sofferto molto, per questo poteva incoraggiare la famiglia, spiegare come il dolore non sia un castigo di Dio, ma un segno di Dio, una prova che Dio ci manda».

«Un’altra eredità lasciata da san Giuseppe è l’amore per i cinesi – conclude padre Irsara -. Si è fatto cinese tra i cinesi. È riuscito ad amarli sinceramente, nonostante le difficoltà e sofferenze che ha provato. Le firme per la sua canonizzazione sono arrivate dalla Cina, dalla regione dove ha lavorato: ciò significa che la sua persona e il suo lavoro è ancora oggi riconosciuto e vivo tra la gente per cui ha dato la vita».
La sua apertura all’altro ha precorso i tempi: Freinademetz aveva appreso che per capire e convivere con le altre culture e religioni, occorre convertire anzitutto se stessi. E in questo contesto risultano «provocatorie» anche le parole più semplici. In un’Italia dove i media continuano a propinarci stereotipi triti e ritriti, cercando di convincerci che viviamo nel «paese più bello del mondo», parliamo la «lingua più bella del mondo», abbiamo la «cucina più buona del mondo», è sconvolgente che più di 200 anni fa, un umile contadinotto di un’oscura valle dolomitica, scriveva: «Mi credete se vi dico che la Cina non è più brutta della bella Badia?».

Piergiorgio Pescali




ASINO vs CAVALLO

Oltre al fatto storico, l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme è un evento «teologico»: rivela la sua natura messianica. Egli ha voluto cavalcare un asino, simbolo di umiltà, di servizio e di pace, anziché un cavallo, simbolo di superbia, di guerra e di potenza militare. In tale gesto Gesù si rivela e propone come modello da imitare: «Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore».

La domenica delle palme, o domenica di passione, è tra le più sentite dai cristiani che affollano le chiese per la benedizione dei rami di ulivo e delle palme intrecciate, vissuti più come strumenti innocui di magia, che segni di una straordinaria rivelazione.
Il racconto è riportato da tutti e tre i sinottici (Mt 21,1-11; Mc 11,1-11; Lc 19,29-40) che dimostrano il profondo significato che i primi cristiani attribuivano a questo avvenimento.
La partenza dal villaggio di Betfage e l’arrivo trionfale di Gesù a Gerusalemme a dorso di un’asina non è solo un evento storico, ma un fatto «teologico» con cui gli evangelisti ci vogliono dire qualcosa della personalità di Gesù.
Per questo tragitto di un chilometro e mezzo, che si rivela un trionfo di popolo, Gesù cavalca un’asina e non un cavallo. Cavalcando l’asina, Gesù realizza la profezia del profeta messianico Zaccaria, citato espressamente nel racconto di Matteo: «Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma» (Mt 21,5; cf Gv 12,15; citazione di Zc 9,9).
Secondo sant’ Ambrogio l’asino è simbolo dell’uomo umile che impara a offrire se stesso a Cristo per portarlo nel mondo.
Il messia è «il principe della pace» (Is 9,5) e può entrare in Gerusalemme solo cavalcando un’asina, perché uno dei suoi compiti sarà quello di fare sparire i cavalli e i carri da guerra (cf Zc 9,9-10). Secondo Luca Gesù cavalca un asinello sul quale nessuno è mai salito prima (cf Lc 19,30): è la novità inaugurata dall’èra messianica.
Quando vogliono farlo re alla maniera del mondo (Gv 6,44) Gesù fugge perché la logica delle «beatitudini» (Mt 5,1-10) è in contrasto con i criteri del potere mondano (Gv 1,10; 15,18-19; 17,9-11; 1Cor 2,6; Mc 10, 40-45; ecc.). Cavalcando un’asina per il suo ingresso nella città di «Davide, suo padre» (Lc 1,32) che lo riconosce «figlio di Davide» (Mt 21,9), Gesù fa una scelta di campo e di metodo: sceglie i poveri e i bambini come cittadini privilegiati del suo regno messianico, le cui relazioni saranno guidate dal metodo della nonviolenza contro ogni forma di sopraffazione e ogni forma di guerra, simboleggiate nel «cavallo». La tradizione biblica oppone i due animali.

L’asino è simbolo del lavoro e della pace, è bestia da lavoro (Gen 22,3.5; 42,27; 44,13; Es 4,20; 23,4-5; Nm 22,22-23; Dt 22,10; Gs 15,18; Gdc 1,14; 1Sam 25,20.23; 2Sam 17, 23; Lc 10,34), fa girare le macine dei mulini (cf Is 30,24; 32,20; Mt 18,6) e in Egitto le ruote dei pozzi. L’asino non è mai usato come «arma» di guerra.
Il cavallo, animale superbo e solenne, non è mai usato per i lavori dei campi, ma è utilizzato solo per i combattimenti come una vera macchina da guerra (Sal 20,8; 33,17; 76,7; 147,10; Pr 21,31; Is 31,3; Os 1,7). È considerato arma pesante, specialmente se unito al «carro», ed esprime la «potenza» di chi li possiede. L’espressione «cavallo e cavaliere» diventa espressione tecnica per indicare una perfetta macchina da guerra inarrestabile, che solo Dio sa affrontare e distruggere (Es 15,1.21; Gb 39,18; Ger 51,21).
Carri e cavalli rivelano una supremazia bellica, un forte deterrente contro eventuali attacchi. L’uomo che ostenta la sicurezza dei suoi cavalli armati di carri è il faraone, simbolo stesso del nemico di Dio, emblema del persecutore e oppressore (Es 14,9.23). Oggi corrisponderebbe a un carro armato missilistico.
Il profeta Zaccaria (citato da Mt 215) prosegue così: «Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco della guerra sarà spezzato, annunzierà pace alle genti» (Zc 9,10). Carri e cavalli cioè l’ignominia della guerra (cf Is 2,1-5).

Di norma i figli d’Israele combattono a piedi, risultando così molto lenti di fronte a chi è più forte e potente, ma è proprio questa la loro specificità. Non è Israele che combatte e vince o perde, ma è Dio che combatte per Israele, se essi non confidano nella potenza esteriore o nel numero, ma hanno fede in Yhwh che li protegge da ogni pericolo e sopruso.
Mosè prima di morire aveva messo in guardia: «Quando andrai in guerra contro i tuoi nemici e vedrai cavalli, carri e un popolo più numeroso di te, non ne avere paura: perché il Signore tuo Dio è con te, lui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto» (Dt 20,1-4, qui v. 1), cioè ti ha liberato dalla pre-potenza del faraone nonostante i suoi carri e i suoi cavalli.
Mosè può dire queste parole perché aveva già sperimentato che la vittoria sul feroce Amalek non è dovuta alla forza del suo esercito, ma alla sua preghiera: «Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek» (Es 17,9-15).
La preghiera è lo scudo del credente in ogni avversità della vita, fisica o spirituale. I martiri di tutti i tempi hanno sempre vinto i loro aggressori non con le spade, ma con la preghiera fino al dono della vita.

Nel 703/702 a. C., il re Ezechia invia un’ambasciata in Egitto, la potenza mondiale dell’epoca, per chiedere aiuto contro l’Assiria di Sennacherib: una piccola e insignificante nazione vuole schierarsi accanto alla «grande potenza», per non essere schiacciata e avee un tornaconto.
Contro questa politica di alleanze di comodo si schiera il profeta Isaia, che profetizza: «Guai a quanti scendono in Egitto per cercare aiuto, e pongono la speranza nei cavalli, confidano nei carri perché numerosi e sulla cavalleria perché molto potente, senza guardare al Santo d’Israele e senza cercare il Signore» (Is 31,1).
Il profeta pensa a quanto è avvenuto in un altro viaggio, dall’Egitto alla terra promessa, nell’esodo, quando il faraone si credeva forte perché aveva un potente esercito, che nulla ha potuto contro gli ebrei inermi, privi di armi, ma guidati dal Signore che camminava alla testa della colonna durante il passaggio del Mar Rosso: «Ha gettato in mare cavallo e cavaliere. Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato… I carri del faraone e il suo esercito ha gettato nel mare e i suoi combattenti scelti furono sommersi nel Mar Rosso. Gli abissi li ricoprirono, sprofondarono come pietra» (Es 15,1-5).
In Israele, il re Salomone costruisce il suo regno sui carri e i cavalli: «Salomone aveva 4 mila scuderie per i cavalli dei suoi carri e 12 mila cavalli» (1Re 5,6), eppure il suo regno dura poco, perché alla sua morte si disintegrerà per sempre e non si ricostruirà mai più.

La riforma deuteronomistica del sec. vii a. C. aveva profetizzato che il futuro re d’Israele, antenato del Messia, sarebbe stato colui che «non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli, né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi gran numero di cavalli» (Dt 17,16), perché il potere del re d’Israele deve essere un potere opposto a quello del faraone: «Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli; noi siamo forti nel nome del Signore nostro Dio» (Sal 21/20,8).
In questo contesto, il profeta Zaccaria annuncia il re-messia, che cavalca un asino, anzi un puledro di asina, cioè un animale mite, ma anche fragile e debole come un puledro. Cavalcando un’asina per entrare in Gerusalemme, si presenta come l’erede messianico del re Davide che viaggiava sulla mula e non sul cavallo (cf 1Re 1,38) e come colui che ha del potere un concetto di servizio e non di sopraffazione: «Voi sapete come coloro i quali sono ritenuti capi delle nazioni le tiranneggiano, e come i loro prìncipi le opprimono. Non così dev’essere tra voi; ma piuttosto, se uno tra voi vuole essere grande, sia vostro servo, e chi tra voi vuole essere primo, sia schiavo di tutti. Infatti il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,42-45).
Il suo regno veramente non è di questo mondo (cf Gv 18,36)! Un re che viene su un asino non incute terrore, ma ispira mitezza, perché si presenta sulla cavalcatura usuale che i contadini utilizzano ogni giorno. Il re-messia è uno di noi che sta dalla nostra parte. Non viene per estorcere o per occupare, ma per servire il suo popolo e guidarlo con una politica di pacifico governo: «Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» (Sal 23/22, 2-4).

L’asino si oppone anche all’uomo ottuso che non comprende la parola di Dio. L’episodio dell’asina di Balaam (cf Nm 22,23-35) mostra che, a differenza dell’uomo, questo animale sa scorgere la presenza dell’angelo di Dio, riconoscendolo, mentre il suo padrone pretendeva di essere un «veggente» e parlare in nome di Dio. L’asina vede ciò che il «veggente» non ascolta.
Nella domenica delle palme la folla acclama Gesù come messia e lo accompagna nel suo ingresso in Gerusalemme, la «Figlia di Sion» (Zc 9,9); ma dopo tre giorni, davanti a Pilato che lo mostra e lo propone come loro messia (Cristo), la stessa folla griderà di crocifiggerlo: «Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo (unto/messia)?… Che farò di Gesù chiamato il Cristo? Tutti gli risposero: Sia crocifisso!… Che male ha fatto?… Essi allora urlarono: Sia crocifisso!» (Mt 27,17-23).
Colui che si è presentato a dorso di un’asina, re pacifico e nonviolento, anche se crocifisso non può difendersi con gli eserciti all’uso del mondo: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36).
Al contrario, egli è capace di dare la sua vita in cambio di un brigante. In aramaico «Barabba» significa «figlio di papà (bar-abbà), mentre Gesù di Nazareth è «il Figlio del Padre» (in aramaico: Bar-Abbà), anzi «l’Unigenito» (Gv 1,14.18; 3,16.18; 1Gv 4,9), che è venuto per salvare tutti i «figli di papà» smarriti nelle strade del mondo, anche gli assassini, i terroristi, coloro che sono giudicati come feccia e rifiuto dell’umanità, quelli che butteremmo tra le fiamme dell’inferno, perché abbiamo un senso della giustizia lontanissima da quella di Dio. In Dio, infatti, la giustizia è sinonimo di misericordia.
Se il re-messia crocifisso fosse stato «giusto» alla maniera degli uomini, avrebbe dovuto invocare da Dio la vendetta contro i suoi carnefici e non avrebbe infranto la toràh: sarebbe dentro la logica legale dell’«occhio per occhio» (Es 21,24).
Il Figlio dell’uomo, però, cavalca un’asina e, quando è crocifisso, prima di abbandonarsi totalmente nelle mani del suo «Abbà», egli invoca il perdono di Dio sui suoi carnefici, come atto supremo di giustizia, perché soltanto nel perdono avviene il superamento della colpa: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
Se fosse venuto sul cavallo avrebbe impugnato la spada, ma poi non avrebbe potuto imporre a Pietro di riporla nel fodero, perché la spada è l’emblema della violenza che chiama violenza (Mt 26,52) e non avrebbe potuto perdonare i suoi uccisori, ma avrebbe dovuto massacrarli.
Egli al contrario sconvolge ogni sistema di ragionamento, capovolge la logica del «buon senso» e si presenta a dorso di un’asina, mite e pacifico, ponendosi come modello e come pietra di paragone: «Imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (Mt 11,29). In questo modo s’identifica con tutti i poveri che lo avevano preceduto (cf Sof 2,3; Dn 3,87) e con tutti i poveri «figli di papà/barabba», disperati, che sarebbero venuti dopo di lui.
La discriminante della verità di Gesù è un’asina, la cui presenza ci rivela molto di più della personalità di Gesù di quanto non possiamo immaginare. Non ci resta che andare anche noi nel villaggio vicino a cercare un’asina con un puledro e fae un simbolo di credenti nel nostro re che viene «mite, seduto su un’asina» (Zc 9, 9; Mt 21, 5)

Paolo Farinella




«Vogliamo un’auto e una lavatrice»

Quando milioni di cinesi avranno un’auto e una lavatrice, che sarà del mondo? Se è giusto che anche i cittadini di Pechino abbiano quanto noi abbiamo avuto, è altrettanto certo che le conseguenze su un pianeta già al collasso saranno devastanti. E le soluzioni (ammesso che ci siano) non sono a portata di mano. Nel frattempo, i paesi occidentali sono invasi da prodotti cinesi, spesso fabbricati in condizioni inaccettabili. Concorrenza sleale? Macché, è il sistema neoliberista occidentale che ha introdotto le giustificazioni economiche: deregolamentazione, libera circolazione dei capitali, concorrenza, consumo senza produzione…

L’aspirazione gigantista cinese è ben comprensibile viaggiando lungo la nuova rete autostradale che si sta sviluppando nel paese per migliaia di chilometri: una ragnatela di corsie, arditi viadotti, tangenziali che sembrano voler contenere ipertrofiche megalopoli che ingoiano progressivamente gli anelli d’asfalto appena inaugurati da funzionari di partito con l’elmetto in testa.
Una rete sovradimensionata che sta avvolgendo il paese ma che per il momento vede percorrerla, una volta usciti dalla città, rare automobili, di solito i grossi Suv dei nuovi ricchi che possono permettersi il sacro rito del casello autostradale.
Se oggi le autostrade sono praticamente deserte, fra pochi anni saranno percorse da milioni di automobilisti che, abbandonata la bicicletta, potranno dirsi anch’essi cittadini modei e sviluppati; il boom industriale strappa alla povertà (ma qui bisognerebbe capire cosa si intende con questo termine) milioni di cinesi ogni anno e al momento sono circa 100 milioni coloro che vivono con relativa agiatezza.
Percorrere la nuova autostrada che collega Shanghai con il suo aereoporto è un balzo nel futuro della Cina: quattro corsie che corrono in una giungla suburbana di zone industriali variamente colorate: capannoni gialli, azzurri, grigi (molti quelli delle aziende italiane) si susseguono come tanti mattoncini che compongono un’unica nebulosa urbana su cui incombe un cielo lattiginoso e plumbeo. Questo nastro d’asfalto è una soddisfazione: di giorno le auto riempiono le corsie quasi fossero il sangue delle vene di un organismo, un frenetico fluire di acciaio, gas di scarico, uomini e donne al volante di vecchie carcasse e nuove fuoriserie provenienti da paesi lontani. Ogni tanto, il fluire delle automobili è superato a sinistra dal nuovo treno a levitazione magnetica, una specie di missile simile ad una giostra, forse una dimostrazione di tecnologia per impressionare il turista, o meglio ancora il giornalista o l’uomo d’affari occidentale appena sbarcato nell’«impero di mezzo».

La Cina è tecnicamente pronta all’invasione delle automobili e in generale lo è per qualsiasi altro oggetto di consumo.
La restante parte del mondo lo è in egual misura? La restante parte del mondo è pronta ad accettare (facendo un rapporto all’occidentale tra popolazione e numero di prodotti) seicento milioni di nuove auto, quattrocento milioni di lavatrici, e altre decine di miliardi di pezzi tra computer, cellulari, televisori, condizionatori, lavatrici, nuove case…?
Il mondo è già in overdose di estealità negative legate all’industrializzazione di massa occidentale (vedi «Una sola madre terra», su Missioni Consolata), il premio Nobel James Lovelock, con molti altri scienziati, parla ormai apertamente di estinzione di massa dell’essere umano entro 100 anni a causa di un cocktail ben assortito di cambiamenti climatici, scarsità di risorse e relative guerre.
Un processo non futuribile ma reale, già chiaramente visibile al giorno d’oggi ed in fase avanzata, sostiene lo scienziato inglese ideatore della famosa teoria scientifico-economica che prende il nome di Ipotesi Gaia.
Nonostante questo, che il mondo sia o meno pronto al mortale abbraccio cinese all’american way of life non ha alcuna importanza. L’ingranaggio è partito e fermarlo non sarebbe né giusto né possibile.
«La lavatrice non è un diritto solo per gli occidentali!». Parole sacrosante avute in risposta ad una domanda provocatoria posta a qualche cinese con reazioni emotive che andavano dall’indignato, al furibondo, ovviamente.
Le grandi megalopoli cinesi sono mostri che viaggiano intorno ai venti milioni di abitanti, oltre questa soglia gli urbanisti sostengono che vi sia un collassamento generale delle fognature, dell’ordine pubblico e del trasporto.
In Cina ne esistono almeno quattro ed una di esse, Qongqing è giunta a quota 25 milioni. Girarle non è un’esperienza entusiasmante. La stessa Shanghai è un guazzabuglio di grattacieli, templi del commercio ricoperti di mattonelle bianche, raccordi autostradali su più livelli, un banale tentativo di scimiottare, Parigi, New York, Londra: affoga nell’inquinamento e nel caos. I vecchi quartieri coloniali vengono abbattuti per far posto a grattacieli che dopo dieci anni appaiono già vecchi. Il trionfo del kitch e del cattivo gusto, del grezzo gigantismo assurto a bellezza.
Il tempo della rivoluzione culturale della «banda dei quattro» sembra non essere finito.
Ogni anno 20 milioni di cinesi abbandonano le campagne e si inurbano alla ricerca di lavoro nei cantieri edili, o come camerieri, commessi, manovali nei mercati etc: sono questi uomini e queste donne che provengono dalle sperdute regioni della campagna a carburare la tumultuosa crecita del paese.
La pelle crepata dal sole nei campi, e i lineamenti tradiscono la loro provenienza dalle lontane province cinesi: Inner Mongolia, Sichuan, Tibet…
Sono carne da cannone nel grande balzo moderno cinese: loro non contano nulla nel conteggio del prodotto nazionale lordo, non rientrano in nessuna statistica tanto da non essere nemmeno un costo per le aziende quando si infortunano o muoiono. Chi protesta viene cacciato, tanto il serbatornio di fuggitivi dalle campagne verso la terra promessa vista nella televisione comune di qualche ristorantino sperduto è infinito.
Sono svariati milioni i cinesi utilizzati come schiavi per produrre la merce che poi il consumatore estero, di solito lamentoso «per la scarsa qualità», acquisterà a prezzi stracciati non solo nei nuovi templi pagani (i centri commerciali), ma anche nelle raffinate boutique dei centri storici a prezzi ben più elevati.

Qualche numero. Il 75% dei lavoratori cinesi migranti (milioni di persone, forse 20) non viene pagato, molti di loro come forma estrema di protesta si suicidano.
Ogni anno muoiono 6.000 minatori. Sono decine di migliaia i bambini che lavorano come schiavi nelle fabbriche.
I manifestanti sono spesso considerati rivoltosi che attentano all’ordine sociale del paese, una minaccia da stroncare con qualsiasi mezzo. Ma il vigoroso sviluppo economico non trova sostegno solo nello sfruttamento delle masse ma anche in selvaggio utilizzo dell’ambiente e delle risorse.
Il 90% dei fiumi cinesi è avvelenato, uguale situazione per il 70% delle acque sotterranee.
La Cina brucia un miliardo e settecento milioni di tonnellate di carbone ed è il quinto consumatore mondiale di petrolio (entro pochi anni diventerà il secondo). Sulla Cina grava una cappa di smog solforosa che copre praticamante tutto il paese e che trasportata dai venti arriva fino in Europa e negli Stati Uniti.
In un recente libro scritto dal ministro per l’economia Giulio Tremonti vi è un accorato appello a invertire questa situazione con mezzi drastici, fosse anche con un nuova politica protezionista.
Il ministro però non parte da una visione olistica, ma da un assunto economico nazionalista. In sintesi: il consumatore occidentale nel suo delirio onnivoro a basso prezzo made in China sta distruggendo l’economia europea perché fa sì che gli imprenditori esportino capitali e conoscenza tecnologica in Cina ed importino povertà.
La teoria deregolamentatrice degli anni Novanta che va sotto il nome di globalismo o globalizzazione, ha portato a questi risultati. Gli imprenditori occidentali hanno accolto felicemente questa deregolamentazione transnazionale massiccia, che ha fatto piazza pulita della figura del lavoratore con cui contrattare onerosi aumenti di salario, o peggio il miglioramento delle condizioni di lavoro, o peggio del peggio la diminuzione dell’orario a parità di paga.
Tutti retaggi di stampo comunista non assimilabili da un sistema economico moderno e competitivo, dicevano.
Finito in soffitta il lavoratore, in Europa è assurta la figura del consumatore, ovvero colui che spende il proprio denaro, sempre più spesso facendo ricorso ai debiti, per riempirsi la vita di cose di per sé inutili (come dice il famoso pubblicitario Frederic Beigebeder «chi è felice non consuma») ma che una potente campagna di marketing ci fa vedere come indispensabili.
Il consumo senza produzione è il meccanismo diabolico che sta tenendo in piedi le obese economie occidentali di servizio e finanziarie, totalmente drogate.
Un esempio: tutti i telefonini che avete in casa, il primo, il secondo, il terzo, le macchine fotografiche, i dvd, i televisori etc. etc. sono prodotti in Cina. Nessuno di quei pezzi di plastica e microchip è prodotto da italiani.
La parola magica per questo processo è stata competitività: ovvero il lavoratore dipendente italiano, francese, tedesco, … è entrato in diretta competizione con il cinese che vive nelle condizioni di cui sopra. Non così i proprietari dei mezzi di produzione che hanno invece approfittato delle occasioni date dalla libera circolazione dei capitali: il capitale trova sempre la migliore allocazione possibile, dopo tutto è il suo mestiere.
È evidente che solo il ricorso al debito può sostenere i consumi in questa situazione e infatti paesi come l’Italia navigano a vista in un mare di stagnazione economica.
Grande impulso a queste dinamiche economiche, viste come la panacea di ogni problema, è stato dato dai governi degli anni Novanta partendo dagli Usa (Clinton), passando dalla Francia (De Villepein), Italia (Prodi, D’Alema, Amato), Germania (Schroeder), Inghilterra (Blair)…
Tale politica ha trovato sponda negli imprenditori, giustamente ansiosi di aumentare il saggio di profitto ma soprattutto dai sindacati che da sempre lottano per difendere i lavoratori…
Al tempo, fine anni Novanta, andava di moda dire che «se il mare del capitale si fosse alzato, tutte le barche sarebbero cresciute».
Ma la storia talvolta compie capriole. Chi avrebbe mai pensato che un ministro iperliberista dell’economia come Giulio Tremonti definisse «deliranti» le politiche economiche di Wto, Fmi, World Bank, degli anni Novanta mentre il cosiddetto popolo noglobal si trovasse ad aver ottenuto inaspettatamente quello per cui protestavano a gran voce: la riduzione della povertà nei cosiddetti paesi i via di sviluppo.
Il mondo vive quindi un periodo caratterizzato da una potente «redistribuzione» della ricchezza. Gli italiani, i francesi, e gli altri stanno un pizzico meno bene, mentre sempre più asiatici smettono di coltivare riso e inurbandosi migliorano le loro condizioni di vita. Molti sono usati come schiavi, altri si emancipano: ubi major minor cessat nel 2006?

Il problema, che nessuno vuole guardare perché semplicemente non risolvibile, è che per sostenere il ritmo di crescita cinese siamo di fronte ad un vigoroso affondo contro l’ecosistema planetario, visto solo come capitale naturale con cui alimentare la crescita materiale.
La Cina urbana è un incubo che dovrebbe far tremare i polsi ai governi mondiali che invece se ne rallegrano. Lo stile di vita all’americana è un’ossessione che pervade ormai la vita di centinaia di milioni di cinesi che vivono per poter avere la stessa vita di uno statunitense o europeo.
È bene sottolineare che questo desiderio è sacrosanto, ma diventa un pericolo in funzione della finitezza delle risorse naturali (chi sostiene che il concetto di risorsa non esiste perché è l’ingegno umano a creare le risorse attraverso le tecnologie si scontra inesorabilmente con il primo e secondo principio della termodinamica che, ahinoi, lasciano poco spazio a bislacche fantasie di moti perpetui o energie infinite)
Quante foreste bisognerà abbattere, quanto pesce pescare, petrolio e carbone bruciare, etc per soddisfare un paese di 1,3 miliardi di persone che cresce al ritmo del 10% annuo?
E dato che l’economia è una coperta corta (se tiri da una parte si scopre l’altra) le potenze occidentali saranno veramente disposte a cedere le residue risorse strategiche ai cinesi vogliosi di vivere nel benessere materiale, lo stesso nel quale hanno sguazzato per sessant’ anni statunitensi, francesi, tedeschi, italiani etc?
Qualsiasi cosa accada esistono dei feedback negativi che investiranno il pianeta.
Eppure quello che è un vero disastro per tutti è vissuto come una conquista, come una possibilità di crescita. Un’illusione tipica delle società che collassano, le prove lasciate dagli abitanti dell’isola di Pasqua, dai Maya o dagli abitanti della Groenlandia ne sono un esempio.
La locomotiva Cina ci sta portando tutti su una montagna russa altissima e noi siamo o sull’apice o all’inizio della discesa. Auguri.

3a puntanta. Le precedenti puntate di questo reportage dalla nuova Cina sono state pubblicate a dicembre 2005 e gennaio 2006. Gli articoli sono reperibili su questo sito internet.

Giacomo Mucini




Perù. Contro i terroristi, contro l’ingiustizia

L’epoca di Sendero Luminoso è durata 20 anni; l’ingiustizia e la povertà fanno da sempre la storia del paese latinoamericano.
Gastón Garatea Yori, prete di Lima, lotta per riparare ai danni del terrorismo e per dare una vita dignitosa alla popolazione peruviana che ancora vive nella povertà.

Lima. In Perù è molto conosciuto perché presidente della Mesa de concertación para la lucha contra la pobreza, organismo contro la povertà istituito nel gennaio 2001. Padre Gastón Garatea Yori mi accoglie nel suo ufficio al 1155 di Avenida Benavides, a Miraflores, un distretto della capitale peruviana. Barba e capelli bianchi, padre Garatea, 66 anni, ha l’aspetto di una persona tranquilla e semplice. Sul tavolo del suo ufficio sono impilati i 9 volumi dell’Informe final, il rapporto finale della Comisión de la verdad y reconciliación, la commissione istituita per indagare su 20 anni (dal 1980 al 2000) di terrorismo e guerra civile in Perù. Padre Garatea è uno dei 12 membri di quella commissione, che nel paese tanto ha fatto discutere.

La guerra civile in Perù:
69.280 vittime

Presidente della Tavola nazionale per la lotta alla povertà, membro della Commissione per la verità e la riconciliazione: lei è una persona importante, padre…
«Non tanto – si scheisce -. Non credo. Lei mi conosce soltanto perché fa il giornalista».

Il rapporto finale della Commissione per la verità e la riconciliazione è stato presentato il 28 agosto 2003, dopo due anni di lavoro. Qual è il suo giudizio?
«Era stato previsto che questo lavoro sarebbe durato 6 o 7 anni, mentre poi è stato concluso in due. Abbiamo indagato il fenomeno del terrorismo in Perù e i motivi che lo hanno determinato. Abbiamo fornito una interpretazione storica. Siamo quindi arrivati a tutti i punti importanti, i punti chiave, e questo è giusto sottolinearlo.
Io credo che la Commissione per la verità sia stata una delle più grandi iniziative intraprese in Perù».

E che ci dice sulle persone che l’hanno composta?
«Un eccellente gruppo, costituito da persone molto competenti. Sì, non ho dubbi al riguardo: persone valide, indipendenti, disinteressate, votate alla sola ricerca della verità, persone animate da un grande spirito di gruppo. Avevamo molte diversità (di provenienza, radici ideologiche, professione), siamo però riusciti a lavorare in gruppo, con grande spirito comunitario».

Il vostro rapporto parla di 69.280 vittime.
«… ma forse sono di più. Significa circa due milioni di persone coinvolte».

Le vittime furono in grande maggioranza poveri, molti parlavano “quechua” ed erano semianalfabeti…
«Quando le persone morivano sulla sierra, il potere centrale e la gente continuavano la propria vita come se nulla fosse successo. Quando l’ondata di terrorismo giunse a Lima, allora sì che le cose vennero prese sul serio».

Il gruppo di “Sendero Luminoso” è stato ritenuto responsabile del 54% di quelle vittime. Su quali basi ideologiche si formò Sendero?
«Ebbe un fondamento comunista-marxista-leninista-maoista che si proponeva di aiutare il popolo peruviano. Ma fu un’esperienza fallimentare: si cercò di imporre un regime totalitario basato sulla dittatura del proletariato. Questa dittatura avrebbe dovuto essere conseguita alla maniera di Mao: attraverso una rivoluzione che doveva partire dalle campagne per arrivare in città. Per questo si cominciò con una sensibilizzazione dei contadini. Io credo che questo lavoro non venne fatto a dovere. Si iniziò, ma non fu tanto incisivo quanto fu forte la violenza e la violenza, una volta innescata, non si riuscì più a fermarla. E, come succede spesso, i movimenti che usano la violenza non hanno più tempo per pensare».

Il “Movimiento revolucionario Tupac Amaru”, meglio noto con l’acronimo Mrta, è stato ritenuto responsabile soltanto dell’1,5 per cento delle vittime. In che differirono da Sendero?
«L’Mrta ebbe una grande risonanza per l’assalto all’ambasciata del Giappone (dicembre 1996-aprile 1997), ma non ebbe mai la stessa forza di Sendero, né la stessa organizzazione. Nell’Mrta c’era più consapevolezza politica; assaltavano banche e a volte uccidevano, ma non si potevano paragonare alla forza distruttiva di Sendero».

Il rapporto della Commissione è molto duro anche nei riguardi delle forze armate e della polizia. Come reagì lo stato all’inizio della guerra sporca?
«Lo stato reagì in modo sbagliato, perché non capì l’impatto politico. Pensò piuttosto che si trattasse di delinquenti comuni e agì di conseguenza».

Alla guida del paese ci furono presidenti diversi…
«All’inizio ci fu Feando Belaunde (1980-1985), seguì Alan García (1985-1990) e infine Alberto Fujimori. La guerra ebbe varie tappe. Il biennio più duro fu tra il1983 e l’84. Lo stato non capiva chi stava affrontando e tutto quello che si faceva era uccidere e questo fu un gran errore. Quando Alan García diventò presidente affermò che il terrorismo andava combattuto con lo sviluppo e questa avrebbe potuto essere una buona tattica, molto interessante. Cominciarono a diminuire gli attentati. Però nel giugno 1986 ci fu una rivolta in tre carceri di Lima (Lurigancho, El Fronton e Santa Barbara). Il governo ordinò l’intervento delle forze armate e ci fu una mattanza di prigionieri. Così arrivammo all’anno ’89 con un altro picco di violenza. Poi iniziarono a venire alla luce molti fatti: la corruzione nell’esercito, i legami tra Sendero e il narcotraffico, le infiltrazioni nei corpi dello stato…».

Poi, nel 1990, arrivò Alberto Fujimori e con lui Vladimiro Montesinos…
«Fujimori si rese conto che il terrorismo era la cosa più tragica e si buttò in questa guerra terribile avvalendosi dell’intelligence. Assestò duri colpi al terrorismo, ma allo stesso tempo diffuse la corruzione che arrivò ai massimi livelli. Vladimiro Montesinos, capo dei servizi segreti, aveva in pugno Fujimori e Fujimori accettava tutto».

Anche esecuzioni, sparizioni, torture, stupri. Anche i tribunali militari e i giudici “sin rostro”, senza volto perché erano incappucciati…
«I tribunali militari emettevano giudizi sommari e i giudici senza volto definivano sentenze ancora prima di iniziare i processi. I militari non erano giudici, non avevano una preparazione in tema di giustizia. Insomma, il sistema non permetteva l’esercizio di una giustizia giusta».

Il capo di Sendero, Abimael Guzmán Reinoso, detto Presidente Gonzalo, è incarcerato dal settembre 1992. Lei lo ha mai incontrato?
«Sì, nella base navale, dove è rinchiusa la cupola delle due organizzazioni. Ci sono anche Feliciano, Miguel Rincón Rincón, Victor Polay Campos».

Come fu l’incontro con lui?
«Un incontro istituzionale. Si sarebbe potuto credere più impressionante, ma lui è un filosofo. Certo un filosofo di secondo piano, ha elaborato una concezione molto chiusa, ermetica. In questo senso, non discute con l’altro: racconta, ma non si mette in discussione, non si lascia interrogare, come sarebbe proprio del filosofo che vive l’angustia delle domande. Guzmán ritiene invece di avere i suoi concetti ben chiari, di tenere il pensiero saldamente nelle sue mani».

Quanti anni ha ora?
«Una settantina. Non è molto vecchio ma è malandato di salute, perché ha sulle spalle tanti anni di carcere duro. Inizialmente aveva il diritto di uscire dalla cella solo mezz’ora al giorno e c’erano anche dei giorni in cui non poteva uscire. È stato condannato ad un anno di isolamento totale che poi sono diventati quattro anni. C’è da meravigliarsi che non sia ancora più provato da questo regime carcerario molto duro. Non è un uomo denutrito, è ben vestito, è lucido, segue bene la conversazione. L’ho trovato realista, è consapevole che morirà in carcere. Non si fa illusioni».

Prova compassione nei confronti di quest’uomo su cui gravano responsabilità tanto pesanti?
«Certo, si prova pena, perché è un essere umano, ma è una pena relativa se si pensa alle cose che ha fatto».

Il governo di Toledo ha ostacolato il vostro lavoro?
«All’inizio c’è stata molta gente che era contro la Commissione per la verità; ci trattavano come tendenziosi, ci fu gente che espresse giudizi gratuiti, alcuni addirittura ci insultarono. Da parte del governo non siamo stati sottoposti ad alcun tipo di pressione. Altri invece sì, ci hanno tenuti sotto pressione, anche indagando sul passato di uno o di un altro membro della Commissione, cercando di metterci in cattiva luce».

Il partito aprista (Apra,”Alleanza popolare rivoluzionaria americana”) era al governo negli anni duri della guerra. Come ha guardato al vostro lavoro?
«L’Apra ci ha seguito molto. Temeva che attaccassimo la sua dirigenza, ma noi non avevamo nulla contro il partito, anche se è certo che abbia agito molto male in varie circostanze. Contro l’Apra avevamo argomenti etici, politici, sociali, ma nulla di penale».

Dopo due anni di lavoro nella Commissione, cosa sente dentro di sé?
«Molte cose. Non siamo gli stessi di quando abbiamo iniziato: quello che abbiamo visto e sentito; le lacrime e la pena di vedere questo paese dissanguarsi. Tutti noi siamo stati colpiti. Io sono diventato diabetico».

Uno degli imperativi della Commissione dice: “Un país que olvida su historia está condenado a repetirla”, un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla. Bello, ma la verità è stata raggiunta?
«Sì».

Solo la verità? E la giustizia?
«In un qualche modo anche la giustizia. La maggior parte dei senderisti è stata imprigionata e questa è già giustizia. Ci sono state detenzioni di militari ma all’appello ne mancano. Manca infine tutto quello che riguarda le riparazioni, tanto collettive quanto individuali».

Le riparazioni alle vittime non si sono viste. Ma anche le richieste di “cambi istituzionali” in vari ambiti (politici, giudiziari, educativi) sono rimaste lettera morta. Che ne pensa, padre?
«Io credo sia un errore grandissimo, un grandissimo errore politico. La Commissione chiedeva cambiamenti strutturali, riforme dello stato, un nuovo ordinamento. Invece i politici stanno insistendo con lo stesso sistema del passato. Per questo sono da ritenersi responsabili della povertà, del sottosviluppo, della schiavitù di molti peruviani. Spiace parlare così, perché uno ama il proprio paese e la propria gente, ma questo è ciò che sta accadendo».

È preoccupato?
«C’è timore. Io personalmente ho molta paura che una cosa simile a quella sofferta per 20 anni torni a fare la propria apparizione. Non dico che sarà domani, non dico che sarà per i motivi politici del passato, ma potrebbe succedere. Le tensioni potrebbero provenire dal settore minerario o contadino o anche da settori commerciali. C’è un’esigenza di libertà e di giustizia che sale dai settori poveri, ma è un’esigenza che non ha trovato ascolto nello stato».

Un paese
con 15 milioni di poveri

I settori poveri della società peruviana lei li conosce bene in qualità di presidente della “Tavola di concertazione per la lotta contro la povertà”. In primis, la Tavola è un’ organizzazione governativa?
«Non proprio: è un ibrido tra lo stato e la società civile. Qui lo stato è abituato a comandare, ma la società civile ha le sue istanze. Noi abbiamo cercato di iniziare una collaborazione: piani congiunti per lo sviluppo, affinché le persone possano dire la loro e possano segnalare le proprie priorità. Ad esempio, il poter mangiare: le grandi opere non sono importanti come la sopravvivenza. Questo è un lavoro lungo, ma è una grande scuola di partecipazione e di gestione del bene comune. I frutti, prima o poi si raccoglieranno».

Ma cosa significa essere povero oggi in Perù?
«Cominciamo col dire che la povertà non è una condizione solo economica. Il povero è quello che non ha opportunità e non ha opportunità perché è escluso dalla società, una società che ha obiettivi che non sono per i poveri. Sono per gente altra: un’altra razza, un’altra cultura, un’altra lingua, un altro modo di vestire, un altro colore della pelle, un’altra statura…».

Scusi un attimo… lei intende statura fisica?
«Certo, la statura degli indigeni si abbassa, mentre quella degli altri cresce. È impressionante vero?».

Impressionante.
«Sono due paesi mescolati con un’invasione della capitale da parte della provincia. Questo fenomeno ebbe inizio negli anni ‘40, aumentò negli anni ‘50-’60 fino ad arrivare alla presa di Lima negli anni ‘80, Lima fu veramente occupata dal resto del Perù. Le famiglie di Lima sono uscite dal centro della città per fuggire dall’invasione della provincia».

Dalla provincia… Si tratta, dunque, soprattutto di popolazione indigena?
«Indigena che parla quechua. Il dipartimento del Perù dove si parla più quechua è quello di Lima. Questa massa di poveri che giunge nella capitale arriva nelle peggiori condizioni, e con un bassissimo livello di istruzione».

La scuola pubblica è così scadente?
«Le scuole pubbliche, nella maggior parte dei casi, sono molto malandate. Per le buone scuole bisogna pagare. E così avviene per le università: molti possono accedervi, ma le migliori sono quelle private, che tengono corsi a pagamento. Ci sono buoni corsi anche in università pubbliche (alla San Marcos, ad esempio), ma vi sono università di provincia, cui tutti possono accedere, che non si dovrebbero neanche chiamare università. È un problema reale, perché già qui avviene una separazione: tra chi ha opportunità e chi non le ha. Così, se si deve assumere un funzionario, gli si chiede da quale università proviene e quindi non tutti hanno le stesse possibilità. Dobbiamo fare ancora molta strada, per poter offrire un’educazione di buona qualità a tutti i peruviani. E la stessa cosa vale per la sanità».

Quanti sono ora i poveri in Perù?
«Quindici milioni».

E in percentuale?
«Quasi il 60% e di questi il 25% si trova in una condizione di estrema povertà, cioè non ha i mezzi necessari per la sopravvivenza. Sono persone in continuo pericolo, senza difese organiche, persone che muoiono per una malattia che ad un altro causerebbe solo un malessere».

Anche a Lima ce ne sono?
«Anche a Lima ci sono persone in condizione di estrema povertà, ma non tanto come in altre zone. Nel dipartimento di Huancavelica i poveri sono praticamente la totalità. A Cajamarca, terra di miniere di oro, il 48% dei bambini si trova in condizioni di denutrizione cronica…».

Di miniere si sta discutendo molto in Perù in questi anni…
«Nel dipartimento di Puno c’è una miniera dove lavorano i bambini. In un’altra, altissima, la gente non è neppure attrezzata, non avendo scarpe adatte per camminare sul ghiaccio. E poi è un disastro dal punto di vista morale: la metà delle case sono postriboli e l’altra metà sono discoteche. Non c’è speranza di vita e non c’è gusto per la vita.
Nessuno dà importanza alla vita del povero e loro sono abituati a questo. La gente lavora, si ammala, invecchia in fretta e muore ancora giovane. Costa molto convincersi che pure i poveri hanno i loro diritti. Alcuni iniziano a rendersene conto, ma le grandi strutture no, e men che meno le compagnie minerarie. Non può essere che nei luoghi dei giacimenti minerari vi sia estrema povertà e nel contempo grandi ricchezze».

L’attività mineraria è importante per il paese?
«In Perù, l’agricoltura è sviluppata sulla zona costiera, ma se abbiamo il 10% coltivato è già molto, il resto è deserto; la nostra sierra invece produce soltanto patate. Abbiamo miniere, quelle sì: oggi il 53% delle entrate del paese proviene dalle risorse minerarie. Quelle d’oro sono le terze per importanza nel mondo. C’è una quantità d’oro che nemmeno i padroni sapevano di possedere».

Le miniere stanno in terre indigene…
«Il problema minerario è innanzitutto un problema indigeno. D’altra parte, la questione indigena non è stata compresa per secoli ed ora inizia ad esplodere. Dopo 500 anni, bisogna tentare di riparare le ingiustizie. Sarà molto difficile, ma bisogna provarci».

Qual è la percentuale di popolazione indigena in Perù, più o meno?
«La metà, un po’ meno che in Bolivia. È gente che nasce povera ed è condannata a morire povera, perché lo sviluppo non arriva fino alle zone in cui vivono».

Le popolazioni indigene della Bolivia e dell’Ecuador, stanche di subire ingiustizie, fanno sentire la loro voce in maniera sempre più forte e chiara…
«Bolivia, Ecuador e Perù sono i tre paesi dell’ insurrezione indigena. Adesso bisogna fare molta attenzione, affinché ci sia sì una liberazione dall’ oppressione della povertà, ma una liberazione incruenta guidata dalla giustizia».

L’oppressione della povertà
e l’economia neoliberista

Padre, lei parla di “liberazione dall’oppressione della povertà”. Il sistema economico neoliberista che domina attualmente il mondo moltiplica ingiustizie e diseguaglianze. La liberazione inizia dalla fine del neoliberismo?
«Il neoliberismo cerca di fare in modo che la gente consumi sempre di più. Io penso che dentro un sistema siffatto non ci siano possibilità di riscatto per i poveri. Purtroppo, è un sistema che ha invaso tutto il mondo, persino la Cina. Ma il trattamento dei lavoratori è pessimo tanto per i peruviani quanto per i cinesi».

Questo sistema economico morirà?
«Io credo che nessuno lo possa salvare e che per questo morirà».

Ma morirà senza lottare?
«No, cercherà di salvarsi, ma credo che non abbia futuro perché l’esigenza della maggioranza è molto forte. Io penso che la coscienza di diritti umani uguali per tutti è cresciuta molto. Come pure è cresciuta la consapevolezza che l’economia non può essere l’aspetto fondamentale della vita. A chi dice che l’economia deve dirigere tutto, io rispondo che è il sociale che deve dirigere l’economia e il sociale deve essere guidato da uno spirito umanitario».

Il credo neoliberista è stato esportato nel mondo dagli Stati Uniti. Come prete cattolico, cosa pensa di Bush, un presidente che ricorda spesso il suo essere cristiano…
«Bush è il rappresentante di un cristianesimo fondamentalista. Non è un uomo di riflessione cristiana, non ha una visione del mondo basata su veri principi del vangelo. Io quel cristianesimo non lo accetterò mai, perché credo che il cristianesimo vero sia mettersi nell’ottica di Gesù di Nazareth e cioè nell’ottica dei poveri per creare un mondo migliore, di uguaglianza e giustizia. Questo non è il mondo a cui pensa Bush».

Lui dice di agire per la libertà…
«Questa è una menzogna. Bisogna dirlo con molta chiarezza: è una menzogna. Penso però che occorra distinguere Bush dal popolo nordamericano, anche se io rimprovero ai nordamericani di averlo rieletto, questo sì. Possono essersi sbagliati una volta, ma due volte è molto. Comunque, penso che quel popolo abbia bontà e generosità come tutti i popoli del mondo. Che poi i nordamericani siano neoliberisti è un’altra cosa: è il sistema ad essere tale ed è un sistema che si sta deteriorando. Gli Stati Uniti sono un popolo senza giovani, tanto che non hanno persone per rimpiazzare gli attuali funzionari dello stato. Per questo nazionalizzano i latinoamericani che si recano là, almeno i più efficienti tra loro. Offrono buoni stipendi ed essi si fermano. Così si sta trasformando la società nordamericana: non sono più alti e biondi, ma bruni, parlano castigliano, hanno sangue latino».

Questa mi pare una buona cosa sia per l’America Latina che per il mondo!
«Non posso dirlo, perché non so se questi latinoamericani che diventano nordamericani manterranno la loro testa diversa o la cambieranno. Il neoliberismo è molto insinuante.
Ed il gusto di essere grandi e potenti… ubriaca».

“Ubriaca”… è interessante la sua affermazione…
«La cosa più terribile del mondo è il potere del denaro. Se si può guadagnare, meglio, ma ci sono dei limiti… Su questi temi l’Europa si sa destreggiare meglio perché l’Europa sa riflettere».

Ma l’Europa è divisa e Bush è contento che lo sia.
«Certo che è contento! Ma l’Europa ha gente che pensa, ha filosofi, ha grandi pensatori, è innegabile. La cultura europea è più profonda di quella nordamericana».

Secondo lei, è giusto pensare che l’America Latina si andrà a poco a poco unendo perché sente di avere radici comuni, perché capisce che unendosi può diventare più forte? È così o è soltanto un sogno?
«Credo che sia un sogno, perché le divisioni sono molto grandi. Sebbene i cileni vadano a Buenos Aires e gli argentini alla spiaggia di Viña del Mar, questo non significa nulla. Tra Colombia e Venezuela, dove peraltro vivono molti colombiani, succede lo stesso. Tra Cile e Bolivia c‘è una barriera storica importante e così pure tra Perù e Cile. Abbiamo cioè divisioni molto profonde e molto sostenute dagli Stati Uniti: agli Usa conviene un continente diviso».

D’accordo. Ma, secondo lei, i popoli indigeni del continente latinoamericano non potrebbero costituire l’elemento coagulante?
«I popoli indigeni sono numericamente consistenti in Perù, Bolivia ed Ecuador. Poi ci sono alcune popolazioni in zone marginali: in Argentina, in Brasile, in Cile (i mapuche). L’Argentina è una provincia italiana: basta guardare l’elenco del telefono. Buenos Aires è una città europea. Non ha nulla a che vedere con le radici indigene: è una città di gente immigrata, e così, sotto alcuni aspetti, anche Santiago del Cile. L’America bianca non è l’America Latina. L’altra America, quella scura di pelle, è differente».

Toledo: il razzismo (bianco)
contro un indio (di fabbrica)

Padre, il presidente uscente, Alejandro Toledo, è un indio!
«Un indio de fábrica».

Cosa significa?
«Toledo ha studiato negli Stati Uniti e sotto molti aspetti è un nordamericano dipinto da indio. Non ha una cultura tanto ispanica come quella che abbiamo qui a Lima. Lui ha una cultura più pratica, come i nordamericani».

Nel 2001 Toledo iniziò con molte aspettative da parte della maggioranza dei peruviani, che oggi, dopo 5 anni di governo, si dicono molto delusi di lui. Qual è il suo giudizio?
«Toledo ha fatto cose molto buone. Ha messo ordine all’economia. Ha migliorato le finanze del paese e dato impulso alla crescita: 4-5% su base annuale è molto.
La povertà è diminuita, anche se non come avremmo voluto, ma è diminuita. In provincia i posti di lavoro sono aumentati più che a Lima e questo è importante. Ci sono più medici, più maestri; che ci siano ancora molti problemi è certo, ma questo non significa che non stiamo progredendo.
Il presidente ha invece combinato disastri nel trattamento della cosa pubblica; ha maneggiato molte cose come se fossero una sua proprietà personale; ha utilizzato male il potere.
È stato detto che Toledo avrebbe dovuto cambiare due cose attorno a sé: partito e famiglia».

Include anche la moglie, Eliane Karp?
«Anche la moglie. La moglie non ha avuto il carisma che sarebbe stato necessario; non ha trattato bene il popolo peruviano. Lei dice: non sono latina, non ho alcuna caratteristica simile alla vostra, provengo da un’altra cultura, ho un’altra mentalità e continuo a conservare questa mentalità. È stata poco diplomatica ed è stata poco amata dal paese e questo ha avuto un riflesso negativo su Toledo. Toledo con un’altra moglie avrebbe potuto essere più amato».

E sulla corruzione che dice?
«Il tema della corruzione è un tema molto vasto e importante per il paese. Toledo non ha saputo combatterla. Non è aumentata, ma non è diminuita come invece stava diminuendo negli otto mesi di governo di Paniagua. Non si è andati avanti come si sarebbe dovuto».

Toledo è stato un presidente, un «indio de fábrica» come dice lei, che i mezzi di comunicazione peruviani hanno sempre pesantemente criticato. Secondo lei, hanno esagerato?
«Sono stati sicuramente troppo cattivi. Gli hanno trovato tutti i difetti possibili e non hanno sufficientemente sottolineato le buone qualità del suo governo. Non va dimenticato che i media peruviani sono stati molto compromessi con il fujimorismo, una mentalità questa che ha influenzato il loro giudizio. Infine, i padroni dei mezzi di comunicazione non hanno perdonato che Toledo, un indio, sia diventato presidente della repubblica».

Razzismo?
«Sì».

Razzismo bianco?
«Certo. Questo è un grosso problema, anche se non si può generalizzare. All’inizio sembrava una bella storia: la vicenda di un indio della sierra che aveva studiato negli Stati Uniti, che aveva avuto molte soddisfazioni professionali e che infine era tornato in Perù per mettersi al servizio del paese… Invece poi come è stato visto? Come un uomo che si è messo dove non avrebbe dovuto mettersi: queste sono cose che succedono in un paese razzista».

Razzismo o meno, Toledo è stato al centro di numerosi scandali personali…
«Ha sicuramente sbagliato tante cose. Ma io credo che il suo governo non sia stato tanto cattivo come si dice. Per sintetizzare, direi che è stato un governo buono, con molte cose negative».

Tra García, Flores e Humala

Dopo Toledo, è possibile che torni ad essere presidente Alan García?
«L’Apra è il principale partito peruviano, dal momento che tutti gli altri sono piccoli schieramenti. Alan García è un uomo molto abile, ma in questo momento non so se potrà essere il prossimo presidente del Perù».

Se non lui, chi allora?
«Paniagua sarebbe la scelta migliore, ma Paniagua non è un politico agguerrito, non è uno che si fa largo parlando male degli altri, è un simbolo di onestà».

E Ollanta Humala? Lo scrittore Mario Vargas Llosa ne ha scritto malissimo. Lei che pensa al riguardo?
«Il mio modo di vedere è diverso da quello di Vargas Llosa. La mia critica verso Ollanta Humala parte dal fatto che lui è un uomo con tutte le caratteristiche tipiche dei militari che si mettono in politica: autoritarismo, poca capacità di ascolto, interpretazione militaresca di ogni cosa».

Padre Garatea, per concludere, tenti una previsione , faccia un nome…
«Io ho paura che la destra torni a prendere il potere: la loro rappresentante, la signora Lourdes Flores, è una candidata molto forte. Però, nella politica peruviana tutto può succedere. Non è mai successo, nella nostra storia recente, che siamo stati capaci di annunciare il vincitore in anticipo».

(fine 2.a puntata – continua)

Paolo Moiola




La croce sotto la camicia

Per quasi 2 mila anni i ladini hanno sviluppato la propria cultura nelle valli dolomitiche, un’area geografica che dovrebbe chiamarsi Ladinia.
Le vicende storiche dell’ultimo secolo hanno frantumato la loro coesione sociale e culturale, per assimilarli ai dominatori di tuo. Lingua e religione cementano ancora la loro identità. Il frutto illustre di tale identità cristiana è san Giuseppe Freinademetz, per 30 anni missionario in Cina.

Siamo atterrati a Gibuti il 15 settembre 2004: tre missionari e quattro suore della Consolata. Dopo un’accoglienza calorosa, il vescovo mons. Giorgio Bertin ci ha accompagnato alla nostra sistemazione: i missionari nella casa una volta appartenuta ai fratelli delle Scuole Cristiane con annessa scuola «La Salle»; le suore nell’abitazione che fu dei cappuccini, nel quartiere Boulaos.
Per meglio acclimatarci e guardarci attorno, il vescovo ci affidò al suo vicario episcopale, che per alcuni giorni ci fece conoscere la città e ci introdusse nella nuova realtà della nostra missione tra i musulmani. A 15 giorni dal nostro arrivo eravamo già al lavoro: fratel Maurizio Emanueli destinato a diventare direttore della scuola La Salle; padre Mathieu Kasinzi incaricato di seguire la comunità etiopica, oltre a intraprendere lo studio dell’arabo, per approfondire la conoscenza dell’islam e prepararsi a un compito futuro più specifico di dialogo con i musulmani; il sottoscritto è stato incaricato di dirigere la Caritas diocesana.
Alle suore il vescovo chiese la disponibilità nel campo sociale e sanitario. Due di esse, Dorota e Redenta, furono subito assunte dal ministero della Sanità come infermiere in un ospedale della cooperazione italiana, nella periferia della città. Suor Anna iniziò la sua collaborazione nella Caritas e suor Celia fu destinata a prestare il suo servizio in una struttura statale per ragazze orfane.
A dire il vero, il primo impatto non è stato facile. A parte il vescovo e i pochi sacerdoti che operano in questo paese, a Gibuti non abbiamo trovato una comunità cristiana ad attenderci. Anche se la presenza dei francesi è rilevante, si tratta di persone di passaggio, che rimangono un anno o due e poi se ne vanno. E questo ci ha fatti sentire un po’ soli.
La gente, poi, all’inizio non era molto affabile: sembrava distante e non dava confidenza. Bisogna mettere nel conto anche il problema della lingua: la maggioranza della popolazione non parla il francese, ma solo il somalo e un poco l’arabo.

CON LA CROCE… NASCOSTA

A un anno di distanza ci siamo inseriti a pieno nel nostro ambiente di lavoro e non ci sentiamo più tanto soli. Fratel Maurizio, dopo un anno di tirocinio sotto la guida della preside, ha fatto amicizia con gli insegnanti, con i genitori degli studenti e sta assumendo la piena responsabilità della scuola; padre Mathieu continua a studiare l’arabo e segue la comunità etiope; il sottoscritto ha tessuto relazioni con quelli che lavorano alla Caritas, che sono musulmani, e con i responsabili delle associazioni locali che vengono a chiederci aiuti.
Sono nate delle belle relazioni personali, non so ancora se per vera amicizia o per interesse; tuttavia ho avuto l’opportunità di entrare nelle loro case e di prendere il tè o una bibita con loro, godendo di un’ospitalità semplice, ma genuina.
Succede anche questo: un signore molto gentile mi invitò a conoscere il porto, suo posto di lavoro. Mentre ci recavamo sul luogo, con molto rispetto mi chiese di nascondere sotto la camicia la croce che portavo al petto. Discorrendo mi spiegò il perché: tutti sapevano che lui era musulmano, mentre io, con il mio crocifisso, mi dichiaravo pubblicamente cristiano; al vedermi in mia compagnia, i suoi amici avrebbero pensato male di lui, cioè, che volesse convertirsi al cristianesimo. Lo stesso fatto mi capitò con un giovane che lavora alla Caritas: accompagnandomi un giorno a cercare dei ragazzi di strada, mi chiese di nascondere il crocifisso sotto la camicia, altrimenti la gente l’avrebbe criticato.
Di solito vado in giro con la croce ben visibile sul petto, ma nessuno fino ad ora mi ha detto nulla, per il fatto che sono un europeo. Ma un prete africano che, in passato, portava pure lui la croce sul petto, ricevette le rimostranze della gente, perché, nell’immaginario comune, essendo africano, doveva essere anche musulmano.
Alla Caritas vengono molte persone per chiedere aiuti di vario genere; persone che poi ritornano e con le quali cerco di attaccare bottone. Ne nasce così un dialogo amichevole, che riprende ogni volta che tornano. Una di queste, che viene con una certa frequenza, un giorno mi disse: «Mi piace davvero venire a chiacchierare con te; però mi sento tanto triste al sapere che tu non andrai in paradiso». «Ma come – dico io -, perché non andrò in paradiso?». «Sì, – risponde – perché tu non sei credente».
Sono parole che esprimono sincero apprezzamento. Il giorno in cui sono partito da Gibuti per venire in Italia, mi salutò secondo il costume del luogo: mi baciò la mano, quindi mi offrì la sua da baciare e portare al petto. Fui sorpreso da tale saluto, perché è riservato solo alle persone considerate vicine e amiche. Ciò significa che mi sente vicino, mi considera amico e, da vero amico, desidera che anch’io vada in paradiso come lui.

CARITAS PER TUTTI

In linea di massima la Caritas si impegna nella realizzazione di progetti a favore di situazioni umane di povertà nel senso più ampio della parola. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le associazioni locali con scopi culturali, sanitari e di sviluppo della donna, ecc. Molte di esse sono riconosciute dallo stato e, anche se sono realtà interamente musulmane, vengono a chiedere aiuto alla chiesa cattolica tramite la Caritas. Mi presentano dei progetti e discutiamo insieme sulla loro fattibilità.
Ultimamente, per esempio, abbiamo preso in considerazione la formazione di una cornoperativa di pesca, la costituzione di una biblioteca di quartiere, l’alfabetizzazione di ragazzi che hanno abbandonato la scuola. Questi progetti, poi, vengono sottomessi al comitato direttivo della Caritas, presieduto dal vescovo, che decide l’approvazione o meno del progetto.
Di queste associazioni ce ne sono circa 2 mila nella capitale e tutte conoscono e apprezzano la Caritas perché sanno che aiuta e finanzia i loro progetti.
In passato la Caritas ha svolto un programma di formazione per i rappresentanti delle associazioni, per insegnare alcuni elementi base per il loro funzionamento: spirito associativo, come pianificare un progetto, come mantenere la contabilità, ecc. Una iniziativa che intendiamo riprendere. Per questo ho organizzato un incontro con esponenti delle associazioni sorte negli ultimi tempi, a cui hanno risposto una sessantina di persone: tutte si sono dichiarate interessate a continuare tale programma.
Tale assenso sottintende il loro vero interesse, cioè, che la Caritas sostenga i loro progetti; sanno, infatti, che non otterranno il nostro appoggio se i loro progetti non garantiscono un certo grado di successo. Il mio compito, quindi, è di esaminare e disceere quali sono le situazioni di povertà in cui la Caritas può intervenire, studiae i contorni, la fattibilità e il processo di ogni progetto.
Ogni giorno c’è la processione di persone che vengono a chiedere aiuti: vestiti, medicine, soldi per pagare l’affitto… Per questi casi, la Caritas non ha un fondo apposito; ma, dietro mia insistenza, da qualche mese il vescovo ha stabilito una piccola riserva a cui posso attingere per venire incontro a queste richieste spicciole di aiuto.
La maggior parte di queste persone parlano solo amarico, oromo e altri idiomi, per cui è difficile intendersi: dobbiamo cercare qualcuno di passaggio che parli la loro lingua e faccia da interprete. Il fattore linguistico è ancora uno dei problemi più sentiti nel nostro lavoro, perché impedisce il dialogo diretto, limita la possibilità di creare relazioni con le persone.

I BAMBINI DI STRADA

Uno dei programmi della Caritas diocesana si occupa dell’assistenza ai bambini di strada, quasi tutti etiopici. Arrivano a Gibuti illegalmente; cercano di sopravvivere chiedendo l’elemosina o facendo qualche lavoretto. Spesso la polizia li arresta, li picchia, li mette in prigione per qualche giorno; poi li espellono portandoli alla frontiera; ma pochi giorni dopo sono di nuovo in città.
In passato la Caritas si era molto impegnata per farli studiare in Etiopia e per trovare qualche lavoretto nel proprio paese, nella speranza che non tornassero a Gibuti. Ma l’iniziativa ha dato scarsi risultati. Ora questi ragazzi vengono a cercare aiuto alla Caritas. Ce ne sono sempre una ventina che mangiano e dormono nella nostra sede; soprattutto diamo loro assistenza sanitaria nella nostra sede o portandoli all’ospedale se ne hanno bisogno. Se sono presentati dalla Caritas, l’ospedale li accoglie e cura gratuitamente.
Suor Anna, che presta il suo servizio tutti i pomeriggi nella sede della Caritas, si occupa dell’aspetto sanitario e lo svolge molto bene. Ha preso contatto con un ospedale militare, riservato ai soli francesi: la suora può entrare liberamente per chiedere di ricoverare qualcuno e cercare medicine per il nostro ambulatorio.

LA NOSTRA MISSIONE

Le forze pastorali della diocesi sono composte da sei sacerdoti, due fratelli, quattro laici e una ventina di suore di varie congregazioni. Per tutti l’attività principale consiste nella testimonianza della carità.
Non avendo una comunità cristiana da accudire, ci manca l’aspetto pastorale e ci domandiamo come vivere la nostra realtà di preti in un paese musulmano. Ma anche a questo ci stiamo adattando, cambiando il nostro modo di esprimerci.
È chiaro che non possiamo usare lo stesso linguaggio con cui si parla a un cattolico; dobbiamo tenere sempre presente che stiamo parlando con un musulmano. Un credente in ogni caso. Questo si nota molto nel linguaggio inframmezzato continuamente da espressioni tipo «inshallà, inshallà» (se Dio lo vuole) e «grazie a Dio».
Oltre che con il linguaggio, sempre infarcito di espressioni religiose, la gente manifesta la loro religiosità nella vita pratica: le cinque chiamate alla preghiera che il muezzin lancia dal minareto ogni giorno, a cominciare dalle 3,30 del mattino, ci ricordano che ci troviamo fra un popolo religioso. E questo significa che non siamo caduti in un mondo secolarizzato in cui non si può parlare di Dio. Magari nel mondo cristiano si può parlare di Dio solo in chiesa; qui lo si può fare in qualsiasi occasione.
Con un po’ di fantasia si può fare anche animazione missionaria. Nel mese di gennaio, per esempio, abbiamo celebrato due giornate dell’«infanzia missionaria»: l’una per i ragazzi nella scuola La Salle, l’altra per le ragazze in quella di Boulaos. Naturalmente, essendo in un paese musulmano, abbiamo cambiato i termini, chiamandola «giornata dell’infanzia solidale».
Abbiamo spiegato il significato di solidarietà e uguaglianza, dicendo loro che tutti i bambini e bambine del mondo sono amati da Dio, per cui sono uguali, hanno gli stessi diritti e doveri, soprattutto, hanno diritto a un’infanzia felice. Ciò diventa possibile quando ognuno di loro condivide il poco che ha per creare la «grande amicizia» di tutti i bambini. La risposta di alunni e genitori è stata commovente: tanti sono venuti alla celebrazione portando cibo, soldi, vestiti e materiale scolastico, che poi abbiamo distribuito ai bambini più poveri di Gibuti.
Per il resto, viviamo il nostro sacerdozio celebrando ogni mattina la messa per le suore. E poi solennizziamo il fine settimana. Il venerdì a Gibuti è come la domenica per noi: non si lavora e anche la Caritas è chiusa. Il giovedì pomeriggio e il venerdì sono il nostro fine settimana. Questo, a dire il vero, non l’ho ancora assimilato.
Nella città di Gibuti ci sono solo due luoghi di culto cattolico: la cattedrale e una cappella. Il venerdì, alle 8 del mattino, celebriamo nella cappella la messa a cui partecipano una cinquantina di fedeli: di solito sono etiopi, indiani, qualche cattolico francese. La domenica è giorno di lavoro; ma alle 7 di sera, in cattedrale, concelebriamo la messa con il vescovo, a cui partecipano circa 200 persone.
Fuori della capitale ci sono tre paesini in cui operano delle comunità missionarie e dove, a tuo, si celebra il sabato o la domenica.

LE NOSTRE GIOIE

Un giorno una mamma portò alla Caritas la sua bambina paralizzata, a causa di una brutta caduta, diceva lei. Ma all’ospedale scoprimmo che la madre ci aveva mentito: la bambina era paralizzata dalla nascita. Vera, però, era la sofferenza di quella mamma nel vedere la sua bambina in quello stato. Si era messa in testa che certamente qualcuno avrebbe potuto fare qualcosa per guarirla. Cercammo di aiutarla come ci era possibile: le feci qualche visita, portando dei vestiti per la bambina e altre cose utili.
Alcuni mesi fa, quando dovetti ricoverarmi per qualche giorno all’ospedale militare, la donna venne a visitarmi, ma non la lasciarono passare, essendo il controllo molto severo, specie per la gente del luogo.
Quando tornai a casa, trovai una bottiglia di succo di frutta, una di latte, frutta di vario tipo e altre cibarie: non avendo potuto portarle all’ospedale, la signora me le ha fatte trovare nella nostra abitazione. E fu una gradita sorpresa: non mi aspettavo tanta riconoscenza e gentilezza da una donna musulmana, per di più povera.
A volte i musulmani mantengono le distanze verso di noi; altre volte siamo noi a tenerle nei loro confronti. Ma episodi come questo mi fanno capire che è possibile stabilire una relazione di amicizia che va al di là della razza, nazionalità e religione. Questo è un piccolo fatto che mi aiuta ad avere fiducia nella missione che stiamo facendo.
Naturalmente le motivazioni più profonde per la nostra presenza in un ambiente musulmano hanno radici più profonde, che sono l’eucaristia e la vita comunitaria. Consorelle e confratelli della Consolata abitiamo a quindici minuti di distanza. Ci troviamo insieme tutti i giorni per la messa. Abbiamo stabilito un piccolo programma di vita comune, anche se non abbiamo, per il momento, un vero lavoro d’insieme, tranne quello nella sede della Caritas, che è molto limitato. Oltre a fare insieme il ritiro mensile, ci ritroviamo ogni 15 giorni per scambiarci impressioni, esperienze e aggioare eventuali momenti di collaborazione.
Personalmente ho un altro sbocco per esercitare il mio ministero sacerdotale. Ogni sabato vado a celebrare l’eucaristia in un centro a 130 km da Gibuti, per una piccola comunità formata da quattro fratelli delle Scuole Cristiane e due laiche consacrate, che gestiscono un centro di formazione. Dovendo lavorare la domenica, celebriamo la messa il sabato sera.
È scomodo dovere uscire alle due del pomeriggio, con un sole che spacca le pietre, attraversare in auto un deserto interminabile di pietre nere per essere da loro alle sei, ma lo faccio volentieri, perché è una celebrazione ben preparata e partecipata. La preparazione è fatta a tuo da un fratello, che pensa a tutto: letture, canti, preghiere dei fedeli… come se fosse una grande comunità parrocchiale. Si sente che l’eucaristia è davvero sentita e vissuta in profondità.
Queste sono le piccole giornie della vita apostolica in un paese musulmano. In questo senso dobbiamo proprio ringraziare il vescovo che ha saputo fare dell’eucaristia il centro della missione, celebrandola con solennità e il massimo della partecipazione nella cattedrale. Egli ci tiene molto alla vita liturgica della nostra diocesi e la anima con l’adorazione, la via crucis e tutte quelle pratiche che contribuiscono alla vita spirituale dei fedeli.

PER IL FUTURO

La nostra presenza in ambiente islamico vuole essere pure un laboratorio di esperienze da condividere con le altre regioni dell’Africa in cui i missionari della Consolata sono a contatto con il mondo musulmano.
Per ora gli scambi e contatti si sono limitati all’invio di qualche breve relazione sulle nostre esperienze; in cambio abbiamo ricevuto tanti incoraggiamenti. Ma è tempo di dare nuovo impulso alla nostra presenza a Gibuti e ad approfondie il significato. Il vescovo mons. Bertin è pienamente d’accordo con il nostro progetto di dialogo con l’islam; anzi, ci ha esortati ad estenderlo anche alle confessioni cristiane, cioè agli ortodossi e protestanti presenti nel paese.
A un anno e mezzo dal nostro arrivo, abbiamo messo tanta carne al fuoco, insieme a tante speranze per il futuro.

Armando Olaya




Tracce di futuro

Un viaggio in Africa, a contatto con le missioni e i missionari, può essere «l’occasione da non perdere», per chi vuole imparare a guardare la realtà dietro le cose e continuare a sognare che «un altro mondo è possibile». Ancora una volta, i poveri hanno molto da insegnarci… se siamo capaci a metterci in ascolto.

«I l futuro non ci porta nulla, non ci dà nulla; siamo noi che, per costruirlo, dobbiamo dargli tutto». È stato un viaggio attraverso alcune zone del Kenya, dove operano i missionari della Consolata, a dare un nuovo significato alle parole di Simone Weil, sul cui pensiero medito da anni.
Il viaggio era finalizzato all’incontro con una parte della popolazione e alla conoscenza di alcune attività missionarie che si svolgono in quei luoghi; ha avuto, però, anche la forza di obbligarci a contemplare la paradossale sproporzione tra l’assoluta bellezza degli spettacoli naturali e l’estrema ingiustizia che segna alcune vite umane. Forse, l’incontro con questa realtà ci ha aiutati a tener viva la fiducia nella possibilità di un mondo più equo.

IL CAMMINO DI SOWETO

Il Kenya riflette tutte le contraddizioni che dilaniano il nostro mondo globalizzato e la sua capitale ne è, in un certo senso, un concentrato. Nei «quartieri-bene» di Nairobi si intravedono ville di lusso, immerse in parchi da sogno e difese da alti muri, da filo spinato, anche da guardie; al centro della città e nei suoi rioni periferici residenziali, centri commerciali, banche e grandi alberghi restituiscono un’immagine di benessere.
Eppure, vicinissimi ai luoghi dell’opulenza, anche se nella quasi totalità dei casi ben nascosti, sorgono gli slums, immense baraccopoli dove un’umanità derelitta è costretta a lottare per la propria sopravvivenza e dignità, nutrendo spesso un’estrema, difficile speranza: quella in un futuro diverso. A Soweto, per esempio, dove seimila persone vivono ammassate in poche centinaia di metri quadrati, ho toccato con mano a che cosa alludeva la filosofa spagnola Maria Zambrano quando parlava del sottosuolo su cui si regge l’edificio della storia.
Di Soweto e, in generale, degli slums di Nairobi molto è stato scritto sulla rivista Missioni Consolata, ma è sempre utile ritornare su tale argomento, per ricordare i problemi della gente che vi vive e sottolineare l’infaticabile lavoro dei missionari che vi operano.
A Soweto padre Franco Cellana lavora in mezzo alla gente con straordinaria dedizione, forza e carica vitale. Egli accompagna il cammino di speranza della popolazione alla luce di un progetto d’insieme, in cui problemi materiali, esigenze morali e fame di nutrimento spirituale trovano pari attenzione. Di questo progetto vorrei sottolineare almeno quattro aspetti essenziali.
Il primo è che ogni intervento di promozione umana si inserisce in una prospettiva di trasformazione strutturale delle condizioni esistenti. L’acquisizione della proprietà della terra su cui sorgono le baracche da parte di chi le abita, la costruzione di strade e fognature, l’approvvigionamento d’acqua, l’installazione di punti-luce, scuola e refezione per bambini e ragazzi, la costruzione di case in muratura, la prevenzione e la cura dell’Aids sono le condizioni basilari irrinunciabili perché gli abitanti di Soweto possano incominciare a vivere con dignità. Dentro questo quadro generale si muovono le iniziative particolari.
Il secondo aspetto riguarda la partecipazione costante della popolazione, non solo alla realizzazione dei progetti, ma anche alla loro ideazione. Non si tratta di fruire un po’ passivamente di un aiuto programmato altrove, ma di essere soggetti attivi, pensanti, parlanti e, soprattutto, responsabili, cosicché si attuino, tra missionario e popolazione locale, un’autentica condivisione, un’interazione e un mutuo arricchimento e donazione reciproca.
Il terzo aspetto riguarda la costante interlocuzione con il governo per il riconoscimento degli slums. Questi agglomerati urbani esistono e non possono essere né ignorati né svuotati dei loro abitanti con opere di demolizione delle baracche, essendo gli abitanti stessi persone i cui diritti comportano obblighi e responsabilità pubbliche.
Infine, quarto aspetto, esiste un cornordinamento delle équipes pastorali di alcune parrocchie di Nairobi che, lavorando insieme, possono sia dare forza al movimento di coscientizzazione degli abitanti degli slums, che evitare la dispersione di forze progettuali e operative.

SPERANZE E REALIZZAZIONI

Anche altre realtà missionarie mi hanno fatto ugualmente e diversamente riflettere nel corso del mio viaggio. Penso alla Familia ya ufariji (la casa della consolazione) di Nairobi, dove bambini e ragazzini di strada per lo più orfani, affidati alle cure di padre Gilberto Forese e di alcuni educatori, tentano una non facile integrazione. Questi ragazzi continuano a vivere in famiglia e, al tempo stesso, frequentano scuole estee in modo da evitare la ghettizzazione.
Penso alla Tumaini Children’s Home di Nanyuki, dove bimbi sieropositivi o malati di Aids ricevono assistenza e amore, in un contesto per quanto possibile sereno. Penso agli ospedali ben attrezzati, come quello di Wamba, o ai dispensari e ai centri di formazione tecnica e professionale presenti un po’ dovunque.
Penso a quanto ho ascoltato a Maralal da padre Tablino e padre Tallone, riguardo al lavoro per la riconciliazione tra samburu, turkana e pokot; tre gruppi etnici tradizionalmente ostili gli uni agli altri per questioni legate ai pascoli, ai pozzi d’acqua e alla proprietà del bestiame e, tuttavia, capaci di appianare i loro conflitti in nome non solo di evidenti affinità, ma del valore più alto della pace.
Penso anche a quella grandiosa opera, ormai nota a livello internazionale, che è l’acquedotto ideato da fratel Argese, missionario a Mukululu, e realizzato sotto la sua direzione recuperando l’acqua proveniente dalla condensa nottua che si forma sugli alberi della foresta del Nyambene. L’acquedotto, la cui storia è stata ricostruita nel marzo 2005 dalla rivista Missioni Consolata e al quale sono stati dedicati anche servizi televisivi nell’ambito dei programmi «Geo & Geo» e «Alle falde del Kilimangiaro», fornisce attualmente acqua a 250 mila persone.

VOLTI SENZA MASCHERE

Infine, per concludere, vorrei concentrarmi più a lungo su un incontro, per me di forte impatto emotivo, avvenuto a Sagana, nella «Casa di Betania», con le «vecchiette» di cui si prende cura padre Gerardo Martinelli. Forse perché sono una donna anch’io, o forse perché la curva della mia vita ha raggiunto ormai la sua fase discendente, ho avvertito un’immediata simpatia per queste anziane.
Di molte di loro non si conosce nulla: non l’età, non la storia, non la provenienza originaria; talora neppure il nome. Alla «Casa di Betania» le porta generalmente la polizia; vengono dalla strada dove finiscono per motivi non sempre ricostruibili. Si può pensare che non abbiano più nessuno e restino prive di sostegno e di risorse o che vengano cacciate da casa perché inutili, pesi morti in situazioni già difficili.
Il dato certo è che diventano nude vite esposte alla brutalità del mondo. La «Casa di Betania» non solo le sottrae alla violenza e ai pericoli della strada, ma offre loro un luogo dignitoso e sereno in cui vivere. Se restano loro delle energie, possono svolgere qualche lavoretto, come coltivare l’orto, lavare, pulire le stanze, badare agli animali; dispongono di momenti di solitudine, ma possono godere della compagnia reciproca.
Non tutto è idilliaco, ovviamente, e non sempre i risultati del loro trasferimento sono quelli sperati. Accade, infatti, che qualcuna scappi, ritornando alla strada. Difficile dire cosa le spinga a fuggire da un luogo protetto e accogliente, senza aver in mano alcuna alternativa. Ma in gran parte restano e, forse, riescono a guarire almeno un poco dalle ferite che sono state loro inferte, provando a rinascere come persone, nonostante i mille ostacoli, un lungo tratto di vita già percorso.
Quando facciamo loro visita, le donne non sembrano nutrire alcuna diffidenza nei nostri confronti, come ci si potrebbe aspettare, forse perché il tramite tra noi e loro è padre Martinelli. Proprio questa mediazione rompe, o almeno fluidifica, i confini che ci separano e consente l’inizio di una relazione, sia pure fatta di gesti e di sguardi più che di parole.
Ci accolgono, infatti, con espressioni di benvenuto, scambi di jambo, strette di mano, sorrisi. È come se, attraverso i corpi, si attuasse un travaso di anime. Credo di poter leggere nei loro gesti un infinito bisogno di affetto, ma soprattutto il desiderio di esserci, di rendersi visibili, di contare qualcosa, almeno per un momento.
Qualcuna di loro ha un aspetto vitale. Qualche altra, con gli arti rattrappiti, ha bisogno di una sedia a rotelle spinta dalle compagne dotate di maggior vigore. Commuove vedere quest’espressione di solidarietà che le esperienze di deprivazione da cui vengono non hanno cancellato e che basta un contesto adeguato per far emergere.
L’età di queste donne è indefinibile; ma, quanto più i loro volti sono solcati da rughe profonde, tanto più sono straordinariamente espressivi e, in modi diversi, belli, intensi, vissuti. Osservae la fragile bellezza e l’irriducibile unicità mi ricorda la filosofia di Lévinas e il suo richiamo all’appello implicito nell’assolutezza dell’alterità dell’altro.
Al tempo stesso, queste donne, prive di orpelli e di maschere sociali, spogliate di quello che siamo abituati a chiamare identità (e che invece spesso deriva da una serie di ruoli e appartenenze), dicono anche qualcosa di me, mi offrono uno specchio impietoso in cui guardarmi, mi interpellano e mi impegnano a fare la mia parte perché il mondo sia un po’ meno squilibrato.

UN’ALTRA STORIA

Camminando tra le baracche di Soweto, ascoltando i canti degli orfani della Familia ya ufariji, accarezzando i piccoli della Tumaini Children’s Home, abbracciando le «vecchiette», entrando negli ospedali, ho messo più concretamente a fuoco come siano proprio i calpestati, i divorati dalla storia, le «vite di scarto» a sprigionare, di fatto, con il loro stesso esistere, una forza di contrasto e a rappresentare il margine di incompiutezza, di irrealizzazione della storia, esplicando un’energia specifica e segnalando che un altro mondo è necessario.
Ma, in Kenya, di questo mondo «altro» ho anche intravisto le tracce. Nella storia c’è violenza, quella che ha buttato ai margini del consorzio sociale, letteralmente al bordo della strada, questi «poveri» che ho incontrato; ma ciò non significa affatto che tale violenza sia la realtà ultima o essenziale della storia stessa. La solidarietà, l’assistenza, la condivisione, l’appoggio nella difesa dei loro diritti, la promozione della loro dignità, nonché lo sforzo di far assumere a queste persone la responsabilità del loro destino, sono altrettanti segni che la storia può andare in un’altra direzione; in modo tale che, in essa, i senza-nome, gli invisibili possano avere un posto riconosciuto.
Non credo affatto che il dolore, la sofferenza, il male possano sparire dal mondo, ma ritengo che, almeno, possa essee eliminata quella parte che deriva dai rapporti di forza. Infatti, per citare ancora Simone Weil: «Se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa è reale in fondo al cuore degli uomini».

Bruna Colombo




VIVA LA ROJA

Un cileno su tre vive nella capitale, nelle cui periferie, come quella di Peñalolen, molta gente nasconde le ferite aperte dalla dittatura di Pinochet dietro la facciata della normalità. Oltre alla squadra nazionale di calcio, dal mese di gennaio i cileni hanno un buon motivo di orgoglio e di speranza, con l’elezione di Michelle Bachelet alla presidenza del paese.

Un’immensa distesa di luci gialle, a perdita d’occhio. Se una notte ti capita di ammirare Santiago del Cile da Peñalolen, quartiere periferico che finisce dove cominciano le Ande, rimani senza parole. Quei puntini luminosi che fanno fatica a entrare nel tuo campo visivo ti fanno capire che una metropoli latinoamericana è grande, proprio grande.
Non ha le cifre di Città del Messico o San Paolo, ma con i suoi cinque milioni di abitanti Santiago ospita il 35% della popolazione totale, vale a dire un cileno su tre. Gli altri? Vivono lungo i 4 mila chilometri del paese, il più lungo e stretto del continente, imbrigliato tra la cordigliera andina e l’Oceano Pacifico.
A Santiago, spesso, l’aria fa ammalare. Chiusa in una conca dalle montagne circostanti, la città non riesce a liberarsi dall’inquinamento che produce: la nube che si ferma a pochi metri d’altezza, imponente, giallastra, ti entra nelle vie respiratorie e lì ci rimane, fino a quando un raro acquazzone non ti permette di assaporare, ma solo per un attimo, l’odore delle stagioni.
Le stufe a legna, dichiarate fuorilegge dal governo per il fumo che sprigionano, sono ancora presenti. Soprattutto nelle zone più povere: una baracca che s’incendia è una stufa malridotta, assemblata male o troppo vicina a materiale infiammabile.
E di baracche, a Santiago del Cile, ce ne sono a volontà. Ma spesso non si vedono, perché nascoste tra case normali o «mimetizzate» tra esse. Ricco o povero, bianco o meticcio, il cileno è orgoglioso della sua patria: provate a cercarne uno per le strade in occasione delle partite della Roja (Rossa, la nazionale di calcio cilena), rimarrete completamente a mani vuote.

UN PULLMAN ARANCIONE

La strada che porta dall’aeroporto internazionale al centro città ti riempie gli occhi di «normalità». Industrie, cantieri, cartelloni pubblicitari, e poi grattacieli, macchine modee, ristoranti, cinema multisala: il modello di vita occidentale è stato assimilato completamente anche a queste latitudini.
Nella frenesia degli acquisti, del ritmo di lavoro, delle relazioni fra le persone, il centro di Santiago ricorda il Nord Italia. Persino i lineamenti delle persone, a volte, ricalcano quelli europei.
Le micro, gli onnipresenti pullman arancioni, sfrecciano per le vie della città in eterna competizione: chi ha più passeggeri ha maggiori guadagni, buona parte degli autisti sono proprietari del mezzo, e ognuno di essi lo personalizza a piacimento, con tendine colorate, santini, portafortuna, scritte e immagini incollate ai vetri.
Se riesci a prenderla o a salire senza cadere, la micro ti racconta Santiago, essendone il mezzo di trasporto più diffuso e popolare, che raggiunge anche le periferie più estreme. Salgono studenti, lavoratori, disoccupati (il 9% secondo le stime ufficiali, almeno il doppio a giudicare da quello che si vede nelle strade), anziani (ma pochissimi pensionati, la previdenza sociale è una chimera), vagabondi, artisti che si esibiscono in cambio di una mancia e mercanti di ogni bene di consumo, commestibile o meno.
I disoccupati, dice il governo, sono circa il 9%, meno dell’Italia. Ma se poi scopri che «occupati» sono considerati tutti coloro che hanno guadagnato anche solo qualche peso durante l’anno, il discorso cambia.
Luis è uno di questi: 35 anni, tossicodipendente e con precedenti penali per furto, vende gelati sui pullman e agli incroci stradali. Lo incontri a una mensa popolare, tutti i giorni, dove racconta le sue peripezie agli altri avventori (anziani, alcolizzati cronici, famiglie indigenti) caricandole di immagini forti: «Ieri i carabineros mi hanno fermato (Luis non ha il permesso per fare il venditore ambulante, quasi nessuno ce l’ha); ho cercato di scappare, ma mi hanno raggiunto. E sono state botte da orbi» dice mostrandoti grossi lividi su braccia e gambe.
Per conoscere Luis e tanti altri come lui devi cambiare il tuo modo di «vedere» Santiago: via dal luccichio dei negozi del centro, via dai grattacieli della zona commerciale di Providencia, via dalle sontuose ville e dai futuristici centri commerciali di Las Condes e La Reina, dove sembra di passeggiare sopra un enorme tappeto di benessere.
Il cileno che tiene plata (ha i soldi, e ne ha tanti) vive in un mondo in cui tutto è possibile, a portata di mano. Cliniche private, università prestigiose, servizi alla persona impeccabili e tutti nelle vicinanze: un paradiso sociale.
Ma c’è un altro cileno, tanto diffuso quanto nascosto, che per tutta la vita sarà chiuso in un altro mondo, fatto di miseria, soprusi, nessuna speranza di sbarcare il lunario.
Nascosto perché vive lontano dai riflettori, in posti dai nomi molto meno accattivanti: La Pintana, Maipú, La Legua. O Peñalolen, il luogo da cui vedi le «luci gialle», la cui situazione merita una fermata speciale.

SOTTO IL TAPPETO

Con 200 mila abitanti, l’aria più pulita della città (lontano dal centro, 700 metri sul livello del mare) è uno degli esperimenti più riusciti di politiche socio-ambientali (una vasta comunità ecologica in cui centinaia di artisti e musicisti vivono in modo autonomo offrendo spunti culturali di notevole livello), Peñalolen avrebbe tutte le caratteristiche per essere un quartiere ricco, come la vicina La Reina. Ma non è così.
C’è una chilometrica cancellata che divide i due quartieri su Avenida Josè Arrieta, arteria importante della zona est di Santiago: dietro queste inferriate, guardie private assicurano agli abitanti di La Reina quel paradiso sociale di cui sopra.
Dall’altra parte, nessuna guardia, molta più gente a piedi apparentemente senza meta, cani randagi e affamati ai bordi delle strade. Ma niente esagerazioni: le case sono modeste ma di mattoni; le attività commerciali non mancano; frotte di bambini si recano a scuola con il loro grembiule color piombo, tanto obbligatorio quanto «scialbo».
Dove sta il dilemma? Toiamo per un attimo all’immagine del tappeto.
Se ci avviciniamo a queste case all’apparenza normali, notiamo subito due cose: una striscia verde, impeccabile, di erba, e una stradina che, circumnavigando l’abitazione, sparisce dietro di essa.
La striscia verde, innaffiata quotidianamente da ogni buon cileno, memore di un’efficace affermazione venuta dagli ambienti governativi («il giardino davanti a casa è lo specchio della vostra anima»), è il trionfo dell’apparenza: dentro, le case non sono così pulite, belle; spesso il cibo a tavola è scarso, l’arredamento ridotto all’essenziale, i letti meno delle persone. Invece, la televisione c’è e troneggia nel salotto, radio e computer non sono così insoliti.
La stradina è la via che conduce alla verità: ti aspetti un giardino nel retro, trovi una baracca; sposti di qualche metro lo sguardo, ne trovi un’altra, poi un’altra ancora.
Ecco che il tappeto si alza, per poi sparire senza lasciare traccia. Sotto questo tappeto centinaia di famiglie, migliaia di bambini che vivono in condizioni di forte disagio. Famiglie del tutto atipiche: padri inesistenti, ragazze-madri ospitate da zii, nonni, o conviventi con fratelli, cugini; un nugolo di niños che spesso condivide il proprio letto con due, tre persone adulte, con le conseguenze del caso. Nelle baracche, oltre all’acqua calda e alla vasca da bagno, mancano le divisioni fra gli ambienti.
Perché queste baracche così nascoste? Sono le uniche abitazioni che si trovano, per chi non è povero. L’affitto, seppur alto, è contrattabile con il proprietario del terreno, reduce anch’egli da un passato simile e dunque, quando va bene, «sensibile».
Ma la ragione vera è un’altra: se sei così nascosto, nessuno ti può vedere «dentro». Per ricostruirti un’immagine nella società, spendi i pochi soldi che hai in capi d’abbigliamento e altri beni secondari che ti fanno apparire interessante. Non ti accorgi, ma baratti la dignità con il materialismo, passando dalla povertà alla miseria.
A Peñalolen, negli ultimi 40 anni, si sono riversate migliaia di persone provenienti dalla campagna, in cerca di un’anonima ma più speranzosa vita di città. Il quartiere si è espanso, tuttavia, con le Ande così vicine, i nuovi arrivati si sono dovuti incastrare dove hanno potuto. Poi è arrivata la dittatura, e con essa la volontà del regime militare di «ripulire il cuore della capitale»: migliaia di senzatetto, vagabondi cacciati nelle periferie, laggiù dove nessuno può né vederli né sentire il loro odore. Sotto il tappeto, dunque.
Molti sono stati torturati, chissà quanti desaparecidos (scomparsi) o eliminati sommariamente; pochi altri, quelli con più niente da perdere, si sono riorganizzati. Chi impugnando armi, aumentando in tal modo la spirale della violenza, chi i propri diritti: prendi un terreno qualsiasi, ne rivendichi il possesso, costruisci case di lamiera, legno, polistirolo, a volte decine in una sola notte, ti attacchi a edifici circostanti per ottenere luce, acqua, gas. Fai così nascere i campamentos: versione tutta cilena, assai organizzata a livello politico, delle baraccopoli sudamericane.

LE FERITE, IL FUTURO

Pinochet è l’eterno incubo con cui, ancora oggi, deve fare i conti gran parte della popolazione cilena.
Ultraottantenne, finalmente subissato dai processi a suo carico (per violazione dei diritti umani, dove riesce sempre a farla franca, facendosi passare per pazzo; per frodi bancarie di migliaia di dollari, per le quali anche la sua famiglia è finita agli arresti) e da «fedeli del regime», che gli voltano le spalle, il generale in ritiro Augusto Pinochet ha ancora il 30 per cento della popolazione che lo apprezza.
Persone che, per la maggior parte, hanno vissuto la dittatura senza conoscee le efferatezze, in quanto appartenenti alle classi alte, o lontani dalla politica. Sono molti quelli che negano la politica di terrore fisico e psicologico del regime, nonostante le migliaia di testimonianze raccolte e il recupero storico dei «luoghi della tortura»: case e ville private, scuole, edifici dismessi, disseminati in tutto il paese.
Uno di questi, il più famoso, è la Villa Grimaldi, che, guarda caso, si trova proprio a Peñalolen, al numero 8201 di Avenida Arrieta. Dall’11 settembre 1973, giorno del golpe, per i primi 5 anni del regime, migliaia di dissidenti politici e semplici cittadini «sospetti» sono stati sottoposti a violazioni di diritti umani, con forme brutali e umilianti. Chi per pochi giorni, settimane o mesi interi, chi scomparendo nel nulla o non uscendone vivo.
Hugo, che oggi ha 53 anni, ma ne dimostra almeno una decina in più, è entrato e uscito diverse volte dalla Villa in quegli anni. Ieri era sostenitore del governo di Unidad Popular di Salvador Allende, oggi si ritrova ridotto a uno straccio: fegato spappolato, numerose fratture intee che non si sono mai rimarginate, dentatura pressoché inesistente e una sofferenza sul viso che si attenua solo quando c’è una bottiglia di vino tinto nel suo campo visivo. Le torture l’hanno ucciso dentro, tanto da non aver risposto all’ultimo appello del governo, che ha chiesto ai cittadini di «raccontare» le proprie storie, in un tentativo di cancellare gli orrori del passato recente (la dittatura è caduta nel 1990, con l’esito a sorpresa di un referendum che avrebbe dovuto prolungarla), riportando verità e giustizia.
A Hugo fa troppo male scavare nel passato. In lui, come in tanti altri, rimane l’orgoglio di essere cileno, quello dell’attaccamento alla Roja e della goliardia delle Fiestas Patrias, che cadono il 18 settembre e riuniscono tutta la popolazione in balli e canti popolari. Ma è un orgoglio ferito, e rimarrà segnato per sempre.
Hugo non crede nel futuro, per colpa del passato. Gli abitanti di Santiago e del resto del Cile, invece, possono lottare per avere un futuro sempre più equo a livello etico, imparando proprio da un difficile passato in cui il valore di una vita umana dipendeva dall’appartenenza a un partito.
Possono cominciare dal rimuovere tutti i tappeti, magari destinandoli ad abbellire le tante micro sgangherate.

Daniele Biella




Bolivia. Evo, il presidente aymara

Su Evo Morales Ayma, il primo presidente realmente indio delle Americhe, pesano molte aspettative, in patria e all’estero. Dovrà affrontare temi spinosi come la gestione delle ingenti risorse di gas, la produzione di foglie di coca, la ricerca di uno sbocco al mare, i difficili rapporti con Washington. Con Evo Morales abbiamo parlato in un incontro avvenuto prima della sua netta vittoria alle elezioni del 18 dicembre 2005. Questo è il resoconto di quella conversazione.

La Paz. L’ufficio del Mas, all’interno del palazzo del Congresso, è pieno di manifesti popolari. Nessun mobile di pregio, nessun orpello, nessuna segretaria giovane ed attraente. Insomma, non ha nulla di un ufficio di rappresentanza. Santos Ramirez Valverde mi riceve per un’intervista su tematiche economiche. Al termine, quasi pro forma, domando se è possibile incontrare Evo Morales. «Non è a La Paz, ma domani dovrebbe esserci – mi risponde -. Vediamo se possiamo prendere un appuntamento». Fa una telefonata. «Allora, è per domani mattina, alle 8.30». Un colpo di fortuna, penso. Ma sarà vero?
Francisco Ibar Arocha, proprietario del Sagaaga, l’albergo dove alloggio, è un imprenditore e in quanto tale mi guarda con faccia interdetta quando gli dico che incontrerò Evo Morales. Poi però mi suggerisce una serie di domande… Il giorno seguente, di buon mattino, mi presento all’appuntamento nel palazzo del Congresso. E puntualmente mi fanno entrare nell’ufficio di Evo Morales. L’iconografia del personaggio è come uno si attende: volto indio, capelli nero corvino, vestiti popolari.

La Bolivia è un paese a netta maggioranza indigena. E lei non perde occasione per ricordare la sua appartenenza india…
«Perché non dovrei? Io sono di stirpe aymara. Sono nato nel 1959, a Orinoca, nel dipartimento di Oruro. Poi sono emigrato con la mia famiglia nella regione del Chapare, nel dipartimento di Cochabamba. All’inizio degli anni Ottanta sono entrato nel sindacato del Tropico, dove sono arrivato a coprire la carica di segretario generale.
Nel 1998 ho assunto la presidenza del Mas, il Movimiento al socialismo. Insomma, io provengo dalle lotte sociali e non ho una formazione accademica».

Il Mas è cresciuto come movimento di protesta dei produttori di foglie di coca. Non le pare un po’ limitato?
«Non è così. Il Mas è un partito politico che è nato e affonda le sue radici nei movimenti sociali.
Nel 1992, il movimento contadino, durante il suo congresso, decise di dotarsi di uno strumento politico per arrivare alla liberazione e alla sovranità delle popolazioni. Proprio in quell’anno cadevano i 500 anni dall’inizio della resistenza indigena e popolare. Il Mas era lo strumento giusto per passare dalla resistenza alla presa del potere, dalla protesta alla proposta.
Nel 2002 il Mas era la seconda forza politica del paese, oggi è diventata la prima. Assieme ai movimenti sociali e ai movimenti intellettuali, il Mas vuole essere uno strumento politico per cercare di cambiare il sistema economico e politico».

Il sistema è quello neoliberista. Qual è l’analisi del suo movimento?
«Abbiamo sperimentato il neoliberismo non soltanto all’interno della Bolivia, ma anche nel resto dell’America Latina. Da tempo siamo giunti alla conclusione che esso non soltanto non è la soluzione, ma anzi è la causa delle crisi economiche e dell’instabilità dei governi. L’Argentina era il paese simbolo di questo sistema economico e sappiamo tutti che fine ha fatto. Anche il Cile, altro paese additato a modello, oggi è attraversato da ondate di protesta».

La Bolivia è un paese con enormi ricchezze minerarie, di gas in particolare. Eppure, dopo Haiti, è il paese più povero dell’America Latina…
«Le risponderò con una frase che ha detto il premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel: “Sulla nostra ricchezza ci siamo impoveriti”.
Il modello economico del sistema capitalista purtroppo è fondato innanzitutto sul saccheggio delle nostre ricchezze e delle nostre risorse ad opera delle transnazionali, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Pare assurdo, ma la stessa ricchezza ha generato la povertà».

Se questo è il problema principale, come pensate di risolverlo?
«Ponendo fine al saccheggio, attraverso il recupero della proprietà del suolo e del sottosuolo. Questa è la richiesta di tutti i movimenti sociali boliviani.
Ma lo sa che la Bolivia fu il primo paese latinoamericano a nazionalizzare? Oggi i benefici sono tutti per le imprese transnazionali e non per le popolazioni della Bolivia».

Dunque, è lo stato che deve gestire le risorse della Bolivia?
«Lo stato con la partecipazione del popolo».

Lei insiste molto sul saccheggio messo in atto dalle imprese transnazionali. Ma la Bolivia può fare a meno di esse?
«Certamente ci sarà la necessità di tecnologia, esperienza, macchinari e per questo avremo bisogno di collaborare con altri paesi. Ma il saccheggio delle risorse del popolo boliviano deve terminare! Un saccheggio, tra l’altro, legittimato dalla nostra legge di capitalizzazione».

Quella che in Bolivia si chiama «capitalizzazione» è una sorta di «privatizzazione»?
«Sì, la legge di capitalizzazione è un sinonimo di privatizzazione. Noi la contestiamo perché non ha favorito l’importazione di capitali ma l’esportazione, con la conseguenza (paradossale) che invece di capitalizzare il paese lo si è decapitalizzato. In questo modo invece di progredire si è prodotta ancora più povertà e disoccupazione. C’è anche una transnazionale del suo paese, la Telecom Italia, proprietaria di Entel. L’azienda italiana ha fatto milioni di dollari di profitti in questi ultimi anni».

Dalla guerra del Pacifico del 1879, la Bolivia è priva di un accesso al mare. È una questione rilevante per il paese?
«Certamente! La Bolivia è stata fondata con un accesso al mare. Il problema è strettamente connesso con la questione del gas. Infatti, il movimento indigeno ha preso posizione sul tema del gas e lo ha fatto in connessione con il problema dell’accesso al mare. Adesso che la questione non è più soltanto a livello nazionale ma è diventata internazionale, si è aperto uno spiraglio affinché la Bolivia torni ad avere un accesso al mare.
Vogliamo evitare di creare conflitti regionali, ma allo stesso tempo non vogliamo restare condizionati da una situazione che è stata creata da un conflitto e che resta tuttora pendente. Siamo contenti dell’interessamento della comunità internazionale perché questo è un problema multilaterale».

La sua opinione su Gonzalo Sánchez de Lozada detto Goni e su Carlos Mesa.
«Goni era un imprenditore neoliberista. Il popolo si è sollevato contro di lui, ma non è riuscito a finirla con il modello economico che egli rappresentava. Oltre a ciò è un fascista e un razzista. Adesso è scappato a Miami, sicuramente portando con sé molto denaro, frutto della corruzione e dei saccheggi. Nel caso di Mesa pensavo che almeno sarebbe stato un riformista neoliberale, ma invece ci siamo trovati con un continuismo d’impresa. Il presidente ha continuato a dialogare con le imprese transnazionali senza ascoltare i movimenti sociali. Quindi Mesa non ha capito il sentimento e le intenzioni del popolo boliviano, questa è la realtà».

Insomma, a suo parere, uno vale l’altro?
«Mesa parla meglio lo spagnolo di Goni, ma purtroppo suonano la stessa musica sulle tematiche politiche».

Per decenni gli Stati Uniti hanno considerato il Sud America come il loro «cortile di casa». Come giudica quel paese o meglio la sua politica?
«Pensiamo a come gli Stati Uniti hanno disegnato l’intervento in Iraq: hanno detto che là c’era Saddam dotato di armi di distruzione di massa, che però non esistevano. In tal modo hanno giustificato un intervento militare per accaparrarsi delle risorse e in particolare gli idrocarburi per le loro imprese. La scusa di Washington per l’America Latina è il narcoterrorismo, ovvero una giustificazione politica per permettere alle transnazionali di quel paese di sfruttare le risorse. Insomma, in Iraq hanno usato un pretesto, in America Latina ne usano un altro.
Siamo in questa congiuntura politica: quando la democrazia non serve all’impero, si fanno colpi di stato. Basti pensare a questa cospirazione permanente contro il Venezuela. Per questo noi vogliamo aiutare e appoggiare concretamente il presidente Hugo Chávez e la democrazia in Venezuela, che fra l’altro ha appoggiato la nostra richiesta di avere un accesso al mare».
In Italia, i media, soprattutto quelli importanti, l’hanno descritta quasi esclusivamente come leader dei cocaleros. Può spiegare i termini della questione coca?
«Innanzitutto occorre dire che la foglia di coca, allo stato naturale, non fa nessun danno alla salute umana. Ci sono, ad esempio, molte imprese che fanno un uso industriale della foglia di coca per ottenere per esempio una specie di whisky o altri prodotti destinati al mercato europeo o degli Stati Uniti. Anche secondo gli studi dell’Oms, la foglia di coca allo stato naturale non è dannosa. Quindi, non possiamo dire che i produttori di foglie di coca siano narcotrafficanti, né che i consumatori di esse siano tossicodipendenti, anche se questa è la visione che hanno alcuni paesi.
In Chapare ci sono circa 60 mila famiglie che vivono della produzione di foglie di coca, un prodotto che finisce sul mercato interno, locale e nazionale».

D’accordo, ma Washington la accusa di essere un narcotrafficante…
Tanto che, nel 2002, l’ambasciatore Usa in Bolivia, Manuel Rocha, fece campagna elettorale contro di lei…
«Noi diciamo che si deve affrontare il problema del mercato illegale della foglia di coca per la produzione della cocaina. Noi non siamo difensori del narcotraffico. Anzi, il narcotraffico ci è stato imposto. I precursori, ovvero gli agenti chimici necessari per trasformare in droga le foglie di coca, provengono dagli Stati Uniti; senza dire che, per trattare chimicamente le foglie di coca, sono necessari investimenti di parecchi milioni di dollari; infine, c’è il segreto bancario che ostacola tutto. Insomma, c’è un narcotraffico in doppiopetto, che non viene mai messo in galera e coinvolti in questo business ci sono persino stati e governi. O ambasciate di paesi stranieri in Bolivia… Io dico che, purtroppo, la coca non è altro che un pretesto affinché gli Stati Uniti possano controllare meglio il nostro paese».

Lei ritiene che la lotta alle coltivazioni dei cocaleros sia una scusa dietro cui si celano altri obiettivi?
«Certamente questo è un modo per criminalizzarci. Guardiamo alla storia. I movimenti sociali degli anni ’50 e ’60 erano accusati di furto e di essere comunisti; negli anni ’80 e ’90 siamo stati accusati (io ero già sul campo) di essere narcotrafficanti; a partire dall’11 settembre del 2001, non ci hanno più accusato di essere narcotrafficanti, ma di essere terroristi. Tutto questo ovviamente serve per demonizzare ed isolare questo movimento. In sostanza, se tu sei antimperialista, ti accusano sistematicamente di essere comunista, terrorista, narcotrafficante.
Si pensi al Cile dove, nella zona di Temuco, la regione dei mapuches, vari dirigenti indigeni sono stati incarcerati. Erano alla guida di grandi proteste, legali dal punto di vista costituzionale. Per poterli fermare e chiudere in carcere, hanno dovuto dire che erano terroristi. Queste accuse vengono costruite per reprimere le lotte dei movimenti. Anche il Mas è spesso esposto al rischio di vedere i propri dirigenti oggetto di montature per fini politici.
Personalmente, sono oramai abituato a essere accusato di tutto. In passato, i servizi di intelligence degli Stati Uniti mi hanno accusato di essere vincolato con le Farc della Colombia, adesso dicono che sono alle dipendenze di Chávez».

Nonostante i problemi, lei è ottimista sulla possibilità di cambiare la Bolivia senza violenza, senza guerra civile, attraverso mediazioni pacifiche?
«Da quando abbiamo scelto di entrare nel processo elettorale, abbiamo innanzitutto deciso di cercare di ottenere modifiche profonde ma sempre attraverso strumenti pacifici. Non ci sono soltanto le questioni delle risorse del sottosuolo o delle foglie di coca, ci poniamo anche il problema di come incorporare in questa democrazia formale la democrazia delle comunità. Per esempio, in tema della giustizia attualmente si riconosce solo la giustizia politica e non si prende in considerazione la giustizia comunitaria. Ma ci sono molti altri temi: l’istruzione, le forze armate, che tipo di economia adottare. E ancora come fare una nuova assemblea costituente che permetta di ammodeare la Bolivia che, nelle linee generali, è stata definita all’atto della sua fondazione. Da quel momento però gli indigeni sono stati esclusi dal processo di formazione del paese. Eppure, secondo l’ultimo censimento del 2001, essi costituiscono il 62% della popolazione totale. Oramai non mancano più studenti o imprenditori di etnia quechua, aymara o guaranì, ma a volte, di fronte ai censimenti, le persone mentono sulla loro appartenenza etnica. Quindi, 62% è il valore ufficiale ma in realtà la percentuale di popolazione indigena è superiore.
Da questo momento dovremo procedere a un profondo rinnovamento della Bolivia e questa trasformazione dovrà essere democratica e pacifica».

Paolo Moiola

Paolo Moiola