Madagascar. Mission impossible (o quasi)


La «grande isola» è come un ponte tra l’Africa e l’Asia. Porta in sé contrasti e difficoltà, oltre a tanta bellezza. Iniziamo questa serie dall’ultimo paese nel quale hanno messo piede i «figli» di Giuseppe Allamano.

«Ormai è venuto il tempo di una missione più discreta, umile, solidale, propositiva, fondata più sull’essere che sul fare» (cfr. dalla presentazione degli atti del capitolo generale dei Missionari della Consolata del 2017).

La genesi

Nel 2012 il vescovo di Abanja, monsignor Rosario Vella, salesiano, passa alla casa Generalizia a Roma. Mi cerca perché le suore Battistine gli hanno parlato bene di noi. Io all’epoca ero superiore generale dei Missionari della Consolata. Mi dice: «perché non venite ad aprire in Madagascar, è una missione ad gentes, adatta a voi. Venite nella nostra diocesi».

Io gli rispondo: «È una bellissima idea, ma noi stiamo lavorando a livello continentale, per cui per aprire una missione in un nuovo paese, mi piacerebbe sentire cosa pensa il consiglio continentale dell’Africa dell’istituto». «Ma come, un generale non può decidere?», dice lui. Io presento l’idea al consiglio, che ci lavora quasi due anni.

Nel 2016, una prima delegazione va in Madagascar a incontrare il vescovo e vedere il possibile luogo di missione. Ne fanno parte il vice superiore generale padre Dietrich Pendawazima, il consigliere per l’Africa padre Marco Marini, e padre Hyeronimus Joya, all’epoca superiore del Kenya, a rappresentare il consiglio d’Africa.

Ma facciamo un passo indietro. Nel 2010, quando ero vice superiore generale, io ero andato a trovare il nostro confratello padre Noè Cereda (recentemente scomparso, ndr) nella capitale Antananarivo. Lui era lì perché aveva lavorato come responsabile all’Emi (Editrice missionaria italiana), e aveva avuto un contratto per pubblicare i libri per le scuole elementari e medie dello Stato. Quando ha lasciato l’Emi, dati i suoi contatti, si è trasferito in Madagascar, a lavorare con delle suore. Mi ero dunque fatto un’idea del Paese.

Motivazioni

Ma perché il Madagascar? Per noi rispondeva a una delle nostre inquietudini come missionari della Consolata. Oggi tutto è missione e il significato dell’«ad gentes» è in crisi. Non si capisce più esattamente quale sia l’identità concreta dell’andare «alle genti». Diciamo che sono i luoghi dove bisogna annunciare il Vangelo per la prima volta. In Madagascar i cattolici sono una minoranza (circa il 16%, ndr).

Una seconda motivazione era che questo Paese è un ponte che unisce l’Africa all’Asia. La popolazione è in parte di origine africana e in parte austronesiana (come i popoli di Malaysia e Indonesia, ndr).

Il terzo elemento di interesse era quello dare occasione ai nostri missionari africani di realizzare una missione tutta africana.

Difficoltà

Quando i nostri primi tre sono partiti nel marzo 2019, sono andati dal vescovo di Ambanja e hanno iniziato a imparare la lingua. Si trattava del congolese Jean Tuluba, l’ugandese Kizito Mukalazi e il keniano Jared Makori. Come africani non hanno avuto grosse difficoltà a comprendere la cultura. Ma dopo qualche mese il vescovo è cambiato, monsignor Vella è stato trasferito e siamo rimasti per un paio di anni con un amministratore apostolico, che però stava in un’altra diocesi e aveva molto altro da fare. I nostri sono stati lasciati un po’ soli. Questo aspetto ha penalizzato la nostra missione.  Quando abbiamo fatto la visita con la nostra delegazione si è dunque pensato di aprire nel Nord del Paese, a Beandrarezona, dove i nostri sono arrivati nell’ottobre 2020. Abbiamo subito visto che si tratta di una missione puramente ad gentes: è proprio un luogo fuori dal mondo.

Durante la stagione delle piogge, per sei mesi all’anno, non si può neppure arrivare con la macchina. Inoltre, l’unica auto che c’è in zona è la nostra. Nella cittadina dove stiamo, le case sono molto vicine tra loro, perché chi vi abita non aveva mai pensato che potesse passare un mezzo, quindi non c’è una vera strada. Anche le comunicazioni sono difficoltose: per usare il telefono cellulare, i missionari devono andare su una montagna.

Inoltre, la nostra è stata la prima presenza missionaria straniera in assoluto. Prima c’era solo un gruppo di suore malgasce che, ancora oggi, gestiscono una scuola. Forse come prima apertura in un paese nuovo è stata un po’ un azzardo.

Quando ho fatto la mia ultima visita canonica, nel luglio 2022, abbiamo confermato che la missione di Beandrarezona è quella dove vogliamo stare. Allo stesso tempo abbiamo rinforzato l’idea di aprire una nuova comunità nella capitale Antananarivo. Abbiamo infatti visto che in Madagascar, tutto si gioca in capitale, quindi una nostra presenza lì è fondamentale. Non soltanto per gli aspetti pratici ma anche per essere riconosciuti e significativi. Molte congregazioni presenti nel Paese non sanno neppure che esistiamo.

Missione povera

È una missione povera, le entrate sono limitate, anche per mantenere il minimo di strutture non è facile. I tre missionari sono rimasti per tre anni in una famiglia il cui papà era direttore della scuola. Loro si sono ristretti e ci hanno lasciato due stanze con una specie di cucina. Solo recentemente abbiamo fatto fare una casa e poi anche una scuola, che potrebbe dare un senso alla missione e una piccola entrata economica. Il luogo ci definisce, ovvero certe scelte ci definiscono. Essere in Madagascar in questo momento storico è una scelta di campo, da ad gentes, tra i più poveri e abbandonati. La forza di questo Paese è il turismo, ma si concentra sulle coste mentre all’interno la popolazione vive in una povertà estrema.

Adesso padre Kizito ha cambiato destinazione, mentre due padri giovani si stanno preparando per integrare il gruppo.

Provocazione

Questa nuova modalità di missione, si presenta con pochi mezzi. Si esplicita in tre punti: stare con la gente, avere meno potere e più condivisione. Il missionario non deve essere il solito straniero potente che risolve tutto. Questa è però una fatica per i giovani, che sono portati a essere protagonisti.

Bisogna trovare le condizioni per riuscire a stare o, al contrario, capire le condizioni che ti obbligano ad andare via.

La missione oggi chiede una grande conversione: si fa fatica a individuarla, è diversa da quella di una volta, ed è difficile portarla avanti.

Stefano Camerlengo

 




Clima: ultima occasione


In attesa delle elezioni europee, il cui risultato sarà decisivo per contrastare la crisi climatica, ripercorriamo l’evoluzione del movimento «Fridays for future» e di come ha cambiato il dibattito sul clima.

Il 20 agosto del 2018 una ragazza svedese ha innescato la scintilla che avrebbe cambiato il dibattito mondiale sul clima in maniera irreversibile.

Stiamo parlando di Greta Thunberg che, all’età di15 anni, ha iniziato la sua protesta per il clima, e per tre settimane ha saltato la scuola recandosi invece di fronte al parlamento del suo Paese. Indossava un iconico impermeabile giallo e reggeva un cartello che recitava «Skolstrejk for klimatet», sciopero della scuola per il clima.

Una semplice ragazza angosciata per il futuro incerto del suo pianeta chiedeva alla classe politica svedese, che si stava avvicinando a nuove elezioni in quel periodo, di attuare azioni rapide e concrete di contrasto alla crisi climatica. Greta Thunberg ha iniziato sola, ma presto i media hanno incominciato a darle attenzione, ragazzi e ragazze da ogni luogo hanno iniziato a emulare le sue azioni e il mondo si è accorto che le sue preoccupazioni erano condivise da una massa di persone, giovani e non solo, in tutti i paesi.

Molti hanno iniziato a seguire il suo esempio, e quella protesta individuale ha assunto una dimensione globale prendendo il nome di Fridays for future, venerdì per il futuro, in riferimento al giorno della settimana scelto da Greta e i suoi compagni per continuare i loro scioperi anche dopo le elezioni svedesi.

Il neonato movimento portava avanti istanze precise, a partire dalla richiesta alla comunità internazionale di sviluppare politiche definite per rispettare l’impegno preso con l’Accordo di Parigi del 2015. Il trattato, sviluppato con la partecipazione di 196 paesi alla Cop21, fissava come obiettivo il mantenimento «dell’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a 1,5°C, riconoscendo che ciò potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici».

Una rapida crescita

Per approfondire incontriamo Luca Sardo, 24 anni, torinese, neolaureato in economia dell’ambiente e attivista per il clima già da prima dell’arrivo di Fridays for future nel capoluogo piemontese. Ci racconta come lui e i suoi compagni abbiano visto nel nuovo movimento uno spazio entusiasmante, giovane e fluido nel quale impegnarsi per essere protagonisti del cambiamento. Racconta: «Questo ti faceva sentire che, anche se avevi 17-18 anni, potevi comunque fare la differenza e sentirti parte di qualcosa di molto più grande».

Secondo il giovane attivista, uno dei principali pregi del movimento nato da Greta Thunberg è stato quello di aver aumentato la consapevolezza pubblica sul tema, offrendo «un’inquadratura diversa della crisi climatica: essa non è solo un problema di natura scientifica, ma anche di giustizia climatica, di impatti differenti che la crisi ha sulle diverse fasce della popolazione».

Grazie a queste caratteristiche Fridays for future si è espanso in fretta in tutto il mondo, approdando in Italia con l’iniziativa di Bruno Fracasso, giovane studente di biologia che il 30 novembre 2018 ha indetto il primo sciopero per il clima di fronte alla sede del comune di Pisa. Dopo la sua iniziativa, il movimento ha raggiunto presto anche altre città.

foto Fridays for Future – Torino

2019, l’anno verde

Dopo le prime manifestazioni organizzate localmente, gli esponenti del movimento hanno capito di poter mobilitare grandi masse e di poterlo fare in molti paesi contemporaneamente provocando un impatto maggiore sull’opinione pubblica. Così Fridays for future, insieme ad altre organizzazioni ambientaliste, ha organizzato per il 15 marzo 2019 il primo Global strike for future, uno sciopero globale che, secondo le stime degli organizzatori, ha portato oltre un milione di studenti per le strade di 125 paesi.

Da quel momento i movimenti ambientalisti hanno vissuto la loro età dell’oro, le manifestazioni si sono susseguite una dopo l’altra e con una partecipazione oceanica. Tra il 20 e il 27 settembre 2019 la Climate action week ha visto la realizzazione di più di 6.100 manifestazioni in 185 paesi, coinvolgendo un numero record di persone, che gli organizzatori hanno stimato di 7,6 milioni. Altre fonti hanno riportato cifre leggermente più basse, ma in ogni caso è stata la manifestazione globale per il clima più partecipata di sempre e una delle più grandi proteste della storia. L’Italia, con un milione e mezzo di partecipanti, è stata uno dei paesi più attivi.

Il clima è così entrato con una nuova forza nel dibattito pubblico e si è fatto largo nelle agende mediatiche e politiche. Le posizioni e le affermazioni sui problemi ambientali sono diventate il metro per giudicare politici, partiti, influencer e aziende. Tanta è stata anche la disinformazione in questi anni, dalle prime pagine del giornale Libero che parlavano dei «gretini» alle dichiarazioni negazioniste di Matteo Salvini, ma ormai il tema era sul tavolo, e non se ne sarebbe andato facilmente.

Sardo ci racconta: «Il principale successo ottenuto a livello europeo, anche se ora è in grande discussione, è stato l’approvazione del Green deal. Rappresenta un punto di non ritorno nelle politiche per il clima a livello dell’Unione, ha segnato una svolta importante».

Il Green deal è stato presentato dalla Commissione europea ai cittadini a fine 2019 con l’obiettivo, tanto ambizioso quanto necessario, di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Tra i passi da fare vi è la riduzione delle emissioni del 55% rispetto ai livelli del 1990, da attuarsi entro il 2030. Le iniziative da mettere in campo includono la decarbonizzazione del settore energetico e l’introduzione di forme di trasporto pubblico e privato più pulite.

Lo stop e la ripartenza

Con la diffusione, a inizio 2020, della pandemia da Covid-19, l’onda di mobilitazione scatenata da Thunberg ha subito un brusco arresto. Di colpo il mondo si è bloccato, le manifestazioni sono state vietate e l’emergenza climatica è passata in secondo piano rispetto alla crisi sanitaria e alle sue disastrose conseguenze.

«Nel 2021 abbiamo ricominciato a manifestare – spiega Luca Sardo – ma la copertura mediatica era molto scemata rispetto ai livelli pre pandemia e anche quell’aria di novità, di moda e di tendenza che avevamo era scomparsa».

Nel 2021 ci sono stati alcuni grandi eventi degni di nota, come la mobilitazione di migliaia di attivisti arrivati da tutto il mondo a Glasgow in occasione della Cop26. Tra essi era presente anche un’importante rappresentanza dei Mapa (dall’inglese Most affecteed people and areas), ossia le persone e le aree più colpite dagli effetti della crisi climatica. L’interesse, però, era scemato e il movimento non avrebbe ritrovato la stessa forza di prima.

Tuttavia, erano ancora in molti i giovani che sentivano l’urgenza di affrontare la crisi climatica. Un’urgenza definibile come vera e propria «ecoansia» per il proprio futuro.

«Questo ci ha trasformati – continua l’attivista torinese -: da essere sulla cresta dell’onda siamo passati a essere un movimento meno grande, con meno copertura mediatica, però fatto da persone che erano rimaste lì perché ci credevano davvero. È questo che ci ha permesso di portare avanti cose che prima non saremmo riusciti a fare».

foto Fridays for Future – Torino

Nuove radici

A quel punto, a livello italiano, è iniziato un processo di consolidamento, di radicamento nel territorio e di approfondimento delle relazioni con altri attori sociali. Si sono stabilite e rafforzate collaborazioni con Extinction rebellion, movimento fratello, con associazioni storiche come Greenpeace e Legambiente, e oggi si esplorano possibili legami con Ultima generazione, movimento più recente che porta avanti azioni di rottura e disturbo, come gli imbrattamenti di monumenti ed edifici tanto ripresi dalla stampa.

Luca Sardo spiega che la lotta per la giustizia climatica è una battaglia «intersezionale» che riguarda la giustizia sociale a 360 gradi, dal clima, alle migrazioni, dall’innalzamento dei mari alle guerre per l’acqua. Per questo, racconta, a Torino il movimento ha «sviluppato molto i rapporti con i sindacati della città, perché la crisi climatica si interseca con le tematiche di tutela dei diritti dei lavoratori, visto che spesso si usa la transizione ecologica come una scusa per delocalizzare, tagliare posti di lavoro, chiudere fabbriche».

Il radicamento sul territorio ha portato il movimento a molti risultati locali: Luca Sardo ci fa l’esempio del gruppo torinese, il quale nel giugno 2023 ha trovato la sua prima casa; a Torino è stato infatti inaugurato il Kontiki, prima sede fisica di Fridays for future in Italia. Un luogo dove mettere radici, coltivare relazioni e costruire cultura. Oltre a essere la sede dei loro incontri e delle associazioni amiche, il Kontiki in questi primi mesi di vita ha già ospitato decine di eventi culturali, conferenze, presentazioni di libri, diventando un vero e proprio punto di riferimento per i giovani che vogliono attivarsi.

Prospettive europee

La battaglia per la giustizia climatica è ben lontana dal raggiungere i suoi obiettivi, nonostante i rischi siano gravi e accertati dalla comunità scientifica. Il dibattito fatica ad attecchire su alcune fasce della popolazione e a tradursi in iniziative politiche concrete.

Come sottolinea Sardo, il problema dell’attivismo per il clima è che, almeno in Europa, i problemi ambientali non hanno ancora palesato conseguenze particolarmente drammatiche, e le persone faticano a considerare urgenti problemi che si verificheranno tra alcuni anni. Il mondo sta attraversando una molteplicità di crisi e gli europei sono più preoccupati per i costi della spesa, del carburante e delle bollette.

Ci stiamo avvicinando a uno dei banchi di prova più importanti per il nostro pianeta, tra il 6 e il 9 giugno 2024, infatti, i cittadini dell’Unione europea voteranno il loro nuovo Parlamento. L’obiettivo principale per contenere le conseguenze della crisi climatica è mantenere l’aumento della temperatura media entro gli 1,5°C entro il 2030, e i parlamentari che eleggeremo staranno in carica fino al 2029. Potrebbe quindi essere l’ultima opportunità per fare davvero la differenza, in un senso o nell’altro, e le prospettive attuali non sono incoraggianti vista la scarsa sensibilità ecologica tipica della classe politica di molti paesi.

Al centro del problema ci sono sicuramente i combustibili fossili sui quali l’ultima Cop di Dubai ha definito ufficialmente la direzione, che comporta una progressiva ma decisa uscita dal loro utilizzo. I principali settori su cui bisognerà intervenire saranno quello dei trasporti, dell’agricoltura, e soprattutto dell’energia. Abbiamo visto negli ultimi mesi come e quanto sia difficile portare avanti azioni significative in questi settori ma, continua Sardo: «L’elefante nella stanza sono le lobby e le multinazionali del settore energetico. Fortissime e inscalfibili, determinano gran parte dei conflitti che viviamo nel mondo. È quello il principale nemico da aggredire». È stato quindi questo l’obiettivo di Fridays for future durante i mesi precedenti alle elezioni europee: cercare di riportare per le strade cortei e manifestazioni – come ha fatto con lo sciopero globale organizzato lo scorso 19 aprile – e contemporaneamente sviluppare azioni specifiche indirizzate a minare gli interessi delle lobby del fossile.

Il nostro pianeta ha bisogno di azioni rapide e concrete per sopravvivere, la lotta continua e, come sottolinea Luca Sardo, va «declinata in un’ottica di giustizia climatica per permettere alle persone di affrontare questa transizione senza accrescere le disuguaglianze, ma anzi cercando di ridurle contemporaneamente».

Mattia Gisola

foto Mattia Gisola


Il vocabolario dell’attivista

Mapa: è una sigla che sta per «Most affected people and areas». Indica le persone e le aree più colpite dagli effetti della crisi climatica. Spesso viene utilizzata come alternativa a «Sud globale» per riferirsi a tutte le popolazioni e i paesi che pagano il maggior prezzo dei cambiamenti climatici pur avendo le minori responsabilità nel provocarli. Sono incluse le popolazioni indigene, che è stimato proteggano l’80% della biodiversità del pianeta.

Intersezionalità: ogni tipo di attivismo può essere intersezionale, significa essere consapevoli che le diverse forme di diseguaglianza che affliggono le nostre società sono interdipendenti tra loro. In quest’ottica battersi per la giustizia climatica significa perseguire una giustizia sociale a 360 gradi, che non lasci indietro nessuno.

Ecoansia: forma di ansia e paura per il futuro legata alla consapevolezza dei disastri che i cambiamenti climatici provocheranno.

Cop: Conferenza delle parti organizzata ogni anno dalla Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) dove i leader di tutto il mondo si riuniscono per decidere insieme come contrastare l’emegenza climatica.

1,5 gradi: durante la Cop21 di Parigi è stata per la prima volta scelta come obiettivo la soglia limite di 1,5 gradi di riscaldamento globale rispetto al periodo pre industriale. è ritenuto il limite per contenere conseguenze disastrose dei cambiamenti climatici.

foto Mattia Gisola




Trent’anni di missione


Un’esperienza di un mese nel paese saheliano è stata  per lui una «folgorazione». Da allora non ha più smesso di viaggiarci e ne ha fatto il suo Paese di adozione. Fino ad andarci a vivere. La sua è, in tutti i sensi, una famiglia missionaria. Paolo ci racconta la sua storia.

«Io sono tornato molto fiducioso da questo viaggio in Burkina Faso, con tanta voglia di ripartire e fare investimenti nel Paese». Chi parla è Paolo Turini, classe 1969, di Montevarchi (Arezzo). È tornato da qualche settimana dal paese saheliano. Ma la sua non è una butade, è una constatazione suffragata da una lunga esperienza.

Il primo viaggio come esperienza di missione lo ha fatto nel 1994, proprio in Burkina Faso. È successo quasi per caso. Poi si è creata una profonda relazione con quei luoghi.

Lì ha conosciuto Caterina Piu, pure lei volontaria, e da quel momento il rapporto con i burkinabè è stato prima di coppia e poi di famiglia.

Ma andiamo con ordine.

1994. L’inizio di tutto

«Don Gabriele Marchesi era il mio parroco, ma anche il responsabile dell’ufficio missionario diocesano di Fiesole – ci racconta Paolo -. Il 2 novembre del 1994, dopo la messa dei morti gli chiesi: “Come posso fare una esperienza missionaria?”. Lui mi parlò dei corsi di preparazione dei giovani che poi ad agosto avrebbero fatto un’esperienza di missione. Ma mi disse anche: “Però ho un biglietto per un muratore, per andare a posare delle piastrelle in un dispensario in Burkina Faso. Chi doveva andare si è infortunato, e devo trovare qualcuno per il 10 dicembre”».

Il giovane pensò subito al suo capo scout che faceva quel mestiere. «Corsi da lui, ma mi disse che aveva molto lavoro e non poteva partire. Gli chiesi se mi avrebbe insegnato a posare le piastrelle se fossi andato tutti i sabati e le domeniche a lavorare con lui. Si mise a ridere, ma annuì». Paolo fece subito la proposta a don Gabriele, non c’era un minuto da perdere. E il sacerdote: «Guarda che poi là sei da solo, devi essere bravo!». Ma gli diede fiducia, e Paolo, in alcuni fine settimana, imparò a fare il lavoro.

«Una settimana prima della partenza facemmo una riunione con altri due ragazzi che sarebbero pure partiti e con don Carlo Donati, sacerdote fidei donum, che seguiva questa missione. Fui presentato come muratore esperto!».

Arrivati a Ouagadougou, la capitale, il giorno dopo si trasferirono nella città di Koupela. Il lavoro da fare era in un villaggio, Kanougou. «Eravamo su un fuoristrada su una pista di terra e don Carlo mi disse: “Guarda: a questo sasso svolti a destra e a quell’albero a sinistra. Impara perché da domani ci vieni da solo”. E così è stato. Per venti giorni da solo, prima a portare tutti i materiali e poi a posare piastrelle. Con i bambini che venivano a prendere i ritagli per fare i presepi. Altri dieci giorni sono andato in motorino, perché l’auto non era più disponibile». Paolo conclude: «Come prima esperienza in Africa è stata folgorante».

Quell’esperienza, Paolo l’aveva cercata intensamente, ma non sa neppure lui perché. Inoltre, aveva dovuto rinunciare allo stipendio in Italia, perché aveva già fatto le ferie. Il datore di lavoro lo aveva aiutato, tenendogli il posto.

Oltre a un primo assaggio di Africa, Paolo conobbe così il gruppo missionario di don Carlo con il quale iniziò a fare volontariato. Ogni anno tornava in Burkina a svolgere compiti diversi. Nei restanti mesi, in Italia, era attivissimo: usava il suo tempo libero per le diverse attività di promozione della missione sul territorio.

1977. Un’infermiera

«Nel 1997 ero in Burkina per il mese di missione che facevo tutti gli anni. Mi dissero di andare all’aeroporto a prendere tre volontari. Scesero dall’aereo una signora, una ragazza e un ragazzo. La giovane aveva l’orecchino al naso e i tacchi alti. Ho subito pensato: ma chi l’ha mandata in Burkina? Poi iniziai a interessarmi, mi piaceva l’attenzione che dava ai malati. Così ho approfondito la conoscenza».

Caterina è un’infermiera di Nuoro, ed era andata a fare un’esperienza da una suora sarda in missione a Koupela.

«L’anno successivo siamo riusciti a fare insieme due mesi in Burkina, accumulando ferie e altri permessi. Due anni dopo ci siamo sposati».

Fu in quel periodo che Paolo e Caterina maturarono l’idea di passare più tempo nel Paese. «Quando abbiamo deciso di partire per un tempo più lungo, è stato perché, dopo tanti anni di permanenze di un mese, avevamo capito che, se ci si voleva immedesimare nella cultura e aiutare meglio, occorreva vivere sul posto. Una volta compreso questo, abbiamo cercato in tutti i modi di realizzare il nostro sogno, mettendo a disposizione i nostri talenti».

1999. Il primo anno

Il primo passo è stato ottenere per entrambi un’aspettativa di un anno dal lavoro. Paolo nel 1999 lavorava per le ferrovie come manutentore (aveva passato il concorso pubblico), mentre Caterina faceva l’infermiera.

«Io ho sempre creduto nella formazione tecnica dei giovani – continua Paolo -, affinché abbiano le competenze per realizzare essi stessi il cambiamento. Ero in linea con il metodo dei Fratelli della Sacra famiglia, e c’era il modello di Goundi (villaggio nel centro ovest del Paese) di fratel Silvestro Pia: formare i giovani e dare loro gli strumenti per iniziare l’attività».

Quell’anno di aspettativa lo passarono proprio con fratel Silvestro, con l’intento di costruire una permanenza più stabile.

«Cercammo diverse possibilità: congregazioni religiose, Ong. Nessuno si interessò al nostro progetto. A un certo punto ci eravamo accordati con il gruppo missionario di don Carlo: saremmo rimasti nel Paese a seguire i suoi progetti. Il gruppo aveva aperto tre centri per bambini malnutriti e creato diversi orti moderni. Era quasi tutto pronto, ma una telefonata che ci raggiunse proprio in Burkina durante l’anno di aspettativa ci gelò: “Mi dispiace, non possiamo permettercelo economicamente”.

Don Gabriele conosceva tutta la questione. Ci disse: “Se mi garantite di rimanere cinque anni, trovo una formula”. E trovò quella dei missionari laici, che all’epoca era molto complicata. La diocesi di Fiesole ci avrebbe dato un rimborso per pagarci i contributi, circa 500 euro a testa al mese. Avremmo pagato solo i miei, perché gli altri ci sarebbero serviti per vivere. Non possiamo smettere di ringrazialo perché ci permise di partire».

2001. E missione sia

Paolo e Caterina partirono nel marzo del 2001. Iniziarono dando un aiuto ai padri Camilliani, alla periferia di Ouagadougou, in un centro dove accoglievano malati di Aids. Si occupavamo di completare la formazione degli infermieri neo diplomati e di altre attività. «Non era esattamente il nostro sogno, ma ci permise di partire. Prendemmo un impegno di un anno, poi ci saremmo spostati».

Arrivò la soffiata che una sezione dei Lions (organizzazione filantropica, ndr) voleva finanziare progetti di formazione professionale nel Sud del mondo. Paolo, preso a modello il centro di formazione professionale di Goundi, scrisse un documento da presentare all’associazione. La cifra necessaria era di 75mila euro: «Volevamo realizzarlo nella diocesi di Koupela, perché c’era l’accordo con la diocesi di Fiesole. Parlando con il vescovo, questi ci suggerì proprio Kanougou, perché c’era una struttura, il dispensario delle suore dove anni prima avevo messo le piastrelle, che aveva alcune stanze libere. Inoltre c’era il pozzo per l’acqua».

Le cose non andarono bene: «Anche questa volta arrivò una telefonata che ci lasciò di stucco: i Lions stavano ristrutturandosi e non avrebbero finanziato alcun progetto».

Ma la coppia missionaria era tenace. Lavorando dai Camilliani avevano conosciuto un medico italiano, che si impegnò a trovare loro un primo finanziamento. «Abbiamo deciso di cominciare con una cifra molto più bassa, poi via via si sono aggiunti altri contributi: dal centro missionario di Montevarchi, dallo stesso gruppo di don Carlo e da tanti altri ancora. Lavorando un po’ alla volta, siamo riusciti a realizzare tutto, tranne la sala polivalente, che avevamo capito non essere necessaria. Ci abbiamo messo più tempo, ma abbiamo avuto una spesa totale di 65mila euro».

Riflessioni

I due missionari laici si resero conto che vivere sul posto la missione ha un valore aggiunto molto importante: «L’idea di missione che si ha facendo viaggi periodici nel paese per brevi periodi non sempre è adattata al contesto. Per questo io e Caterina abbiamo deciso di stare a vivere in Burkina. Gli anni passavano, il Paese cambiava, cresceva, ma in Italia era rimasta l’idea dell’Africa dei container. Vivendo lontani si rischia di avere un approccio di aiuto di vecchio stile». Certo, lasciare tutto e partire è molto più complicato che mettere a disposizione le proprie ferie ogni anno: «Abbiamo dovuto entrambi licenziarci dal lavoro. Devo dire che le nostre famiglie ci hanno sempre supportati. A Caterina hanno detto: “Basta che tu sia felice”. E mia mamma ha chiosato: “Tanto tu alle ferrovie non sei mai andato volentieri”».

Ripensando al periodo di residenza in Burkina, Paolo ricorda che non era sempre tutto facile, anzi: «Qualche batosta c’è stata. Alcuni problemi che ti fanno dire: ma chi me lo ha fatto fare. Ma poi ci sono le motivazioni di fondo che ti aiutano ad andare avanti».

Nel frattempo arrivarono i primi due figli, Samuele e Francesco, e la famiglia missionaria si era allargata.

2006. Il ritorno

Il 12 agosto del 2006 arrivò una di quelle telefonate che impongono decisioni importanti. «Il provveditorato agli studi mi informava che ero passato di ruolo. Avevo dato il concorso per la scuola molti anni prima. In 48 ore avrei dovuto decidere se prendere il posto o lasciare. Partire o restare in Burkina.

Quella notte non riuscivo a dormire. Mi giravo e mi dicevo: ma chi ce lo fa fare di tornare in Italia? Stiamo qui. Poi mi rigiravo: abbiamo già due figli e quando cresceranno cosa si farà? Don Gabriele era andato in missione in Brasile. Non si sapeva se la diocesi ci avrebbe rinnovato il contratto. Le incognite erano tante. Apro gli occhi e vedo una lucina rossa nel buio della stanza. Penso al tabernacolo. Sento che mi dice: torna in Italia poi semmai ritorni in Burkina.

Al mattino mi sveglio e dico a Caterina: si è deciso, si riparte. Poi mi accorgo che la lucina era lo zampirone contro le zanzare. Ma oramai si era deciso».

In Italia Paolo e Caterina diventarono l’anima del centro missionario Bakonghe, che si costituì come associazione. Furono, inoltre, nominati entrambi responsabili del Centro missionario diocesano di Fiesole, primi laici a svolgere questo servizio. Paolo continuava a seguire il progetto di Kanougou e, una volta all’anno, andava in Burkina.

Ma ci confessa: «Non sempre siamo contenti della scelta di tornare in Italia. Adesso Samuele ha 20 annie sta già lavorando. Francesco e all’ultimo anno delle superiori, e Petra, nata dopo il rientro, al terzo. Vediamo quando saranno autonomi se tornare in Burkina».

2024. Nuove idee

Nel gennaio di quest’anno Paolo è tornato dall’ultimo viaggio missionario con una nuova idea. «Voglio realizzare una fabbrica di motozappe. Se funziona, può migliorare la vita dei contadini burkinabè, e anche darci un piccolo introito che ci permetta di tornare a vivere in Burkina per seguire le attività del centro di formazione a Kanougou».

Paolo ci dice che l’attuale governo vuole favorire l’agricoltura e quindi cercherà di contattare il ministero. «Prevedo una parte per l’assemblaggio delle motozappe e una parte per la vendita. Il prezzo deve essere accessibile a una famiglia del posto. Servono circa 50mila euro, ma non tutti insieme, si può iniziare con una prima parte e poi andare avanti. Ma in tre anni la fabbrica deve essere produttiva. Devo iniziare a cercare i finanziamenti».

Nel frattempo Paolo sta contattando aziende italiane produttrici di motozappe per proporre eventuali collaborazioni, sia tecniche che finanziarie. Intanto con Caterina continua l’attività missionaria con il centro Bakonghe e con la diocesi.

«Lascerei il Cmd anche ad altri, ma purtroppo in Italia adesso c’è poco interesse per la missione», si lamenta. E fa un commento su come è stato vissuto il loro rientro dalla missione: «Quando siamo venuti via dal Burkina, temevo che i burkinabè ci accusassero di essere dei traditori. Cosa che non è mai accaduta. Piuttosto, ci hanno sempre detto: “Voi potrete aiutarci anche dall’Italia”. Invece qui da noi c’è gente che ci ha detto: ma cosa siete tornati a fare, abbiamo bisogno di voi in Burkina. Voglio dire che abbiamo avuto più difficoltà da parte degli italiani che dagli africani».

Dopo trent’anni di missione in Burkina Faso, seppure con modalità diverse, Paolo è più motivato che mai. Neanche la difficile situazione sociopolitica del Paese lo scoraggia. E con lui, la sua famiglia missionaria.

Marco Bello

 




L’Amazzonia, invasa e avvelenata


Come negli altri paesi, anche in Venezuela nulla sembra fermare la distruzione dell’Amazzonia per mano dell’uomo. È l’attività mineraria illegale a produrre i danni maggiori. Il governo Maduro sembra non avere né la forza né la volontà per cambiare la situazione. Il prezzo di quest’anarchia lo pagano l’ambiente, i popoli indigeni e un esercito di disperati.

Il buco è una voragine gigantesca, profondissima e larga. Una decina di uomini, legati alle corde ma vestiti in modo del tutto inadeguato, sono abbarbicati alle pareti di terra rossa e lavorano di pala per scavare dei gradoni. L’intenzione è di costruire una sorta di via d’accesso alla voragine: non sia mai detto che la natura risulti vincitrice.

La voragine è quello che resta della miniera d’oro a cielo aperto conosciuta con il nome di Bulla Loca («giacimento matto»).

Siamo in località La Paragua, stato Bolívar, Amazzonia venezuelana (conosciuta anche come Guayana). Lo scorso 20 febbraio la miniera è franata facendo una trentina di morti tra le centinaia di minatori che vi lavoravano. Minatori illegali di una miniera illegale come moltissime altre. E gli incidenti sul lavoro sono una tragica consuetudine, come quello che il 3 giugno 2023 ha fatto 12 morti a El Callao, sempre nello stato di Bolívar. El Callao è un villaggio la cui vita gira attorno all’estrazione dell’oro: la maggioranza dei suoi 30mila abitanti partecipa direttamente o indirettamente a questa attività. La località è salita alla ribalta delle cronache anche per l’impiego di bambini (addirittura di soli sei anni) nelle sue miniere.

Virgilio Trujillo Arana, indigeno Uwottüja di 38 anni, attivista ambientale, assassinato a Puerto Ayacucho a fine giugno 2022. Foto Orpia-Coica.

Un’invasione senza fine

Dell’Amazzonia venezuelana si parla poco. Eppure, è importante tanto quanto le Amazzonie più conosciute: quelle del Brasile, del Perù, dell’Ecuador, per esempio. Purtroppo, è anche afflitta dai loro stessi problemi: oltre che dalle attività minerarie, da deforestazione, incendi, inquinamento da mercurio, diffusione della malaria, violazione dei diritti dei popoli indigeni residenti, sfruttamento del lavoro minorile, presenza di gruppi armati.

La regione amazzonica del Venezuela si estende nel Sud del paese attorno al corso del fiume Orinoco (inclusi i suoi affluenti, escluso il delta) e copre quasi interamente gli stati Bolívar e Amazonas più alcune porzioni di altri due (Delta Amacuro e Apure) per un totale di circa 490mila chilometri quadrati (circa metà del Paese, una volta e mezzo la superficie dell’Italia). È abitata da oltre venti popoli indigeni. Secondo il censimento del 2011, gli indigeni sarebbero 54mila in Bolívar e 76mila in Amazonas. Le etnie principali sono i Pemón (30mila), i Uwottüja o Piaroa (20mila), gli Yanomami (15mila) e i Kariña (10mila).

La corsa all’oro uccide

La sfortuna vuole che nel sottosuolo dell’Amazzonia venezuelana si trovino minerali come ferro, bauxite e rame, ma soprattutto oro, diamanti e coltan. Sono questi ultimi tre ad aver scatenato una vera corsa all’attività mineraria, soprattutto quella illegale. Non da oggi, in verità. Da resoconti e cronache dei missionari Cappuccini e dei funzionari dell’epoca, si sa che l’oro venezuelano veniva estratto – con il lavoro forzato degli indigeni – già prima del 1800, e portato in Spagna. Oggi tutti parlano di una presenza di minatori illegali in crescita continua (le stime variano da 50mila a 300mila persone). Una parte importante sono garimpeiros (minatori) brasiliani, soprattutto nell’Alto Orinoco-Casiquiare, straordinaria regione che ospita la Riserva della biosfera dell’Unesco e il Parco nazionale Parima Tapirapeco. Tra l’altro proprio ai minatori brasiliani si deve il massacro di Haximú compiuto nel giugno del 1993 ai danni di un gruppo di Yanomami (anziani, donne e anche bambini) nativi del luogo.

Secondo un rapporto dell’organizzazione ambientalista «Sos Orinoco», molti garimpeiros entrano nella zona con elicotteri e piccoli aerei e – ultima novità – hanno iniziato a utilizzare droni per filmare il territorio. Gli invasori distruggono la foresta per costruire piste di atterraggio e basi operative. In cambio della complicità, la Guardia nazionale venezuelana riceverebbe una parte dei profitti.

«Horonami», l’organizzazione degli Yanomami del Venezuela (162 comunità), ha denunciato che membri della sua popolazione sono stati costretti a lavorare come schiavi dai garimpeiros, che, inoltre, hanno violentato e prostituito donne e ucciso membri delle comunità. Nella loro strategia per arrivare al controllo del territorio rientrano i regali alle comunità indigene: cibo, armi, fucili, machete. Alla gravità della situazione si aggiunge l’indifferenza dello Stato centrale e la complicità dei suoi organi locali, che può anche trasformarsi in violenza diretta.

Nel mese di marzo 2022 c’è stata una disputa tra i militari della base area B7 di Parima e membri della locale comunità indigena, che chiedevano l’accesso al servizio internet. L’alterco si è concluso con la morte di quattro Yanomami. Il tragico episodio riflette tensioni e problemi di una difficile convivenza tra indigeni e non indigeni. A due anni di distanza, la richiesta di giustizia da parte della comunità non ha trovato ancora alcuna risposta da parte delle autorità venezuelane.

Nella vasta regione amazzonica la violenza non è un’eccezione, ma una consuetudine sempre più diffusa. A fine giugno 2022, Virgilio Trujillo Arana, un indigeno Uwottüja di 38 anni, è stato ammazzato con tre spari alla testa a Puerto Ayacucho, capitale dello stato di Amazonas. L’uomo era un attivista ambientale. Nel municipio di Autana era, infatti, coordinatore di un gruppo di difesa indigeno contro le invasioni territoriali e le attività minerarie illegali.

Secondo l’Observatorio para la defensa de la vida (Odevida), «tra il 2013 e il 2021, 32 leader indigeni e ambientalisti sono stati assassinati, 21 dei quali da sicari minerari o membri di organizzazioni di guerriglia colombiane, e 11 da membri delle Forze armate nazionali bolivariane (Fanb)».

Tuttavia, non tutti i popoli indigeni dell’Amazzonia venezuelana affrontano il problema delle minerie allo stesso modo.

I Pemónes, il maggiore gruppo indigeno della regione, vivono nei territori di Sud Est dello stato Bolívar, a ridosso del confine con Brasile e Guyana. Il loro territorio è annoverato tra i più ricchi di oro al mondo e per questo estremamente attrattivo. Già un certo numero di indigeni lavora nelle miniere aurifere, altri chiedono al governo centrale di porre fine allo sfruttamento illegale del loro territorio e di istituire miniere legali sotto controllo Pemón.

Un’immagine dall’alto dell’accampamento cresciuto accanto alla miniera illegale «Bulla Loca» (La Paragua, stato Bolívar), teatro di un tragico incidente lo scorso 20 febbraio. Screenshot da filmato TeleSur.

Dall’anarchia all’«Amo»

Dopo la scomparsa di Hugo Chávez (2013), con la presidenza di Nicolás Maduro il Venezuela è precipitato in una crisi infinita. Anche per far fronte alla perdita di gran parte delle entrate petrolifere, nel 2016 il governo di Caracas ha varato il progetto «Arco minero del Orinoco», noto con l’acronimo di Amo. L’Arco minerario occupa un’area di 111.843 chilometri quadrati di territorio nel Nord e nell’Est dello stato di Bolívar, più grande del Portogallo o di Cuba, 12% della superficie del Venezuela.

Sul sito del ministero (dal nome altisonante: Ministerio del poder popular de desarrollo minero ecológico), gli obiettivi propagandati sono «pace, protezione ambientale e prosperità economica» da raggiungere attraverso il «controllo della catena produttiva mineraria» con «una delimitazione delle aree minerarie e la protezione delle zone sacre ancestrali».

A questa narrazione edificante si contrappone una realtà molto diversa. Come riassume «Sos Orinoco»: «I risultati sono stati catastrofici sia per la regione che per la sua popolazione e gli ecosistemi. Avrà effetti tragici e duraturi – forse irreversibili – in Venezuela e oltre i suoi confini». Se è vero che queste critiche sono fatte da un’organizzazione antigovernativa, è altrettanto vero che altri arrivano alle stesse identiche conclusioni. In particolare, Wataniba, gruppo socioambientale venezuelano, la Chiesa cattolica e la Repam (Red eclesial pan amazónica).

A oggi, nell’Amazzonia venezuelana vige l’anarchia con le mafie e i gruppi armati illegali a dettare legge. Gli investitori stranieri millantati da Maduro («35 paesi sono interessati», aveva assicurato il presidente) sono rimasti lontani. Anche la Cina – specialista in business strategici – e sempre privilegiata dal governo di Caracas è rimasta cauta. In compenso, la distruzione ambientale e l’avvelenamento da mercurio si sono diffusi andando ben oltre i confini teorici dell’Arco minero.

Oggi tutti i parchi e le aree protette dell’Amazzonia venezuelana sono sotto attacco. Come il Parque nacional cerro Yapacana (Amazonas) che, a fine 2023, è stato oggetto di una propagandata operazione – nota come Operación Autana – da parte delle Forze armate bolivariane con questi risultati ufficiali: 86 miniere sotterranee chiuse, 241 imbarcazioni sequestrate, 4.450 villaggi improvvisati distrutti, 14mila persone espulse. Tuttavia, come fossero vasi comunicanti, liberata una zona, il problema si ripresenta in un’altra, passando – ad esempio – dal Parco Yacapana a quello di Canaima (Bolívar).

Come quasi sempre accade, la ricchezza di un luogo naturale è anche la sua dannazione perché attrae appetiti umani senza limiti ed eserciti di poveri disposti a tutto pur di cambiare la propria esistenza. Succede in tutta l’Amazzonia e quella del Venezuela non fa eccezione.

Paolo Moiola

L’impressionante devastazione ambientale prodotta dall’attività mineraria illegale attorno a La Paragua, stato Bolívar, Amazzonia venezuelana. Screenshot da filmato TeleSur.

 




Nicaragua. Una Chiesa in esilio


Cacciati il nunzio apostolico, alcuni vescovi, presbiteri e persino le suore di Madre Teresa. Il regime di Daniel Ortega accusa la Chiesa cattolica di sostenere gli oppositori. Ma i vescovi del Paese centroamericano replicano che loro sono solo dalla parte degli ultimi.

Era la fine di giugno del 2022 quando Daniel Ortega ha deciso l’espulsione delle Missionarie della Carità dal Paese.

Presenti a Managua dal 1986, le suore di Madre Teresa hanno dovuto lasciare il Nicaragua perché non avevano rispettato le leggi sul «finanziamento del terrorismo e sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa». Questa almeno era l’accusa rivolta loro dalla «Direzione generale di Registro e controllo delle organizzazioni senza scopo di lucro» del ministero dell’Interno nicaraguense. La stessa motivazione con la quale sono state messe al bando, in questi ultimi anni, oltre cento organizzazioni non governative (Ong).

(Photo by Cesar PEREZ / Nicaraguan Presidency / AFP)

Fuori chi contesta il regime

Il caso dell’espulsione dal Paese delle suore di Madre Teresa che, con una mitezza divenuta addirittura proverbiale, portano la loro assistenza agli ultimi in quasi tutti gli angoli del mondo, anche in contesti di guerra come sono oggi Gaza o l’Ucraina, ha fatto il giro del mondo. Le fotografie e i video che le ritraggono mentre, con le poche cose che avevano deciso di portare con loro, attraversavano a piedi il confine con il Costa Rica, sono tra le immagini simbolo della persecuzione dei cristiani in Nicaragua.

Un’oppressione che negli ultimi anni non ha avuto riguardo per nessuno, neanche per il Papa che si è visto cacciare su due piedi il nunzio apostolico dal Paese.

Monsignor Waldemar Stanislaw Sommertag, vescovo polacco, ambasciatore vaticano a Managua da quattro anni, il 6 marzo del 2022 è stato, infatti, accompagnato all’aeroporto della capitale in tutta fretta. Gli erano state concesse poche ore per raccogliere le sue cose prima di essere espulso.

L’ambasciatore della Santa Sede era arrivato in Nicaragua nel 2018, proprio quando esplodevano le proteste contro il governo di Daniel Ortega e sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo.

La Chiesa già allora era nel mirino per avere sostenuto la popolazione che protestava.

Venivano assaltate le chiese dai paramilitari e minacciati i vescovi. Uno di loro, il vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Managua, monsignor Silvio Josè Baez, nel 2019 era stato costretto a lasciare il Paese. Una sorte che sarebbe toccata a molti, fino a monsignor Rolando Alvarez, il vescovo di Matagalpa che, dopo oltre cinquecento giorni di carcere duro, e con una condanna a 26 anni di detenzione, il 14 gennaio del 2024 è arrivato a Roma, accolto in Vaticano insieme ad altri diciotto ecclesiastici scarcerati. Liberati grazie a una delicata trattativa condotta dalla Santa Sede, ma espulsi. Tutti messi su un aereo con un biglietto di sola andata.

La cacciata del nunzio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Il nunzio Sommertag i primi anni aveva cercato di tenere il dialogo aperto con il Governo consumando anche qualche frizione con la Chiesa locale.

La volontà era di utilizzare gli strumenti diplomatici per pacificare il Paese. E nel 2019 era stato anche mediatore nei colloqui tra Governo e oppositori.

Negli anni, però, la situazione si è fatta via via più difficile. Uno dei motivi è stato certamente la vicinanza espressa dal nunzio ai familiari dei tanti prigionieri, molti dei quali oppositori al regime di Ortega, che gli avevano chiesto di mediare per la loro liberazione. Una vicinanza che non è stata gradita dal Governo.

La situazione è poi precipitata quando il rappresentante della Santa Sede ha utilizzato l’espressione «prigionieri politici». A novembre 2021 è arrivato il primo segnale concreto del «non gradimento» quando è stato tolto al nunzio Sommertag il titolo di «decano» degli ambasciatori. In seguito, la situazione si è sempre più deteriorata fino all’espulsione. Oggi la Nunziatura apostolica è vuota, ed è custodita dal personale dell’ambasciata italiana a Managua.

Minacce, confische, arresti

«Le sofferenze inferte alla Chiesa in Nicaragua sono immani», commenta Alessandro Monteduro, il direttore della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) che sostiene i cristiani nelle terre di persecuzione. «Dall’aprile del 2018 sono stati centinaia gli attacchi nei confronti di religiosi, religiose e fedeli perpetrati dalla polizia fedele al regime di Ortega. Con la parola attacchi si indicano atti come minacce, rapine, profanazioni, arresti arbitrari, espulsioni, confische, divieti di ogni genere».

Tra le mosse per tagliare le gambe alla Chiesa, a metà del 2023, il Governo ha deciso anche il blocco dei suoi conti correnti. Questo ha portato come conseguenza la difficoltà, quando non la vera e propria impossibilità, di pagare qualsiasi cosa, persino le bollette della luce e dell’acqua. Per non parlare di tutte le opere di sostegno alla popolazione in difficoltà, dalle mense agli aiuti in denaro.

«Il Governo da anni è quotidianamente impegnato nel tentativo di mettere a tacere la Chiesa – riferisce ancora Monteduro -. Sacerdoti e vescovi sono stati arrestati, molte Ong sono state cacciate. Ma anche alcune manifestazioni di pietà popolare come la Via Crucis o le processioni sono state impedite. Succede anche che le spie del regime si presentino alle messe per registrare le omelie. I sacerdoti versano in uno stato di reale persecuzione».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

L’università dei Gesuiti

Fanno paura al regime di Managua anche i centri del sapere. La storica Uca, l’Università centroamericana del Nicaragua, ad agosto del 2023 è stata sottoposta a sequestro, e tutti i suoi beni, mobili e immobili, sono stati trasferiti allo Stato nicaraguense.

Sono stati gli stessi Gesuiti, che avevano fondato il prestigioso ateneo nel 1963, a rendere nota, in quei giorni, la notifica da parte del decimo Tribunale penale di Managua, con la quale si accusava l’Uca di essere «un centro di terrorismo che organizza gruppi criminali».

La Provincia centroamericana della Compagnia di Gesù ha obiettato a quelle accuse definendole «totalmente false e infondate» e affermando con coraggio, in un comunicato del 16 agosto del 2023, che il sequestro e la confisca altro non erano che il frutto «di una politica governativa che viola sistematicamente i diritti umani e che sembra essere finalizzata al consolidamento di uno Stato totalitario». Da allora l’Uca ha sospeso le sue attività accademiche.

Scout, Ong e vie crucis

La scure è caduta anche sugli Scout, la cui associazione, a metà febbraio 2024, ha perso la personalità giuridica. Questo a causa, sostiene il Governo di Managua, di irregolarità nella presentazione dei bilanci.

Con gli Scout, in quella stessa data, hanno subito la medesima sorte altri dieci organismi, tra cui la Fraternidad misioneras del fiat de María. Un mese prima, il 16 gennaio, a farne le spese erano state sedici Ong, dieci delle quali cattoliche o evangeliche.

Le organizzazioni non governative soppresse o cacciate sono ormai innumerevoli.

A tutto questo si aggiunge il fatto che anche in questo 2024, come era già accaduto negli anni scorsi, ai cristiani è stato impedito di celebrare la Via Crucis nelle strade durante la Quaresima. I divieti sarebbero stati almeno quattrocento, secondo quanto ha denunciato alla stampa indipendente l’avvocata e attivista Martha Patricia Molina, anche lei, come tanti, da anni in esilio.

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

La delicata posizione della Santa Sede

Gli interventi pubblici del Papa e del Vaticano sulla situazione della Chiesa in Nicaragua sono stati in questi anni centellinati al contagocce. La situazione è troppo pericolosa per i cattolici che vivono nel Paese, per questo la Santa Sede è impegnata in un paziente lavoro diplomatico quanto più possibile lontano dai riflettori dei media.

Quando a gennaio di quest’anno sono arrivati a Roma due vescovi (monsignor Rolando Alvarez e monsignor Isidoro Mora Ortega), quindici sacerdoti e due seminaristi scarcerati, e sono stati presi in carico dal Vaticano, su di loro è scesa una cappa di protezione. L’unica informazione trapelata è che sono ospitati da diverse diocesi italiane, da quella di Roma a quella di Civitavecchia-Tarquinia. Ma c’è il massimo riserbo sulle località o le parrocchie nelle quali alloggiano e continuano, per quanto possibile, il loro ministero.

Il Papa in questo 2024 ha parlato del Nicaragua pochissime volte, e sempre per chiedere il rispetto dei diritti umani e lo spazio per aprire un dialogo.

All’Angelus del primo gennaio ha lanciato un vero e proprio appello: «Seguo con preoccupazione quanto sta avvenendo in Nicaragua, dove vescovi e sacerdoti sono stati privati della libertà. Esprimo ad essi, alle loro famiglie e all’intera Chiesa del Paese la mia vicinanza nella preghiera. Alla preghiera insistente invito pure tutti voi qui presenti e tutto il popolo di Dio: che si cerchi sempre il cammino del dialogo per superare le difficoltà».

In seguito, la situazione del Paese è emersa nelle parole del Pontefice nel discorso dell’8 gennaio al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, «desta ancora preoccupazione la situazione in Nicaragua: una crisi che si protrae nel tempo con dolorose conseguenze per tutta la società nicaraguense, in particolare per la Chiesa cattolica. La Santa Sede non cessa di invitare ad un dialogo diplomatico rispettoso per il bene dei cattolici e dell’intera popolazione».

Scalata la classifica dei Paesi a rischio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Nella classifica dell’organizzazione Open doors, la World watch list che misura i Paesi con il più alto tasso di persecuzione dei cristiani, il Nicaragua nel 2023 si è collocato al trentesimo posto, mostrando un peggioramento della situazione rispetto all’anno precedente.

«L’obiettivo del Governo – spiega la Ong nel suo rapporto presentato lo scorso gennaio – non è semplicemente quello di mettere a tacere la voce dei cristiani, ma, data la loro influenza nel Paese, di ostacolare la loro credibilità e impedire la diffusione del loro messaggio. Va notato che mentre molti cristiani sono in prima linea, c’è una minoranza di credenti che, per paura o convinzione, sceglie di tacere. In alcune comunità ecclesiali ciò sta causando divisioni, che probabilmente stanno facendo il gioco del Governo».

Tra le tante storie colpisce quella del pastore evangelico Wilber Alberto Perez. Prima di essere espulso dal Paese, nel 2021 era stato arrestato e condannato a dodici anni di carcere. L’accusa inizialmente era di avere sollecitato una rivolta solo perché era stato trovato seduto in un luogo dove si erano assembrate molte persone. Dato che lui era riuscito a dimostrare di essersi trovato in quel luogo a riposare in compagnia di amici, è stato allora accusato di traffico di droghe illegali. Detenuto per un po’ di tempo, anche in una cella al buio, infine, gli è stato dato il foglio di via.

Un Paese cristiano

Ma che cosa è successo in questo Paese, a larghissima maggioranza cristiana?

Secondo i dati più recenti, riferiti al 2020, dell’Association of religion data archives, i cristiani in Nicaragua sono il 95% della popolazione. La maggior parte cattolici. Secondo altre stime più prudenti, i cristiani superano comunque l’80 per cento della popolazione. Perché dunque il Governo mette in atto la repressio- ne di un sentimento così diffuso? Perché la distruzione di chiese, la cacciata di religiosi e religiose?

Secondo gli osservatori è proprio la larga adesione alla Chiesa, l’unica che può dare voce a coloro che si sentono oppressi, che intimorisce il regime di Ortega.

Uno dei primi a essere stato esiliato e, dal febbraio 2023, anche privato della cittadinanza nicaraguense, è monsignor Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua, che vive attualmente tra Miami, negli Stati Uniti, e il Vaticano.

Il 16 novembre del 2023, nel ricevere la «Medaglia per il servizio alla democrazia» dell’istituto statunitense National endowment for democracy, ha dichiarato: «Questa onorificenza non è solo un onore personale, ma una testimonianza della resilienza collettiva del popolo nicaraguense e dell’impegno incrollabile della Chiesa cattolica del Nicaragua nel difendere la libertà, la pace e la giustizia». Parole inequivocabili sulla posizione della Chiesa nel Paese e che dunque mettono paura al regime che ha scelto la strada del non dialogo e della repressione.

Secondo mons. Báez, «nel corso della storia, il popolo del Nicaragua ha dimostrato un coraggio eccezionale di fronte a sfide immense. Abbiamo affrontato il dominio oppressivo di una dittatura brutale e abbiamo assistito alla lenta erosione dei valori democratici, fino alla loro completa scomparsa». In questo contesto, sottolinea il vescovo, la Chiesa cattolica in Nicaragua «è sempre stata un rifugio sicuro per i poveri e gli oppressi e continua a essere un faro di speranza nella società».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Un futuro incerto

«La liberazione ad opera del regime Ortega-Murillo dei diciannove religiosi il 14 gennaio scorso – commenta Alessandro Monteduro, rispondendo sulle prospettive future dei cattolici in Nicaragua – ha consentito all’intera comunità cattolica mondiale di tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, non è ancora chiaro se sia stata il frutto di un nuovo clima o una manovra politica.

Certamente ha influito la pressione internazionale che si è intensificata sia sul fronte politico, dagli Stati Uniti all’Alto commissariato dell’Onu per i Diritti umani, sia su quello mediatico.

Tutto ciò avrebbe indotto il regime a trattare con la Santa Sede. È probabile – prosegue Monteduro – che abbia inciso anche la volontà del Governo di non alienarsi completamente la comunità cattolica. Tuttavia, è anche vero che Ortega ha espulso un gruppo di leader caratterizzati da notevole spessore pastorale e ampia visibilità pubblica. Cosa che, agli occhi del regime, rappresenta un’azione di successo nel più ampio tentativo di reprimere e depotenziare la Chiesa.

Al di là dei toni apparentemente rassicuranti del Governo, è pertanto opportuno valutare l’accaduto con molta cautela».

Manuela Tulli

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com




Africa. Fame di energia


Anche in Africa la corsa alle energie rinnovabili è aperta. Il continente è il maggiore produttore al mondo di minerali necessari alla transizione verde. Solitamente sfruttati da altri. Intanto anche il nucleare si sta facendo strada. Il caso Rwanda.

Negli ultimi anni, molti Paesi africani – come diversi altri nel mondo – hanno iniziato a investire in una diversificazione delle proprie fonti energetiche, guardando sempre di più all’introduzione delle rinnovabili. Una decisione derivante, da un lato, dalla necessità di garantire una fornitura sicura e capillare di energia elettrica a cittadini e imprese e, dall’altro, dall’esigenza sempre più pressante di sviluppare politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico.

A caccia di elettricità

In Africa subsahariana, la domanda di elettricità è in crescita, ma, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (organizzazione intergovernativa che coordina le politiche energetiche dei Paesi membri), circa 600 milioni di persone e 10 milioni di piccole imprese ancora non vi hanno accesso. La necessità di soddisfare questa richiesta sta quindi imponendo agli Stati del continente di ripensare il proprio mix energetico, introducendo nuove fonti. Per la generazione di elettricità, infatti, molti Paesi dipendono ancora da petrolio e gas naturale, i quali, oltre a inquinare, hanno spesso elevati costi di importazione per chi non li produce.

Nel mentre – di fronte all’accelerare del cambiamento climatico e alla crescente consapevolezza dell’irreversibilità dei suoi effetti -, crescono anche le pressioni occidentali sui Paesi del Sud globale affinché adottino politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico. Nei fatti, questo vuol dire che regioni come l’Africa – l’area che in tutto il mondo emette la minore quantità di gas serra e che però, con Asia meridionale e America Latina, subisce la maggioranza degli effetti del cambiamento climatico – devono sviluppare e realizzare piani di transizione ecologica.

Al di là delle difficoltà economiche che molti Stati del continente affrontano per ottenere i fondi necessari a sviluppare queste politiche o per ripagare i tassi di interesse – spesso elevati – posti sui prestiti di Paesi occidentali e organizzazioni internazionali, lo sviluppo delle energie rinnovabili sta diventando un punto imprescindibile delle agende politiche di molti governi africani.

Nuclear power station, Koeberg, Western Cape, South Africa. (Photo by DR NEIL OVERY/SCIENCE PHOTO LIBR / NOY / Science Photo Library via AFP)

Ricchezza fatale

Poche aree del mondo si collocano al centro della transizione ecologica mondiale come l’Africa. Da un lato, il continente è ricco di risorse minerarie essenziali per la produzione di dispositivi come pannelli solari, auto elettriche e computer, tanto da essere al centro di una corsa all’accaparramento da parte di multinazionali e Stati stranieri, interessati a sfruttare il più possibile i suoi giacimenti (vedi box).

Dall’altro, l’Africa ha un potenziale di generazione di energie rinnovabili enorme. Ad esempio, il deserto del Sahara è l’area del mondo che riceve la maggiore quantità di sole in un giorno. I numerosi fiumi che attraversano tutto il continente permettono la produzione di energia idroelettrica, mentre nella zona della Rift Valley (Africa orientale) il calore del sottosuolo è utilizzabile per l’enegia geotermica.

Tuttavia, lo sfruttamento di queste fonti energetiche ha una doppia faccia. In Paesi dove la rete elettrica non è capillare e le aree rurali sono spesso tagliate fuori dalla fornitura nazionale, la possibilità di installare piccole unità di generazione elettrica (soprattutto pannelli solari, ma anche piccole centrali idroelettriche e pale eoliche) renderebbe intere comunità autonome. Dall’altro lato, però, i costi da sostenere sono consistenti e spesso improponibili per gli abitanti delle aree rurali. Inoltre, sovente l’installazione di questi impianti priva le popolazioni di aree di coltivazione o pascolo. Essi quindi dipendono da sussidi statali, investimenti e progetti stranieri per l’installazione e la messa in funzione delle infrastrutture necessarie per sfruttare il potenziale energetico del territorio circostante.

Attrazione nucleare

Tra tutte le fonti di energia, ce n’è una sempre più apprezzata in Africa, benché non sia tra quelle universalmente considerate come rinnovabili: il nucleare. La costruzione di centrali, anche solo in numero limitato, offrirebbe infatti la possibilità di produrre un’elevata quantità di energia, indipendentemente da stagione, momento della giornata e condizioni meteorologiche, a differenza di altre fonti rinnovabili. In più, secondo i governi di molti Paesi, nel lungo periodo, il nucleare garantirebbe una maggiore quantità di elettricità a costi minori rispetto alle fonti attualmente utilizzate e senza produrre emissioni di anidride carbonica. Inserito nel mix energetico, a fianco delle fonti rinnovabili, il nucleare permetterebbe quindi agli Stati africani di accelerare nella transizione ecologica, garantire elettricità a un maggior numero di abitanti del continente, supportare la crescita industriale e creare nuove opportunità lavorative.

Attualmente, tre Paesi – Namibia, Sudafrica e Niger – estraggono uranio in quantità tali da soddisfare il 18% della produzione mondiale. Ma giacimenti significativi – in alcuni casi già parzialmente sfruttati, in molti altri non ancora – si trovano anche in altri Stati come Botswana, Malawi, Mauritania, Tanzania e Zambia. Tanto che diversi Paesi hanno iniziato a muoversi concretamente per avviare la costruzione di siti nucleari. Ben presto, quindi, la centrale sudafricana di Koeberg – dotata di due reattori da duemila megawatt ciascuno – potrebbe non essere più l’unica nel continente.

Quarantacinque Paesi africani stanno cooperando con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organizzazione per lo sviluppo del nucleare con finalità civili che definisce i perimetri operativi e infrastrutturali affinché i programmi siano sicuri, protetti e sostenibili. L’obiettivo è accertarsi che la costruzione e attivazione delle centrali permetta di affrontare le priorità energetiche, sociali ed economiche degli Stati interessati, oltre a verificare il rispetto delle misure di sicurezza necessarie.

Più avanti è invece l’Egitto che a el-Dabaa ha già iniziato la costruzione del suo primo impianto. Composta da quattro reattori da 1.200 megawatt ognuno, la centrale è frutto della cooperazione de Il Cairo con Rosatom, azienda statale russa per lo sviluppo dell’energia atomica.

Infatti, diversi attori stranieri – sia Stati che imprese – stanno contribuendo a rendere sempre più attraente lo sviluppo del nucleare in Africa. Paesi come la Cina, ma ancor di più la Russia, sono protagonisti della corsa al nucleare nel continente.

Isolata a livello internazionale, Mosca mira a rafforzare i propri legami con diversi alleati – tra cui i Paesi africani -, e il nucleare è uno dei suoi tanti strumenti di cooperazione. Rosatom offre infatti contratti all-in-one (letteralmente, «tutto in uno») particolarmente apprezzati: l’azienda si occupa di tutte le fasi del progetto, dalla costruzione dell’impianto alla formazione dei lavoratori locali, dalla fornitura di uranio alla gestione delle scorie.

Gente in fuga in Congo Rd dopo scontri con l’M23 (legato al Rwanda) nella zona di Masisi, Nord Kivu. (Photo by Aubin Mukoni / AFP)

Il caso Rwanda

Uno dei Paesi africani che più sta investendo in energie rinnovabili è il Rwanda. Con l’obiettivo di raggiungere il 100% dell’elettrificazione nazionale nei prossimi anni, il Governo sta puntando sempre di più sullo sviluppo della rete elettrica, di sistemi autonomi di accesso all’elettricità per le comunità rurali e di fonti energetiche alternative a petrolio e gas.

Secondo il ministero rwandese dell’Infrastruttura, già nel 2018, il 53% dell’elettricità nel Paese proveniva da fonti rinnovabili, una cifra che tre anni dopo era cresciuta al 62%.

Nel 2022, metà della produzione energetica nazionale era soddisfatta dalla generazione idroelettrica, grazie a 37 centrali connesse alla rete statale e ad altri undici piccoli impianti che garantivano elettricità alle comunità rurali non toccate dalla fornitura nazionale. Tra queste comunità, diffusi sono i pannelli fotovoltaici, utilizzati soprattutto per sostenere l’irrigazione e l’illuminazione nei contesti agricoli. Mentre ancora poco sfruttato è il potenziale geotermico che in prospettiva potrà esserlo, dato che il Paese si colloca nella Rift Valley.

Interessi nucleari

E poi ci sono gli investimenti nel nucleare. Secondo quanto dichiarato da Fidel Ndahayo al momento della sua nomina a presidente del Consiglio rwandese dell’energia atomica, l’introduzione di questa tecnologia – applicabile in numerosi ambiti come medicina, industria e agricoltura – è un tassello fondamentale «per raggiungere la totale elettrificazione del territorio nazionale, soddisfare la domanda di energia dei cittadini, stimolare la crescita del settore industriale e sviluppare un’economia resiliente al cambiamento climatico».

Finanziamenti russi – arrivati grazie a un accordo di cooperazione tra Kigali e Mosca firmato nel 2018 e approfondito negli anni successivi – stanno supportando la costruzione e messa in funzione di un Centro per la scienza e la tecnologia nucleare, finalizzato allo studio e allo sviluppo del nucleare nel Paese.

Inoltre, un’intesa da 75 milioni di dollari siglata a settembre 2023 con Dual fluid energy, azienda canado-tedesca del settore, è finalizzata a sviluppare e testare in Rwanda un reattore dotato di una tecnologia innovativa, ritenuta più efficiente e sicura di quella tradizionale e in grado di produrre una quantità minore di scorie.

Nel quadro di quest’ultimo accordo, Kigali ha accettato di fornire sito e infrastrutture dove realizzare la sperimentazione, mentre Dual fluid energy si è assunta la responsabilità dell’implementazione tecnica del progetto e della formazione degli scienziati locali.

Il governo rwandese non nasconde la propria ambizione di diventare, nei prossimi anni, un punto di riferimento per lo sviluppo del nucleare in Africa. Invece di limitarsi a siglare accordi per la costruzione di centrali per la produzione di elettricità, la sua strategia mira alla ricerca e allo sviluppo di soluzioni innovative per il futuro. Se la sperimentazione di Dual fluid energy, infatti, dovesse concludersi con esito positivo (ci si aspetta che il reattore sia operativo nel 2026, mentre i test dovrebbero terminare nel 2028), oltre ad aggiungere questa tecnologia al mix energetico già esistente, il Rwanda si porrebbe come riferimento per la produzione e la diffusione dei nuovi reattori in Africa centrale, ma anche nell’intero continente.

Investimenti e rischi

Investire nel nucleare però non è esente da rischi, a maggior ragione in Paesi con un contesto sociale, economico e di sicurezza fragile. Diversi sono gli interrogativi, a partire dai costi elevati e dai tempi lunghi per la costruzione degli impianti, fino ad arrivare alla garanzia di sicurezza delle centrali e del territorio circostante.

La sola costruzione di un reattore da mille megawatt richiede generalmente cinque miliardi di dollari statunitensi e dieci anni, dal momento dell’approvazione del progetto a quello di inizio della generazione elettrica. Uno sforzo economico e di tempo non da poco che la maggior parte dei Paesi del continente non è in grado di sostenere autonomamente. Dunque, la necessità di prestiti o finanziamenti – spesso erogati con elevati tassi di interesse da altri Stati o organizzazioni internazionali – crea una dipendenza nei confronti dell’entità finanziatrice che si può protrarre per diversi anni.

A ciò si affiancano i timori sulla sicurezza degli impianti e del territorio circostante. Se, nel primo caso, l’auspicio è che vengano seguite le direttive dell’Aiea; nel secondo, la preoccupazione è maggiore. Molti Paesi, che stanno investendo nel
nucleare, o sono interessati a farlo, sono caratterizzati da una situazione sociale, politica e militare altamente instabile a causa della presenza di movimenti armati e tensioni sociopolitiche. Un’escalation di scontri nelle vicinanze di una centrale nucleare avrebbe effetti – potenzialmente – devastanti.

Senza dimenticare il rischio posto da eventi meteorologici estremi o disastri ambientali, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico. Se poi l’evento destabilizzante dovesse verificarsi in un Paese ad alta densità abitativa – come, ad esempio, il Rwanda, dove per ogni chilometro quadrato vivono 547 persone -, le ripercussioni rischierebero di essere drammatiche.

È per questo che diversi studiosi si chiedono se effettivamente il nucleare – tra tutte le fonti energetiche – sia la soluzione per l’energia africana. La risposta che finora si sono dati non è così certa. Ma i Paesi africani sembrano pensarla diversamente: per loro il nucleare è il futuro del continente.

Aurora Guainazzi

Impianto fotovoltaico da 50 Megawatt in Mauritania (Photo by MED LEMINE RAJEL / AFP)


Siglato un accordo Ue-Rwanda sui metalli strategici

Così si finanziano le guerre

Il 19 febbraio, l’Unione europea (Ue) e il Rwanda hanno siglato un accordo di cooperazione incentrato sui minerali essenziali per la produzione di molti dei dispositivi al centro della transizione ecologica. L’obiettivo dell’intesa è «rafforzare il ruolo del Rwanda nella promozione dello sviluppo durevole e delle catene di valore resilienti in Africa». Ovvero, si prevedono investimenti europei (realizzati nell’ambito del Global Gateway, la strategia dell’Ue per gli investimenti in settori critici) per lo sviluppo del settore minerario rwandese, con particolare attenzione a risorse come tantalio, stagno, tungsteno, oro, niobio, litio e terre rare. Nei fatti, l’obiettivo ultimo dell’Ue è garantirsi un approvvigionamento sicuro e durevole di minerali sempre più importanti per il futuro della transizione ecologica.

Ma buona parte delle risorse minerarie esportate dal Rwanda, in realtà, non è estratta nel Paese (i cui giacimenti sono limitati e poco sfruttati). Piuttosto, proviene dalle province orientali della Repubblica democratica del Congo (Rdc), dove la diffusa conflittualità e l’incapacità del governo centrale di essere presente efficacemente su tutto il territorio facilitano il contrabbando di minerali nei Paesi vicini, tra cui, il Rwanda. Flussi commerciali illegali che sono stati denunciati in rapporti delle Nazioni Unite e da organizzazioni come Global witness (un ente che analizza il legame tra conflitti e risorse). Proprio una recente indagine di Global witness ha evidenziato come, negli ultimi anni, solo il 10% dei minerali esportati dal Rwanda fosse stato realmente estratto nel suo territorio, mentre il restante provenisse dalla Rdc.

Non a caso, la reazione del governo congolese all’accordo è stata particolarmente dura. Kinshasa ha criticato l’Ue e denunciato che il Rwanda «non ha nel suo sottosuolo nemmeno un grammo di questi minerali». Invece, si appropria di quelli congolesi, grazie al contrabbando dei movimenti armati attivi nell’Est della Rdc e al saccheggio dei militari rwandesi presenti illegalmente nelle province orientali a supporto del Movimento del 23 marzo (M23). A inasprire ulteriormente la reazione di Kinshasa è stata anche la consapevolezza che l’accordo del 19 febbraio non è l’unica forma di collaborazione esistente tra Rwanda e Ue. Kigali è infatti un importante alleato politico, ma soprattutto militare dell’Occidente, tanto che Stati Uniti e Ue addestrano e riforniscono il suo esercito.

A questo proposito, un comunicato del Mouvement citoyen lutte pour le changement (Lucha), organizzazione della società civile congolese, denuncia che «i soldati rwandesi che l’Ue sta addestrando e finanziando probabilmente saranno mandati nella Rdc […] e che gli accordi minerari che l’Ue sta firmando saranno utilizzati per riciclare le risorse minerarie congolesi saccheggiate dall’esercito rwandese nella Rdc».

Una volta giunti a conoscenza dell’accordo, gli abitanti di Kinshasa hanno protestato di fronte alle ambasciate occidentali. Mentre a Goma, capitale del Nord Kivu, la notizia ha rinfocolato il persistente sentimento di malcontento nei confronti dell’Occidente (e dei caschi blu delle Nazioni Unite): molti abitanti sono scesi in strada, manifestando e bruciando le bandiere dei Paesi occidentali (in particolare di Francia e Stati Uniti) e del Rwanda.

A.G.

 




Indonesia, La metamorfosi del generale


La consultazione del 14 febbraio scorso si è conclusa con la netta vittoria del candidato del presidente uscente. L’anomalia apparente è che non fa parte del suo partito. Nella realtà hanno prevalso giochi e alleanze ben consolidate.

Quartier generale delle forze armate indonesiane a Giacarta, 28 febbraio. Il presidente Joko Widodo mette entrambe le mani sulle spalle di Prabowo Subianto (presidente in pectore), gli dice qualcosa e gli conferisce il grado di generale a quattro stelle onorario, il più alto possibile per l’esercito dell’Indonesia. «Questa onorificenza è una forma di apprezzamento – dice Widodo, prima di attaccare i baveri con quattro stelle d’oro sul blazer di Prabowo -, ribadisce la sua devozione al popolo e al Paese. Vorrei congratularmi con il generale». Da qualche giorno è arrivato un messaggio di congratulazioni della Casa bianca per le elezioni del 14 febbraio: il presidente Joe Biden, fervente organizzatore di summit per la democrazia, si dice «ansioso» di collaborare con la nuova leadership e «rafforzare la cooperazione con un partner strategico».

È il 28 febbraio. Eppure, fino a qualche anno fa una scena del genere sarebbe sembrata possibile solo in una sorta di universo parallelo. Già, perché nel 1998 Prabowo era stato costretto a lasciare l’esercito e a venire congedato con disonore per le molteplici accuse di violazioni dei diritti umani a suo carico che sarebbero state perpetrate quando era tenente generale e comandante delle Kopassus, le forze speciali dell’esercito. La tortura di ventidue attivisti, rapimenti e sparizioni, la repressione delle proteste degli oppositori del dittatore Suharto, le violenze contro i movimenti autonomisti di Papua e Timor Est. Un curriculum non proprio scintillante per Prabowo, che di Suharto era peraltro l’ex genero, e che gli era costato la proibizione di recarsi negli Stati Uniti. Il divieto è durato fino al 2020, quando la misura è stata revocata per consentire a Prabowo, in qualità di ministro della Difesa indonesiano, di andarci.

«Dare a Subianto un titolo onorifico a quattro stelle, con i suoi precedenti militari e le accuse di coinvolgimento in casi di violazione dei diritti umani, metterà in imbarazzo l’onore e la dignità delle forze armate indonesiane», ha dichiarato ad Ap (Associated press) Gufron Mabruri, direttore esecutivo dell’organizzazione non governativa Imparsial.

President Joko Widodo (C) walks with Defence Minister Prabowo Subianto (L) and Military Chief General Agus Subianto (R) […] (Photo by BAY ISMOYO / AFP)

Da nemici ad amici

La scena del 28 è oggi nell’ordine delle cose. Prabowo, infatti, due settimane prima, ha stravinto le elezioni presidenziali indonesiane. Non c’è stato nemmeno bisogno del secondo turno come prevedevano quasi tutti gli analisti: l’ex generale ha ottenuto quasi il 60% già al primo turno, superando nettamente il 50,1% necessario per evitare il ballottaggio contro il secondo classificato.

Non si è trattato di un exploit improvviso, ma di un successo costruito con pazienza e in modo meticoloso, giunto peraltro tramite il sostegno di quello che fino a un certo punto era stato il suo acerrimo rivale: Widodo (famigliarmente chiamato Jokowi). Sì, proprio colui che appunta la quarta stella sul petto di Prabowo.

È cambiato davvero tutto dal 2014, l’anno in cui Widodo aveva sconfitto per la prima volta Prabowo alle presidenziali. L’ex generale, ai tempi, si presentava spesso ai comizi in sella a un cavallo, pronunciando discorsi infuocati contro l’avversario paventando politiche protezioni- stiche e suscitando parecchi timori per i suoi stretti legami con le forze islamiste radicali. Un aspetto, questo, non trascurabile nel Paese con la popolazione musulmana più vasta del mondo.

Nel 2019, al secondo tentativo di raggiungere la presidenza, Prabowo aveva nominato l’ex leader dell’ala giovanile del gruppo islamista Muhammadiyah, Dahnil Simanjuntak, come suo portavoce personale.

In entrambe le tornate elettorali, Prabowo aveva rifiutato di ammettere la sconfitta. Nel 2019 aveva accusato Widodo di brogli elettorali, scatenando una delle peggiori ondate di violenza politica degli ultimi decenni in Indonesia. Centinaia di persone erano rimaste ferite durante gli scontri tra i sostenitori di Prabowo e la polizia dopo l’annuncio dei risultati del voto. E almeno sei sono state uccise.

L’Indonesia era sembrata sulla soglia di una guerra intestina. Poi, all’improvviso, era cambiato tutto. Dopo una serie ravvicinata di incontri tra i due, dagli insulti si era passati ai selfie. Dalle accuse di brogli si era passati alla nomina di Prabowo nella squadra di governo di Widodo, come ministro della Difesa. Era parsa una mossa utile a «neutralizzare» politicamente l’ex generale.

Alleanze interne

Il capitale politico di Widodo e la futura eleggibilità del suo partito dipendevano anche dalla sua capacità di mantenere un’alleanza con la società civile islamica, si pensava allora. E aveva bisogno del sostegno di gruppi come Nahdlatul Ulama e Muhammadiyah per governare efficacemente. Insomma, la mossa di Jokowi era stata letta come la risposta alla necessità di dare stabilità al suo secondo mandato. Senza contare che era già emerso lo storico progetto di spostare la capitale da Giacarta a Nusantara (vedi box), nel Kalimantan orientale, sull’isola del Borneo. E Prabowo è una sorta di «zar» di quella zona, dove la sua famiglia possiede vasti terreni per circa 220mila ettari e detiene un’importante capitale politico.

La decisione di Widodo di tenersi vicino Prabowo si sarebbe, invece, rivelata essere più profonda. In vista delle elezioni di febbraio, infatti, il presidente uscente (ancora molto popolare nell’opinione pubblica indonesiana) ha deciso di appoggiare proprio il suo ex rivale e invece del candidato del suo Partito democratico indonesiano di lotta. Widodo ha mollato senza tanti complimenti Ganjar Pranowo, ex governatore di Giava centrale e suo teorico erede designato, lasciandolo completamente spiazzato visto che questi aveva costruito la sua immagine e la sua campagna come l’unico in grado di dare continuità alle politiche del compagno di partito. È arrivato persino terzo, dietro il candidato indipendente Anies Baswedan, ex governatore di Giacarta. Anche lui, in realtà, sperava di ricevere l’appoggio di Widodo, di cui aveva scritto per anni i discorsi prima di venire nominato ministro dell’Istruzione.

E invece Jokowi ha scelto proprio Prabowo. E non si è limitato a dargli un appoggio indiretto, ma ha addirittura piazzato il proprio figlio, Gibran Rakabuming Raka, nel ruolo di numero due del suo ex rivale e dunque eventuale futuro vicepresidente. Mossa, quest’ultima, controversa visto che Gibran ha solo 36 anni e la legge indonesiana indica nei 40 anni l’età minima per candidarsi a presidenza o vicepresidenza. Un ostacolo serenamente superato grazie a una sentenza della Corte costituzionale, che ha rimosso il vincolo di età per chi avesse vinto in precedenza un’elezione locale. E Gibran è sindaco della città di Surakarta. Il sospetto, di una sentenza ad personam è acuito da un particolare non trascurabile: a capo della Corte costituzionale di Giacarta c’è nientemeno che il marito della sorella di Widodo.

Gente al voto a Demak, Central Java, 24/02/2024. (Photo by Akrom HAZAMI / AFP)

L’immagine e i social

Tra gli elettori indonesiani, c’è anche chi è rimasto scandalizzato della netta vittoria di Prabowo. Tanto che sono state organizzate diverse proteste, dopo l’annuncio dei risultati ufficiali, nelle quali centinaia di persone hanno chiesto l’impeachment di Widodo per «interferenze» nel processo elettorale. Eppure, nelle urne non tutti hanno considerato il poco invidiabile passato di Prabowo, forse anche grazie al fatto che questi ha ripulito la sua immagine con una semplice quanto astuta strategia sui social media. A livello ufficiale non ha più utilizzato i toni incendiari del passato, soprattutto sui social più seguiti dai giovani. Instagram e TikTok sono stati invasi dai video di Prabowo in versione affabulatore e con un’immagine da zio o nonno simpatico e un po’ imbranato, ma bonario e ovviamente dotato di tanta saggezza. Balletti improbabili, sorrisi e foto ricordo, aneddoti personali e il gatto Bobby hanno reso simpatica una figura di cui in tanti non ricordano, o nemmeno conoscono, gli scheletri nell’armadio.

D’altronde, la maggioranza degli elettori ha meno di 40 anni. Molti di loro non hanno ricordi nitidi della dittatura di Suharto o delle forze speciali di Prabowo, così come del suo esilio in Giordania.

Si tratta di una dinamica che inizia a essere una tendenza anche in Asia dove spesso dominano le dinastie politiche familiari. E non solo nella Corea del Nord dei Kim. Basti pensare alla Cambogia di Hun Sen (cfr MC luglio 2022), il leader eterno appena tornato presidente del Senato dopo aver lasciato il ruolo di premier al figlio Hun Manet. La strategia «prabowiana» sui social è stata un ingrediente anche del successo di Ferdinand Marcos Junior, figlio del dittatore filippino, alle elezioni presidenziali del 2022 (cfr MC agosto 2022). E anche in India il primo ministro Narendra Modi sta conducendo una campagna elettorale dove la priorità sul fronte comunicativo è data a canali come Instagram rispetto alle tradizionali interviste.

Discorsi moderati

Sul fronte più istituzionale, Prabowo ha assunto (quantomeno ufficialmente) una linea moderata con parole ben più calibrate rispetto al passato. Ha soprattutto promesso di portare avanti le politiche di Widodo sul fronte economico, lasciando aperte le porte agli investimenti esteri. Si tratta di un tema su cui c’è molta attenzione da parte delle grandi potenze, interessate a rafforzare la loro presenza in un mercato dinamico ed emergente come l’Indonesia, peraltro Paese ricco di risorse minerarie fondamentali per lo sviluppo di settori strategici sul fronte tecnologico. Su tutte, il nichel, un minerale fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici.

Nel 2014, le esportazioni di nichel ammontavano a un miliardo di dollari, oggi la cifra è arrivata a 30 miliardi. E gli investimenti esteri nel settore estrattivo sono altrettanto esplosi, raggiungendo i 16 miliardi nel 2022, in gran parte provenienti da aziende cinesi.

Politica estera

Gli Stati Uniti stanno provando a recuperare il terreno perduto. Lo scorso novembre Biden ha ricevuto Widodo alla Casa Bianca, cercando di raggiungere un accordo sull’estrazione congiunta delle terre rare. A separare Washington e Giacarta ci sono però visioni diverse sulla crisi in corso in Medio Oriente: il governo indonesiano, infatti, è molto critico con Israele, con cui peraltro non ha mai avviato relazioni diplomatiche ufficiali.

L’Indonesia ha tradizionalmente una politica estera non allineata e particolarmente cauta. Con Prabowo potrebbe però assumere un timbro più deciso, viste le posizioni su temi internazionali da lui espresse in passato, spesso molto lontane da quelle occidentali. Basti pensare alla proposta, avanzata a giugno 2023, di una pace alla coreana per la guerra in Ucraina: congelamento dei confini sulla situazione attuale e referendum nei territori occupati dai russi per far scegliere alla popolazione da che parte stare. Idea respinta con sdegno da Kiev, Bruxelles e Washington.

Eppure, quando il prossimo 20 ottobre Prabowo inizierà il suo incarico presidenziale, gli Stati Uniti, e non solo, dovranno costruire con lui un rapporto solido. Sulle relazioni con la Cina potrebbero parzialmente interferire le dispute sul mar Cinese meridionale, su cui Prabowo potrebbe assumere una linea meno conciliante di quella di Widodo. A Pechino si ricordano ancora il ruolo dell’ex generale nelle purghe anticomuniste di Suharto. Ma gli scheletri di Prabowo sembrano ormai destinati a restare ben sigillati nel suo armadio.

Lorenzo Lamperti

Human rights activist Maria Catarina Sumarsih, […] (Photo by Afriadi Hikmal / NurPhoto / NurPhoto via AFP)


La valenza politica ed economica di Nusantara

In Borneo la nuova capitale

In lingua giavanese significa «arcipelago». Si trova nella remota regione orientale del Kalimantan sull’isola del Borneo. Per costruirla si prevede una spesa di circa 32 miliardi di dollari, ma anche un aumento del disboscamento di una delle foreste pluviali più antiche del mondo. È questo l’identikit di Nusantara, destinata a diventare la nuova capitale dell’Indonesia. Per completarla ci vorrà ancora diverso tempo, forse fino al 2045. Ma l’inaugurazione è prevista già per il prossimo 17 agosto, in occasione del 79simo anniversario dell’indipendenza del Paese dai Paesi Bassi. In prima fila ci sarà il presidente uscente Joko Widodo, che proprio in Nusantara identifica la sua eredità politica.

Il progetto è partito nel 2019, all’alba del secondo mandato di Widodo, quando è emersa la necessità di decongestionare Giacarta. L’attuale capitale soffre di inquinamento e traffico, e, secondo diversi studi, si sta persino parzialmente inabissando. Non a caso le alluvioni sono diventate sempre più frequenti. Il Borneo invece è meno esposto a disastri naturali e si trova geograficamente al centro del Paese. I lavori sono ufficialmente partiti nel 2022, rallentati all’inizio dalla pandemia da Covid-19, oggi proseguono in una sorta di corsa contro il tempo per consentire a Widodo di partecipare all’inaugurazione prima di lasciare la presidenza a Prabowo Subianto. Sul posto sono impiegati circa centomila operai, in un’area grande quattro volte quella di Giacarta.

Lo spostamento della capitale ha una valenza fortemente politica ed economica. L’obiettivo è infatti anche quello di favorire lo sviluppo di una regione rimasta meno popolata, diversificando la crescita interna e riducendo la centralizzazione che ha contraddistinto il modello di sviluppo indonesiano.

L’apertura di Nusantara significa anche lanciare una nuova rete di infrastrutture ed edifici pubblici, con la speranza di attrarre una pioggia di investimenti esteri. In realtà, su questo fronte i risultati sono stati meno brillanti del previsto.

Il colosso giapponese SoftBank ha ritirato la sua partecipazione a causa di preoccupazioni sulla sostenibilità economica del progetto e delle 300 aziende globali, citate dal governo come interessate, molte non hanno ancora firmato alcun accordo. Restano diversi dubbi anche sul fronte ambientale, dato il possibile contraccolpo sulla ricca biodiversità dell’area. C’è poi chi teme che Nusantara possa tramutarsi in una sorta di «cattedrale nel deserto», quasi un corpo estraneo rispetto al resto del Paese. Il tempo lo dirà. Ma intanto Widodo ha fretta per lasciare il suo marchio e tagliare il nastro.

L.L.

Moschea di Ambon (di Claudia Caramanti)

Le religioni in Indonesia

Il più grande paese musulmano

L’Indonesia è il più grande Paese musulmano al mondo per numero di credenti. I fedeli sono peraltro in costante crescita, visto che dal 2011 al 2022 sono passati da 202,9 milioni a 277,3. Si tratta dell’87,2% della popolazione totale. La quasi totalità dei musulmani indonesiani, pressoché il 99%, è sunnita. L’islam indonesiano è caratterizzato da una forte influenza della cultura locale, tanto da venire chiamato islam Nusantara. Nel giugno 2015, Joko Widodo ha espresso apertamente il suo sostegno a questa forma che molti giudicano più moderata di islam e secondo il presidente uscente «compatibile coi valori culturali indonesiani».

Ma nel Paese sono presenti anche altre religioni. Il 9,9% della popolazione è cristiano, con il 7% protestante e 2,9% cattolico. C’è poi un 1,7% di indù e uno 0,7% di buddhisti. Si stima che circa 20 milioni di persone, soprattutto a Giava, Kalimantan (Borneo) e Papua, pratichino vari sistemi di credenze tradizionali, spesso indicati collettivamente come aliran kepercayaan.

La Costituzione afferma che la nazione indonesiana «è basata sulla fede in un unico Dio supremo», ma garantisce a tutte le persone il diritto di praticare il culto secondo la propria religione e il proprio credo. Il decreto presidenziale del 1965 sulla prevenzione della blasfemia e dell’abuso delle religioni proibisce le «interpretazioni devianti» degli insegnamenti religiosi e qualsiasi organizzazione blasfema. Non mancano però i casi controversi. La provincia di Aceh prevede la sharia (legge islamica, ndr) applicata dai tribunali islamici, fino dal 2001, con la promulgazione della legge sull’autonomia speciale. Queste leggi, in alcuni casi, prevedono fino a 100 frustate come punizione. Negli ultimi anni alcuni gruppi islamisti, anche radicali, hanno guadagnato spazio nel dibattito politico e pubblico, tanto da essere corteggiati dal presidente eletto Prabowo Subianto.

L.L.




Nord Corea. Anche Kim tiene famiglia


Il leader nordcoreano rafforza i legami con Russia e Cina. E fa la voce grossa con Corea del Sud e Stati Uniti. Accanto a lui sono cresciuti il ruolo e la visibilità della sorella Kim Yo Jong.

Pyongyang. La tensione tra la Corea del Nord e la Corea del Sud torna a essere elevata dopo che Kim Jong Un (il Grande Leader) ha annunciato di non voler proseguire il dialogo con Seoul dissipando le illusioni di una unificazione della penisola coreana.

La dichiarazione del leader nord-coreano, a cui si è aggiunta la richiesta di eliminare dalla Costituzione l’articolo che impegna Pyongyang a prodigarsi per la riunificazione, è giunta al termine di una lunga serie di provocazioni iniziate subito dopo il fallimento dell’incontro con l’allora presidente statunitense Donald Trump ad Hanoi (Vietnam), nel 2019.

Da allora, mentre Kim Jong Un continuava a mantenere un atteggiamento il più possibile neutrale verso l’esterno, la sorella Kim Yo Jong si è lanciata in crociate oratorie contro il presidente sudcoreano Moon Jae-in culminate con la distruzione dell’ufficio di collegamento intercoreano nel 2020. L’intento della famiglia Kim era chiaro: attendere che l’incertezza della situazione mondiale si chiarisse un po’ così da poter prendere posizioni più nette e vantaggiose per rafforzare un potere interno che si dimostrava essere meno saldo di quanto si pensasse. Nel frattempo, si dovevano percorrere entrambe le strade: quella della fermezza (Kim Yo Jong) e quella della diplomazia (Kim Jong Un).

Le vicende del 2022 e del 2023 – l’invasione della Russia in Ucraina e la conseguente crisi energetica, l’elezione del conservatore Yoon Suk Yeol alla presidenza della Corea del Sud (da maggio 2022), le tensioni su Taiwan, le difficoltà di Biden e il prepotente ritorno di Donald Trump nella scena politica statunitense – hanno indotto Kim Jong Un a rompere gli indugi e adottare una politica frontale nei confronti dell’Occidente.

Una stazione della metro nella capitale nordcoreana, Pyongyang. Foto Micha Brandli – Unsplash.

L’escalation militare tra le due Coree

Pyongyang cerca oggi di inserirsi nell’asse anti Usa schierandosi accanto a Cina e Russia, suoi alleati storici. I Kim hanno estremo bisogno di protettori in un momento in cui il potere della famiglia nel Paese è debole come mai prima: la pandemia ha costretto a sigillare i confini invertendo una rotta che, almeno fino al 2019, aveva visto una loro maggiore permeabilità. L’economia, florida e vivace come non lo era mai stata in tutta la sua storia, tra il 2020 e il 2023 ha subito una flessione che si è ripercossa sulla vita dei cittadini. Il primo decennio di leadership di Kim Jong Un era stato caratterizzato da un progressivo allontanamento dai circoli di potere delle personalità più conservatrici nel Paese, quelle legate alla politica tradizionalista del padre Kim Jong Il e, al tempo stesso, del trasferimento di molti centri decisionali dall’ambito militare a quello civile e tecnocratico.

La crisi ha consentito agli oppositori interni di rialzare la testa e, per evitare il tracollo e vanificare le riforme varate, Kim Jong Un ha dovuto cercare, suo malgrado, sostegno tra i generali intensificando i test missilistici, riattivando il programma nucleare, rimpolpando l’arsenale delle forze armate. Al tempo stesso, il suo omologo sudcoreano ha stretto le relazioni con Tokyo e Washington potenziando la cooperazione militare. Si è così innescato un circolo vizioso che ha alimentato l’escalation: più Pyongyang perfezionava i suoi armamenti, più Seoul si sentiva minacciata aumentando perciò le esercitazioni militari con l’alleato statunitense. Questo forniva ai generali nordcoreani l’opportunità per chiedere ancora maggiori finanziamenti.

Il tutto ha portato alla situazione attuale che molti analisti giudicano simile a quella del 2017, quando i media ritenevano inevitabile e imminente lo scoppio di una guerra nucleare. Allora la guerra non ci fu e, anzi, Kim Jong Un saldò ancora più fortemente il suo controllo sulla nazione, ma oggi la situazione è leggermente diversa. Pur restando ancora lontani da un confronto militare che coinvolga testate nucleari, la contrapposizione tra Nord e Sud si è fatta sicuramente più complicata. Le forze armate di Pyongyang, da sempre tecnologicamente inferiori (tanto da sapere di non poter iniziare una guerra con la speranza di vincerla), oggi hanno diminuito (anche se non colmato) questo divario permettendo ai militari nordcoreani di guardare con più ottimismo un eventuale conflitto.

Questa situazione si innesta in un contesto internazionale nel quale gli scontri e le tensioni, dal fronte ucraino e quelli mediorientali fino a Taiwan, hanno creato un’atmosfera nettamente più favorevole per Pyongyang.

A Pyongyang si rende omaggio alle enormi statue in bronzo di Kim Il Sung e Kim Jong Il. Foto Alexander – Pixabay.

Lontani da Seoul

Kim cerca di ritagliarsi un ruolo tutto suo nello scacchiere asiatico nordorientale per eliminare Seoul da ogni futuro negoziato. Non per nulla il Grande Leader ha definito, non senza compiacimento, l’attuale situazione come una nuova guerra fredda, una condizione che non è difficile ricondurre alla famosa frase di Mao Zedong «Grande è la confusione sotto il cielo; la situazione è eccellente».

Se prima la Corea del Sud rappresentava un intermediario valente, efficace e affidabile, oggi non lo è più. Nei quattro anni di amministrazione Biden, gli Stati Uniti non hanno intrapreso alcun passo per riaprire quei negoziati che Trump aveva inaugurato contribuendo a una distensione delle relazioni nella regione.

A questo punto, Seoul non serve più a Pyongyang che spera in un ritorno di Trump alla Casa Bianca per riaprire i colloqui senza l’intermediazione del Sud. In attesa dei risultati delle urne statunitensi a novembre, Kim Jong Un continua ad alzare il tiro consapevole che, oggi, ha dalla sua un esercito più forte, competente e tecnologicamente più avanzato di quanto fosse sette anni fa.

La politica è comunque sempre la stessa: tendere la corda testando sino a quando questa può resistere senza tuttavia giungere al punto di rottura. E, a quel punto, iniziare le trattative da una posizione di forza.

La famiglia Kim ha bisogno di questa trazione per allontanare il pericolo di un rientro in grande stile degli oppositori, così faticosamente allontanati dal leader e dalla sorella.

Kim Jong Un e Vladimir Putin a Vostochny (Amur, Russia) lo scorso 13 settembre. Foto Korean Central News Agency – AFP.

L’Ucraina e le armi a Mosca

La guerra ucraina è stata un toccasana in questo senso: la pandemia aveva intossicato l’economia nordcoreana più di quanto avesse infettato la popolazione. La chiusura dei confini, ordinata sin dall’inizio del 2020, aveva messo in enorme difficoltà le riforme implementate: le merci provenienti dalla Cina dovevano restare in quarantena per diverse settimane prima di poter essere messe sul mercato e i prezzi dei prodotti avevano subito impennate verticali. Ciò che ha impedito alla popolazione di non ripiombare nell’incubo dell’«Ardua marcia» (la carestia del periodo 1994-1998) con malnutrizione, malattie, inedia, sono state proprio le riforme economiche volute da Kim Jong Un durante i primi anni della sua salita al potere.

Tuttavia, per mantenere viva la ristrutturazione sociale e politica serviva anche una crescita economica che, negli anni del Covid, è stata invece azzerata. L’invasione dell’Ucraina da parte dell’alleato russo ha, almeno in parte, aiutato l’economia nordcoreana a risollevarsi. Kim ha inviato equipaggiamenti militari a Putin e i campi di battaglia sono serviti anche per testare nuovi prototipi di armamenti prodotti dalle fabbriche militari nordcoreane. In cambio, Mosca ha corrisposto il favore spedendo a Pyongyang considerevoli quantità di petrolio, carbone, gas naturale, pezzi di ricambio per mezzi agricoli e militari.

L’aumento delle disparità

Vigilessa nordcoreana nella capitale. Foto Peter Anta – Pixabay.

Tutto questo ha aiutato, da una parte, la famiglia Kim a mantenersi alla guida del governo, dall’altra ai nordcoreani di avere una ventata di ossigeno per i loro commerci privati.

Non dobbiamo però pensare che questi aiuti siano indolori: le disparità tra campagna e città, ma soprattutto tra chi ha collegamenti con il Partito dei lavoratori e chi, invece, ne è escluso, in questi tre anni sono aumentate.

La superficie delle terre abbandonate è incrementata, soprattutto nelle zone montuose dove la mancanza di macchinari agricoli rende il lavoro estremamente faticoso, mentre gli appezzamenti di terreno privati hanno registrato un aumento di produttività.

Le cooperative hanno quasi smesso di rifornire i negozi statali della merce più richiesta, visto che questa è ormai reperibile nei mercatini privati senza limiti di quantità, anche se a prezzi ben superiori a quelli stabiliti dallo Stato. Ma il denaro è un problema secondario: la nuova economia, introducendo attività private, ha permesso a molte famiglie di incamerarne una discreta quantità, tanto che oggi si calcola che almeno l’80% delle entrate finanziarie dei nordcoreani arrivi da nuovi mestieri e occupazioni private.

Il contrabbando con la Cina e, recentemente, anche con la Russia, ha immesso sul mercato prodotti che altrimenti sarebbero reperibili solo nei grandi centri commerciali delle principali città. Oltre a elettrodomestici, telefonini, computer, liquori, snack, cosmetici di varie marche (anche sudcoreane, giapponesi, europee, statunitensi), i pannelli solari sono tra gli oggetti più richiesti. L’ormai endemica penuria di elettricità con frequenti blackout, hanno costretto le famiglie a dotarsi di impianti di produzione elettrica autonomi per evitare gli sbalzi di tensione.

Chi soffre meno questa situazione sono gli alti dirigenti del Partito, i manager delle industrie, nonché scienziati e tecnici impegnati nelle attività considerate più vitali e importanti per il Paese.

L’esperienza personale mi offre una conferma di questa situazione.

Chi sono i privilegiati

Kim Yo Jong, sorella del leader e in prepotente ascesa, durante un evento per celebrare la vittoria sul Covid, nell’agosto 2022. Foto Korean Central News Agency – AFP.

Approfittando del (raro) invito fattomi da un ricercatore scientifico e professore universitario per assaporare la cucina locale, ho modo di vedere da vicino l’appartamento di una famiglia privilegiata. Ben riscaldato (a differenza delle case di campagna che devono centellinare il carbone per la stufa) e ben tenuto, è fornito di un grande televisore a schermo piatto che trasmette una serie cinese. I mobili sono pieni di suppellettili e souvenir dei numerosi viaggi all’estero fatti con l’intera famiglia: Cina, Russia, Thailandia, Mongolia, India, Europa e persino Stati Uniti (una Statua della Libertà e un pupazzo in pezza di Topolino). La cena che mi viene offerta è abbondante e innaffiata da vino francese e birra nipponica. Sia la figlia che il figlio parlano un buon inglese, ma anche cinese e giapponese. Entrambi studiano materie scientifiche, la prima alla Kim Il Sung University mentre il secondo sta terminando il corso di medicina nell’unica università privata esistente in Corea del Nord (il che indica l’alto livello sociale occupato dalla famiglia).

Sognano di studiare in Europa, Giappone o negli Stati Uniti, «ma per tornare poi in Corea per dare il nostro contributo alla crescita della nazione», si premurano di aggiungere di fronte allo sguardo severo del padre. Sia lui che la moglie sono accaniti sostenitori del Partito e della famiglia Kim e non accetterebbero con facilità che la loro prole abbandonasse il Paese. Del resto, dal governo hanno sempre avuto il meglio che potevano ricevere (istruzione, assistenza sanitaria, benefit, sicurezza economica, carriera).

Come pensare di tradire chi ti ha concesso il miglior tenore di vita che si possa avere nella nazione?

In altre situazioni, meno privilegiate, le critiche a membri del Partito sono invece più comuni. Una delle grandi rivoluzioni introdotte da Kim Jong Un è proprio quella di aver invitato il popolo a biasimare gli amministra- tori più negligenti.

I Kim non sbagliano mai

Il Grande Leader è stato il primo a dare il buon esempio già pochi mesi dopo la sua salita al potere. In una mossa assolutamente nuova nel mondo politico nord-coreano, Kim ha più volte attaccato pubblicamente dirigenti del Partito, fino ad allora ritenuti intoccabili.

Resta comunque sottinteso che nessuno della famiglia Kim può essere soggetto a giudizio.

La mia guida (in Corea del Nord si è sempre accompagnati da una guida) s’infuria quando le faccio notare gli errori compiuti dai diversi membri, Kim Il Sung compreso, durante i loro settantacinque anni di potere ininterrotto. Il mantra di assoluzione è sempre lo stesso: gli sbagli sono stati fatti dai collaboratori, dagli approfittatori, dai controrivoluzionari che hanno ingannato i vari leader i quali, anzi, grazie alla loro lungimiranza, hanno allontanato questi traditori appena hanno avuto modo di accorgersi delle loro azioni ai danni del popolo e della nazione. Questo tabù è uno dei motivi per cui la dirigenza nordcoreana, dopo aver espresso l’intenzione di invitare papa Francesco a Pyongyang, non si sente ancora pronta ad accoglierlo. Un papa che parla di diritti umani e che bastona tutti può essere sicuramente comodo fuori dalla Corea del Nord, ma parlare di questo tema a Pyongyang, di fronte a migliaia di cittadini, rischierebbe di essere una mina vagante.

Piergiorgio Pescali

La chiesa protestante di Bongsu, a Pyongyang; nel paese, classificato come il meno libero del mondo per le confessioni religiose, le chiese sono pochissime. Foto korea.travel.art.


La condizione religiosa: Un triste primato

Nonostante la Costituzione non lo vieti, in Corea del Nord professare una fede religiosa è complicato e spesso pericoloso.

«Open doors», l’organizzazione olandese fondata nel 1955 da Andrew van der Bijl che stila rapporti annuali sulla libertà religiosa dei cristiani nel mondo, ha affermato che il Paese dove la religione è più perseguitata nel pianeta è la Corea del Nord. Secondo quanto si legge nella relazione, se «scoperti, i cristiani sono deportati assieme alle loro famiglie in campi di lavoro come criminali politici o uccisi sul posto».

Più generico, invece, il rapporto di Human Rights Watch, che cita violazioni di «libertà fondamentali inclusa la libertà di espressione, associazione e di religione».

L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana afferma che «i cittadini godono libertà di culto» e che nel Paese viene garantita la «costruzione di edifici religiosi nonché la possibilità di celebrare cerimonie religiose». Aggiunge, altresì, un paragrafo che è determinante nelle analisi che si dovrebbero fare su come le pratiche di culto vengono viste da Pyongyang: si afferma, infatti, che «la religione non deve essere usata come pretesto per favorire la presenza di forze esterne e per mettere in pericolo lo Stato o l’ordine sociale».

Per questo le associazioni religiose presenti nella nazione non possono essere indipendenti dal governo, sono tutte guidate da membri dell’esecutivo e nel loro statuto devono avere chiari riferimenti patriottici. A parte le persone che ne sono a capo, chi fa parte di un culto, sia essa cristiana, buddista o ceondanista (seguaci del ceondoismo, religione coreana che mescola elementi di sciamanesimo, taoismo e buddismo, ndr), non può essere membro del Partito dei lavoratori.

In Corea del Nord esistono chiese protestanti, templi buddisti, almeno una chiesa cattolica, una ortodossa e anche una moschea nell’ambasciata iraniana. Si hanno notizie anche di luoghi di culto (pure cattolici, ma non solo) sparsi in diverse province del Paese in cui si svolgono incontri di studi biblici.

Tra timide aperture e improvvise chiusure

Negli anni Novanta e sino all’inizio dell’attuale secolo, diverse organizzazioni caritative di ispirazione cristiana, come la Caritas, hanno condotto programmi di aiuto medico, alimentare e sociale. Erano attività attentamente sorvegliate dalle autorità del governo che non lasciavano molti spazi decisionali sulla destinazione di questi aiuti. Quando l’emergenza della carestia iniziò a terminare, molte di queste Ong lasciarono il Paese criticando l’ingombrante presenza dei funzionari locali.

La presenza religiosa comunque non scomparì mai del tutto, tanto che, nel 2008, un’associazione che faceva capo alle Chiese evangeliche della Corea del Sud riuscì ad aprire quella che ancora oggi è l’unica università privata esistente nel Nord.

Tra il 2017 e il 2018, con la distensione tra Pyongyang e Washington e l’intermediazione del presidente sudcoreano Moon Jae-in, ci fu anche la concreta possibilità che papa Francesco potesse decidere di accogliere l’invito fatto in almeno due occasioni da Kim Jong Un di visitare la Corea del Nord. Quando le trattative sembravano a buon punto, la pandemia e l’elezione di Biden alla Casa Bianca interruppero ogni ulteriore sforzo per concludere un accordo di un viaggio che sarebbe sicuramente passato alla storia come uno dei più importanti segnali di distensione mondiale.

La chiusura dei confini (che oggi solo in parte si stanno riaprendo), l’interruzione del dialogo con gli Usa e l’elezione del conservatore Yoon Suk Yeol alla presidenza sudcoreana hanno portato Kim Jong Un a rivedere la politica di parziale intesa che aveva fatto sperare in una nuova era per la penisola.

Chiese evangeliche e Chiesa cattolica

A farne le spese sono state anche le Chiese presenti sul territorio, in particolare quelle cristiane evangeliche e protestanti i cui fedeli, a differenza dei cattolici, sono molto più legati ai movimenti politici anti comunisti e anti nordcoreani.

È in questo senso, dunque, che va vista la seconda parte dell’articolo 68 della Costituzione, nella quale si ammonisce ogni credo religioso a non sovvertire l’ordine costituito. In realtà, la persecuzione cristiana da parte del regime di Pyongyang, è idealmente rivolta più verso le comunità protestanti che a quelle cattoliche, anche se i funzionari di partito, poco edotti sui principi dogmatici che differenziano le due fedi, non sempre riescono a distinguere la diversità. La Chiesa cattolica è sempre stata vista dal regime di Pyongyang come un’entità molto meno pericolosa rispetto alle sorelle protestanti. I cattolici, al pari del regime, hanno una struttura verticale molto pronunciata al cui culmine risiede il papa. Questo ordine gerarchico viene visto dai funzionari nordcoreani come qualcosa di rassicurante perché limita l’anarchia ideologica e interpretativa.  Inoltre, la Chiesa cattolica, proprio per i rapporti diplomatici (non ufficiali) che intrattiene con Pyongyang, ha sempre dimostrato di voler accettare le regole dello Stato limitando la diffusione di concetti che non siano religiosi.

Le Chiese evangeliche e protestanti sono invece spesso legate a organizzazioni politiche che fanno capo a centrali statunitensi con ramificazioni in Sud Corea e, in forma più o meno clandestina, in Cina. Dai confini di questi due Stati i missionari fanno entrare illegalmente in Corea del Nord oggetti di culto, Bibbie ma anche libri non religiosi, testi che inneggiano alla formazione di una rete di opposizione religiosa con risvolti politici.

Spegnere i possibili «focolai»

Per esempio, dal territorio sudcoreano, a ridosso del 38° parallelo, capita spesso che fedeli di comunità evangeliche si riuniscano per lanciare palloni aerostatici che, con l’aiuto delle correnti atmosferiche, trasportano pacchi di aiuti contenenti anche testi considerati sovversivi al Nord.

Il tentativo da parte delle autorità nordcoreane di smantellare questa rete di potenziali oppositori al regime, si estende quindi anche alle comunità cristiane. Poco importa se cattoliche, evangeliche o protestanti: la presenza di una Bibbia, di un crocifisso o di un’immagine sacra è comunque intesa come indicazione che in quel luogo esiste un «focolaio» destabilizzatore che, come tale, deve essere soffocato.

Pi.Pes.

 




Marocco. Il pane brucia


C’è una siccità che brucia i campi e l’esistenza delle persone. C’è stato il terremoto più devastante nella storia del Paese. Non c’è lavoro né futuro per i giovani. Ecco perché quasi tutti cercano di fuggire all’estero. Costi quel che costi.

Ouled Kichou. È un piccolo villaggio agricolo nei dintorni di Beni Mellal, capoluogo dell’omonima regione del Marocco centrale, tra le più colpite dalla siccità che sta mettendo in ginocchio il Paese. Dal minareto di una moschea, udiamo un muezzin dalla voce sgraziata richiamare gli abitanti alla preghiera dell’alba (salat-al-fajr).

La gente del posto rimpiange il suo predecessore che si cimentava in virtuosismi canori – prima si diventava muezzin per fede, e non per lo stipendio, seppur modesto, che attualmente ricevono – e il tempo in cui l’acqua, che scendeva abbondante dalla diga di Ben Ouidan (realizzata dai francesi nel 1955), sull’antistante catena dell’Atlante, rendeva fertile la terra e nei campi c’era lavoro.

Una spianata con alberi di olivo secchi e il sidr che avanza. Foto Silvia Zaccaria.

Una siccità mai vista e l’abbandono dei campi

A Ouled Kichou oggi manca anche l’acqua potabile e la quotidianità è fatta di donne e bambini che si alternano davanti alle poche cisterne allestite nel douar («villaggio» in darija, il dialetto marocchino). I campi sono quasi abbandonati e il sidr, albero del deserto citato nel Corano (chiamato «spina-christi» da ebrei e cristiani che l’associano alla corona di spine di Cristo), sembra tornare ad avere la meglio sugli ulivi centenari, in uno scenario apocalittico che un anziano descrive come il «giudizio universale».

I pochi che hanno risorse economiche provano a scavare un pozzo profondo almeno cento metri ma non è detto che si trovi la falda. Per questo si affidano ancora ai poteri divinatori del moul Al ouidet (letteralmente «il padrone delle bacchette di legno»), il rabdomante.

Qualcun altro presagisce il ritorno delle piaghe d’Egitto e sette anni di carestia.

In effetti i segni ci sarebbero tutti, visto anche il terremoto devastante, il più forte della storia del Paese, che nel settembre dello scorso anno ha colpito la provincia di Al Haouz e il suo capoluogo Marrakech, provocando almeno 2.900 morti (il bilancio non è ancora definitivo).

La zona dell’epicentro, svantaggiata dal punto di vista geografico ed economico, era nota per ospitare siti con una forte connotazione culturale e spirituale, come Tinmel, antica capitale della dinastia amazigh (berbera) degli Almohadi, e il mausoleo di Moulay Ibrahim, un santo locale.

A Tinmel, oltre al villaggio, è stata distrutta anche la moschea risalente all’XI secolo e appena ristrutturata, mentre il santuario, meta di pellegrinaggio e luogo di ricovero per persone con disturbi psichiatrici, è stato gravemente danneggiato.

Due testimoni di Ijoukak, uno dei villaggi lungo la strada R203, tornata solo da poco percorribile, raccontano: «Il terremoto è venuto a darci la caccia», paragonando il boato che ha preceduto la prima scossa al rumore sordo provocato dagli spari dei cacciatori.

Malgrado la perdita di familiari, compaesani e di tutti i propri beni, malgrado i contributi ricevuti siano modesti (le indennità statali ammontano a 14mila euro per chi ha perso la casa e a 4mila euro per chi ha subito danni, più 250 euro mensili per un anno elargiti, secondo alcuni testimoni, in modo casuale), questa gente di montagna, in tende adibite anche a scuole e moschee (solo alcuni villaggi hanno ricevuto container), resiste grazie a una fede incrollabile e alla solidarietà dei cittadini accorsi da ogni angolo del Paese.

C’è anche chi grida al miracolo. Uicha («piccola Aïcha») è uscita illesa dal crollo del mausoleo di Moulay Ibrahim; la bottega di Baha, lo speziale, è rimasta intatta. Si dice che a Tajghaout si sia salvato solo l’imam.

Inoltre, il sisma ha innescato un fenomeno geologico straordinario: con la frattura e lo spostamento delle rocce, le acque sotterranee hanno trovato nuovi spazi per fluire e salire in superficie e così in diversi luoghi, compreso l’epicentro, Ighil, dalle montagne anch’esse asciutte per l’assenza di pioggia e neve, sono sgorgate sorgenti d’acqua pura che gli abitanti hanno interpretato come una benedizione.

Tendopoli allestita dalla Protezione civile nel pressi di Ighil, epicentro del sisma. Foto Silvia Zaccaria.

Calamità presenti e future

Il presente è grigio: scarsità d’acqua, post terremoto da gestire, aumento dei prezzi, sistema sanitario e scolastico a pezzi (da settembre è in corso uno sciopero dei maestri a contratto), disoccupazione, soprattutto giovanile (15-24 anni), ai massimi storici (38,25% nelle zone rurali e 49,7% in quelle urbane). E il futuro all’orizzonte è ancora più fosco: lunghi periodi di siccità e conseguente avanzata della desertificazione. Per questo non sorprende che la gente comune paragoni le calamità, naturali e non, che stanno colpendo il Paese a quelle bibliche. Ma è l’ultima delle piaghe d’Egitto, la morte dei primogeniti maschi, quella che più si presta a una lettura attualizzata se messa in relazione con l’esodo dei più giovani che, intraprendendo il viaggio migratorio lungo rotte sempre più pericolose, accettano implicitamente il rischio di morire.

D’altronde un detto popolare recita «il pane brucia» (kkubz hār in darija) e per guadagnarselo bisogna soffrire, mettendo anche a repentaglio la vita.

I giovani in fuga, una scelta obbligata

Nei villaggi non si parla di altro. Della pioggia che non arriva, delle preghiere nelle moschee per invocarla, e dei giovani che vanno via. Solo Ouled Kichou, villaggio con una popolazione stimata di duemila persone, negli ultimi sei mesi ne sono partiti più di sessanta, tutti tra i ventiquattro e i trent’anni. Un primo gruppo, composto da una quarantina di persone, è arrivato a destinazione (l’Italia). Il secondo, composto da ventiquattro, ha avuto meno fortuna: quattro hanno desistito lungo il viaggio, diciassette sono stati rimpatriati. Tre, avendo in mano dei passaporti falsi, sono bloccati in Turchia.

Scartata la rotta del Mediterraneo orientale (dopo l’intensificazione dei respingimenti in mare da parte della Grecia dal 2019) e quella del Mediterraneo occidentale verso la Spagna, vista l’ulteriore stretta del Marocco nel controllo delle frontiere a seguito della nuova pioggia di finanziamenti europei (500 milioni di euro, stanziati dopo la tragedia – era il 22 giugno 2022 – a Melilla in cui morirono 37 persone), sempre più marocchini tentano – assieme a iracheni, afghani, pachistani, bengalesi, siriani e palestinesi – la rotta balcanica.

Arrivati con l’aereo in Turchia (per i marocchini non c’è l’obbligo di visto), i migranti devono attraversare ben sette frontiere: turco-bulgara, serba, bosniaca, croata e slovena-italiana.

Raggiungere la prima, con la Bulgaria, è la parte più difficile e rischiosa. Quelli più fortunati sono accompagnati in auto a pochi km dal confine anche se poi è difficile superarlo per via della border police che non esita a impiegare armi da fuoco, cani e mazze da baseball e a denudare le persone.

Altri, come il gruppo dei 24 di Ouled Kichou, sono lasciati anche a decine di km di distanza. Devono dunque proseguire a piedi, nei boschi, guidati da un rehber («guida», in turco).

Il rehber – come il ra’ìs, il capitano o «scafista» che guida la barca sulla rotta mediterranea – è un connazionale, spesso coetaneo che, dopo vari tentativi, conosce i punti di controllo e di incontro per essere presi in consegna dal successivo gruppo di trafficanti. Se riuscirà a passare, non dovrà pagare nulla (secondo le testimonianze, il viaggio può costare sino a ottomila euro).

Mentre si attraversa il bosco si può, inoltre, cadere nelle imboscate di banditi curdi che estorcono denaro, anche sotto forma di riscatto.

Due anziani di Ouled Kichou davanti alla macelleria del paese, distrutta e abbandonata. Foto Silvia Zaccaria.

L’odissea di chi fugge

Se si viene intercettati dalla polizia turca, si viene condotti in centri di detenzione amministrativa (sarebbero almeno 30, secondo asylumineurope.org), gestiti dalla Direzione generale per la gestione della migrazione, dove attendono – per un tempo indefinito – il rimpatrio.

I giovani rimpatriati che abbiamo intervistato a Ouled Kichou, sono stati portati nel centro di Kirklareli, al «Pehlivanköy Reception and Removal Centre».

Finanziato nel 2011 all’85% da fondi europei, per accogliere 750 richiedenti asilo, in seguito dell’accordo Turchia-Ue del 2016, esso è stato trasformato in centro per il rimpatrio che ospiterebbe circa 5mila persone. I testimoni lo descrivono come una vera e propria prigione: i cellulari vengono sequestrati, non si può uscire e non possono entrare organizzazioni umanitarie o legali.

«Nel centro – raccontano i giovani – si dorme almeno in otto per stanza. Non ci sono interpreti o mediatori per cui puoi ottenere informazioni sulla tua situazione solo tramite connazionali che stanno lì da tempo. Abbiamo visto anche persone con le gambe in cancrena per il freddo o lacerate dai morsi dei cani o doloranti per i lividi provocati dalle bastonate, non ricevere assistenza medica adeguata. Ci sono anche delle celle sottoterra e ci hanno detto che lì sono detenuti i terroristi».

Uicha, sopravvissuta al crollo del santuario di Moulay Brahim. Foto Silvia Zaccaria.

Il sogno europeo resiste

Per coloro che sono stati rimpatriati, la legge marocchina prevede che non possano lasciare il Paese per cinque anni. I giovani di Ouled Kichou però non vogliono mollare.

Seppur nessuno si sogna di intraprendere una seconda volta il viaggio lungo la rotta balcanica, qualcuno come Y., che di tentativi via terra e via mare ne ha già fatti una decina, sta già pensando ad altre vie di fuga: «Magari la prossima volta prendo un biglietto per il Brasile. Poi nello scalo esco e scappo». Per qualcuno non sono che degli incoscienti, per altri degli eroi.

Per Mohammed, studente di diritto all’università di Marrakech, i giovani nascono già con l’idea di migrare e quindi non sviluppano un senso di appartenenza al Paese, mentre è ancora forte, malgrado i fallimenti o le fatiche delle generazioni precedenti che sono emigrate, l’idea che l’Europa sia un posto pieno di opportunità, e per raggiungerla sono pronti a tutto.

«È anche vero che qui un laureato guadagna non più di 400 euro al mese e che per studiare all’università, o diventare giudice, come sogno di fare io, devi corrompere qualcuno. Quindi, se il Paese non lo puoi cambiare, lo devi solo lasciare. Se le frontiere fossero aperte, qui non rimarrebbero che donne e vecchi».

Silvia Zaccaria

Baha, lo speziale, davanti alla sua erboristeria, a Moulay Brahim. Foto Silvia Zaccaria.

Un uomo prega alla fermata del taxi di Moulay Brahim, con alle sue spalle la moschea distrutta dal terremoto. Foto Silvia Zaccaria.




L’invasione dei «coccodrilli» cinesi


Era conosciuta come la «fabbrica del mondo». Imitava e copiava. Metteva sul mercato merci tossiche e di bassa qualità. Quel tempo è passato. Oggi la Cina produce ed esporta nel mondo prodotti di alto livello a prezzi molto competitivi.

Un coccodrillo può battere uno squalo se si trova a combattere nel fiume Azzurro. Con questa metafora, nel 2003 Jack Ma, fondatore del colosso cinese dell’e-commerce Alibaba, prevedeva in tempi non sospetti come le aziende cinesi (i coccodrilli) avrebbero fatto fuori i concorrenti stranieri (gli squali) intenzionati a farsi largo nel mercato cinese (il fiume Azzurro).

Solo l’anno seguente Taobao, piattaforma di shopping online legata ad Alibaba, superava eBay per vendite in Cina. Con il tempo, storie come questa sono diventate la norma, non l’eccezione.

Pensiamo all’uscita di Uber dal mercato cinese, acquisita nel 2016 dalla rivale Didi Chuxing, tutt’oggi l’app di ride hailing (servizio di auto con autista) più popolare nel Paese.

I progressi cinesi

Per anni si è sostenuto che il successo delle aziende tecnologiche cinesi andasse ricercato nella mancanza di competizione straniera: secondo questa scuola di pensiero, chiudendo il paese a Facebook e Google il governo cinese avrebbe permesso la nascita di surrogati autoctoni, come WeChat e Baidu. Eppure la parabola di eBay e Uber, se non smentisce la vecchia tesi, quantomeno dimostra come la mancanza di alternative non sia sufficiente a giustificare l’afferma- zione delle big tech (aziende tecnologiche) locali. Soprattutto ora che i «coccodrilli» cinesi si stanno mangiando gli «squali» non più nel solo «fiume Azzurro», ma anche oltreoceano.

Nomi cinesi fino a poco tempo fa semisconosciuti hanno conquistato la fedeltà dei consumatori occidentali: TikTok, creatura della cinese ByteDance, governa il mondo dei video brevi. Shein ha rivoluzionato il fast fashion un tempo associato a marchi come Zara e H&M, mentre i cellulari di Huawei e Xiaomi hanno rosicchiato fette di mercato ad Apple e Samsung.

Tra il rallentamento dell’economia cinese, un quadro normativo sempre più stringente, e l’ascesa di competitor nazionali, aumenta il numero delle azien-de tecnologiche cinesi intenzionate (o costrette) a cercare fortuna all’estero. Il segreto del loro successo? Prezzi bassi e prestazioni sempre migliori. È passato il tempo della Cina «fabbrica del mondo», dei prodotti tossici e di bassa qualità. I «coccodrilli» cinesi hanno sempre meno da invidiare agli «squali» occidentali.

Un laboratoio del Guanglong high tech industry park a Guilin, Guangxi, Cina. Foto Glsun Mall – Unsplash.

Il peso delle sovvenzioni

Alla trasformazione ha contribuito enormemente il supporto di Pechino: basti pensare che, secondo rapporti annuali e registri pubblici, al 2019 Huawei aveva ricevuto centinaia di milioni di dollari in sovvenzioni statali, terreni per la costruzione di impianti e appartamenti per i dipendenti, bonus da distribuire ai migliori ingegneri e massicci prestiti da erogare ai clienti internazionali disposti a comprare i propri prodotti. Lo stesso sta avvenendo nel settore dell’automotive.

A inizio gennaio la casa automobilistica cinese Byd ha superato per la prima volta la statunitense Tesla nelle vendite di veicoli elettrici. Traguardo varcato in parte proprio grazie alle sovvenzioni che il governo cinese ripartisce alle aziende automobilistiche, funzionali agli obiettivi ecologici nazionali.

Per il think tank statunitense Csis, la spesa statale nel settore dei veicoli elettrici ha superato i 125 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2021.

I cambiamenti

Comprendere l’avanzata globale delle aziende tecnologiche cinesi risulta difficile senza tenere in considerazione il modello di sviluppo promosso da Pechino.

Nati e cresciuti nell’arco dell’ultimo ventennio, i giganti cinesi di internet hanno beneficiato dei cambiamenti vertiginosi che hanno travolto il paese asiatico a partire dai primi anni Duemila: l’urbanizzazione rampante, la costruzione di reti di trasporti e telecomunicazioni, nonché la diffusione dei telefoni cellulari, hanno aperto la strada a nuovi modelli di business, dal commercio elettronico al food delivery (consegne a domicilio), passando per il social commerce (commercio elettronico direttamente sui social).

Ugualmente decisivo, anche se meno evidente, è l’impatto esercitato dalla storia meno recente. Il Ventesimo secolo, con i suoi stravolgimenti, ha posto le condizioni necessarie alla maturazione di uno spirito imprenditoriale. A sostenerlo sono Guoli Chen, docente di Insead (Francia), una delle business school più prestigiose al mondo, e Jianggan Li, fondatore di Momentum Works, società di ricerca con base a Singapore.  Nel loro manuale «Seeing the unseen: behind chinese tech giants’ global venturing» (Vedere l’invisibile: dietro l’avventura globale dei giganti tecnologici cinesi), i due esperti individuano le basi dello sviluppo tecnologico nelle pagine più buie del periodo maoista.

Può sembrare strano, ma anche la Rivoluzione culturale, in tutta la sua brutalità, contribuendo a scardinare le vecchie gerarchie sociali e i potentati locali, ha favorito alcune misure inaspettatamente «business friendly» (favorevoli agli affari): l’imposi-

zione su scala nazionale della stessa lingua (il mandarino standard), dello stesso sistema educativo (nove anni di scuola dell’obbligo) e degli stessi programmi di intrattenimento, ha trasformato la Cina in un mercato relativamente omogeneo, nonostante l’enorme estensione geografica.

Smentendo il luogo comune della Cina brava solo a copiare, Li e Chen attribuiscono proprio a Mao la capacità di riadattare in chiave cinese quanto appreso dall’estero: invece di replicare ciecamente il modello sovietico, che individuava nel proletariato urbano la propria base rivoluzionaria, negli anni Quaranta il Grande Timoniere sconfisse i nazionalisti grazie al supporto delle campagne. Strategia simile sembrano averla adottata la piattaforma di e-commerce Pinduoduo e il venditore di servizi online Meituan: anziché sfidare Alibaba nei grandi centri urbani hanno puntato tutto sulle aree rurali e sulle città più piccole, conquistando una nicchia numericamente consistente anche se con un potere d’acquisto più basso. Risultato: il 29 novembre scorso Pinduoduo ha superato la creatura di Jack Ma per capitalizzazione di mercato.

Un’auto della polizia cinese di marca Byd, produttore in crescita vertiginosa e ormai pronto a invadere i mercati occidentali. Foto James Young 8167.

Modulare l’offerta

Questo approccio incrementale all’innovazione si riflette nella capacità di modulare l’offerta in base alla domanda. Specialmente in contesti poco familiari. In Africa i cellulari made in China hanno schermi resistenti alla sabbia e fotocamere più sensibili alla pelle scura. Nei mercati più competitivi, come quello europeo, per bilanciare l’inferiorità delle prestazioni dei propri dispositivi, i colossi della telefonia Huawei e Zte hanno deciso di fornire un’assistenza al cliente particolarmente sollecita.

L’attenzione per i prodotti costituisce uno dei pilastri della «pop-leadership», l’acronimo con cui Li e Chen spiegano il successo planetario dei «coccodrilli» cinesi: persone, organizzazione, prodotti e leadership sono i quattro fattori che compongono un mix vincente se gestiti correttamente.

Cominciamo con la leadership: l’importanza dei vertici aziendali in Cina è particolarmente evidente proprio nella fase di «go global». Se nel 2020 il fondatore di ByteDance, Zhang Yiming, non avesse predisposto un’espansione verso l’estero, probabilmente TikTok non sarebbe diventata l’app più scaricata al mondo. Né Xiaomi sarebbe diventato il cellulare più venduto in India, se il Ceo Lei Jun non avesse scommesso sul subcontinente, da lui personalmente visitato già nel 2001.

Chi siede ai gradini intermedi della piramide ricopre un ruolo altrettanto decisivo. Quelle che Li e Chen chiamano genericamente «persone».

Negli ultimi anni le big tech cinesi hanno stanziato budget sostanziosi per il reclutamento di risorse giovani e qualificate, non molte quelle disponibili rispetto alla domanda. Nel 2017 Huawei ha raddoppiato gli stipendi a 4mila dollari per arruolare ingegneri in Giappone. Ma non è solo una questione di soldi. I marchi cinesi hanno un netto vantaggio rispetto ai competitor occidentali: possono infatti avvalersi di una vasta comunità diasporica che condivide lingua e abitudini con la squadra in Cina, conosce bene il Paese in cui opera, e sa quindi come adattare meglio la produzione al nuovo contesto.

Raccolta di dati sensibili

Assumere decisioni strategiche, gestire le risorse, e ridefinire i prodotti per le esigenze dei mercati in cui operano, quindi saper «organizzare»: sono alcune delle mansioni che, una volta sbarcate all’estero, le società cinesi delegano ai team in loco. L’obiettivo è, da una parte, riuscire a trovare un equilibrio in tempi rapidi tra standardizzazione e localizzazione dei prodotti. Dall’altra, rispondere ai timori sempre più diffusi sul controllo della tecnologia. Soprattutto dopo l’introduzione di leggi in Cina che da anni conferiscono al governo l’accesso ai dati sensibili.

Problema che TikTok – e non solo – ha cercato di risolvere  (senza troppo successo) separando il marchio internazionale da quello cinese (che si chiama Douyin), creando data center all’estero e team indipendenti nei mercati di sbocco. In India, paese con cui Pechino ha in sospeso contenziosi territoriali, circa 300 app cinesi – compresa Tik Tok – sono state bandite per motivi di sicurezza.

Insomma, il successo dei «coccodrilli» cinesi oltremare non è affatto privo di ostacoli.

Il Partito e la concorrenza

Come dicevamo, l’ascesa delle aziende tecnologiche cinesi è strettamente collegata a un paradigma di sviluppo che prevede un intervento massiccio dello Stato nell’allocazione delle risorse. In Occidente questo basta a parlare di concorrenza sleale. Non giova la crescente ingerenza del Partito comunista, l’unica vera forza politica del Paese, nella gestione economica a scapito dell’imprenditoria privata. Il valore di mercato di Alibaba è crollato ai livelli dell’Ipo (Initial public offering, Offerta pubblica iniziale) da quando nel 2020 la leadership cinese ha lanciato una campagna di regolamentazione contro i colossi nazionali del tech, temuti per la loro capacità di fornire servizi (come microcredito) fuori dai circuiti ufficiali e senza grandi protezioni per i consumatori.

Con il rallentamento dell’immobiliare, la ricerca di nuove locomotive per la crescita cinese sta dirottando l’interesse di Pechino verso i cosiddetti «nuovi tre»: veicoli elettrici, celle solari e batterie al litio. Cambiano i settori privilegiati dal governo ma non il paradigma di sviluppo. Anche i rischi restano grossomodo gli stessi. Se in passato fare affidamento sul settore delle costruzioni, da una parte ha tenuto a regime la crescita economica anche durante la crisi internazionale del 2008, dall’altra ha alimentato una bolla speculativa ormai difficile da domare. Mutatis mutandis, l’enfasi attribuita oggi all’industria verde rischia di tradursi in un nuovo eccesso.

Le auto di Pechino

Secondo il «New York Times», la Cina ha già un numero di fabbriche automobilistiche sufficiente a sfornare il doppio delle macchine necessarie a soddisfare il mercato interno.

Cosa se ne farà il gigante asiatico delle giacenze invendute? A febbraio è salpata da Shenzhen la prima nave cargo di Byd diretta verso i Paesi Bassi, con 5mila automobili a bordo. Per ora l’azienda piazza l’80% della produzione in Cina. Ma i consumi interni stentano a ripartire e il settore presenta già i segni di un possibile stallo, come evidenzia il recente calo dei prezzi delle auto. Seguendo un copione non nuovo, l’Unione europea sta valutando possibili dazi sulle importazioni; la stessa strategia adottata dieci anni fa contro i pannelli solari made in China. Prevedendo «un successo significativo al di fuori della Cina, a seconda di quali barriere tariffarie o commerciali verranno stabilite», il fondatore di Tesla Elon Musk a gennaio ha avvertito che, senza adeguati provvedimenti, i costruttori di auto degli altri paesi «verrebbero sostanzialmente demoliti» dai «coccodrilli» del fiume Azzurro.

Uno schermo mobile con le applicazioni più comuni dei quattro giganti tecnologici cinesi Baidu, Alibaba, QQ di Tencent e MI di Xiaomi.  Foto Riccardo Milani / Hans Lucas / AFP.

Restrizioni e nuovi mercati

Negli Stati Uniti, dove da tempo sono già presenti restrizioni sull’import di veicoli elettrici cinesi, gli spettri cinesi si chiamano Shein e Temu: con il loro modello di business on-demand (beni e servizi su richiesta), le due aziende stanno stravolgendo l’e-commerce statunitense. Disposte ad accettare profitti marginali o persino perdite, hanno ormai fagocitato ampie quote di mercato americano offrendo merci a prezzi stracciati. Non solo. Spedendo pacchi con un valore inferiore agli 800 dollari, Shein e Temu si mantengono sotto la soglia prevista per l’imposizione di dazi. Una situazione a cui il Congresso ha già detto che cercherà di porre fine.

Intanto il clima politico sfavorevole in Europa e America sta spingendo le aziende cinesi verso altri lidi. Secondo il «Nikkei», Byd ha in programma di aprire uno stabilimento in Messico: il paese dell’America Latina, infatti, permette di accedere agevolmente al mercato statunitense grazie agli accordi di libero scambio firmati con Washington.

L’e-commerce cinese, invece, vira verso mete più accoglienti. Ad agosto Temu ha lanciato la sua piattaforma per le Filippine, prima espansione nel Sud-Est asiatico, regione giovane, in crescita e con una consistente componente etnica di origini cinesi. L’oceano non è l’habitat naturale degli alligatori. Ma il fiume Azzurro è ormai troppo affollato e tornare indietro non sembra un’opzione praticabile per i coccodrilli cinesi.

Alessandra Colarizi