Cuore e verità


Le cifre parlano: 58 giornalisti uccisi nel 2022, 48 scomparsi, 65 trattenuti in ostaggio, 533 incarcerati, di cui 110 in Cina, 47 in Iran, e 169 giornalisti fermati, arrestati, indagati o sotto processo in Russia dall’inizio della guerra. Quasi quasi fare il giornalista è più pericoloso che fare il missionario. Un «mestiere», quest’ultimo, che ha il suo bel numero di vittime, come ricordato il 24 marzo scorso nella «giornata dei martiri»: 18 nel 2022, 22 l’anno prima, 20 nel 2020, con il record di ben 40 nel 2018, senza contare quelli «scomparsi», come padre Paolo Dall’Oglio in Siria nel luglio 2013.

Il 3 maggio ricorre la «giornata mondiale della libertà di stampa» proclamata dall’Onu, e il 21 la «giornata mondiale delle comunicazioni sociali», celebrata dalla Chiesa ne mondo, per la quale papa Francesco ha proposto il tema «Parlare col cuore. Secondo verità nella carità (Ef 4,15)».

Comunicare, e soprattutto comunicare la verità come dovrebbero fare sia giornalisti che missionari, è un mestiere rischioso. Sì, perché è vero che la verità rende liberi, ma non piace a chi costruisce il proprio potere e la sua ricchezza sulla menzogna, sul controllo dell’opinione pubblica, la manipolazione, il monopolio, il pensiero unico e l’ostentazione.

Comunicare, come insegnare, dovrebbe aprire nuovi orizzonti, far vedere oltre il proprio naso, stimolare la mente a ricercare idee inedite, far incontrare nuove realtà ed esperienze di vita. Aiutare quindi le persone a diventare più libere, creative, responsabili, fraterne, serene, rispettose e solidali. Far capire che la bellezza del mondo non finisce con i muri del proprio giardino, con il proprio pezzetto di cielo, con la propria lingua e cultura.

Purtroppo, spesso, la realtà che viviamo è tutto il contrario di questo. Siamo in un tempo in cui la comunicazione non è solo quella fatta dai giornalisti, ma è soprattutto quella subdola, incontrollabile, invasiva di internet, dei social, della pubblicità, dei video virali, dei programmi televisivi e delle molte altre forme di comunicazione da cui siamo colpiti quotidianamente senza accorgercene. Tutte forme di comunicazione che non hanno lo scopo di rendere libere le persone, ma di condizionarle e asservirle.

Quando un bambino, lasciato per ore davanti a uno schermo (Tv, smartphone, tablet) cresce senza saper distinguere un cartone animato dalla pubblicità o da un programma serio, come può far maturare in sé una mentalità critica e libera?

Dove finisce la libertà e il senso critico di chi viaggia nel web condotto da algoritmi e intelligenza artificiale che, potenzialmente positivi, sono usati invece per condizionare le scelte, annullando la capacità di distinguere tra realtà e finzione, verità e fake news, a servizio dei profitti sempre più alti di pochi e del potere di politici, partiti e governi intenti a mantenere o costuire il consenso a tutti i costi?

Per questo c’è da ringraziare per quei giornalisti che ancora oggi sono disposti a pagare di persona per servire e comunicare la verità. Essi sono un segno positivo che alimenta la speranza e che mostra quanto la verità sia più forte della menzogna, in qualsiasi forma essa si presenti.

Grazie a persone come il nostro amico Gianni Minà, comunicatore appassionato e gentile, che è stato gradito ospite anche su queste pagine.

Oggi abbiamo più che mai bisogno di quello che il Papa, nel suo messaggio, chiama «comunicare la verità nella carità». «In un periodo storico segnato da polarizzazioni e contrapposizioni – da cui purtroppo anche la comunità ecclesiale non è immune – l’impegno per una comunicazione “dal cuore e dalle braccia aperte” non riguarda esclusivamente gli operatori dell’informazione, ma è responsabilità di ciascuno. Tutti siamo chiamati a cercare e a dire la verità e a farlo con carità. Noi cristiani, in particolare, siamo continuamente esortati a custodire la lingua dal male (cfr. Sal 34,14), poiché, come insegna la Scrittura, con la stessa (lingua, ndr) possiamo benedire il Signore e maledire gli uomini fatti a somiglianza di Dio (cfr. Gc 3,9). Dalla nostra bocca non dovrebbero uscire parole cattive, “ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano” (Ef 4,29)».

È quello che stiamo provando a fare con questa rivista, che non ha altre pretese oltre a quella di aiutare a guardare agli altri, vicini e lontani, per conoscerli nella verità, vincendo pregiudizi e stereotipi, senza piegarsi alle mode del momento, smascherando manipolazioni, paternalismi o paure alimentate ad arte. Siamo una piccola voce, una goccia nel mondo della comunicazione. Ma abbiamo una forza che ci brucia dentro: l’amore per l’uomo, ogni uomo, con una preferenza: quella per il più debole, indifeso, emarginato e sfruttato, visto con gli occhi di Cristo.

 




Una Pasqua oscurata?


Probabilmente quando leggerete queste righe il dramma di Cutro sarà sparito da un po’ dalle prime pagine, magari sarà ridotto a mero strumento per colpi bassi tra i partiti di governo e le opposizioni. Purtroppo, tragedie come questa finiscono troppo in fretta nel tritacarne dell’assuefazione, e vengono sostituite dal gossip e dalle vanità di turno.

Mi ha colpito un’insegnante che raccontava su Facebook come avesse chiesto ai suoi alunni delle medie del terremoto in Turchia e Siria e si fosse trovata davanti una scena muta. Quando invece aveva fatto il nome di due noti cantanti e influencer, si era trovata travolta da un fiume di particolari. Il suo racconto mi ha fatto pensare a quanto sperimento io stesso quando chiedo a dei ragazzi se hanno mai sentito parlare di Eswatini (troppo difficile) o dello Yemen. Per fortuna c’è sempre uno più sveglio che, magari con un piccolo aiutino, ti dà poi la risposta giusta.

La stessa ignoranza mi pare di trovarla in certi politici che di fronte ai problemi delle migrazioni danno risposte prefabbricate e dogmatiche, usando a volte a sproposito le parole del papa. Per loro è tutta colpa dei trafficanti di persone e delle Ong che si fanno loro complici. Una visione semplificata e di comodo che non tiene conto della complessità del problema, e delle responsabilità del «nostro» sistema economico che causa squilibri ecologici, instabilità politica o dittature, sfruttamento del lavoro, razzia di materie prime, guerre intestine e tanto altro ancora. Come non comprendere chi decide di tentare un’alternativa rispetto a una vita impossibile e indegna, aggravata dalla crisi climatica, che pure colpisce pesantemente anche il nostro mondo, e dalla diffusione di nuove pandemie, come il Covid-19.

Solo chi non vuole vedere, o chi sa di poterne trarre un tornaconto, riduce il problema delle migrazioni alla responsabilità dei trafficanti. Senza interventi radicali che promuovano la vita, il lavoro, la salute, la scuola e, anche, libertà e democrazia in tanti paesi impoveriti (e spesso i più ricchi di risorse naturali), la fuga dei disperati (o dei sognatori di una vita più dignitosa) continuerà a crescere.

Mentre leggete queste righe stiamo celebrando la Pasqua, il tempo che segue quello nel quale, dal Getsemani al Calvario, si intrecciano morte e vita, indifferenza e violenza, fanatismi e paure, fughe e pianti, silenzi e gesti di grande generosità, disperazione e coraggio, delusioni e speranze. Dopo oltre un anno di guerra folle in Ucraina, dopo i tre anni di pandemia che, oltre a troppi morti, hanno lasciato segni profondi nella vita di tanti, soprattutto giovani, e amari strascichi da caccia alle streghe, dopo una siccità (sia qui da noi che in tante parti del mondo) che sembra inarrestabile e di cui non comprendiamo ancora appieno le conseguenze, la tentazione è quella di domandarci: «In questa situazione, come si può celebrare la Pasqua che è risurrezione, cioè vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio, della gioia sul pianto?».

Mi ero fatto una domanda simile, tanti anni fa, a Maralal, in Kenya, quando, il Venerdì Santo, avevamo concluso la Via crucis vivente lasciando (chi impersonava) Gesù inchiodato alla croce. In quel momento, quell’immagine rappresentava le sofferenze di persone e animali attanagliati in tutta la regione da un lungo e doloroso periodo di siccità e fame.

La risposta, allora come oggi, è proprio la Pasqua: non una risoluzione magica di tutti i problemi, ma un cammino che porta dal buio alla luce, dalla morte alla vita. Un cammino da fare non da soli, ma con Lui, Gesù di Nazareth, per rinascere con Lui, per trovare in Lui la forza di vivere, lottare, amare, pagare di persona per un mondo nuovo, bello, fraterno e giusto.

Allora, nella Pasqua, ha senso pregare ogni giorno per la pace, non per convincere Dio, spossato dalle nostre richieste, a risolvere i nostri problemi, quanto piuttosto per riscoprire la nostra vera dignità e vocazione, e ritrovare il coraggio di assumerci la nostra responsabilità nel costruire la pace a cominciare da lì dove siamo: casa, lavoro, scuola, tempo libero, impegno sociale e politico.

Se davvero vivo la Pasqua, se davvero ascolto la Parola, non rimango seduto sul divano a guardare uno schermo nell’attesa di un miracolo, ma divento soggetto attivo di fraternità, costruttore di pace, operatore di giustizia. Giorno per giorno, passo dopo passo.

Allora sì, anche in mezzo alla violenza degli uomini e all’incontrollabile potenza degli avvenimenti naturali, terremo viva la luce della speranza, non lasceremo spegnere la nostra piccola candela accesa al fuoco di Cristo, e avremo la forza di lottare tenacemente per un mondo dove tutti gli uomini possano danzare insieme la gioia della vera pace.




Castità, via di pace

L’8 marzo è la «Giornata internazionale dei diritti della donna», conosciuta più semplicemente come «Festa della donna». È una giornata che, al di là del tanto parlarne che se ne fa in questi giorni, richiede una seria riflessione da parte di tutti, uomini e donne, chiamati a compiere assieme un cambiamento di mentalità.

Quanti fatti sono davanti ai nostri occhi: lo stupro usato come arma di guerra in Ucraina, ma non solo; i jihadisti di varie tendenze che, nell’Africa subsahariana, rapiscono donne e bambine per usarle come schiave, emulati in questo dai miliziani che razziano il Nord Est della Rd Congo; la mutilazione genitale femminile, che in diverse regioni a influenza islamica prende la forma estrema di infibulazione; la pratica delle nascite selettive, per cui le bambine vengono soppresse. Aggiungi la tratta di persone che coinvolge soprattutto giovani donne e bambine sia per la prostituzione su strada che per il lavoro schiavo. Senza dimenticare la brutalità della repressione in Iran, dove in nome di Dio (che bestemmia!) giovani donne vengono torturate, abusate, stuprate e uccise proprio da chi si proclama difensore della religione e della famiglia; mentre in Afghanistan le donne sono imprigionate dentro il burqa e private di libertà, di diritti e di educazione, anche qui in nome di Dio (ma quale Dio?).

Se quelle citate sopra possono sembrare (ma non lo sono) vicende lontane, anche guardando più vicino a noi, in Europa, troviamo molto da lavorare: dalla pedopornografia online che domanda efferatezze e violenze sempre più estreme, ai 120 femminicidi avvenuti in Italia nel 2022 più i cinque che hanno già marcato lo scorso gennaio; dalle discriminazioni nelle carriere e nei salari ai licenziamenti o penalizzazione sul lavoro delle donne incinte.

Smetto di elencare, e vengo al punto. Una lettura onesta di questa situazione deve essere per tutti, donne e uomini (in particolare), un pugno nello stomaco che provochi una vera revisione di tutto il nostro modo di essere, di pensare e di agire. E non solo: deve mettere in discussione le idee che abbiamo circa l’identità maschile e quella femminile, la posizione nel mondo che ciascuna delle due ha, e le diverse e specifiche modalità di relazionarsi con l’altro, con la natura e con Dio. A maggior ragione questo deve farlo chi si dice credente, perché proprio nella Parola di Dio trova i criteri per essere uomo e donna in modo nuovo. È nella Scrittura che chi si dice cristiano trova quelle linee guida fondamentali di castità che dovrebbero essere alla base di tutte le relazioni.

Qualcuno si potrebbe domandare: cosa c’entra la castità ora? Mica possiamo vivere tutti come frati o suore? C’entra, perché la castità non è solo astensione dal sesso, è qualcosa di diverso e molto più profondo. Ricordo sempre quando il nostro professore di Bibbia, arrivato al testo di Matteo 5,28: «chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore», lo ha parafrasato dicendo «smettetela di guardare le donne solo come un oggetto». Di fatto essere casti non è semplicemente non fare sesso, ma è vivere in modo nuovo le relazioni mettendo al centro il rispetto, l’amore che non mercifica, la ricerca del vero bene dell’altra/o, e la promozione della sua dignità e libertà.

Castità indica certo un mondo di relazioni dove la sessualità ha il suo ruolo importante per esprimere la donazione totale che due persone si fanno a vicenda, unendosi in un progetto di vita, ma esprime anzitutto un rapporto dove si mette al centro la libertà, la gratuità e il benessere dell’altra/o. La castità è il contrario di ogni atteggiamento padronale, è contestazione di ogni possesso o dominio. Nella castità la relazione è dono, non diritto o imposizione. Questo tipo di relazione non si applica solo tra due persone fidanzate o sposate, ma diventa l’anima del vivere insieme, delle relazioni interpersonali, dei rapporti di lavoro, del modo in cui si guarda la tv, si naviga il web, si vedono le persone attorno a noi.

Di questi tempi la castità non ha molta cittadinanza nella nostra cultura, schiacciata com’è dal fraintendimento di un altro grande dono che abbiamo tutti ricevuto: la libertà. Se la libertà, infatti, è solo «libertà da» ogni costrizione e legame, e «libertà di» fare tutto ciò che si vuole perché ci si percepisce come padroni assoluti della propria vita, la relazione intesa come dono perde la sua attrattiva. Castità invece si coniuga con «libertà per» amare con gratuità e rispetto, diventando così un grande cammino per costruire davvero un’umanità nuova, libera, inclusiva, dove ogni persona possa realizzare la propria vocazione e vivere in pace in un mondo amato, curato e rispettato.

Sì, allora castità diventa vera via alla pace.




Centoventicinque


Dopo dodici direttori, oltre millequattrocento numeri e 60mila pagine, MC entra nel suo 125° anno di onorato servizio all’evangelizzazione nel nome della Consolata. Periodico fondato dal beato Giuseppe Allamano e da subito affidato alle mani capaci del canonico Giacomo Camisassa, nel gennaio 1899 esce «l’anno 1 – n. 1» de «La Consolata». Nasce dopo che, nel 1898, la città di Torino ha vissuto momenti di intensa religiosità mariana e mentre si prepara, per il 1904, alla «celebrazione dell’ottavo centenario del miracolo del cieco di Brianzone (sic invece di Briançon)» con il ritrovamento del quadro della Consolata. Con il periodico, infatti, l’Allamano vuole offrire ai torinesi e ai fedeli di tutto il Piemonte «studi, notizie e relazioni sulla divozione della Consolata fuori del suo santuario in Torino: in Piemonte specialmente, dove esistono santuari, cappelle, compagnie che dal suo nome si intitolano. Daremo notizie sulla divozione della Consolata nel resto d’Italia, in Francia, nell’Inghilterra e nelle Americhe, dove i nostri migranti portano questo tesoro di pietà e di speranza» (da La Consolata 1/1899).

Sono 32 pagine ogni mese, impreziosite da fotografie di alta qualità, per le quali si fanno produrre le matrici in piombo a Vienna, perché nessuno in Italia è in grado di eseguire un lavoro così bello.

All’inizio del 1901 nelle sue pagine si legge un appello a tutte le famiglie che hanno «congiunti o amici fuori dall’Italia, specialmente in America», affinché mandino gli indirizzi di persone a cui «giungerebbe gradita la lettura del periodico». Fin dai primi anni la rivista vuole raggiungere tutto il mondo, così come l’istituto missionario nato in quello stesso 1901. «La tenerezza, la divozione a Maria sono germi fecondi di eroismo e sacrificio. Non è dunque a far meraviglia se sotto l’egida della Consolata sorse un istituto che ha per altissimo scopo di formare giovani […] all’apostolato […] attraverso i lontani e barbari paesi ove il Signore li chiama ad evangelizzare gl’infedeli. […] L’importanza di tale fondazione sta a dimostrare come il culto della Consolata non sia soltanto contemplativo, ma attivo […] oltre i confini della nostra terra» (La Consolata, 1/1902).

L’annuncio della nascita dell’istituto dei Missionari della Consolata è già stato dato nel novembre del 1900. La data ufficiale di fondazione è il 29 gennaio 1901. Il periodico ne riparla nel luglio del 1901, e, poi, nel settembre 1902 presenta il primo resoconto dell’arrivo dei missionari nell’Africa equatoriale, dedicando a esso tutte le sue 24 pagine con ben quattro foto e una dettagliata cartina su due pagine.

Da questo momento in avanti le notizie dalle missioni cominciano a dominare «La Consolata», a spese di quelle sul santuario. Così, dopo la morte del beato Allamano (1926), nel marzo del 1928, si rende necessaria una separazione, non senza qualche sofferenza, e la versione missionaria de «La Consolata» diventa «Missioni Consolata».

Ancora oggi la testata «Missioni Consolata» rimane, superando la tentazione di un nome più accattivante per i canoni della comunicazione contemporanea. Rimane «Consolata» perché Lei, amata con questo nome nel suo santuario a Torino, è la prima missionaria ed è cittadina del mondo, e perché è stata Lei a spingere l’Allamano a fondare una comunità di uomini e donne che sognano di far conoscere Gesù Cristo a tutti, soprattutto ai più poveri, ai marginali e agli esclusi. Rimane «Missioni» perché i missionari non sono i padroni di quanto raccontano, ma solo dei servitori e inviati: di Dio che li manda; di ogni uomo con il quale condividono il desiderio di un mondo giusto e fraterno; del creato che si sentono chiamati a curare, abbellire e rendere un «paradiso» per tutti.

Sappiamo di correre il rischio di essere ignorati a causa di questo nome che «sa troppo di Chiesa», e quindi puzza di vecchiume o bigottismo, e fa pensare a gente in cerca solo di offerte in denaro.

Sappiamo anche, però, che chi si concede di sfogliare la nostra rivista è felice di scoprire che le «Missioni» che serviamo raccontano realtà estremamente moderne e allo stesso tempo capaci di proporre una critica profonda al nostro mondo. Abbiamo fatto nostro il detto di Terenzio: «Tutto quello che è umano mi interessa». E poi, chi ci legge, scopre che la madre di Gesù, la Consolatrice, si sente «Consolata» ogni volta che viviamo l’amore, la pace, la giustizia, la fraternità e la gioia per cui suo Figlio ha dato la vita.

Anche nel suo 125° anno e negli anni futuri questa rivista sarà testimone del genuino interesse dei Missionari della Consolata per l’uomo e per tutto ciò che lo riguarda. Ispirati e sorretti dal Signore Gesù e da Maria, madre sua e nostra.

 




A Gesù Bambino


Caro Gesù Bambino,
quando sei nato c’era la «pax romana». Che fosse pace lo dicevano i dominatori del tempo e i loro lacchè, ovviamente. In realtà la maggioranza delle persone viveva sotto una servitù diffusa, drogata da «panem et circenses». Se nascessi oggi, troveresti invece la «pax atomica», «garantita» da oltre 13mila testate nucleari. Una vera follia, visto che se ne esplodessero anche solo 600, ogni forma di vita sarebbe estinta per sempre su tutta la terra. Nessuno, per ora, sembra davvero intenzionato a lanciare la prima. E speriamo non lo sia mai.
Intanto, però, tutte le altre guerre «normali» continuano e prosperano. In questo 2022 se ne contano ben 59 in giro per il mondo. Sono in aumento e fanno la felicità dei mercanti di armi che hanno visto le spese militari mondiali superare i due bilioni di dollari e hanno buone speranze che crescano ancora. C’è poi anche il mercato gemello, quello delle «armi piccole» nelle mani dei privati, che inonda, ad esempio, il Messico, fiorisce negli Stati Uniti al ritmo di stragi di civili, e avvelena le relazioni etniche nell’Africa subsahariana. Risultato? Oltre cento milioni di profughi nel mondo «a causa di persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che compromettono gravemente l’ordine pubblico», come informa il report del giugno di quest’anno dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. Tra essi ci sono milioni di ucraini, siriani, venezuelani, etiopi, sudanesi e poi afghani, birmani, somali, eritrei, nigeriani, congolesi, maliani… una lista senza fine. A questi devi aggiungere i profughi e migranti a causa dei cambiamenti climatici (almeno venti milioni ogni anno).

Caro Gesù, i tuoi genitori sono potuti scappare abbastanza facilmente in Egitto, dove sono rimasti fino a quando il tuo persecutore è morto. Fossero fuggiti oggi da uno dei tanti Erodi del mondo, probabilmente sarebbero, con te in braccio, su un camion che percorre le piste nascoste del deserto, oppure su uno dei barconi che cerca di attraversare il Mediterraneo, per essere, se va bene, raccolto da una delle navi delle Ong che poi rimangono al largo senza accesso a un porto sicuro per motivazioni pretestuose (navi pirata), propagandistiche (favoriscono l’invasione) e disumane (donne e bambini ignorati). E saresti tra i fortunati, visto il gran numero di barconi che, invece, affondano nel «mare nostro» con tutti i loro occupanti, o quelli che sono respinti verso il «porto sicuro» della Libia, dove i trafficanti non hanno scrupoli a pestare, uccidere, ricattare, violentare, torturare, con l’Europa che finanzia e tace.

Vorrei dirti tante altre cose, ma una in particolare mi preme. Voglio ringraziarti perché ogni anno ci dai l’opportunità di celebrare la tua nascita e ricaricare così la nostra voglia di vita, di speranza, di giustizia, di pace. Se consideri anche solo questi ultimi tre anni, tra Covid, cambiamenti climatici e guerra, davvero la tentazione di mollare tutto è stata grande. E invece vieni tu presentandoti a noi nella fragilità di un bambino che ha bisogno di tutto. Non parli, non minacci, non incuti timore. Eppure, con i tuoi occhi arrivi dritto al cuore. Quando ci avviciniamo a te e, soprattutto, ci lasciamo guardare da te attraverso gli occhi, i volti, le storie di chi oggi è vittima di guerra, violenza, intolleranza e fanatismo, sfruttamento e tratta, non possiamo più barare con noi stessi. Il tuo sguardo ci scruta nell’intimo più profondo, là dove gli occhi della gente che ci sta attorno non arrivano. È un balsamo contro lo scoraggiamento e la rassegnazione, perché tu continui a dirci che non ti sei stufato di noi, che credi in noi, nell’umanità più vera che sta nel profondo di ogni uomo. Grazie, perché tu credi in noi più di noi stessi e più di quanto noi crediamo in te.




Missione donna

Scrivo queste righe durante il mese missionario. Un mese che comincia con la memoria di santa Teresa di Lisieux e si conclude con quella della beata Irene Stefani. La prima, vissuta solo 24 anni, è protettrice delle missioni, pur non essendoci mai stata; la seconda, missionaria della Consolata, è morta di peste in Kenya a 39 anni, mentre serviva i poveri. Due giovani donne innamorate di Dio, due che hanno fatto della dedizione incondizionata lo scopo della loro vita. Due donne consumate dall’amore.

A esse, voglio aggiungere suor Carola Cecchin, beatificata il 5 di questo mese. Un’altra missionaria di inizio Novecento in Kenya, detta «mamma buona». Anche lei bruciata dall’amore e «sepolta» nelle acque del Mar Rosso.

Nonostante debba tantissimo a suor Irene e ai suoi scarponi logori (ho letto la sua biografia «Gli scarponi della gloria» quando avevo 12 anni), non mi è mai venuto spontaneo pensare alla missione al femminile. Ma sempre di più è doveroso farlo, a maggior ragione in questi giorni segnati da figure femminili che, nel bene o nel male (lasciamo a voi giudicarlo), segnano la storia: la
regina Elisabetta; la leader della nuova maggioranza parlamentare in Italia, Giorgia Meloni; le donne iraniane che non si lasciano intimorire dal maschilismo violento mascherato di religione di alcuni loro connazionali. Senza contare tutte le donne che costituiscono lo zoccolo duro e la maggioranza dei membri attivi delle parrocchie.

Come scordare, poi, che noi missionari della Consolata abbiamo la nostra ispirazione e il nostro modello proprio in una donna, la madre di Gesù, che noi, con i torinesi, chiamiamo affettuosamente Consolata?

In questo nostro tempo le donne sono protagoniste. Anche se a volte mi lasciano quantomeno confuso, come nella battaglia per far riconoscere l’aborto un diritto, oppure come nell’accettazione acritica di mode, spesso determinate da stilisti uomini, che di rispetto per la dignità della donna hanno ben poco.

Sono protagoniste, purtroppo, anche della cronaca che ci racconta un crescendo di violenze contro di loro, indice di grande confusione negli uomini, impreparati a una relazione paritaria con esse. Questo disagio è ancora più evidente in paesi del Sud del mondo, dove, grazie all’educazione e a tanti progetti mirati al loro empowerment, le donne stanno scoprendo una nuova dignità con la quale gli uomini non riescono a tenere il passo, aumentando comportamenti violenti e alcoolismo e lasciando sulle donne il peso della famiglia. Peso che, con la crisi che tutti stiamo vivendo, diventa sempre più gravoso.

Un altro ambito di violenza sulle donne è quello del traffico di persone, che vede proprio in loro la «merce» primaria da buttare nel vortice della prostituzione e nel mercato della pornografia online. Questi si nutrono, come ricordato da un recente rapporto presentato al parlamento francese, di violenze estreme proprio su donne e bambini. Non ultimo, in questo scenario, è l’aumento della schiavitù, anche nei nostri paesi che si ritengono così orgogliosamente superiori agli altri (vedi pag. 56). Corollario di questa nuova schiavitù è l’utero in affitto, che pure è rivendicato come diritto da alcuni che hanno grande influenza sui social.

Il nostro paese ha incoronato capo della nuova maggioranza in parlamento una donna. Non credo che questo basti da solo a risolvere i problemi di discriminazione e violenza. Come non basta lo scrivere aggettivi che finiscono con un asterisco o senza l’ultima consonante per creare nuove relazioni di rispetto della dignità di ogni persona. Chi è stato come me in Africa, ha usato lingue inclusive, ma ha sperimentato quanto maschilismo e sessismo ci fosse nella società. Senza un reale cambio di mentalità, espedienti linguistici come l’omissione delle ultime lettere delle parole per indicare un genere «neutro» rischia di essere solo un intervento cosmetico.

Le tre sante che hanno fatto da corona al mese missionario, non hanno fatto teorie, ma hanno vissuto una mentalità nuova centrata sull’amore, facendosi serve – non padrone – degli altri, fino a dare la propria vita perché le persone che hanno incontrato potessero essere vive, libere e amate. Ci hanno mostrato la strada, quella che Gesù indica per «farsi servi» gli uni degli altri.

L’augurio è che tutti la percorriamo.




Fuoco per dono


Due parole ronzano nella mia testa di questi tempi quando penso a «missione»: «perdono» e «fuoco».
«Fuoco» è stata al centro dell’omelia di papa Francesco il 27 agosto scorso quando ha creato i venti nuovi cardinali, tra cui il nostro Giorgio Marengo, il più giovane di tutti e vescovo di quella che certamente è una delle «diocesi» più piccole del mondo, forse battuta solo da Kirghizistan e Afghanistan.
«Perdono», invece, è stata la parola chiave del «Festival della missione», celebrato a Milano alla fine di settembre. E non semplicemente «perdono», ma «perdono», con quel «per» evidenziato allo scopo di sottolineare la dimensione della gratuità come essenziale della missione.
La gratuità è la qualità più tipica dell’azione di Dio nei nostri confronti tramite Gesù Cristo, e quella fondamentale della missione e della Chiesa. Ma è anche lo stile di ogni vero missionario, che fa del donarsi l’anima del suo apostolato.
Donarsi fino a consumarsi, come legna sul fuoco, come ha fatto padre Camillo Calliari, ad esempio, che ha speso tutta la sua vita per i poveri del Tanzania mantenendo una grande umiltà e non si è mai lasciato gonfiare da un po’ di notorietà venutagli attraverso quel libro affettuoso e ammirato con cui Giorgio Torelli lo ha ritratto, «Baba Camillo».
Il «per dono» del festival di Milano ci ha ricordato il lavoro fatto «per dono» dai grandi missionari e missionarie, come quello fatto dai tanti che si sono lasciati consumare nell’anonimato più assoluto, senza rumore, facendo bene il bene negli angoli più remoti della terra.
Mentre online ascoltavo l’omelia di papa Francesco al concistoro, ho pensato alla mia infanzia, quando la legna e il fuoco erano parte della vita quotidiana, e questo ha suscitato in me ricordi intensi e immagini indimenticabili. Come quella del grande falò di primavera dalle fiamme altissime fatto con i tralci potati dalla vite, un fuoco bellissimo che creava gioia e festa, salutando i freddi intensi dell’inverno e alimentando le speranze di una primavera foriera di prosperi raccolti. Oppure il ricordo invernale delle rosse braci nello scaldino infilato sotto le coperte per creare una coccolosa isola di calore in cui ci si tuffava velocissimi per dormire nella stanza gelida. E le lunghe sere d’inverno passate seduto dentro, proprio dentro, il grande camino nella casa del nonno al caldo rassicurante e duraturo dei ceppi di castagno o di gelso che si consumavano adagio riscaldando la notte, mentre si abbrustolivano le castagne.
Quei ricordi indelebili mi aiutano a capire con vividezza quanto ha detto papa Francesco: «[Il] fuoco, che qui è la fiamma potente dello Spirito di Dio, è Dio stesso come “fuoco divorante”
(Dt 4,24; Eb 12,29), Amore appassionato che tutto purifica, rigenera e trasfigura. […] C’è però un
altro fuoco, quello di brace. Lo troviamo in Giovanni, nel racconto della terza e ultima apparizione di Gesù risorto ai discepoli, sul lago di Galilea (cfr 21,9-14). Questo fuocherello lo ha acceso Gesù stesso, vicino alla riva, mentre i discepoli erano sulle barche e tiravano su la rete stracolma di pesci. E Simon Pietro arrivò per primo, a nuoto, pieno di gioia (cfr v. 7). Il fuoco di brace è mite, nascosto, ma dura a lungo e serve per cucinare. E lì, sulla riva del lago, crea un ambiente familiare dove i discepoli gustano stupiti e commossi l’intimità con il loro Signore».
Questo fuoco che brucia «con mitezza, con fedeltà, con vicinanza e tenerezza» è lo stile vero della missione. Solo così essa può comunicare «la sua [di Dio] magnanimità, il suo amore senza limiti, senza riserve, senza condizioni, perché nel suo cuore [quello di Gesù e quindi quello del missionario da Lui mandato] brucia la misericordia del Padre».
Mi piace pensare a questo fuoco «mite, nascosto e che dura a lungo». Quanti missionari e missionarie, ma anche catechisti e volontari, stanno riscaldando così il mondo, senza chiasso. Segno di una speranza che non muore, di un amore che è più forte di tutte le guerre, di tutti i bla bla di tanti politici che pensano solo ad apparire, di una fedeltà che non cerca l’applauso, ma ha a cuore le persone concrete, i più deboli e piccoli, i più lontani e ignorati, i più martirizzati e sfruttati. Per dono, come la luce del sole che sorge ogni giorno, senza mai aspettarsi un grazie, ma felice di vedere i semi germogliare, gli uccelli volare, gli uomini danzare. Per dono, consumandosi fino alla fine, per un mondo dove germogli fraternità, amore e bellezza.




«P» come missione


A fine giugno a Roma, c’è stata la seconda conferenza nazionale sulla cooperazione italiana (vedi pagina 71) che ha articolato i suoi temi attorno a cinque «P»: persone, pace, prosperità, pianeta e partnership. Mi sono domandato quante e quali sono le «P» di cui si occupa la missione.

Sempre a giugno, la settimana prima, per quattro giorni la famiglia della Consolata (consacrate, consacrati e laici) si è radunata online in un convegno con oltre 600 partecipanti da 33 nazioni diverse, in sei lingue e quasi quaranta gruppi di lavoro. Lo scopo era quello di fare memoria e attualizzare la cosiddetta «conferenza di Murang’a», tenuta in Kenya nel 1904 dai primi dieci Missionari della Consolata presenti in quel paese, per pregare e riflettere insieme sul senso e il metodo della loro azione missionaria in quel contesto. Da quell’incontro di quasi 120 anni fa era emerso, tra le altre cose, che al centro della missione c’era la persona.

Ecco la prima «P» della nostra missione. La persona di Cristo che si fa Parola per comunicarsi e che è la ragione stessa della missione, e la persona dell’«uomo» incontrato nella sua concreta unicità, nella sua diversità di età, sesso, cultura, tradizione religiosa, stato sociale. Con una preferenza: la persona più piccola e più povera, quella che conta meno, che sta ai margini, che è trafficata, sfruttata, aggredita, ignorata, invisibile. Chi non può accedere alla scuola, non gode dei servizi sanitari, fa fatica a mangiare un pasto al giorno, non ha diritto di voto, non ha un riparo sicuro, e per questi motivi è visto come pericolo, nemico, minaccia.

Se la persona sta al cuore della missione, ne consegue che deve essere la missione ad andare alle persone, non viceversa. Come ha fatto Gesù che è venuto e continua a venire incontro all’umanità, e come hanno fatto i nostri primi confratelli (e facciamo oggi) che hanno dato uno stile itinerante all’annuncio: non le persone chiamate a raggiungere i missionari, ma i missionari che raggiungono le persone.

Da questo principio discendono poi tante altre «P»: pace, perseveranza, pazienza, perdono, partecipazione, piccolezza, povertà. Parole che si coniugano bene con altre più moderne come pianeta, partenariato, prosperità, ma ne escludono altre come potere, plagio, privilegi, paletti.

E scopri che la missione ha bisogno anche dei piedi. Piedi che indossano sandali: segno di un andare libero, per scelta e senza costrizioni, senza sandali di scorta, per condividere la precarietà, la provvisorietà e la povertà di chi si incontra.

Due altre «P» hanno un legame profondo con la «missione»: preghiera e pane. La preghiera è il suo motore. Con la preghiera rimani legato al Mandante, lo ascolti, ti verifichi, ti lasci trasformare, ti ricarichi quando sei in crisi. Con il pane nutri e sei nutrito, fai stare bene gli altri e te stesso. Lo spezzi e scopri che ce n’è in abbondanza per tutti. Se poi tieni sempre presente che il vero Pane è Lui, Gesù, che si spezza e ci invita a spezzarlo ogni giorno per vivere nell’oggi la sua passione, morte e resurrezione, allora davvero rimani ancorato al senso della missione.

Ce ne sarebbero molte altre di «P» che si sposano con la «missione». Ma per me centrale rimane la «P» di «persona», che non è mai una categoria o un gruppo anonimo, un numero o un’etichetta, ma un volto, un nome, una storia, un incontro, un bisogno, una lacrima o un sorriso. È un paio di occhi che ti penetra nel cuore. È Anthony, ad esempio, un bambino vissuto solo due ore per un difetto cardiaco. È Sharon, rapita dall’Aids a sette anni.

Per noi Missionari e Missionarie della Consolata, persona è ciascuna di quelle innumerevoli incontrate, spesso con nomi per noi impronunciabili, nelle foreste dell’Amazzonia, nelle baraccopoli delle grandi città (anche europee), nelle immense steppe dell’Asia, nei villaggi abbarbicati sui monti della Cordigliera andina, nei campi profughi a confini dell’Ucraina o in quelli del Marocco, nelle riserve indiane degli Stati Uniti.

Mettere la persona al centro è una scelta di coraggio. Coraggio che richiede cuore e fantasia per non restare imprigionati nelle pastoie della nostra onnipresente burocrazia e del vizio, ormai consacrato, di regolamentare tutto, fino all’ultima virgola, seppellendo le persone sotto montagne di carte.




Sussurrare


Il 10 luglio la piccola Chiesa cattolica in Mongolia compirà trent’anni. È la data in cui è «rinata» in quel paese dove pure il cristianesimo era arrivato oltre un millennio fa. È una Chiesa piccola, quella mongola, neanche 1.500 cattolici e due preti nativi, ma è giovane e bella e piena di speranza e vitalità. In più, proprio in questi giorni, ha ricevuto un dono inaspettato: il suo vescovo, monsignor Giorgio Marengo, missionario della Consolata, compare nella lista di coloro che verranno nominati cardinali nel prossimo Concistoro del 27 agosto. Sarà il più giovane.

Quella mongola è una Chiesa di periferia che «sussurra il Vangelo al cuore dell’Asia», come scriveva padre Giorgio nel giugno 2018 su MC. «La missione sta nel mettere in comunicazione il “cuore” con il Vangelo e nell’innescare quel delicato processo di dialogo e crescita nel quale nessuno dei due interlocutori rimane indifferente all’altro. Ecco perché vorrei parlare della missione come di un “sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia”, prendendo in prestito l’espressione usata al sinodo per l’Asia del 1999 da Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India): perché ritengo che per parlare del mistero di quest’incontro, sia più efficace un’espressione evocativa, un’immagine, piuttosto che una teoria o un “paradigma” missionario».
E continuava: «Il verbo “sussurrare” allude a una relazione. Nel nostro caso, una relazione con Dio ricevuta come dono e coltivata come scelta d’intimità, preghiera, dialogo vitale. Noi missionari siamo chiamati a sussurrare al cuore di Dio e a lasciare che Colui che ci manda a essere sue epifanie presso i popoli asiatici sussurri al nostro cuore. Siamo chiamati a metterci in relazione con le persone alle quali siamo inviati, alla vicinanza, all’immersione nel loro mondo.

Due persone si sussurrano a vicenda qualcosa solo quando sono in confidenza. Non si sussurra all’orecchio del primo che capita. E quello che si comunica nel sussurro è qualcosa di profondo, di vitale, che esige un certo pudore, un’aura di mistero, oltre che di rispetto».

Sussurrare non è una strategia, né una tattica, ma un modo di essere e di relazionarsi con gli altri. Richiede confidenza, rispetto, familiarità, fiducia. È vicinanza e intimità. Per questo, forse, può diventare un verbo di grande rilevanza oggi, quando invece i messaggi, se messaggi sono, vengono urlati, imposti, lanciati come bombe. Più «urlati» sono, più like ricevono, più visualizzazioni contano, più «veri» appaiono per chi li riceve. Senza lasciare spazio per la riflessione, l’approfondimento e il confronto.
Sussurrare diventa anche una sfida per quei politici che lanciano slogan per dire tutto e il contrario di tutto con l’occhio agli indici di ascolto e ai consensi elettorali. È una provocazione per i grandi della terra che pensano di comunicare con quindici metri di tavolo tra loro o di conquistare il mondo a suon di cannonate.

Papa Francesco, quando parla di una «Chiesa in uscita», dimostra di avere a cuore la sfida del «sussurrare il Vangelo». Non più una chiesa di potere, ma una «famiglia». Una vera «parrocchia» (che etimologicamente vuol dire «vicinato»), cioè comunità di vicini, i quali si parlano, si ascoltano, si incontrano, hanno cura gli uni degli altri e dell’ambiente. Persone che reagiscono al terribile anonimato della nostra società che mette gli uni contro gli altri nello stesso palazzo, che isola le famiglie, che proibisce ai bambini di giocare nel cortile – se mai c’è – e costringe a far festa con amici e famigliari nei ristoranti o nei centri commerciali, perché l’appartamento è troppo piccolo per accogliere tutti e, soprattutto, si rischia di disturbare. Una società che non permette più nemmeno di piangere i propri cari nell’intimo della casa, e incoraggia invece ad affidarsi alle efficentissime (e falsamente personalizzate) «case del commiato» che offrono, tutto incluso, anche il servizio religioso.

La logica del sussurro contesta il rumore, l’esibizione, la pubblicità, la fretta. Ama il silenzio, l’incontro personale. Il sussurro non usa la forza, non fa tappare le orecchie, ma apre il cuore. È vicinanza e rispetto. Non giudica. Sussurrare è come il vento tra le foglie. È esserci senza imporsi, senza mettersi al centro, rispettando i tempi dell’altro, senza pressioni e ricatti.

Il sussurro è il modo con cui Dio ci parla, con una Parola che va al cuore. «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20)».




Bambini al centro


Giugno, per noi mese della Consolata, si caratterizza per avere tre «giornate mondiali» dedicate ai bambini: il 4 giugno, quella dedicata all’infanzia vittima di violenza, il 12 giugno contro il lavoro minorile e il 16 giugno, la giornata che ricorda i bambini africani. Tutto questo nella cornice di altre giornate mondiali significative: per l’ambiente il 5 giugno, per gli oceani l’8 giugno, quella contro la desertificazione il 17 giugno, poi contro la violenza sessuale nei conflitti il 19 giugno, e la giornata mondiale del rifugiato il 20. Temi tutti di drammatica attualità, come dimostra la terribile guerra in Ucraina e il sempre più grave degrado dell’ambiente di cui è segno, per esempio, la siccità che attanaglia il nostro e tanti altri paesi causando una estesa crisi alimentare.

Fin qui, sembrerebbe non esserci niente di nuovo. Ogni giorno, da mesi ormai, prima per la pandemia, ora per la guerra, siamo martellati da così tante brutte notizie che il dramma dei bambini abusati e sfruttatti passa in secondo piano. Ma non possiamo accettare di vedere solo quanto è lo show del momento. Occorre reagire e rileggere la realtà con occhi nuovi e ascoltarla «con l’orecchio del cuore», come ci diceva papa Francesco per la giornata delle comunicazioni sociali.

Oggi si parla molto di bambini, ma si cerca davvero il loro «bene essere»? Faccio alcuni esempi di realtà che mi interrogano o lasciano perplesso: la polemica sull’utero in affitto da rendere illegale a livello mondiale; le reazioni caustiche contro chi si è permesso di stanziare fondi pubblici per evitare che delle donne siano costrette ad abortire. L’accettazione passiva della denatalità che colpisce drasticamente il nostro paese e la riluttanza della nostra classe dirigente a varare una vera politica di sostegno alle famiglie. Che dire delle polemiche sul doppio cognome e sulla registrazione dei figli di coppie dello stesso sesso? E dell’attaccamento morboso a cani e gatti, trattati come bambini, spesso senza accettarne la vera natura di animali con i loro ritmi e anche la loro libertà? Esempi discutibili, naturalmente, ma dov’è l’interesse e l’amore vero per i bambini?

Due delle giornate che celebriamo questo mese, si focalizzano su due aspetti importanti della vita dei bambini di tutto il mondo: la violenza e lo sfruttamento nel lavoro. Avrei voluto far scrivere questo editoriale a padre Ramón Lázaro che in Messico, ogni giorno, ha a che fare con la violenza sui piccoli: dall’abuso sessuale all’abbandono, dall’uccisione di uno dei genitori all’asservimento lavorativo, dalla mancanza di educazione scolastica alla carenza di cure sanitarie, dai matrimoni combinati in tenera età alla pedofilia. Pesanti i dati sulla diffusione e degenerazione si quest’ultima offerti dall’Associazione Meter Onlus di don Fortunato Di Noto, una depravazione in crescita sui social – sempre più estesa anche agli adolescenti – che travolge anche bambini nei primi anni di vita, abusati perfino dai loro stessi genitori.

Assieme a padre Ramón, molti gli altri missionari e missionarie danno la vita per offrire nuova dignità e amore ai bambini. Penso ad esempio a fratel Domenico Bugatti, 75enne, tornato al centro Gajien per i bambini a Isiro, nel Nord del Congo Rd, zona nella quale i bambini sono usati nelle miniere di coltan e altri minerali, controllate da bande armate in combutta con faccendieri senza scrupoli. Penso al coraggio di padre Franco Sordella nel ricostruire la Faraja house (la casa della Consolazione) in Tanzania, dove non gli mancano certo gli ospiti (vedi a pag. 5). Non posso dimenticare la Familia ya ufariji di Nairobi, dove dal 1994 si accolgono ragazzi di strada. E l’impegno di questi mesi dei nostri confratelli in Polonia per i profughi dell’Ucraina, tra cui tantissimi bambini. Diciamo grazie a questi missionari e ai tanti altri che, senza rumore, stanno facendo meraviglie di amore.

Non c’è niente di più bello al mondo che restituire il sorriso a un bambino e fargli sperimentare la bellezza di essere amato davvero. Non potrò mai dimenticare il sorriso di quella bimba di Loyangallani, in Kenya, quando d’impeto è riuscita a leggere una parola nuova sulla lavagna nella sua classe di esclusi dalla scuola regolare. Apparentemente una cosa da niente, ma per lei era un segno di riscatto e la promessa di una nuova dignità, senza dover essere data sposa a soli dodici anni.

La violenza sui piccoli e lo sfruttamento dei bambini sono purtroppo una realtà drammatica, alimentata anche dal nostro stile di vita, dalla smaterializzazione dei fatti operata dai social, per cui tutto, anche la sofferenza, diventa spettacolo. Le giornate che andremo a celebrare non sono la soluzione a questi problemi, ma certamente diventano l’occasione per conoscere, approfondire, riflettere e vincere la nostra apatia e indifferenza cambiando mentalità e mettendoci all’opera.

Gigi Anataloni