La persona umana: cuore della pace

Primo gennaio 2007: 40ma Giornata mondiale della pace

F u Paolo VI, 40 anni fa, a «lanciare l’idea» di una «Giornata della
pace», da «celebrarsi alle calende di ogni nuovo anno» (1° gennaio).
Con un messaggio chiamava cristiani e «mondo civile» a riflettere e
impegnarsi nella costruzione di una «pace vera, giusta ed equilibrata,
nel riconoscimento sincero dei diritti della persona umana»; una pace
che «non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della
vita, ma proclama i più alti e universali valori della vita: la verità,
la giustizia, la libertà, l’amore».
Anno dopo anno, siamo giunti alla 40a Giornata Mondiale della Pace, che
ha come tema: Persona umana, cuore della pace. «Sono convinto – afferma
papa Benedetto xvi nel suo messaggio per tale celebrazione – che
rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si
pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale. È così che si
prepara un futuro sereno per le nuove generazioni».
Tale dignità, continua il papa, è dono di Dio, che ha creato
l’uomo  a sua immagine e somiglianza (Gen 1, 26-27), ed è compito
al tempo stesso, che chiama «l’essere umano a maturare se stesso nella
capacità d’amore e far progredire il mondo, rinnovandolo nella
giustizia e nella pace. Con un’efficace sintesi sant’Agostino insegna:
“Dio, che ci ha creati senza di noi, non ha voluto salvarci senza di
noi”». Dalla consapevolezza di tale trascendenza deriva che «anche la
pace è insieme un dono e un compito. La pace, infatti, è una
caratteristica dell’agire divino, che si manifesta sia nella creazione
di un universo ordinato e armonioso come pure nella redenzione
dell’umanità bisognosa di essere recuperata dal disordine del
peccato… La pace è anche un compito che impegna ciascuno a una
risposta personale coerente col piano divino», poiché nella coscienza
della persona umana sono scritte «l’insieme di regole dell’agire
individuale e del reciproco rapportarsi delle persone secondo giustizia
e solidarietà».
Molti i temi toccati nel documento, in cui si evidenzia la stretta
relazione tra la persona umana e la promozione della pace; temi seguiti
da relativi richiami e denunce. Prima di tutto il diritto alla vita, in
cui viene denunciato «lo scempio che di essa si fa nella nostra
società: accanto alle vittime dei conflitti armati, terrorismo e
svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate da
fame, aborto, sperimentazione sugli embrioni ed eutanasia». A riguardo
della libertà religiosa viene lamentato come in molte parti del mondo i
cristiani siano perseguitati o dileggiati.
Un seconto tema riguarda l’affermazione «dell’uguaglianza di natura di
tutte le persone», denunciando «da una parte le disuguaglianze
nell’accesso a beni essenziali, come cibo, acqua,  casa, salute;
dall’altra, le persistenti disuguaglianze tra uomo e donna
nell’esercizio dei diritti umani fondamentali».
La seconda parte introduce un concetto innovativo:  l’«ecologia
della pace». «Chi ha a cuore la pace deve tenere sempre più presenti le
connessioni tra l’ecologia naturale, ossia il rispetto della natura, e
l’ecologia umana su cui organizzare la società», afferma il papa,
facendo riferimento anche al problema dell’energia e dei rifoimenti
energetici, con uno sguardo speciale ai paesi in via di sviluppo o
sottosviluppo. 
Nel 2007 ricorre pure il 40° anniversario dell’enciclica Populorum
progressio, un documento di Paolo vi più attuale che mai. Per questo,
lo abbiamo scelto come guida del nostro calendario: «365 giorni con
l’enciclica Populorum progressio». Ogni mese troveremo una delle
affermazioni più significative, che ci stimolano a camminare sulla via
della promozione dello «sviluppo integrale di ogni persona, di tutta la
persona e di tutti i popoli», poiché, come afferma un’espressione
finale della stessa enciclica, con un motto che ha valore: «Lo sviluppo
è il nuovo nome della pace».
«Se in questi 40 anni l’insegnamento della Populorum progressio, tanto
profetico, fosse stato ascoltato, non saremmo nella situazione attuale
del mondo» afferma il cardinal Poupard.
Non perdiamo altro tempo.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




LA BABY SITTER DELL’HONDURAS

Scivolata lungo i telegiornali della sera della scorsa estate, una notizia si è imposta proprio per il suo carattere singolare. Una baby sitter hondureña, in Italia senza documenti, quindi impiegata in nero, è annegata sul litorale dell’Argentario per salvare una bambina di 11 anni che le era stata affidata dalla famiglia e con la quale stava facendo il bagno nel Tirreno.
Iris Noelia Palacios Cruz, come milioni di altre persone alla ricerca di un lavoro onesto, era approdata nel nostro paese per dare un futuro di speranza alle sue grame condizioni di vita; insieme a lei c’era la sua famiglia; tutti avevano lasciato la misera realtà del Centro America per cercare uno spazio migliore nell’opulenta Europa. Ma in Italia si è incontrata con un tragico destino, lei latinoamericana ventisettenne, ha offerto la sua vita per salvare una bambina undicenne che i genitori avevano affidato alle sue cure. Questo tragico fatto fa il paio con quello accaduto l’anno scorso, dove un altro extracomunitario era annegato per salvare la vita a un cittadino italiano che stava per affogare.
Vogliamo sottolineare questi gesti, perché essi vanno nella direzione opposta a quella che una certa opinione pubblica del nostro paese tende sempre più a considerare, attraverso una frase semplificatoria, extracomunitario uguale delinquente. Ci sono degli esponenti politici di spicco che non hanno nessuna remora nel ripetere questo stantio ritornello, alimentando così un brodo di coltura razzista che lentamente, ma inesorabilmente, s’insinua nel modo di pensare generale.
Il problema vero è che l’industria e l’agricoltura del nostro paese, come di tutti gli altri paesi sviluppati, hanno bisogno di braccia per poter andare avanti, ma insieme alle braccia, arrivano le teste che pensano, che ragionano, arrivano uomini e donne che vogliono vivere, amare, lottare, per dare un futuro più dignitoso ai loro figli. L’emigrazione come tutti i fenomeni sociali complessi, porta con sé il meglio delle realtà da cui prende avvio, sia nel bene come nel male, del resto questo fenomeno è accaduto, neanche tanto tempo fa, all’emigrazione italiana approdata nelle Americhe, il gangster Al Capone e il detective Fiorello La Guardia, al cui nome è dedicato uno degli aeroporti di New York, erano figli della stessa terra e germinavano dallo stesso humus italico; solo che uno divenne un delinquente, l’altro uno dei più brillanti poliziotti di tutti gli Stati Uniti.
Lo stesso si può dire per l’immigrazione che arriva in Italia, ci sono uomini e donne che attratti da un guadagno facile non esitano a delinquere, e ci sono altri, che noi crediamo la maggioranza, che rimboccandosi le maniche percorrono l’amaro cammino dell’integrazione in un paese che non è il loro, dando il meglio di se stessi.

S e la punta dell’iceberg rappresentata dal sacrificio della vita, come nel caso della baby sitter hondureña, può essere ancora un caso sporadico, non lo è certamente quell’impegno positivo che tanti extracomunitari profondono nel tessuto sociale della nostra realtà: conosciamo molti immigrati che fanno del volontariato a beneficio di enti e associazioni, che se dovessero appoggiarsi esclusivamente sulle forze nostrane potrebbero chiudere già domani mattina.
Il cammino dell’integrazione tra uomini e donne provenienti da popoli con cultura, sensibilità e religioni diverse, non è né semplice né facile; necessita da parte di tutti di un’attenzione costante e particolare; il brandire lo spauracchio dell’immigrazione clandestina, il presentare dei poveri cristi del Terzo Mondo come dei «bingo bongo» trogloditi, da respingere con tutti i mezzi leciti e illeciti, ci sembra sia una demenzialità tanto quanto il tasso di intelligenza di coloro che esprimono simili concetti!
Il lavoro da fare per creare una società multietnica e multiculturale è lungo e faticoso. A questo compito nessuno può sottrarsi, meno che meno la comunità cristiana: un auspicio questo che è molto di più di un semplice desiderio.

Mario Bandera




Al di là dei muri

C’ era una volta un muro, anzi «il muro». Sagomato nel cuore dell’Europa, parte integrante del panorama internazionale della guerra fredda, era il «muro della vergogna» il muro della «cortina di ferro», il muro di Berlino. Sotto certi versi era rassicurante: di qua c’erano i buoni e di là i cattivi, da una parte libero mercato e libertà, dall’altra dittatura e socialismo di stato… Poi nel novembre del 1989 quel muro è caduto e ci siamo sentiti tutti più sollevati, finalmente non c’erano più muri che dividevano il mondo.
Passata la sbornia di discorsi inneggianti alla tale caduta, eccoci a fare i conti con altri muri, che spuntano in varie parti del mondo, senza che nessuno dica niente. È vero che ogni tanto salta fuori qualche articolo o vignetta, che mette alla berlina il muro che in Terra Santa divide gli israeliani dai palestinesi; un’autentica vergogna, che però resta isolata nei commenti della stampa di casa nostra. Nessuno si sogna di mettere in evidenza come gli Stati Uniti, sempre pronti a esportare il loro sistema di vita, stanno erigendo un muro che separerà di netto l’America Wasp (White Anglo Saxon Protestant) dalla meticcia America Latina e dall’invadenza creola. Eppure si tratta di un’opera che arriverà a coprire quasi l’intero confine terrestre con il Messico; sarà lungo circa 3.300 km; verrà dotata di sofisticati sistemi elettronici, cellule fotoelettriche, cavalli di frisia e opportuni fossati in luoghi strategici, per scoraggiare l’immigrazione latinoamericana.
Nel silenzio generale, l’India sta erigendo due muri: uno separerà la sua frontiera sul fronte caldo del Kashmir, conteso allo storico rivale Pakistan; l’altro demarcherà il confine con il Bangladesh. Il Marocco da anni sta erigendo una barriera che perpetuerà l’occupazione del Sahara Occidentale, alla faccia delle prese di posizione dell’Onu sulla legittima sovranità del popolo saharawi. Sempre in Africa, con i soldi della Comunità europea, la Spagna sta fortificando le enclaves di Ceuta e Melilla con muri, reticolati di filo spinato e quant’altro, dato che a Bruxelles esse sono viste come la porta di servizio in cui i disperati del continente nero s’infiltrano nella vecchia Europa. E per restare nel contesto europeo, l’ultimo stato annesso all’UE, l’isola di Cipro, si è portato in dote un muro che la taglia in due, separando la comunità greca da quella turca, alla faccia dell’integrazione dei popoli. E che dire del muro di Belfast, nell’Irlanda del Nord, che separa i quartieri cattolici da quelli protestanti? Anch’esso ormai fa parte del paesaggio della verde Irlanda e più nessuno ci fa caso. Inoltre, vale la pena di ricordare che, a casa nostra, solo qualche anno fa fu abbattuto il muro che separava Gorizia da Nova Gorica.
Se poi consideriamo quello che, più di un muro, è una vera e propria barriera, eredità avvelenata della guerra fredda che taglia in due la Corea del Nord dalla Corea del Sud, ci rendiamo conto che anche di questa divisione si parla poco e, purtroppo, tale forma di separazione tra realtà omogenee fa scuola all’interno di generali prospettive politiche, tendenti sempre più a escludere che accogliere. Così l’Arabia Saudita, ritenuto paese arabo moderato, sta erigendo un muro nel deserto, che marchi la distanza e la differenza dal confinante Yemen, visto come uno stato dove prosperano bande di predoni beduini da cui difendersi. In Sudafrica, abbattuto il regime dell’apartheid, sono tutt’ora presenti nell’urbanistica di Soweto i muri e barriere di filo spinato che delimitavano l’area riservata alla gente di colore. In altre parti del mondo, altri muri sorgono in maniera surrettizia, come quelli nella ex-Jugoslavia tra Serbia, Croazia, Kossovo, Albania.

U no sguardo al passato aiuta a capire come l’ansia di erigere muri non sia tipica dei tempi nostri. I romani tagliarono in due la Britannia con il Vallo di Adriano; l’impero cinese eresse la Grande Muraglia; i francesi la linea Maginot; mura e fortezze medioevali ci rammentano, insieme ai ghetti, come l’erigere muri non sia servito molto a difendersi dai barbari, come pure il rinchiudere gli ebrei in quartieri distinti da quelli cristiani non ha aiutato a trovare punti d’incontro per favorire l’integrazione reciproca.
Oggi accanto a questi muri, ce ne sono altri più subdoli e pericolosi. La scarsa conoscenza degli altri porta a erigere muri interiori di fronte alla presenza di uomini e donne che arrivano da altri paesi e che stanno delineando una società sempre più multiculturale. Cadute le ideologie, ci si è affrettati a creare l’ideologia dello scontro di civiltà tra Occidente e islam, alimentando ansie e paure nell’opinione pubblica, che sono l’autentico brodo di coltura per i germi del più bieco razzismo nostrano. A fronte di queste considerazioni cresce e si fa strada più forte che mai nelle persone di buona volontà il desiderio di un più forte impegno, affinché non sorgano altri muri e si abbattano quelli esistenti; è utopia tutto questo? Noi crediamo di no e, come al suono delle trombe bibliche caddero le mura di Gerico, a maggior ragione crediamo che alla fine anche queste crolleranno.

Mario Bandera




Tibhirine: 10 anni dopo

Nel mese di maggio 1996, a Tibhirine in Algeria, 7 monaci trappisti venivano uccisi da una banda di integralisti islamici. La loro presenza in terra d’Algeria era da anni contrassegnata da un profondo anelito di preghiera e da una delicata amicizia verso il popolo umile e semplice con cui condividevano la vita di ogni giorno. A 10 anni di distanza, fare memoria di questi martiri cristiani è un dovere essenziale da parte nostra, per evitare che la dimenticanza del loro martirio annacqui il cammino di dialogo aperto da questi silenziosi testimoni del vangelo di Gesù.
Sulla scia del loro sacrificio, altri uomini e donne hanno pagato la fedeltà al messaggio evangelico nel mondo islamico: nello stesso periodo fu ucciso il vescovo di Orano, mons. Pierre Claverie; successivamente la laica italiana Annalena Tonelli veniva assassinata in Somalia nell’ospedale che essa stessa aveva costruito per alleviare le sofferenze della povera gente; ultimo, ancora fresco di memoria, lo scorso febbraio, a Trebisonda in Turchia venne ucciso il sacerdote italiano fidei donum don Andrea Santoro. Solo restando in contemplazione di questi nomi, ci prende un senso di sgomento: a cosa serve la nostra presenza in terra islamica, se il prezzo da pagare è quasi inevitabilmente quello del martirio?
Per una serena e approfondita riflessione su questi avvenimenti, forse vale la pena prendere l’avvio dal precursore del dialogo con il mondo islamico: Charles De Foucauld. In tempi in cui la parola ecumenismo non era ancora stata coniata e il dialogo con altre religioni non aveva ancora fatto i primi passi, con una scelta coraggiosa egli si stabiliva a Tamanrasset, nel cuore del deserto del Sahara, e attraverso una presenza discreta, umile, poco appariscente, dava inizio a un solco di evangelizzazione con i tuareg del deserto di cui solo adesso si cominciano a vedere i primi frutti.

Siamo di fronte a uno stile missionario radicalmente diverso, che per certi versi ci coglie impreparati. Quando si evoca la missione o si parla di terzo mondo, immaginiamo quasi sempre la povera gente che bisogna aiutare, offrendo quelle strutture (scuole, ospedali, servizi sociali, ecc.) di cui a nostro avviso avrebbero bisogno per uscire dalla loro povertà. Non ci sfiora minimamente il dubbio che il primo approccio con gente diversa per lingua e cultura vada fatto secondo lo stile indicato proprio da questi testimoni, con una presenza nel cuore del vissuto delle persone, discreta e silenziosa, caratterizzata da un intenso e fecondo dialogo con Dio.
Già i contemporanei di Charles De Foucauld percepirono il nuovo stile di dialogo, quello, cioè, di un uomo profondamente innamorato del suo Dio, tale da doverlo contemplare di fronte all’immensità del deserto, nel cuore di un popolo che, apprezzandone la discrezione, non esitò a qualificarlo come «marabutto», cioè santo. Nella stessa scia si sono mossi i trappisti di Tibhirine, Annalena Tonelli e don Andrea Santoro: essi hanno indicato a una cristianità sonnolenta e distratta quale sia il futuro che attende un cristianesimo sempre più minoranza, senza più garanzie foite da una società cristiana e quindi intraprendere un itinerario di ascesi e dialogo, dove l’essenzialità del messaggio evangelico rifulga proprio attraverso l’adesione alla vita di Cristo.
Poco prima di morire, fratel Christian scriveva: «L’insicurezza? È una grazia di fede. La più scomoda per chi pensa solo a dormire. La più adatta alla vigilanza… A Cristo è stato proposto di scegliere tra due stabilità: il trono o la croce. Ha scelto la croce: ne ha fatto il suo trono, lo sgabello del suo regno. Purtroppo nel corso della storia, la chiesa ha spesso preferito il trono. Soprattutto dopo che l’editto di Costantino ha reso la croce più diffusa e il trono più complice». Queste parole vergate da un martire dei nostri tempi, non sono solo un monito per ogni cristiano, ma indicano una strada ai fratelli e sorelle nella fede, essere battezzati è una cosa seria e scegliere di vivere in pienezza il proprio cristianesimo, può avere come conseguenza anche il martirio.
Riscoprire queste ricchezze perdute, ci aiuta a essere grati a quella folta schiera di testimoni di ogni lingua, razza, popolo e nazione, che hanno versato il loro sangue per l’attaccamento al vangelo di Cristo e per la fedeltà all’uomo di ogni tempo. Cercando di rendere il nostro cristianesimo più comodo, lasciandoci attrarre dal potente di tuo nel suo palazzo, ricercando privilegi e esenzioni, alla lunga può essere più pericoloso e più deleterio per una sincera, onesta e corretta vita cristiana. Lasciarci condurre per mano da questi testimoni, sulle strade aspre e difficili del dialogo, può essere davvero un modo nuovo per vivere la nostra fede.

Mario Bandera




1967-2007, l’attualità della Populorum Progressio

Fa un certo effetto rileggere oggi, a quarant’anni di distanza, l’enciclica Populorum progressio, promulgata da Paolo vi il 26 marzo, domenica di pasqua, del 1967. Essa rappresenta uno dei vertici più alti del magistero della chiesa, per certi versi segna uno spartiacque nel cammino della pastorale universale.
Lo sviluppo integrale dell’uomo, inserito nel più vasto sviluppo dell’umanità, viene indicato da papa Montini come via privilegiata verso la crescita della grande famiglia dei popoli e delle nazioni che abitano la terra e, in modo più specifico, vengono indicati i cammini da percorrere, per costruire questa nuova prospettiva internazionale. Il sollecito papale viene rivolto indistintamente sia alle ricche e opulente nazioni dell’Occidente come alle nazioni appena affrancate dal colonialismo, unitamente ad altre, imbrigliate dai legacci del sottosviluppo: tutte vengono indicate da Paolo vi come artefici di un nuovo cammino, in grado di cambiare il corso della storia.
Lo sviluppo è il vero nome della pace, recita il leit motiv, continuamente ripetuto dall’enciclica; ma accanto a questa felice espressione non mancano indicazioni concretissime perché questo principio, apparentemente astratto e irraggiungibile, si concretizzi nella vita dei cattolici e, più in generale, degli uomini di buona volontà. Paolo vi, difatti, lancia un appello alle coscienze degli abitanti dell’opulento mondo occidentale, che ci sembra opportuno ricordare. Dice papa Montini al numero 47: «È l’uomo (del Primo Mondo) pronto a sostenere col suo denaro le opere e le missioni organizzate in favore dei più poveri? A sopportare maggiori imposizioni affinché i poteri pubblici siano messi in grado di intensificare il loro sforzo per lo sviluppo? A pagare più cari i prodotti importati onde permettere una più giusta remunerazione per il produttore? A lasciare, ove fosse necessario, il proprio paese, se è giovane, per aiutare questa crescita delle giovani nazioni?».

S ono interrogativi di un’attualità sconvolgente, soprattutto se si tiene conto che a tutt’oggi si centellinano gli aiuti destinati allo sviluppo dei paesi poveri. I grandi della terra nei periodici incontri dei vari G7 e G8 (l’ultimo è stato in Germania lo scorso giugno ) si riempiono la bocca con affermazioni solenni di solidarietà verso i paesi emergenti, mentre poi, nel concreto della real-politik dei loro interessi, questi stessi capi di stato chiudono i cordoni della borsa.
A volte assistiamo, scoraggiati, alle uscite estemporanee di una certa classe politica nostrana, in cui si afferma che il non pagare le tasse non è proprio un delitto, anzi è consigliabile a chi vuole arricchirsi; così pure le politiche protezionistiche messe in atto per tutelare i prodotti del Primo Mondo, sono la vera causa dell’impossibilità di tante nazioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, di poter competere ad armi pari sul libero mercato internazionale.
Ultimo, il fatto di veder sempre più diminuire la propensione a un impegno di vita al servizio dei fratelli e sorelle più poveri la dice lunga su quanto il liberismo sfrenato sia entrato ormai nell’orizzonte di vita di molti giovani. Come si vede, sono appelli alla coscienza che diventano interrogativi stimolanti ancora oggi: rileggere la Populorum progressio, ma soprattutto per tradurla in scelte concrete di vita, ci sembra un cammino più che mai attuale da percorrere.

Mario Bandera

Mario Bandera




«Forgiare le lance in falci e le spade in vomeri»

Lo stillicidio delle notizie e delle immagini televisive dei militari italiani caduti in Afghanistan ed in Iraq, hanno riempito i notiziari radiotelevisivi ed i giornali di questi giorni. I volti dei familiari, le lacrime strazianti delle persone care che accolgono i loro morti, il vecchio presidente che appoggia le mani sulle bare coperte dal tricolore, non possono lasciarci indifferenti. Di fronte alla morte ci si raccoglie in silenzio ed in preghiera.
Con la mente riandiamo ad altre scene simili avvenute in un recente passato, con altri giovani riportati a casa nelle bare coperte dal tricolore; e mentre a ogni morte subentra quasi un sentimento di assuefazione, non possiamo fare a meno di interrogarci sul perché di queste morti.
Nel Discorso della Montagna (Matteo cap. 5) vengono chiamati beati coloro che costruiscono la pace, perché come dice il testo, saranno chiamati figli di Dio. Costruire la pace, quindi, è vivere la figliolanza del Padre; operare per costruire la frateità degli uomini è molto di più che enunciare fredde dottrine.
Ogni anno il 24 di marzo, anniversario dell’assassinio di mons. Oscar Romero, la grande famiglia missionaria fa memoria di coloro che, in diversi paesi del mondo, impegnati in un lavoro di promozione umana e di evangelizzazione, pagano con la vita la loro fedeltà agli ideali proposti dal vangelo. Scriveva padre Christian Marie de Chergè, priore della Comunità trappista di Tibhirine, in Algeria, massacrato insieme ai suoi confratelli 10 anni fa, presagendo la tragica fine che l’aspettava: «Se mi capitasse un giorno di essere vittima del terrorismo…, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita, non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale… Allora potrò, a Dio piacendo, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla Gloria di Cristo… E anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quello che facevi; si, anche per te voglio dire questo grazie e questo “ad-Dio”. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni, beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro di tutti e due. Amen! Insciallah». Queste parole illuminano meglio di qualunque altro discorso quanto sia fondamentale per chi crede nel vangelo di Gesù, saper donare la propria vita per costruire un mondo di giustizia, di libertà e di pace.

Ma gli interrogativi restano e si fanno brucianti di fronte al prezzo di vite umane sacrificate sull’altare di una politica, il più delle volte al servizio di potentati e interessi economici estranei alla vita di ogni giorno. Come mai siamo in terre così lontane per contrastare tiranni e dittatori, mentre manteniamo ottime relazioni con altri personaggi che da tanti anni tiranneggiano i loro paesi? Come mai ad alcuni paesi non vendiamo armi perché calpestano i diritti umani e ad altri che fanno esattamente le stesse cose, li rifoiamo delle più sofisticate tecnologie belliche, come fu fatto con i talebani afghani e Saddam Hussein? Come mai per chi è impegnato in «discutibili azioni di pace» gode di una considerevole reputazione, mentre altri volontari e operatori laici, giornalisti, operatori umanitari come lo sono i missionari italiani, vengono giudicati improvvide e incaute presenze in regioni instabili e poco sicure?
La mente è confusa di fronte a certi avvenimenti e davanti a delle bare che racchiudono giovani ragazzi morti, perché anche loro credevano di andare a portare pace, lo sgomento ci assale e ci sembra persino doveroso sognare un mondo di pace, dove non ci sia più la guerra, perché come afferma il Nuovo Catechismo degli adulti della Cei (pagg. 493/494): «La guerra è il mezzo più barbaro e più inefficace per risolvere i conflitti. Il mondo civile dovrebbe bandirla totalmente e sostituirla con il ricorso ad altri mezzi, come la trattativa e l’arbitrato internazionale. Si dovrebbe togliere ai singoli stati il diritto di farsi giustizia da soli con la forza, come già è stato fatto ai cittadini… Appare sempre più urgente promuovere nell’opinione pubblica il ricorso a forme di difesa nonviolenta. Ugualmente meritano sostegno le proposte tendenti a cambiare struttura e formazione dell’esercito per assimilarlo ad un corpo di polizia internazionale».
Commissione Giustizia e Pace, Diocesi di Novara e Vercelli

Commisione giustizia e pace




La terra a rischio siccità e desertificazione

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 2006 «Anno Internazionale dei deserti e della lotta alla desertificazione». Gli autorevoli rappresentanti di tutti gli stati presenti all’Onu sono giunti a questa considerazione, consapevoli del fatto che ormai quasi il 40% della superficie del pianeta è a rischio siccità e che irreversibili processi di desertificazione nel mondo, uniti a una continua diminuzione della portata d’acqua dei grandi fiumi, sta portando la terra verso una soglia critica, da cui difficilmente si potrà far ritorno. Varrà inoltre la pena di ricordare che il problema acqua sta diventando uno degli aspetti più preoccupanti per le generazioni future. Non è un caso che nel mondo, già adesso, siano in atto diverse guerre per il controllo delle risorse idriche: oltre al problema dell’«oro nero», sta prendendo piede il problema dell’«oro blu» (*).
Nei paesi poveri, afflitti da aree toccate dalla siccità, la situazione si va sempre più deteriorando. Un argine alla desertificazione viene significativamente dal lavoro delle donne: sono loro nei paesi in via di sviluppo a fornire buona parte della mano d’opera in agricoltura, che serve a fermare l’avanzata della desertificazione; varrà la pena di segnalare che là dove anche ai più poveri viene offerta la possibilità di accedere al mini credito, nascono le opportunità, non solo per acquistare la terra da cui ricavare il necessario per vivere, ma anche, attraverso il loro lavoro, trasformare il clima e l’ambiente stesso.
Contribuire quindi a dare opportunità di sviluppo e creare le condizioni perché le donne possano accedere a una istruzione sempre più incisiva, significa dare la possibilità a questa gente di camminare con le proprie gambe e diventare protagonisti del loro futuro.

Ma un tema come il deserto (questa volta inteso nella sua accezione più conosciuta) ci offre l’occasione di avvicinarci e gustare quella spiritualità che nasce proprio da un’ambiente così difficile e ostile. Nella scrittura la traversata del deserto, conduce Israele verso la Terra promessa; è nel deserto che ci sono le prove e le tentazioni ed è nel deserto che vengono superate; è nel deserto che Dio parla al suo popolo e al cuore dell’uomo, ed è nel deserto che si affina il colloquio e il dialogo tra la persona e il suo Creatore. Chi non ricorda la grande tradizione di spiritualità che ci viene dai padri del deserto dei primi secoli della chiesa, con il loro umorismo sottile e tagliente anche per l’uomo d’oggi. E per restare ai nostri giorni, come non ricordare l’apostolo del deserto, Charles De Foucauld, che proprio in un angolo sperduto del Sahara indicò la strategia ecumenica per avvicinare popoli e religioni diverse, una strategia basata più sulla testimonianza personale che su documenti e prese di posizione radicali.
L’opportunità che ci offre questo anno dedicato al deserto, può essere quindi sfruttata in questa duplice occasione: riscoprire quel tenero colloquio tra l’uomo e Dio, che avviene solo laddove l’ambiente stimola la contemplazione, e nel contempo leggere la carta geografica per capire quali impegni assumere per evitare il degrado di questo nostro splendido pianeta.

Mario Bandera

Mario Bandera




Occhio e tieni d’occhio

Nei mesi scorsi la Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana) ha lanciato l’iniziativa «Notizie, non gossip», con l’obiettivo di raccogliere e incanalare, con una proposta positiva, la profonda insoddisfazione, diffusa nel mondo missionario e in larghi strati dell’opinione pubblica italiana, per come l’informazione televisiva tratta i temi legati al Sud del mondo. In modo particolare l’attenzione si appunta sulla Rai: non perché la sua offerta informativa sia peggiore di quella delle tv commerciali, ma per il fatto che al servizio pubblico il cittadino – che paga il canone – ha diritto a chiedere di più e meglio. Di qui è nata, nel novembre scorso, l’idea di un editoriale comune, apparso sul numero di gennaio o febbraio delle riviste aderenti. Il 24 gennaio scorso l’editoriale è stato diffuso alle agenzie e ai media, che l’hanno rilanciato in modo significativo. L’appello ha avuto buona accoglienza su varie testate.
L’iniziativa Fesmi si inseriva sulla scia di un impegno avviato da tre riviste (Nigrizia, Missione oggi e Mosaico di Pace) che, assieme ai rappresentanti della Tavola della pace (e, in un secondo tempo, di Usigrai e Fnsi), nei mesi scorsi avevano esercitato una sorta di pressing sulla Rai, nella persona del direttore generale, Alfredo Meocci, chiedendo che la Tv di stato aprisse una sede in Africa.
All’indomani del lancio dell’editoriale, in un incontro con alcuni direttori di riviste missionarie, lo stesso Meocci annunciava la prossima apertura di una sede Rai a Nairobi, in Kenya. Il CdA della Rai ha inoltre deciso di aprire una sede anche in India, a Nuova Delhi. Il corrispondente designato per l’India è Agostino Mauriello (Tg2), quello per l’Africa è Enzo Nucci (Tg3). Tali decisioni non vanno messe in relazione – sic et simpliciter – al «polverone» suscitato dalla Fesmi. Resta il fatto che qualcosa si muove, nella direzione, da noi auspicata, di un miglioramento del servizio.

Come impegno concreto, un nuovo passo sulla via di una diversa informazione, la Fesmi propone ai lettori delle riviste associate di focalizzare la propria attenzione sull’area dei Grandi Laghi (Rd Congo, Rwanda, Burundi e Uganda). Il Congo si appresta a vivere una stagione importante (a giugno si terranno le prime elezioni democratiche dopo 40 anni).
L’appello che rivolgiamo ai lettori è duplice:
• informarsi su quanto sta avvenendo in quell’area;
• «monitorare» come i media (in particolar modo la Rai) daranno conto degli eventi in Congo e dintorni da qui all’estate.
Perché tutto questo abbia un impatto anche all’esterno, chiediamo ai lettori che condividono il senso dell’iniziativa di aderirvi apponendo la propria firma nello spazio apposito e inviando copia alla segreteria della rivista corrispondente (oppure compilando il modulo in internet).
Le adesioni raccolte saranno la prova che nel paese c’è una diffusa domanda di informazione di qualità, nel segno del rispetto dei popoli, delle culture, della dignità integrale della persona.

FESMI




RAI: «DI TUTTO, DI PIÙ»?

«Pronto? Pronto? Sono un lettore di Missioni Consolata. Voglio aderire alla vostra campagna “Rai: dateci notizie, non gossip!”. Cosa devo fare? Avete le cartoline già confezionate o possiamo usae altre normali? A che indirizzo dobbiamo spedirle?».
Telefonate del genere ne abbiamo ricevute molte, in seguito alla pubblicazione nel numero di gennaio della nostra rivista dell’editoriale della Federazione della stampa missionaria italiana (Fesmi) dal titolo provocatorio: «TG Rai: dateci notizie non gossip!». Identiche richieste ci sono pervenute via e-mail. Qualcuno ha spedito direttamente alla nostra redazione cartoline e fotocopie dei versamenti per l’abbonamento Rai con la scritta suggerita. Senza contare le adesioni pervenute attraverso il nostro sito www.missioniconsolataonlus.it. A tali richieste abbiamo risposto che avremmo chiarito, in un seguente editoriale, i dettagli della campagna avviata dalla Fesmi.
Prima di tutto ringraziamo i nostri lettori per la loro sollecita adesione a tale campagna, anche se presentata con una mancanza di chiarezza. E di questo ci scusiamo. L’inconveniente è dovuto a un eccesso di zelo da parte nostra. Pensavamo che l’editoriale pervenutoci all’inizio di dicembre fosse definitivo. Nel frattempo, però, sono avvenuti altri fatti: la direzione della Rai ha chiesto un incontro con la direzione della Fesmi e alcuni enti hanno chiesto di partecipare alla campagna. Ciò ha consigliato la direzione della Fesmi di tramandare la pubblicazione dell’editoriale a febbraio, come hanno fatto le altre riviste missionarie, di sospendere la raccolta di cartoline e la spedizione dei riscontri del versamento per l’abbonamento Rai, dato che con la fine di gennaio scadeva la data utile per tale pagamento. Delle decisioni scaturite dall’incontro con la direzione della Rai e dell’adesione di altri enti daremo conto nel prossimo numero della nostra rivista.

I ntanto la mobilitazione continua. Le adesioni inviate dai nostri lettori le conserviamo tutte e le utilizzeremo al momento opportuno. Al tempo stesso chiediamo a tutti di non abbassare la guardia e di continuare a sostenerci nella nostra campagna di sensibilizzazione.
In fondo non chiediamo la luna, ma semplicemente quello che tutti gli utenti della Rai si aspettano da un servizio pubblico: un’informazione corretta, partecipe, rispettosa sul Sud del mondo. Chiediamo maggiore attenzione ai popoli, alle culture extraeuropee, abbandonando un certo provincialismo che caratterizza i nostri Tg, che non di rado indugiano in argomenti di corto respiro e danno più spazio ai pettegolezzi di casa nostra che agli eventi che capitano nel mondo.
Chiediamo solo che l’informazione televisiva, alla quale la maggioranza degli italiani attinge la propria «visione del mondo», dia conto in maniera meno approssimativa e più veritiera della realtà del Sud che, come mondo missionario, ogni mese raccontiamo sulle nostre pagine. Spesso registriamo un abisso tra il Sud che va in video e quello che ci sforziamo di rappresentare. Vorremmo accorciare questa distanza.
La Federazione della stampa missionaria italiana rappresenta oggi 42 testate, con una tiratura complessiva di oltre 400 mila copie, raggiungendo non meno di 600 mila lettori. Siamo la voce di oltre 12 mila missionarie e missionari italiani sparsi nei vari continenti. Negli anni passati, con il sostegno dei nostri lettori, abbiamo promosso campagne contro la fame nel mondo, la mala-cooperazione, la guerra e il commercio delle armi; ci siamo schierati in difesa della pace, dei diritti alla terra dei popoli indigeni e delle aspirazioni umane dei poveri e degli oppressi…
Anche questa campagna ha bisogno del sostegno dei nostri lettori.

Benedetto Bellesi




Urgenza di agire

I nostri missionari e missionarie che operano nei paesi dell’Africa subsahariana con ospedali, dispensari, orfanotrofi e altre iniziative di sviluppo, continuano a lanciare drammatici appelli per salvare il continente dalla pandemia dell’Hiv/Aids. Parlano di moribondi al ciglio delle strade, di orfani in aumento, di scomparsa di un’intera generazione, soprattutto la classe dirigente e produttiva, di fantasmi ancestrali alla ricerca del colpevole. Siamo di fronte a un dramma che distrugge il tessuto sociale, economico e culturale di interi paesi, già minati da povertà, carestie, malattie, annullando ogni possibilità di costruire un futuro e coinvolgendo nella tragedia l’intera umanità.
Senza contare che l’Aids sta mettendo a rischio il loro lavoro di evangelizzazione e di formazione di comunità cristiane. «Siamo stanchi di procurare bare e impartire benedizioni funebri – dicono -. Ci stiamo impegnando in iniziative di educazione alla prevenzione, di attenzione e cura delle gestanti, perché nascano bambini senza il virus, di lotta contro i pregiudizi, la paura e l’emarginazione».
Tale appello è stato raccolto e concretizzato nel giugno 2004, con la costituzione del comitato «Salute Africa», per volontà degli Istituti dei missionari e missionarie della Consolata, l’ospedale Koelliker, le associazioni Amici Missioni Consolata e Impegnarsi Serve Onlus. Scopo del comitato è lanciare programmi finalizzati alla lotta contro l’Aids, nell’ambito di una Campagna la cui chiusura è prevista per la fine del 2006, ma che potrà essere prolungata, se le condizioni lo richiederanno.
Il 2004 doveva servire a preparare le basi e gli strumenti di tale Campagna; invece si sono già concretizzati alcuni risultati, sia in termini di diffusione, sensibilizzazione e apertura di segreterie in varie regioni d’Italia, sia sotto l’aspetto economico, con la raccolta di fondi che hanno già finanziato diversi progetti.

Una delle più importanti iniziative della Campagna è stato il convegno «Pandemia Aids: Africa chiama Italia», organizzato a Torino il 1° dicembre scorso, giornata mondiale dell’Aids, per far conoscere la malattia dell’Hiv nella sua complessità e gravità, affrontando ed esaminando le variabili di ordine economico, etico, giuridico, sanitario e politico che influiscono sul suo dilagare, e trovare contemporaneamente risposte concrete anche dall’incontro tra esperti africani e italiani, che dedicano la loro professionalità alla lotta contro la diffusione.
In questo numero monografico della rivista Missioni Consolata troverete gli estratti del convegno uniti ad altri documenti, testimonianze, riflessioni e previsioni sull’argomento. Potrete inoltre documentarvi sulle attività già svolte e sulle iniziative in programma della Campagna e su tutti gli strumenti a disposizione per prendee parte in prima persona, ciascuno secondo le proprie possibilità.
Abbiamo parlato delle sciagure che affliggono l’umanità, come le guerre e le nuove schiavitù: di fronte a questo genocidio strisciante, che minaccia l’umanità e, soprattutto, il continente africano, non possiamo tacere, sia come missionari che come cristiani. Anche in coloro che sono colpiti dalla sindrome di immunodeficienza Cristo continua la sua passione, morte e risurrezione: «Ero malato e…». Dipende da noi la capacità di riconoscerlo e servirlo nei nostri fratelli e sorelle colpiti dalla pandemia.

Silvia Perotti