Acqua delle nostre brame: bisogno, ma non diritto

Si è concluso a Istanbul (Turchia), il 22 marzo scorso, il V Forum mondiale sull’acqua, una settimana di lavori a cui hanno preso parte quasi 30 mila congressisti, delegati da governi e istituzioni inteazionali. La speranza di molti era sintonizzata sulla possibilità che, finalmente, si potesse dare una risposta definitiva a uno dei problemi cruciali che investe oggi la comunità internazionale in materia del cosiddetto «oro blu», ovvero, poter definire una volta per tutte l’accesso all’acqua come un diritto fondamentale e inalienabile di ogni essere umano. Mi permetto di commentare una notizia ormai «di archivio» perché, a nome di una rivista che considera la difesa dell’ambiente e la salvaguardia del creato come parte della sua missione, considero grave il fatto che ciò non sia avvenuto.
Ogni essere umano ha diritto, senza discriminazione alcuna, di accedere a una quantità d’acqua potabile, di buona qualità, che sia facilmente raggiungibile dalla propria abitazione ed economicamente accessibile, per potee fare uso personale e domestico. Questo, in sintesi, potrebbe essere il contenuto del diritto invocato. Si tratta, umanamente parlando, di una pretesa scontata e universalmente condivisibile, che assumerebbe ben altra valenza se le venisse concesso lo status di diritto. Senz’acqua si muore, con poca acqua malsana non si va molto più in là. Purtroppo, invece, l’economico e il politico perdono sovente le tracce dell’umano.

Definendo l’acqua come un bisogno fondamentale dell’umanità, e non come un diritto, si è persa l’occasione di affermare che alla vita ci teniamo sul serio e non solo a parole. Chi difende un bisogno? Chi ne definisce l’oggettività? Chi stabilisce i criteri per cui qualcuno ha più bisogno di altri? Quanto posso o sono disposto a pagare per la soddisfazione di questo bisogno? Eccolo qui, in fin dei conti, il nocciolo del problema: il bisogno determina il prezzo di un bene. Affermare che l’acqua è un bisogno significa dire una verità talmente evidente e scontata di fronte alla quale istintivamente si è tentati di annuire, dimenticandosi che la posta in gioco è la privatizzazione selvaggia in atto di un bene che è di tutti.
Dire che l’acqua è un diritto avrebbe invece messo in chiaro che a tale bene ogni essere umano deve poter accedere senza obbligatoriamente versare un salato obolo alle multinazionali del settore. Non solo, avrebbe contribuito a promuovere altri diritti fondamentali, la cui affermazione verrebbe altrimenti penalizzata dalla mancanza di accesso a fonti di acqua. Alla faccia degli obbiettivi del millennio!

Rimando i lettori a un corposo dossier di Missioni Consolata pubblicato nel numero di giugno 2006, dal significativo titolo «Le mani sull’acqua», nonché ai contributi scientifici pubblicati nella rubrica Nostra madre terra (di Roberto Topino e Rosanna Novara). Sono il segno di un duraturo interesse di Missioni Consolata e della determinazione a continuare dalle nostre pagine la battaglia affinché l’acqua sia finalmente riconosciuta come bene sociale e diritto di tutti.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




DIMENTICANZE

Risale a neppure un mese fa la pubblicazione del quinto «Rapporto sulle crisi dimenticate», lo studio che con periodicità quasi annuale Medici Senza Frontiere (Msf) dedica ad emergenze, conflitti e catastrofi umanitarie che non trovano sufficiente copertura da parte dei nostri principali mezzi di comunicazione.
L’analisi di Msf segue non di molto l’uscita di un altro saggio, questa volta a cura della Caritas Italiana in collaborazione con Famiglia Cristiana e il Regno, dal titolo: «Nell’occhio del ciclone. Rapporto di ricerca su ambiente e povertà, emergenze e conflitti dimenticati». Passando in rassegna avvenimenti e situazioni di crisi del mondo contemporaneo, entrambi i contributi stigmatizzano la sistematicità con cui i nostri media più importanti «dimenticano» eventi, luoghi e volti se non rispondono a precisi criteri dettati dalle leggi del mercato o da interessi di parte. È una vecchia storia, ampiamente e periodicamente ripresa sulle pagine delle riviste ed agenzie missionarie, chiamate a svolgere sempre più spesso un servizio di «grillo parlante» a difesa dei senza voce di ogni tempo e di ogni angolo del mondo.
Il lungo dossier di questo mese, ad esempio, si occupa di un evento recente (il «Forum sociale mondiale» tenutosi a Belém, in Brasile, lo scorso mese di gennaio), di portata ed interesse mondiali, con un tema (l’ambiente) che riguarda la vita e il benessere di tutti, ma immediatamente caduto nell’oblio grazie ad una copertura mediatica a dir poco imbarazzante offerta dai principali media nazionali.
In quanto rivista missionaria sentiamo la responsabilità di insistere ad allargare orizzonti, gettare ponti e aprire finestre sul mondo, su tutto il mondo; soprattutto su quella fetta di globo che rimane invisibile e che pure crea storia, vivendo esperienze di pari dignità rispetto alle nostre. A volte, per individuare questi contesti nascosti e dimenticati non bisogna andare troppo distante. Basta svoltare l’angolo illuminato di una grossa arteria metropolitana e mettersi a camminare i vicoli bui che formano la topografia del lato vulnerabile delle nostre città, quei borghi che escono dall’anonimato soltanto quando diventano un «problema» sociale, un disagio, un urlo che implora sicurezza.
Sappiamo bene che qualcuno ambirebbe a che quelle finestre, che vorremmo aprire per dare ai nostri sguardi una diversa prospettiva, rimanessero chiuse. Oggi, in modo particolare, i tempi di crisi spingono con decisione a scelte egoistiche, protezionistiche ed esclusiviste, al punto che parlare di un mondo «altro» di cui farsi carico, facendo appello alla responsabilità delle nostre scelte di vita, diventa estremamente più difficile.
I «No» secchi espressi  a Bruxelles dai paesi più vecchi e più ricchi dell’Unione Europea alla richiesta di un piano di intervento in favore dei paesi dell’Est povero del nostro continente sono, mutatis mutandis, analoghi ai «No» di ogni tipo che con sempre maggiore frequenza si sentono sbattere sulla faccia i tanti poveri che riempiono le strade del pianeta. Di questi no, piccoli e grandi, sentiamo di dover parlare in ogni caso.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Buonismo o cattivismo?

Pare non esistere più oggi la consapevolezza di dover adattare il linguaggio che si usa alla carica che si riveste. Le parole hanno una carica semantica enorme. Ogni vocabolo si trasforma nel sottile spazio di una sfumatura da generoso complimento a coltellata in mezzo alle spalle, da leggero flatus vocis a macigno dal peso insostenibile. Anche il tempo, oltre che il luogo, dovrebbe suggerire prudenza nell’uso delle parole che vengono pronunciate, tanto nelle private conversazioni, quanto e soprattutto nella pubblica arena.
Ecco allora che, al sentir dire al nostro ministro degli interni, onorevole Maroni,  che non bisogna essere buonisti, ma cattivi per contrastare l’immigrazione clandestina, viene da pensare che questa consapevolezza non fa ancora parte del bagaglio di tutti. Frasi ad effetto come questa sembrano dettate dalla volontà di strumentalizzare politicamente fatti di cronaca come quelli che ultimamente hanno scosso l’opinione pubblica.
No, non si chiede di essere cattivi con chicchessia, tanto meno allo stato nelle cui mani poniamo il nostro bisogno di sicurezza; si chiede soltanto, semmai, di essere giusti. Giusti nel condannare e garantire la certezza della pena a chiunque risulti essere coinvolto in fatti criminali, venga da dove venga, con o senza permesso di soggiorno. Giusti, però, nel ricordare anche alcuni dati che troppe volte giacciono dimenticati nei cassetti di tante redazioni giornalistiche e di tante scrivanie di Montecitorio.

La percentuale dei crimini commessi da italiani e da stranieri che hanno regolato la loro posizione è pressoché uguale. Il problema riguarda appunto gli immigrati clandestini a cui vanno attribuiti i 4/5 dei crimini commessi da stranieri presenti sul nostro territorio.

Ora, la maggior parte degli stranieri che emigrano clandestinamente o si rendono clandestini una volta arrivati a destinazione non lo fanno generalmente per venire a delinquere, ma per guadagnarsi una possibilità alternativa di vita. Bisognerebbe forse, allora, facilitare burocraticamente la regolarizzazione di persone che sono già in Italia e che avrebbero maggior possibilità di lavorare, produrrebbero reddito e pagherebbero anche volentieri le tasse, se si desse loro la possibilità di dormire tranquilli la sera, senza il timore di essere sbattuti fuori dal paese. Oggi, ci ricorda l’ultima edizione del Dossier Caritas/Migrantes, la stima del gettito fiscale annuale degli immigranti si avvicina ai 4 miliardi di Euro. Gli interventi di assistenza in loro favore non raggiunge invece la quarta parte di quanto versato all’erario. Forse con una legge diversa da quella in vigore, meno «cattiva» e più giusta, si potrebbero mettere basi alternative a un fenomeno che nessuno può arrestare.

Se questo è buonismo, allora meglio il buonismo del «cattivismo». La giustizia e il buon senso, comunque, sono ancora un’altra cosa.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Attentti al gorilla

Non sarà che davvero «il troppo stroppia»? Che senso ha la moda, promossa dalle grandi istituzioni inteazionali e ormai consolidata, di istituire quantità incredibili di giornate di sensibilizzazione, se non addirittura intere annate dedicate a tale e talaltro problema?
La domanda nasce dalla contemplazione di un qualsiasi calendario che riporti in bell’ordine tutte le varie iniziative volte a puntare i riflettori sull’uno o l’altro aspetto del nostro vivere insieme e del nostro ambiente. Viene ormai difficile pensare che il disperdere energia in così tanti obiettivi diversi possa sortire alcun effetto. Gioate mondiali, continentali, nazionali indette dalle organizzazioni più svariate si intersecano con programmi annuali, quinquennali, decennali, in un’orgia di date, eventi, incontri sui temi più svariati. Alcune giornate si sdoppiano e si moltiplicano nel tentativo di rispettare le esigenze di calendario di ognuno. Vista la difficoltà di orientarsi in tale babele, dato per scontato che ad un eccesso di offerta sempre segue un senso di stanchezza da parte di chi fruisce, viene da chiedersi a cosa serve proclamare l’istituzione di una giornata o di un anno dedicati ad un certo tema.

L’Onu, nel disperato quanto sterile tentativo di promuovere il conseguimento dei pretenziosi otto obiettivi del Millennio è una delle organizzazioni più provvida di iniziative. Il 2009 è stato proclamato dalle Nazioni Unite, anno internazionale della riconciliazione, dell’astronomia, dello studio dei diritti umani (in realtà si tratta di un biennio che racchiude interamente le celebrazioni per il 60° anniversario della Dichiarazione del ‘48) e delle fibre naturali. A dirla tutta il 2009 è pure l’anno internazionale del gorilla. Dove sono le priorità? Che benefici portano le pie esortazioni del Palazzo di vetro? Come si possono verificare i risultati di tali indizioni? Non sarà che l’intenzione di dedicare un anno a tutto non si risolva in un niente di fatto?
A queste forme di impegno ormai non credo più. L’anno scorso è girato in rete un testo molto bello del teologo e attivista brasiliano Frei Betto: «Felice anno nuovo, rendi nuovo il tuo anno». Se non si lavora sulla persona a poco serve sensibilizzare le istituzioni; è sufficiente leggere il tono generalista del testo di proclamazione dell’anno internazionale della riconciliazione e confrontae i buoni propositi con la sterilità dei risultati di fronte a quelli che sono i nostri normali contesti di conflitto, iniziando da quelli familiari. L’anno veramente importante è quello marcato dal desiderio personale di conseguire, responsabilmente, un piccolo obiettivo che ci consenta di migliorare le nostre relazioni con l’ambiente e con gli esseri che ci circondano, umani e non. Per coloro che credono la cosa assumerà, ovviamente, anche connotazioni religiose; per chi non crede si colorerà di un senso di profondo rispetto per ciò che ci circonda. Sono convinto che di simili piccole risoluzioni potrebbero essere contenti – e persino avvalersene per quest’anno e gli anni a seguire –   anche i gorilla.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




L’utopia continua …

Ai lettori

Il titolo della storica Agenda Latinoamericana per l’anno 2009 è sicuramente curioso e stimolante: «Verso un socialismo nuovo – l’utopia continua». Il pubblico che da anni segue fedelmente questa pubblicazione sa bene che l’Agenda è in realtà ben più che uno strumento per segnare e ricordare appuntamenti, ma una vera e propria antologia di articoli (strutturati da sempre sul classico schema vedere-giudicare-agire), uno strumento ecumenico di analisi, riflessione e denuncia evangelica al servizio delle vittime della storia. Titolo stimolante, si diceva, per i due termini, volutamente associati, che lo compongono.
Innanzi tutto socialismo. Fa una certa impressione ritrovarlo nuovamente sdoganato in forma esplicita, dopo esser stato screditato a più non posso in questi ultimi anni. Gli interventi parlano di «nuovo» socialismo, di rinnovato immaginario socialista, di socialismo alternativo. Che cosa sia questo socialismo e la sua valenza politica saranno da verificare a vari livelli, iniziando proprio dall’applicabilità di tale concetto allo stesso contesto del continente sudamericano. Resta infatti da dimostrare quanto l’apertura a sinistra di quasi tutti i suoi paesi più importanti (ad eccezione della Colombia) sia rappresentativa di o possa dialogare con questa nuova visione di socialismo che nasce dal basso, dai movimenti, dalle minoranze etniche e sociali e che non si lega in prima istanza a partiti politici tradizionali.

C’è da stare curiosamente in attesa. Il Sudamerica, oggi, è ansioso di proporre una nuova narrazione del mondo, quasi volesse offrire ai cinque continenti un piccolo assaggio di speranza latinoamericana, un «Yes, we can» che non sia soltanto uno slogan elettorale, ma un tentativo di risposta concreta ai grandi problemi che affliggono oggi l’umanità, in tutto il pianeta, non solo a Sud della Califoia.
È l’«utopia che continua». Quella utopia che, come scriveva a suo tempo Est Bloch, «non è fuga nell’irreale; è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione». È speranza, tensione dell’umano verso un mondo altro, migliore, una forza che manterrà la sua attrattiva e la sua vera carica rivoluzionaria nel momento in cui non si asservirà ai poteri forti, ma continuerà ad essere la lotta dei piccoli, dei poveri, delle vittime e di coloro che ad essi dedicano la vita: nient’altro che la logica del Regno di Dio.
Anche di ciò si parlerà senz’altro nel Forum Sociale Mondiale e, soprattutto, nel Forum Mondiale di teologia e Liberazione che si terranno a Belem, nel Nord del Brasile, alla fine di questo mese. Speriamo che dagli stimoli amazzonici arrivi, magari con qualche corrente atlantica, una ventata di freschezza per la nostra stanca Europa e la sua ancor più stanca chiesa, entrambe, mi sembra, con molti problemi e ben pochi sogni nel cassetto. Chissà che, tenendo occhi, orecchi e cuore ben aperti ai segni dei tempi, non si possa trovare anche noi la nostra «agenda», etimologicamente: «Ciò che c’è da fare» per dare alla speranza anche un minimo di direzione.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Sogno un Natale …

Notte di Natale, la più santa che ci sia, con stelle, campane, musica celestiale. Quanto vorrei che assieme a tutta questa luce e poetica tenerezza ci fosse anche la visione di Dio, per capire se siamo sulla stessa sintonia o se ci perdiamo in un’altra lunghezza d’onda con un mondo, una vita e un sentire completamente differenti.
Io so che quel bambino adagiato sulla paglia in una stalla, perché la povertà dei suoi genitori non consentiva di avere un altro posto, era figlio di Dio. Non vennero riconosciuti i suoi diritti di Signore del cielo e della terra per i tratti umani che mostrava. Che tragico errore di categorie mentali ingiuste che condannavano Dio solo perché si mostrava uomo povero! Che tragedia! Avessero mai saputo o anche soltanto immaginato che in quel bambino si celava la pienezza della natura divina… chissà che feste, che celebrazioni imponenti e spettacolari.
Nelle sacre scritture non ho mai letto che Dio ordinava la preparazione di liturgie straordinarie. Ha sempre ribadito di preferire la misericordia, di dare priorità al diritto e alla giustizia. Dio ha fatto sapere esattamente cosa vuole. È ancora scritto e nessuno lo ha cancellato: «Io voglio – dice Dio – essere per voi un padre, e che voi siate miei figli».
Lungo i secoli, i «devoti» hanno costruito una serie di esigenze, che sono entrate nella mentalità comune, e tutti accettano pacificamente sacrifici, offerte, olocausti, manifestazioni gloriose.

Nel mondo indio, che ho conosciuto direttamente, la festa di Natale è quasi ignorata come celebrazione trionfale, a differenza degli altri che invece si indebitano, per fare cose pompose e straordinarie da ricordare e vantarsene. Gli indios ne rimangono ai margini, partecipandovi solo se ingaggiati come comparse per i balli folklorici, che accompagnano le parate e le processioni del Bambin Gesù. Ricordo che non ho mai avuto fede accogliente per queste celebrazioni natalizie, dove si mangia e si beve, ma non nasce niente di Gesù, di Cristo, di Figlio di Dio, di Padre Divino.

Io sogno un Natale che fa nascere un mondo differente, un mondo che viene affidato alla nostra fede e alla nostra carità per diventare senza mali, senza offese e discriminazioni, senza ostentazioni a scapito della solidarietà amata e promossa a tutti i livelli, comunitari e sociali. Il Natale è Dio che si è avvicinato per essere padre e figlio, per incarnare il suo amore e la sua misericordia. Natale vuol dire che la grazia diventa grazia ricevuta e Dio, finalmente, può arrivare a tutti, con la sua benevolenza e dolcezza. In questo modo, il Natale diventa la più bella notizia per l’uomo e per il mondo, canto di dignità per il povero e l’umiliato, sorgente perenne di libertà e speranza per tutti.
Non succeda mai che si celebri il Natale di Gesù, senza far posto alla sua nascita nella nostra vita. Non ci può essere Natale di Gesù senza la sua nascita in noi.

Giuseppe Ramponi




Un’impronta da lasciare

Alcuni eventi di discriminazione sociale che in questi ultimi mesi hanno riempito le pagine dei nostri giornali e rotocalchi hanno acuito interrogativi che da tempo abitano il nostro cuore e la nostra mente. Che ne è di Gesù Cristo? Che ne è della fede e della testimonianza cristiana nelle nostre società? Soprattutto, che ne sarà del cristianesimo in un prossimo futuro? Ancora recentemente qualcuno paveggiava una lenta dissoluzione, uno sciogliersi indolore (ancorché, forse, arricchente) dei valori cristiani all’interno del più vasto patrimonio etico dell’umanità. Altri ancora si immaginavano – o si auguravano -una chiesa sempre capace di conciliare gli opposti, grazie al suo seno generoso portato ad accogliere tendenze non solo diverse, ma a volte perfino contraddittorie. Oggi tutto ciò non avviene più; anzi, ci pare che la tentazione più seria che colpisce i testimoni del Signore Gesù, fattosi uomo come noi, morto e risorto per ristabilire la piena comunione dell’umanità e del cosmo intero con Dio, venga dall’irresistibile fascino di un cristianesimo apologetico, propenso a orientarsi sempre di più sulla sicurezza della legge e molto meno sul rischio della profezia.

Il cristianesimo sarà profezia oggi se rinuncerà a ogni forma di potere che non sia quello della Parola «disarmata». Sarà profezia se farà prevalere la compassione sulla legge, l’incontro sulla paura e la minaccia, la vita su ogni idolatria di morte. Sarà profezia se troverà, come diceva Giovanni Paolo II, discepoli capaci di essere «sentinelle della libertà, della giustizia e della pace».
In questi ultimi tempi, non sono mancati segnali che puntano decisamente in questa direzione. Il lucido editoriale di «Famiglia Cristiana», scritto nel luglio scorso contro la proposta di «catalogazione» dei bimbi Rom avanzata dal Ministro dell’Inteo, ha dato una sincera scossa a un mondo ecclesiale rassegnato, perché atrofizzato dalla paura e quindi incapace di assumere scelte profetiche ma impopolari. Insieme ad altre prese di posizione ufficiali (Caritas, Cei), ha contribuito a fornire un punto di riferimento concreto alla confusione di tanti fedeli, disorientati dall’aggressività e dalla parzialità con cui i media presentano oggi il problema migrazione.
Sono voci fuori dal coro che annunciano speranza in una società in cui la paura del diverso sembra prevalere, creando rancori e malcontenti, che sfociano frequentemente in autentiche guerre tra poveri. Sono voci che non devono rimanere inascoltate, in quanto ci dicono come oggi un cristianesimo che sappia ripresentare l’inaudito di una «Buona Notizia» debba ritrovare il suo senso e il suo posto. C’è ancora spazio per cristiani liberati dalle paure e aperti al dialogo e all’incontro con la diversità. Sarebbero fonte di speranza per tutti. Non soltanto per i poveri che abitano i campi nomadi o i famigerati centri di identificazione ed espulsione, ma per tutti i bambini e gli adulti che, in questo nostro mondo, sono «schedati» dalla fame, dall’indigenza, dallo sfruttamento… semplicemente perché appartengono alla classe dei miserabili. È lì tra loro, dove la chiesa deve lasciare la sua impronta.

Di Antonio Rovelli

Antonio Rovelli




Paolo di Tarso: bimillenario della nascita

I l 28 giugno scorso, nella basilica di San Paolo fuori le mura, Benedetto xvi ha ufficialmente inaugurato l’«Anno Paolino», per commemorare il secondo millennio della nascita di san Paolo. Lo «speciale anno giubilare», che si chiuderà il 29 giugno del 2009, sarà caratterizzato da numerose iniziative pastorali, religiose e artistiche, con lo scopo di conoscere e far conoscere meglio la figura del più grande missionario di tutti i tempi e la ricchezza gigantesca del suo insegnamento. In secondo luogo, la celebrazione avrà una «dimensione ecumenica», secondo le parole stesse del papa: «L’apostolo delle genti particolarmente impegnato a portare la Buona Notizia a tutti i popoli, si è totalmente prodigato per l’unità e la concordia di tutti i cristiani».
L’annuncio di tale evento era già stato dato l’anno scorso, il 28 giugno 2007, nella stessa basilica paolina. Accogliendo con gioia tale annuncio, abbiamo voluto in qualche modo anticipare le celebrazioni, dedicando alla figura del grande missionario il calendario 2008 e invitando i nostri lettori a camminare per tutto l’anno in corso «sulle orme di Paolo, apostolo delle genti». E continueremo nei prossimi numeri di Missioni Consolata a presentare alcuni aspetti della personalità e dell’insegnamento del grande evangelizzatore.

P er la sua importanza nella storia delle origini del cristianesimo Paolo è stato definito «il primo dopo l’Unico», cioè secondo solo a Gesù Cristo. È chiamato pure «tredicesimo apostolo», un titolo che egli rivendica nelle sue lettere ogni qual volta i suoi avversari cercano di screditare la sua missione: più volte si definisce «apostolo per vocazione», cioè chiamato direttamente da Cristo. Al tempo stesso, con i più intimi non esita a dichiararsi servo: «Servo di Cristo», dal quale si sente «afferrato», e «servo di tutti» per amore di Cristo (1Cor 9,19-23). Senza l’infaticabile e coraggiosa impresa missionaria di Paolo, il cristianesimo avrebbe rischiato di rimanere a lungo una fra le tante sette giudaiche. Egli ha aperto le porte della chiesa, ha spalancato gli orizzonti dei discepoli e delle discepole di Gesù e ha portato la Buona Notizia al mondo intero.
Ci sembra superfluo dire che, a duemila anni dalla sua nascita, san Paolo è ancora attuale: lo è sempre stato e lo sarà per tutti i secoli a venire. Tuttavia, è utile evidenziare uno dei suoi tratti fondamentali, capaci di ispirare e rinnovare il nostro essere discepoli di Cristo nel mondo in cui viviamo oggi: un mondo globalizzato, multiculturale, di incontri e scontri di civiltà… Un mondo con molti tratti simili a quelli in cui è vissuto il grande apostolo.
«Paolo è nato bifronte» ha scritto un esegeta, nel senso che appartiene a due civiltà che non si amavano affatto: quella giudaica e quella greca. Per di più, nei suoi viaggi missionari è entrato in contatto con molti popoli, diversi per stirpe, etnia, lingua e cultura; ha incontrato uomini e donne di differenti situazioni economiche e sociali: di tutti ha riconosciuto la dignità della persona e la chiamata a fare parte dell’unica famiglia di Dio, nella quale «non c’è più né pagano né ebreo, né greco né barbaro, né schiavo né libero, né uomo né donna» (Gal 3,28). Non è stato facile per Paolo giungere a tale convinzione, se si tiene presente che, almeno fino all’età di 28-30 anni, nelle preghiere del mattino aveva recitato, come ogni pio israelita, una tripla benedizione: «Io ti benedico, o Dio, per non avermi creato pagano, ma ebreo, per avermi creato libero e non schiavo, uomo e non donna».
Uomo senza frontiere, Paolo aveva compreso che una cosa è il vangelo e un’altra la cultura dei popoli. Con la sua vita e i suoi scritti ha lavorato con passione per costruire un’umanità unificata nell’abbraccio misericordioso di Dio: umanità egregiamente espressa con l’immagine delle molte membra che formano un solo corpo. Egli continua a insegnare che la chiesa, nella sfida di inculturare concretamente il messaggio di Cristo, può avere forme molto diverse e che nessun popolo può legittimamente imporre agli altri stili di essere, di sentire, di pensare, di agire e di celebrare.

di Bnedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Paraguay, il vescovo che diventò presidente

Ancora una volta la fantasia latinoamericana sorprende l’opinione pubblica internazionale: a fare notizia l’affermazione di un vescovo cattolico a presidente della Repubblica del Paraguay. Nell’Ottocento era la più florida e prospera nazione sudamericana; ma venne praticamente annichilita dalle trame coloniali della potenza imperiale del tempo: l’Inghilterra, allo scopo di impadronirsi delle sue ricchezze e, al tempo stesso, controllare l’intera area regionale da una posizione strategica. Da paese indipendente e autonomo, con una buona produzione industriale, costruita senza prestiti capestro dalla City di Londra, alla fine di un lungo e sanguinoso conflitto, si ritrovò con la popolazione dimezzata e il territorio ridotto a meno della metà: i vincitori (Argentina e Brasile) si appropriarono di vaste aree produttive, provocandone così un collasso umano ed economico.
Negli anni Trenta del secolo scorso, un’altra guerra, con la Bolivia, costò al Paraguay oltre 50 mila vite umane; guerra orchestrata dalle multinazionali del petrolio, Standard Oil e Shell, che si contendevano i territori del Gran Chaco, ritenuti ricchi di giacimenti petroliferi.
Stremato, l’economia a pezzi, il Paraguay attraversò una lunga, difficile fase, con diversi colpi di stato, finché nel 1954, un’alleanza politica tra esercito e Partido Colorado, portò il generale Alfredo Stroessner al governo del paese. Da allora il Partido Colorado, come una piovra, si è infilato in ogni fessura della vita pubblica e sociale. Con l’appoggio degli Usa e la politica della dottrina della sicurezza nazionale, Stroessner avviò un regime dittatoriale, sopprimendo tutte le libertà civili e democratiche e applicando il terrorismo di stato, con omicidi, sparizioni, imprigionamenti senza processo e torture. Negli anni Settanta, quando in tutta l’America Latina si installarono regimi autoritari, il Paraguay collaborò con le giunte militari per esportare il suo modello in ogni angolo dello stesso continente.
Dopo la seconda guerra mondiale il Paraguay diventò un rifugio per parecchi gerarchi nazisti; vi trovò asilo anche il dittatore Somoza del Nicaragua, quando fu cacciato dal Movimento sandinista. Autoritarismo e connivenza con il peggio dei regimi militari, con la regia del Partido Colorado, trasformarono il Paraguay in un paese dall’economia fasulla, dove però il riciclaggio del denaro sporco proveniente dal narcotraffico, commercio delle armi e loschi affari delle mafie inteazionali, generarono una situazione sempre più insostenibile.

Con il rovesciamento di Stroessner, per mano del consuocero Andrès Rodriguez, capo dell’esercito, iniziò una lenta ma costante evoluzione nella politica del Paraguay che, pur con rovesciamenti di fronte e aspri confronti tra diversi protagonisti politici provenienti dalle stesse fila del Partido Colorado e dell’esercito, ha condotto il paese a vivere la stessa transizione verso la democrazia avviata dalle altre nazioni latinoamericane. Tale processo, alimentato da ampi settori della chiesa cattolica e dalle forze più vive della società, ha avuto nel vescovo emerito di San Pedro, mons. Feando Lugo, la figura di spicco nella quale sono confluite le attese e speranze di una democrazia vera e un futuro migliore di gran parte del popolo paraguayano. Con la costituzione dell’Alleanza patriottica per il cambiamento (Apc), interprete politica della voglia di rinnovamento della società del Paraguay, di cui Lugo è stato riconosciuto leader indiscusso, queste attese hanno avuto una risposta piena e definitiva domenica 20 aprile, quando ha vinto le elezioni, aprendo un capitolo nuovo nella storia del paese.
Mons. Lugo, che per iniziare questa esperienza, per certi versi inedita e affascinante, era stato sospeso a divinis dalla Santa Sede, potrà finalmente avviare la riforma agraria e mettere ordine nella corruzione dilagante in ampi settori della società. Oltre che sui cittadini che l’hanno votato, potrà contare su gran parte della chiesa paraguayana (compresa la maggioranza dei vescovi, tranne uno dell’Opus Dei) e su tutte quelle persone desiderose di vivere in un paese normale, finalmente liberato dalla morsa del Partito-padrone che ne ha tarpato le ali per mezzo secolo. Se per avviare questo processo c’era bisogno di una originale figura, come un vescovo cattolico da prestare alla politica, sarà solo il tempo a dire se un evento così inedito sarà per il Paraguay davvero provvidenziale.

Di Mario Bandera

Mario Bandera




Le Frecce impazzite

La serie di articoli su droghe e tossicodipendenze proposti nel dossier di questo mese dal dottor Topino e dalla dottoressa Novara, sensibili ed attenti studiosi dei problemi legati all’ambiente e alla salute, interpella da tempo la missione e i suoi agenti.
Innanzitutto perché ciò che sa di «globale» sfida il mondo missionario e se c’è un tema con tale caratteristica è proprio questo. La carta geografica colorata pubblicata nella seconda pagina di introduzione al dossier descrive, meglio di tante parole, come il nostro bistrattato pianeta sia diventato anche un «mondo di droghe». A quella mappa – che evidenzia i paesi  produttori di sostanze stupefacenti e quelli che maggiormente le consumano – provate ad associare la cartina presentata in questa pagina. È la carta delle «frecce impazzite», che illustra il viaggio della droga verso i più floridi mercati, tra i quali, fa pena dirlo, si distingue il nostro bel paese: porti protetti di smercio o scambio dei prodotti, sedi di mafie che hanno il controllo dello spaccio in determinati territori, corridoi privilegiati per il trasporto della droga. Di mondo non contaminato ne resta davvero poco.

Il missionario vive il lungo viaggio della «merce» dal suo inizio, dai villaggi dove cannabis, coca e papavero da oppio vengono coltivati. È presente negli anfratti più bui delle «terre di mezzo»: nei corridoi dove la droga passa a fiumi attraverso canali di smercio sicuri o nelle baraccopoli alla periferia delle grandi metropoli, dove il marcio delle lamiere delle baracche fa da scudo a quelle ben più brillanti di SUV con vetri polarizzati di proprietà dei narcos. Accompagna il cammino fino a qui, nel nostro Occidente industrializzato e super-tecnologico, dove narcotraffico e tossicodipendenza segnano una delle tante frontiere impalpabili della missione di oggi. In questo tragitto, l’annuncio del vangelo passa principalmente attraverso  un lavoro di formazione volto a irrobustire la persona nella lotta fra coscienza individuale e il dio mercato. È quest’ultimo, infatti, il nemico vero dietro il quale si genera la narco-coscienza, quella sorta di hybris criminale, che si esalta nel mito del denaro facile, che non ha nessun rispetto se non quello garantito dal potere d’acquisto.
In tutti questi anni, Missioni Consolata ha più volte incrociato le frecce impazzite delle rotte delinquenziali della droga, raccontando di progetti produttivi alternativi, iniziative di sviluppo sostenibile, programmi di riabilitazione e recupero, ecc. Ha raccontato storie, fotografato luoghi e situazioni, inseguendo le frecce nel buio della selva amazzonica, sulle pendici scoscese delle Ande, sugli altopiani asiatici, negli slums di metropoli africane o latinoamericane. Questo dossier ci sfida a riposizionare ancora una volta la nostra missione alla fine del percorso per scoprire che, guarda caso, scandalo nello scandalo, il punto conclusivo coincide con quello di partenza. È il punto dove meno vorremmo trovarci: casa nostra.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli