Libertà religiosa, via per la pace

Ai lettori

«Libertà religiosa, via per la pace», questo è il tema della giornata mondiale della pace di quest’anno. Un tema molto caldo, visto che generalmente si considerano le religioni una delle ragioni aggravanti dei conflitti odiei. I più informati si limitano ad accusare i vari fondamentalismi (tutte le religioni ne hanno, anche il cristianesimo); i più arrabbiati se la prendono con le religioni in sé, ogni religione. Intanto la libertà religiosa è minacciata ovunque nel mondo.
Nel nostro Paese c’è confusione sull’argomento e coesistono bellissime esperienze di tolleranza accanto a pregiudizi e preclusioni che combattono, a suon di decreti, regolamenti e dichiarazioni di piazza, le legittime aspirazioni dei non cristiani ad avere un luogo di culto dignitoso.
Quando i fondamentalisti islamici evocano le crociate come scusa per terrorizzare e uccidere cristiani, tradiscono la loro religione e il loro Dio tanto quanto i cristiani che si oppongono alle moschee in nome della cultura occidentale «cristiana». In tutti i casi si disonora Dio, il Misericordioso e il Padre di tutti, proprio quando si è convinti di difenderlo. Dio non ha bisogno di essere difeso, ma amato. E Dio si ama comportandosi da Dio, cioè amando gli altri, come insegna Gesù.
è vero, a livello d’istinto, l’idea di avere una moschea o un tempio nel mio paesello natio mi mette a disagio: la sento come una violazione della storia e della memoria. Ma se invece comincio ad usare la testa e il cuore, non la pancia, allora riesco a chiedermi in quale Dio credo davvero. Impedendo ad altri di pregare a modo loro sto davvero lodando e amando il Dio di Gesù Cristo o, invece, sto solo obbedendo alle mie paure e difendendo una realtà (cultura) che non c’è più? Impedendo agli «altri» di esercitare uno dei loro diritti fondamentali, quello di esprimere liberamente e pubblicamente la propria fede (noi missionari viviamo di questo diritto!), non aiuto certo a creare un ambiente di pace, anzi dò motivi agli «altri» per essere arrabbiati e frustrati. Con questo non stò dicendo di dare le nostre chiese per farle diventare luoghi di culto di altre religioni … (ma questo è un argomento che va ben oltre un editoriale!).
Forse quel che non voglio capire è che la mia religione non è messa in pericolo dalle religioni «altre», ma dal mio stesso stile di vita imbevuto di consumismo. Un consumismo – non cristiano – così invadente e totalizzante da regolare ogni momento della mia vita con un controllo così capillare che nessuna religione è mai riuscita ad esercitare (nonostante i miti dell’inquisizione!). Certo non è un controllo poliziesco, anzi è molto soft, persuasivo, spesso cercato e voluto anche dall’individuo-vittima, ma avvolge ogni minuto della vita usando i mezzi più disparati: sport, musica, arte, vacanze, centri commerciali omnicomprensivi (= nuove cattedrali del consumismo), pubblicità, pressione sociale, televisione, radio, internet, telefonini, tempo libero, moda, viaggi … Non un minuto per sé!

Vogliamo la pace? Garantiamo alle persone la vera libertà religiosa, la libertà di esprimere la propria fede in Dio. La vera ricerca di Dio porta alla verità e la verità rende liberi.
Nella verità di Dio possiamo allora guardare al 2011 con speranza e ottimismo. Tanti auguri per il nuovo anno. La pazienza di Dio ci dà ancora tempo per imparare a vivere da uomini e fratelli. Non buttiamo via questa splendida possibilità. Pace a tutti.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Natale e martirio

Vita e morte, principio e fine, nascita e sepoltura: sono dei binomi che ci spiazzano, di cui non vorremmo parlare, soprattutto a Natale, dove vita, gioia e pace sembrano dover essere le parole d’ordine. In realtà, da sempre, la liturgia della Chiesa fa seguire il Natale, festa della vita, da due feste di sangue, santo Stefano e i santi Innocenti. Questo ci ricorda che sullo sfondo del Natale c’è sempre la Pasqua con il suo mistero di passione, sofferenza, morte e risurrezione. Il messaggio è ripetuto sette giorni dopo con la memoria della presentazione di Gesù al tempio quando il vecchio Simeone ricorda a Maria tutta la sofferenza che le sta dinnanzi. Da ultimo, i regali dei tre Magi all’Epifania, se da un lato esaltano la divinità e la regalità del Bambino, dall’altra annunciano la sua immolazione sacrificale, il suo martirio.
Il martirio, che richiama persecuzioni d’altri tempi, è oggi una parola che è rimbalzata su tutti i media del mondo dopo il massacro degli oltre 50 cristiani a Baghdad lo scorso 31 ottobre. Secondo le statistiche il XX secolo è stato quello con il maggior numero di martiri cristiani. Tuttavia il XXI secolo sembra voler battere il record sia per il perpetuarsi di sistemi ad influenza comunista che per la nuova virulenza del fondamentalismo (sia esso islamico, indù o buddista), come per lo svilupparsi di nuove forme di intolleranza e cristianofobia nei paesi che pure hanno fatto della tolleranza la loro bandiera. Sta già succedendo qua e là nel mondo, ma diventerà sempre più frequente, che cristiani siano imprigionati o penalizzati per coerenza alla loro fede circa questioni come aborto, omosessualità, eutanasia, famiglia e difesa della vita. Saranno colpiti sacerdoti che predicano principi morali che invece la legge civile ha abolito, medici e operatori sanitari che fanno obiezione di coscienza, giornalisti che non accettano il politicamente corretto e normali cittadini convinti che «bisogna obbedire prima a Dio». Questo accadrà non perché saranno emanate leggi apertamente ostili alla libertà religiosa, ma solo grazie a mille regolamenti contorti, approvati grazie a lobbies interessate e applicati da funzionari che hanno rinunciato al buon senso.
Certo continueranno, e diventeranno anche più feroci, le persecuzioni dolorosamente plateali ad opera di chi mette in carcere vescovi e preti e continua a mandare cristiani in campi di rieducazione, di chi impedisce ogni manifestazione pubblica della fede, di chi usa la scusa del proselitismo per reprimere, di chi ricorre a bombe e minacce, assassinio e terrorismo, ma nei nostri paesi si svilupperanno altre modalità sicuramente meno intrusive ed esecrabili, perciò più facilmente giustificabili ed addirittura accettabili, ma non per questo meno intolleranti e violente.
Pessimista? Lo spero. Ma non mi spaventa, anzi. Mi preoccuperebbe di più se il martirio cessasse totalmente. Vorrebbe dire che i cristiani non sono più «sale della terra», che hanno talmente diluito la loro testimonianza da diventare innocua parte del sistema, preoccupati più dei loro privilegi che della fedeltà al loro Maestro, morto in croce. Non è forse questo il rischio che stiamo correndo proprio nel nostro paese? «Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20). «Beati voi quando vi perseguiteranno per causa mia» (Mt 5,11). Non è fuori posto ricordare questo a Natale, perché, non dimentichiamolo mai, il Natale è sotto il segno della Croce.
Concludendo, faccio di vero cuore i più sinceri auguri di Buon Natale a tutti i nostri lettori, amici e benefattori a nome dell’intera redazione e dei Missionari della Consolata, con i quali esprimo solidarietà e vicinanza a tutti coloro che in Italia sono stati vittime del maltempo, in particolare in Veneto – dove sono molti dei nostri lettori -, e di altre calamità frutto dell’irresponsabilità dell’uomo. Che l’esempio di coerenza, amore e difesa della vita dato dalla Santa Famiglia possa essere di incoraggiamento alla nostra quotidiana testimonianza di fede e carità in una realtà sempre più segnata da paura, intolleranza e diffidenza verso gli altri. Che la comprensione del Natale alla luce della Pasqua sostenga la nostra fede e ci aiuti a «dar ragione della nostra speranza» (cf 1 Pt 3,15).
Buon Natale a tutti voi anche dai nostri missionari e dalle persone che essi amano, con voi.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Su due piedi …

C’era una volta un bravo ragazzo, ben educato. Scriveva con la destra, faceva il segno di croce con la destra, dava la destra per salutare e, naturalmente, rispettava la destra. Anche quando si misurava le scarpe nuove offriva il piede destro. Andava tutto perfettamente bene, anche se, sì, un problemino c’era. Le scarpe nuove andavano benissimo per il piede destro, ma il sinistro ci stava sacrificato e, sotto sforzo, normalmente ci rimetteva l’unghia dell’alluce. Un bel paio di sandali alla fraticella risolvevano bene il problema durante l’estate, ma d’inverno il sinistro tornava a soffrire. Il tutto durò per anni, fino a quando, un giorno d’estate, a piedi nudi sulla sabbia, commiserando l’alluce sinistro che ancora portava i segni dell’ultima unghia caduta, gli venne il ghiribizzo di misurarsi i piedi. Il piede sinistro era quasi un centimetro più lungo del destro. Dentro lo sapeva da sempre, ma visto lì, in quelle righe nella sabbia, sembrava incredibile. Tutto quel tempo a soffrire per niente! Avesse ascoltato il piede sinistro tanti anni prima! Nelle scarpe nuove, una misura più del suo solito, il sinistro stava a suo agio e il destro non soffriva di certo, anzi, e insieme camminavano meglio.
Questa piccola storia di ordinaria stupidaggine mi ha fatto pensare a questo nostro paese dove sembra esserci la mania di classificare tutto e tutti, fino al ridicolo: sinistra, destra, ultra e centro, con tutte le variazioni possibili e immaginabili. Tutto è etichettato: politica, religione, cultura, economia e società. Ciascuno deve appartenere, perché solo l’essere di parte garantisce la verità e la stabilità. Chi non appartiene, chi non è classificabile, disturba. Sei padrone, destra. Sei operaio, sinistra. Vuoi sicurezza, destra. difendi gli extracomunitari, sinistra… Gli esempi abbondano. Neppure i preti si salvano. I missionari poi, sono sopportati solo finché non parlano troppo.
Quel povero piede sinistro, che per anni ha subito in silenzio l’ignoranza di quello destro, aveva pur le sue ragioni. Quando lui soffriva, era tutto il corpo, anche il piede destro, che soffriva. Ora che sta meglio, nelle scarpe nuove a sua misura, tutto il corpo cammina meglio, su due piedi!
Che? Non sono queste riflessioni da rivista missionaria? Forse. A dir la verità mi sono un po’ scocciato di sentirmi classificato ogni volta che scrivo o di ricevere lettere insultanti contro i missionari perché stanno dalla parte degli extracomunitari e si permettono perfino di aiutare quei nemici della civiltà cristiana che sono i musulmani, non importa se disastrati da una catastrofe naturale senza precedenti (ne parleremo sul numero di dicembre).
Noi missionari italiani (di una certa età, figli del dopo guerra – per me sono 60, proprio oggi mentre revisiono queste righe) ci troviamo in una situazione davvero poco invidiabile. siamo partiti da una comunità che aveva una fede vibrante in un contesto di diffusa povertà e tanta voglia di lavorare. alle frontiere del mondo siamo stati testimoni di tutte le sofferenze possibili e immaginabili e là abbiamo visto fiorire la fede. tornati a casa nostra, siamo presi con il nostro popolo nel vortice di un benessere mai sognato, con le chiese – bellissime e ben tenute – quasi vuote, centri commerciali che traboccano, televisioni che ci inondano di frivolezze e lotterie da capogiro. Tanto benessere (anche se c’è la crisi) e poca felicità. Se parliamo di alfabetizzazione, di ambiente, di culture e di poveri bambini, riusciamo anche a farci ascoltare o a far commuovere per un po’. Ma se ci permettiamo di dire giustizia, fratellanza, accoglienza, nuova pastorale, impegno personale, conversione, sobrietà, cambiamento di stili di vita e vangelo…  siamo visti con sospetto (ed etichettati, di sinistra!) o messi su un piedistallo (il che è anche peggio).
La realtà è che abbiamo bisogno di tutti per stare bene, come abbiamo bisogno di due piedi per camminare, correre e danzare. La verità non è monopolio di nessuno, tantomeno di chi sta bene e pensa di avere le soluzioni in tasca per chi soffre. In Italia c’è un sacco di positivo, di cui noi missionari siamo testimoni privilegiati. E questo dà molta speranza. Se solo ci ascoltassimo di più, rendendoci conto che abbiamo bisogno gli uni degli altri (questo vale anche per i vari talebani del mondo, così sicuri di sé)… riusciremmo davvero a costruire un mondo migliore per tutti, che danza su due piedi…

Gigi Anataloni




Ricominciare per Continuare

Diventare direttore di questa rivista, era una delle possibilità prevedibili fin da quando ho cominciato il mio servizio missionario nella stampa ormai 34 anni fa, appena ordinato sacerdote. Me lo avevano perfino augurato alla fine del liceo. Ma che lo diventi all’età di andare in pensione mi sembra buffo. Rientrato dopo 21 anni di Kenya, dove per 17 anni ho fatto di tutto (anche l’editore) nella rivista che pubblicavo laggiù (il Seme, The Seed), mi trovo ora a ricominciare (perché qui ho già lavorato dall’80 all’86) con voi questa avventura in una rivista ricca di storia come è Missioni Consolata. Già, la storia ultracentenaria di questa rivista mi affascina e mi spaventa. È una responsabilità non da poco succedere al canonico Giacomo Camisassa e a grandi direttori come i padri Vittorio Sandrone, Mario Bianchi, Giovanni Mazza, Gabriele Soldati, Francesco Beardi, Benedetto Bellesi e Ugo Pozzoli, solo per nominae alcuni.

Questa si definisce la rivista missionaria della famiglia. Sono due qualifiche: missionaria e della famiglia, che mi danno a pensare. Missionaria: rimanda alla Missione; quella con la M maiuscola non è certo cambiata: è sempre l’annuncio di Gesù figlio di Dio incarnato, morto e risorto per la salvezza dell’umanità e del cosmo, l’unico Signore e Salvatore che ci chiama ad accogliere il regno di Dio. Ma la missione, quella spicciola e quotidiana, quella che è traduzione in azione e vita della grande Missione, è sempre in cambiamento e trasformazione. Cosa vuol dire fare, pensare ed essere missione nel 2010? Come raccontarla oggi? È una grande sfida. Della famiglia! La mia esperienza di famiglia, quasi patriarcale, sembra lontana anni luce da quanto si vive oggi. Anche la visione africana della famiglia, che ha avuto un ruolo importante nella mia esperienza keniana, e che tanto ha ispirato la Chiesa africana, è una realtà che sta passando attraverso un grande processo di trasformazione, spesso sofferto e contraddittorio. Quale famiglia oggi in questa nostra Italia, in questa Europa?

C’è un terzo elemento qualificante: Consolata. Consolata indica la dimensione mariana: la Madonna Consolata, fondatrice dell’istituto. Ma non solo, Consolata indica anche un metodo missionario secondo il cuore del beato Giuseppe Allamano: il bene fatto bene (e senza rumore) per l’uomo totale, anima e corpo, nel suo oggi, dove evangelizzazione e promozione umana vanno a braccetto. Per questo “tutto quello che è umano ci interessa”. Per questo possiamo parlare di politica ed economia, di musica e di arte, di sviluppo e di cultura, di moda e di ecologia, di poesia e danza, di giustizia e di pace, di inquinamento e di emigranti, di adozioni e turismo responsabile, di razzismo e guerra, schiavismo e liberazione, acqua e terra, e chi più ne ha più ne metta … e, nello stesso tempo, raccontare sempre più di evangelizzazione e conversione, di battesimi e nuove chiese, di ordinazioni e vescovi, di morale e teologia, religioni ed ecumenismo, papa e catechisti, famiglia e vocazioni, inculturazione e liturgia, preghiera e spiritualità …
Consolata è anche un filtro privilegiato. Non vogliamo e non possiamo essere qualunquisti. Siamo Consolata. Per cui questa non è una rivista neutrale. Siamo schierati, con libertà e senso critico, amore e rispetto. E come Consolata abbiamo un difetto: vediamo le cose con gli occhi del Sud del mondo, dalla prospettiva dei poveri.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Maschere in crisi

Il nome è uno dei tanti, difficili da pronunciare e ancor più da scrivere, di quelli che solo la fervida fantasia di un genitore sudamericano riesce a concepire per i propri figli nel tentativo di imitare il suono dell’originale yankee. Ha circa trent’anni e guadagna venti-trenta euro al giorno, tirati su senza molta speranza, vestito da cartone animato in una delle più affollate piazze di Madrid.
Il nome lo ascolto distrattamente e alla storia che lo accompagna mi sembra di aver già molte volte prestato attenzione, ovunque mi è capitato di incontrare migrantes latinoamericani: un passato da dimenticare, un presente che si vorrebbe cambiare e un futuro il cui colore oscilla tra il verde degli agognati dollari, sui quali costruire il sogno di una casetta nel paese natio e il grigio di altre giornate spagnole passate a cercare di sopravvivere fino alla fine del mese.
Per il turista che si aggira nella città asburgica, fra la Puerta del Sol e la Plaza Mayor, è impossibile non imbattersi in uno di loro: uomini e donne travestiti da pupazzi. Sono centinaia, attenti a gestirsi ogni singola mattonella di pavé, agghindati nelle fogge più strane fra cui trionfano gigantesche Minnie, ansimanti (per il caldo e il sudore) Pluto… e persino un grottesco Uomo Ragno con tanto di improbabili e debordanti maniglie dell’amore. Alcuni si convertono in statue viventi, altri, molti, si contendono spiccioli di Euro e scampoli di gloria intralciando il passo di chi gira rapito dalle magie dell’architettura e incantato dalla musica di qualche chitarra che suda flamenco. Posano per una foto e chiedono un contributo per le ore spese vestiti da fumetto, modei picaros senza arte né parte.

Presenti in ogni città turistica, a Madrid hanno fatto il nido e conquistato il centro, colorata e allegra denuncia di una crisi economica che non accenna a passare e che vede la Spagna vivere il suo momento più nero dopo gli anni delle vacche grasse.
Per i primi che vi si sono dedicati, questa sorta di attività para-turistica è stata in effetti una buona opportunità per sbarcare il lunario, in attesa di potersi riconvertire professionalmente. Ultimamente, molti hanno infatti perso un lavoro che, fino a pochi anni fa, era ritenuto discretamente sicuro, tanto nell’edilizia quanto nel turismo. Oggi, l’inflazione dei personaggi di gommapiuma crea una stagnazione anche in questa piccola e spontanea Disneyland nel cuore della capitale spagnola.
Due statue viventi esemplificano la situazione. La prima è «l’uomo con le valigie» , figura di «migrante immobile», una vera e propria contraddizione in termini. Eppure, a ben pensarci, modello di non pochi viaggiatori della speranza, fermati alla frontiera del sogno europeo o titubanti se tornare da dove vengono e consegnarsi alla storia di sempre, da cui si è fuggiti, stanchi di sfidare la sorte e le bizze dell’economia spagnola che li sta tradendo.
Il secondo è una caricatura di Gesù, immobile al centro della Plaza del Sol, a guardare inebetito una folla di gente che non lo va più a cercare in chiesa, ma lo trova lì a sudarsi lo spazio fra un guerriero Apache e una sagoma di Pippo. Anche lui, povero Cristo, cerca di guadagnarsi una resurrezione a breve termine. Di questi tempi, si accontenterebbe forse anche solo di quella del Pil.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Il peso del MITO

Monsignor Romero

Ricordo bene la prima volta in cui sentii parlare male di Monsignor Oscar Aulfo Romero. L’invettiva lanciata all’indirizzo dell’ex arcivescovo di San Salvador da parte di una sua relativamente giovane conterranea fu pesante, l’equivalente di «vecchio schifoso comunista». La donna considerava anche lui responsabile della sua situazione di emigrata, nonché della perdita di status e benefici garantiti a lei e alla sua famiglia dal lavoro svolto a suo tempo in patria: impiegata in un ministero. In fondo, riceveva lo stipendio da chi con il vescovo ce l’aveva al punto da farlo fuori. Lo ammetto, ci restai male.
Del resto, che sulla figura del presule salvadoregno non ci sia mai stata uniformità di pensiero è un fatto che non si discute. All’interno della chiesa stessa, per alcuni Romero sarebbe da fare «santo subito», per altri «santo mai». Sono convinto che, come successo in occasione degli anniversari precedenti, neppure la celebrazione del trentennale di questo martire della fede e della giustizia, il 24 marzo prossimo, darà impulso al processo di beatificazione che lo riguarda.

Tuttavia, ciò che dovrebbe farci riflettere, al di là della possibilità di trovare un giorno San Oscar Aulfo sul calendario, è l’ingiallimento progressivo che la sua memoria sta subendo, come se fosse una vecchia foto che l’incedere degli anni priva di contrasto e nitidezza. Non è detto, comunque, che questo fatto debba risultare del tutto negativo. In passato, Romero ha sicuramente pagato lo scotto di una qual certa strumentalizzazione politica, concretizzatasi nella costruzione di un mito tanto ingombrante quanto estraneo alla profonda motivazione cristiana che ne animava l’azione pastorale. Una riscoperta in chiave puramente evangelica della sua persona eviterebbe, forse, di prestare il fianco a pericolose forme di revisionismo e, soprattutto, fornirebbe un modello sempre attuale di testimonianza del Vangelo, senza compromessi e senza frontiere.
Anzi, le battaglie di Romero, proprio perché combattute alla luce e con la forza della Parola e non di un’ideologia, mantengono tutta la loro freschezza e carica ispiratrice, riproponendo una lettura profetica della realtà che, come la Buona Novella, non conosce confini e mai dovrebbe appassire.
Sono innumerevoli, oggi, le sacche di povertà e le situazioni di ingiustizia che chiedono ai cristiani un’azione che sia allo stesso tempo di annuncio e denuncia. La figura dell’arcivescovo di San Salvador, la sua presa di coscienza della realtà e il conseguente, radicale abbraccio al messaggio di giustizia del Vangelo possono e dovrebbero servirci da modello di autentico servizio profetico alla nostra chiesa. Oggi come oggi e anche qui in Italia, il suo «lasciarsi convertire ed evangelizzare dai poveri» rimane per noi una sfida profondamente missionaria, ben sapendo che tale assunzione di responsabilità può arrivare a presentare un conto ben salato.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Bandiere

Sono un inguaribile scettico. Non riesco a credere, ad esempio, che il contingente militare internazionale che si trova oggi in Afghanistan sia lì esclusivamente per aiutare il governo locale ad essere sovrano sul proprio territorio, garantendo sicurezza ed autonomia a quella parte del paese che vuole combattere il terrorismo. Vorrei, ma non ci riesco. Non soltanto perché continuo ad avere dei problemi con l’uso (e l’abuso) del termine «terrorista», ma soprattutto perché non ce la faccio proprio ad immaginarmi un’attenzione occidentale tutta rivolta al governo afgano e al suo presidente eletto (mentre scrivo non si sono ancora svolte le elezioni presidenziali previste per il 20 agosto). Un grillo parlante continua a ripetermi che gas, petrolio e alleanze strategiche hanno a che vedere con il nostro intervento molto più del buon cuore.
La guerra ha una sua logica perversa che purtroppo la distanza dagli eventi non aiuta a comprendere. Si corre il rischio di rimanere affettivamente e intellettualmente indifferenti di fronte al quotidiano svolgersi di un conflitto armato se non ci si è immersi o non si ha un figlio, un fratello, un marito che pattugliano armati le strade di qualche remota vallata o sconosciuta città. Eppure la contemplazione di questi genitori, fratelli o coniugi in divisa dovrebbe, al di là di ogni sentimentalismo, tener sempre viva una domanda che trascenda le ragioni di ogni singolo conflitto: perché la guerra?
Ogni feretro che tra mille onori e squilli di tromba rientra in patria avvolto in una bandiera ci impone una sosta e un interrogativo: perché, da sempre e quasi ineludibilmente, l’essere umano costringe il suo simile alla celebrazione di tali riti? In Inghilterra la chiamano «the visit», la visita, il momento più temuto da migliaia di famiglie britanniche: l’arrivo di un ufficiale in borghese con la notizia che mai e poi mai si sarebbe voluto ascoltare.
Nel mese di luglio ho trascorso un brevissimo periodo a Londra. Un paio di giorni prima del mio arrivo il contingente inglese di stanza in Afghanistan era andato incontro al più sanguinoso episodio bellico di questi ultimi decenni: otto militari di Sua Maestà erano stati uccisi in tre diversi episodi nell’arco di sole 24 ore. Tre di questi soldati erano diciottenni e uno di loro aveva perso la vita cercando di portare in salvo un suo commilitone di appena due anni più anziano. Quel giorno le crude statistiche dei quotidiani d’oltre manica recitavano impietosamente: 184 soldati morti in Afghanistan contro i 179 caduti in Iraq. Politicamente, già le prime reazioni indicavano la volontà di proseguire l’impegno armato al fianco degli alleati, cercando di capire come vincere una guerra che si ha ora paura di perdere. Per la strada, in metropolitana e nella posta dei lettori di molti quotidiani la gente comune si chiedeva invece: «Che ci stiamo a fare lì? Dobbiamo uscire da quel pantano; ogni volta preghiamo che questo morto sia l’ultimo, sapendo che non sarà così».
La nostra domanda di significato deve andare al di là delle fredde analisi politiche come delle emozioni dettate dal singolo episodio, cogliendo e facendosi carico delle ragioni di «tutte» le vittime di un conflitto. A conti fatti, dopo tanto ragionare non dubito che si arriverà alla stessa conclusione a cui ci conduce la follia del vangelo: nessuna guerra ha un senso. Tocca ai cristiani gridarlo a gran voce, più di quanto si stia facendo.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




INNAMORATI DELL’UMANITA’

Anno sacerdotale

L’anno sacerdotale (19 giugno 2009 – 19 giugno 2010) indetto dal papa, avente come slogan significativo: «Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote» è una preziosa opportunità per riflettere, non solo sull’attuale momento di difficoltà legata al calo di vocazioni che si riscontra nei paesi di antica cristianità ed in particolare nel nostro paese, ma anche e soprattutto sulle positive prospettive che da sempre il sacerdozio sa esprimere in tempi e situazioni difficili.
In quest’ottica a noi interessa porre l’accento sulla missionarietà del presbitero intesa non solo in senso geografico, ma soprattutto in senso antropologico. La meravigliosa avventura di essere prete, di agire cioè come costruttore di comunità, intessendo relazioni profonde dal punto di vista umano e presiedendo la celebrazione dei sacramenti con la propria gente, pone il servizio sacerdotale in una condizione autorevole di riferimento che di generazione in generazione si è profondamente sedimentata e radicata nel cuore stesso della chiesa popolo di Dio. Va da sé che tale servizio, proprio per essere più che mai aderente allo spirito evangelico, necessita di uomini che siano tali nel vero senso della parola, capaci quindi di esprimere al meglio i talenti ricevuti sia sul piano personale come quelli acquisiti negli anni della formazione.

Q uando nel 1984 Giovanni Paolo II nel ricordo di san Carlo Borromeo visitò il santuario di Varallo Sesia, al quale era particolarmente devoto, incontrò il clero piemontese, a cui diede un mandato insolito; rivolgendosi al folto gruppo di sacerdoti che si era stretto attorno a lui, papa Wojtyla disse: «Uscite dalle canoniche, incontrate la gente, parlate con loro, fatevi raccontare problemi e speranze che attraversano i loro cuori».
Questa autorevole esortazione racchiude un profondo anelito missionario, in quanto presenta il servizio sacerdotale come un cammino continuo accanto agli uomini e alle donne di ogni tempo, mettendo così il presbitero nella condizione di poter parlare a Dio degli uomini e agli uomini di Dio. Oggi più che mai abbiamo bisogno di sacerdoti capaci di relazione, innamorati dell’umanità loro affidata, che si rispecchia nei volti di bambini, giovani, adulti, anziani che incrociando lo sguardo del «loro prete», si sentano capiti e amati più che giudicati!
Tutto ciò implica da parte dei presbiteri un continuo aggioamento del loro modo di essere e del loro modo di fare: verificare fino in fondo quanto importante sia saper «perdere tempo» con la gente, magari anche saper essere presente proprio in quei luoghi dove meno uno si aspetta di vedere la figura del prete.

L’attuale crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo accentua in maniera drammatica la precarietà di tante famiglie dove la insicurezza del lavoro (a volte l’improvvisa mancanza di esso) si ripercuote con crisi familiari che investono rapporti tra marito e moglie, tra genitori, figli, parenti, amici e via dicendo.
La tentazione di uscie con «furbizia italica», magari passando sulla testa dei più deboli, è sempre in agguato: saper convogliare all’interno della comunità cristiana tensioni sociali e drammi familiari che, riletti nell’ottica della speranza cristiana diventano un motore di cambiamento, è un’arte difficile ma preziosissima che ogni sacerdote dovrebbe coltivare, ponendosi alla scuola di quei grandi pastori che anche nelle ore più difficili hanno saputo sostenere il loro gregge, aiutandolo a percorrere impervi sentirneri che da soli forse non sarebbero stati capaci di attraversare.
Non dimentichiamoci mai che la missionarietà, prima di essere vissuta nell’orizzonte dell’impegno ad gentes, deve essere incarnata nell’impegno verso gli altri: Gesù, a differenza di san Paolo, non si allontanò mai dalla sua terra, però ruppe barriere e frantumò schemi mentali inossidabili, come quelli degli scribi e farisei, andando verso categorie e persone tenute ai margini della società e della gente «perbene». La sua missionarietà fu dirompente proprio perché osò andare incontro a persone che l’opinione pubblica del tempo giudicava impure o indegne: l’essersi seduto a tavola con i peccatori, aver dialogato con l’adultera, aver condiviso il pane con amici che al momento della prova lo piantarono in asso, ne fa un modello di missionarietà forse meno appariscente di quello di san Paolo, ma proprio per questo alla portata di ogni presbitero che operi in Italia o nel terzo mondo e sull’esempio del Maestro di Nazareth sia fedele a Dio e amico dell’uomo, ed abbia un’ardente passione per i poveri ed i sofferenti, che arda continuamente nel proprio cuore.

Mario Bandera

Mario Bandera




«Dagli all’immigrato»

(sempre la solita solfa)

Vorremmo non tornare sempre sullo stesso argomento. Vorremmo… ma non si può. È l’attualità, quella stessa attualità che noi, scrivendo su un mensile, siamo costretti a rincorrere senza mai raggiungere, che si impone e detta l’agenda, che oggi dice ancora una volta immigrati e sicurezza.
Parlare del Sud del mondo, come alcuni dei nostri lettori vorrebbero facessimo, stendendo un velo di pietoso quanto omertoso silenzio su quanto sta avvenendo oggi in Italia, significherebbe tradire quei popoli che con la nostra vocazione ci siamo impegnati a servire. Li abbiamo incontrati là, li ritroviamo qui… e a volte non ci riconoscono più per quello che un tempo dicemmo loro di essere. Il cristiano, ancor più se sente sulla propria pelle il fuoco della missione, non può fare scena muta di fronte al continuo aumentare di segnali di intolleranza, ingiustizia e strisciante razzismo che continuano a insinuarsi, giorno dopo giorno, nell’arena politica, nei media e, logicamente, nelle conversazioni da bar. Chiaramente bisogna fare attenzione a non lasciarsi impigliare nelle reti di chi strumentalizza il discorso immigrazione a scopi elettorali; affrontare il dibattito a partire dal modello «destra-sinistra» vuol dire infilarsi nel vicolo cieco della retorica, dalla quale è difficile uscire con proposte concrete che non siano una semplice reazione ad una posizione espressa dalla controparte. Anzi, sarebbe bene che dichiarazioni e prese di posizione non diventino appannaggio esclusivo delle forze politiche, pronti per essere convertiti in spot elettorali. Noi cristiani, per esempio, cosa abbiamo da dire? Noi, uomini e donne che si emozionano nel leggere la parabola del buon Samaritano, persone invitate ad essere benevolenti, chiamate a scorgere e rispettare in ogni uomo quella scintilla divina che crediamo possedere? Cosa ci sentiamo di esprimere? Ci accontentiamo di ripetere il verbo del nostro politico di riferimento o puntiamo a far echeggiare il Verbo, sine glossa, senza compromessi?

Il mondo cattolico è un mondo variegato. C’è sicuramente chi, anche tra i nostri lettori, approva l’operato del Goveo, reclama ancor più sicurezza, si fiderebbe delle ronde civiche come ulteriore mezzo di protezione del cittadino. Sono quei lettori che ogni tanto ci bacchettano per il nostro «buonismo», visto come segno di paura e di lassismo nei confronti dell’avanzata dell’onda migratoria. Sono i cristiani con cui parla Bossi, che si dice fine ascoltatore della sua gente, grande esorcista delle loro paure. Va preso atto di come tale opinione nasconda una legittima preoccupazione, un’inquietudine che interpella le forze politiche a trovare misure adatte a fronteggiare una situazione di non facile soluzione. Non si può però lasciare che alcune percezioni della realtà si enfatizzino a tal punto da trasformarsi in proclami xenofobi. Come missionari sentiamo impellente la necessità di prendere posizione. Occorre farlo prima che, come molte volte succede, mille bugie si trasformino in una inscalfibile verità. Abbiamo dalla nostra l’arma delle denuncia, ma anche quella efficacissima del racconto. A lungo termine, la narrazione delle esperienze di incontro con l’«altro» darebbe forza a chi, nonostante tutto, si ostina a ricordare casi di molti ex-clandestini, ora cittadini integrati, ottimi lavoratori; o a chi, come era solito fare don Tonino Bello, legge la storia dell Mediterraneo come culla dell’accoglienza e non si ritrovano in questo atteggiamento da buttafuori bullo che il Goveo ha ultimamente assunto. Vorremmo davvero non tornare sullo stesso argomento, ma qualcosa ci dice che saremmo invece costretti a farlo.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Acqua delle nostre brame: bisogno, ma non diritto

Si è concluso a Istanbul (Turchia), il 22 marzo scorso, il V Forum mondiale sull’acqua, una settimana di lavori a cui hanno preso parte quasi 30 mila congressisti, delegati da governi e istituzioni inteazionali. La speranza di molti era sintonizzata sulla possibilità che, finalmente, si potesse dare una risposta definitiva a uno dei problemi cruciali che investe oggi la comunità internazionale in materia del cosiddetto «oro blu», ovvero, poter definire una volta per tutte l’accesso all’acqua come un diritto fondamentale e inalienabile di ogni essere umano. Mi permetto di commentare una notizia ormai «di archivio» perché, a nome di una rivista che considera la difesa dell’ambiente e la salvaguardia del creato come parte della sua missione, considero grave il fatto che ciò non sia avvenuto.
Ogni essere umano ha diritto, senza discriminazione alcuna, di accedere a una quantità d’acqua potabile, di buona qualità, che sia facilmente raggiungibile dalla propria abitazione ed economicamente accessibile, per potee fare uso personale e domestico. Questo, in sintesi, potrebbe essere il contenuto del diritto invocato. Si tratta, umanamente parlando, di una pretesa scontata e universalmente condivisibile, che assumerebbe ben altra valenza se le venisse concesso lo status di diritto. Senz’acqua si muore, con poca acqua malsana non si va molto più in là. Purtroppo, invece, l’economico e il politico perdono sovente le tracce dell’umano.

Definendo l’acqua come un bisogno fondamentale dell’umanità, e non come un diritto, si è persa l’occasione di affermare che alla vita ci teniamo sul serio e non solo a parole. Chi difende un bisogno? Chi ne definisce l’oggettività? Chi stabilisce i criteri per cui qualcuno ha più bisogno di altri? Quanto posso o sono disposto a pagare per la soddisfazione di questo bisogno? Eccolo qui, in fin dei conti, il nocciolo del problema: il bisogno determina il prezzo di un bene. Affermare che l’acqua è un bisogno significa dire una verità talmente evidente e scontata di fronte alla quale istintivamente si è tentati di annuire, dimenticandosi che la posta in gioco è la privatizzazione selvaggia in atto di un bene che è di tutti.
Dire che l’acqua è un diritto avrebbe invece messo in chiaro che a tale bene ogni essere umano deve poter accedere senza obbligatoriamente versare un salato obolo alle multinazionali del settore. Non solo, avrebbe contribuito a promuovere altri diritti fondamentali, la cui affermazione verrebbe altrimenti penalizzata dalla mancanza di accesso a fonti di acqua. Alla faccia degli obbiettivi del millennio!

Rimando i lettori a un corposo dossier di Missioni Consolata pubblicato nel numero di giugno 2006, dal significativo titolo «Le mani sull’acqua», nonché ai contributi scientifici pubblicati nella rubrica Nostra madre terra (di Roberto Topino e Rosanna Novara). Sono il segno di un duraturo interesse di Missioni Consolata e della determinazione a continuare dalle nostre pagine la battaglia affinché l’acqua sia finalmente riconosciuta come bene sociale e diritto di tutti.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli