Attenzione contro indifferenza

Il messaggio quaresimale del Papa è finalmente arrivato, anche se all’ultimo minuto, pochi
giorni prima della Quaresima. Il tema è preso dalla lettera agli Ebrei (10,24): «Prestiamo attenzione
gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone». Tre i punti
sottolineati: l’attenzione contro l’indifferenza, la reciprocità contro l’individualismo materialista,
lo stimolo al bene contro l’appiattimento e la mancanza di speranza.
Sono parole attualissime in questa nostra società di grandi brontoloni individualisti e senza speranza.
Cito abbondantemente dal messaggio con qualche povero commento per sintetizzare in
questa paginetta dell’editoriale un testo che merita di essere letto nella sua interezza (si trova facilmente
in www.vatican.va).
«Il verbo che apre la nostra esortazione (fare attenzione, ndr.) invita a fissare lo sguardo sull’altro,
prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti
alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il
disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la “sfera privata”.
Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura
dell’altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere “custodi” dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare
relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell’altro e a tutto il suo bene.
Il grande comandamento dell’amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere
una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in
molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell’altro un vero alter ego, amato in modo infinito
dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di frateità, la solidarietà, la giustizia, così come
la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore».
Quest’attenzione ci porta ad avere a cuore il bene totale dell’altro: fisico, morale e spirituale. È un
antidoto contro il «cuore indurito» che rende ciechi alle sofferenze e bisogni altrui. Presi dai nostri
problemi, dalla crisi economica, dalla morsa del gelo, dal degrado sociale e dalla paura, noi
tutti siamo davvero a rischio di ritrovarci col cuore «indurito», cieco ed intristito. «Non bisogna tacere
di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per
semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri
fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene».
Per reagire a questa situazione occorrono reciprocità e solidarietà. L’«attenzione» è dare e ricevere,
scambiarsi doni, aiuto, sostegno, stimoli. Diventa gareggiare nel bene, rallegrarsi e ringraziare
dell’azione di Dio in mezzo agli uomini. «I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia,
vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò
significa che l’altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza.
Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione: la nostra esistenza è correlata
con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche
una dimensione sociale».
Da ultimo il Papa ci invita a «stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone: camminare insieme
nella santità». Sembra quasi un invito assurdo in questo nostro mondo, parlare addirittura
di santità in tempi in cui si fa fatica a vedere oltre il muro di neve che ci circonda, in cui si è persa la
capacità di sognare e il sopravvivere sembra la regola principale.
«Prima santi», diceva il beato Giuseppe Allamano. Puntare alla santità oggi non vuol dire essere
persone che vivono fuori del mondo, ma essere in questo mondo con una carica di speranza, di
energia, di rinnovamento unica. È una carica che fa reagire all’appiattimento, alla mediocrità, alla
disperazione. Rende capaci di ottimismo, «fa gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere
buone». Non per buonismo, ma per sete di giustizia, di solidarietà, di un nuovo modo di fare politica,
di nuove relazioni dove la persona e non il profitto sia al centro, perché la persona è immagine
di Dio. Vivere da santi è allora vivere, non semplicemente lasciarsi vivere.

                                                                                                                                         Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Pensare alternativo

Ai lettori

Due nonni sprint hanno scritto questo messaggio  natalizio  e di fine anno ai propri nipoti.
«Quest’anno vogliamo farvi un regalo in più: un po’ di fame, anzi tanta fame.
Fame di conoscere e di sapere;
fame di guardare al di là del corto orizzonte  delmondo che vi circonda;
fame d elevarvi sopra le idee ristrette che predominano nelvostro am bie nte;
fame d superare il”fanno tutti così”, il”tanto non c’è niente da fare” e il”non t occa a me” ;
fame d mettervi in gioco ogni giorno fino alla fine dei vostri  giorni;
fame d sottrarvi alla logica dell’arrivismo, dei soldi,  dell’individualismo;
fame d far prevalere ildiritto degli altri, soprattutto dei deboli e degli ultimi, sulvostro diritto;
fame d mettere davanti a tutto  ilBene Comune e non ilvostro personale;
fame d lasciarvi  escludere perché non volete conformarvi alle idee degli altri, del gruppo;
fame d ideali grandi, che vi diano la libertà e la felicità del cuore;
fame d Dio e della sua Parola, che nutra la vostra libertà, sete di giustizia  e bellezza. Elevatevil Diventate autonomi, anticonformisti, liberil Siate voi stessi l Sempre.
Oggi facciamo memoria della nascita di Dio: Dio si fa carne, diventa uno di noi, uomo come noi.
Vi liberi  dalle catene della pigrizia,  degli stereotipi e dei pregiudizi, della acriticità.
Vi doni la Sapienza, cioè l’Intelligenza, la capacità di partire dalpassato per leggere ilpresente e progettare ilvostro futuro.
Vi accompagni in scelte e in azioni sempre  positive. Questo è l’augurio che vi fanno i vostri  nonni».

Questo messaggio è stato scritto dai due nonni  dopo aver rimuginato con un po’ di amici sul primo  dei cosiddetti «dieci comandamenti» delBeato Giuseppe Alla mano: «Elevatevi ald i sopra delle idee ristrette delvostro ambiente».
Ne è venuta fuori un’interessante attualizzazione.
Mentre  scrivo, all’inizio di dicembre, ilnostro paese sta vivendo le ore traumatiche del decreto
«Salva Italia» in un misto di rassegnazione e rabbia e puntate secessioniste. Nelmondo… Avevo scritto qui una lunga lista di situazioni difficili che marcano  ilnostro tempo:  troppe e fin troppo facili  da elencare. L.:ho cancellata. Credo che tutti siamo  ben coscienti  delmomento diffici­ le per ilnostro paese e per l’umanità, anche senza altre parole superflue.
Non abbiamo bisogno di compilare liste, ma di reagire a questa situazione per non farci appiattire dalla mancanza di speranza,  dall’apparente ineluttabilità degli eventi e dalbla-bla dei politici. C’è bisogno dawero di «elevarsi aldi sopra delle idee ristrette delnostro ambien  e»
nuare a vivere e sognare e diventare soggetti  non vittime della nostra storia.  E vero, ci vogliono misure tecniche,  politche ed economiche per uscire dalla crisi in cui ci troviamo, ma queste da sole non bastano. Occorre cogliere questo tempo per fare delle riforme dentro noi stessi, nelno­ stro modo di pensare, relazionarci e agire. La crisi richiede ed offre la possibilità di un profondo rinnovamento della persona e delsuo  modo di vivere. C’è bisogno di un uomo nuovo più solidale, più sobrio, più responsabile, capace di fare ilcammino della vita a piedi e non comodamente se­ duto in macchina  brontolando nella mega-coda della vita.
Questa crisi  può essere l’occasione per riscoprire le dimensioni più vere della nostra umanità, per vedere con occh i e cuore nuovo ilnostro vicino, per inventare nuove forme d i solidarietà e costrui­ re ponti invece che trincee,  per approfondire la valenza rigeneratrice del dono della fede che sca­ tena la nostra carità e alimenta la speranza,  per liberarci dall’invasione delle cose che occupano ogni angolo di casa nostra ed anche i nostri pensieri. Pensare alternativo, pensare fraterno, pen­ sare «divino»: si può, cogliamo l’occasione.
Buon 2012.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Dare per ricevere

Editoriale

Trattati da «re»! C’è un tempo dell’anno in cui quasi tutti gli adulti sono considerati dei «re», non perché si mostri loro più rispetto, ma perché sembra scontato che possano spendere da «re», come i Re Magi di evangelica memoria, o il Babbo Natale globalizzato dalla pubblicità. A Natale, anzi molto prima, tutti mirano alle tasche del «re»: spendi, compra, dai, regala, fatti il regalo, occasioni, offerte… una girandola inarrestabile e irresistibile: cassette della posta piene, pubblicità televisiva martellante, babbi natale e sculettanti «babbe» natale che ammiccano da cartelloni pubblicitari o avvolgono i mezzi pubblici.
In quest’orgia di sollecitazioni ecco che s’inserisce anche la voce dei poveri: gridata dalle grandi organizzazioni inteazionali che li contano a milioni, sfruttata da chi su di essi ci fa la cresta nascondendosi dietro a miriadi di sigle accattivanti, sussurrata da chi con i poveri davvero ci vive e li conosce per nome.
Noi di Missioni Consolata, con i nostri missionari e missionarie sul campo, vorremmo essere la voce di chi i poveri li conosce per nome, con i poveri vive e con essi condivide l’insicurezza, la paura, il pianto, il dramma della fame, l’abbruttimento dell’ignoranza, la violenza della guerra.
Il sogno di ogni missionario è quello di potersi dedicare completamente alla lode di Dio, all’annuncio della Parola, alla celebrazione della vita e della gioia di una comunità che cresce nella pace. La realtà è invece ben altra: ha a che fare ogni giorno con le sofferenze di chi è marginalizzato, discriminato, tagliato fuori da sanità ed educazione, sfruttato e sottopagato, costantemente malnutrito, violentato da guerre e ignorato. Lui, l’uomo della Parola e dell’Eucaristia, deve allora farsi mendicante in favore della gente che ama, dare voce a chi non ha voce, rompere amici e uomini di buona volontà che vivono in un mondo dove la povertà degli altri dà quasi fastidio perché percepita come una minaccia o una seccatura in più in questo contesto di crisi economica, di sfascio politico, di fine del sogno di poter vivere al di sopra dei propri mezzi.
È per amore dei poveri con cui abbiamo a che fare ogni giorno che come missionari continuiamo a bussare al vostro cuore e lo facciamo in modo particolare in questo tempo di Natale. Sono tempi di magra anche in Italia. Ma se soffriamo noi, i poveri soffrono ancora di più, perché il loro livello di vita era già allo stremo da tempo. Sicuramente oggi siamo tutti a corto di soldi, ma non dovremmo essere a corto di cuore. Condividere quando si ha il sovrappiù forse è facile (certo non per la «casta»!). Condividere quando si è in difficoltà, richiede grande amore. Un amore così è un segno di speranza, è una dichiarazione di fiducia, è attestare che l’Umanità non è morta.
Per questo Natale l’appello principale è quello della fame nel Coo d’Africa (vedi reportage a pag. 49-53), una situazione che non si corregge in pochi giorni: l’emergenza durerà almeno fino a febbraio 2012. Ma accanto a questo ci sono tutte le altre opere di ordinaria carità soprattutto nel campo della sanità e dell’educazione. A gennaio 2012 comincia il nuovo anno scolastico in tutta l’Africa e in diversi paesi dell’America Latina: rette scolastiche, divise, libri, materiale didattico, strutture di accoglienza, cibo per i collegi… le adozioni a distanza (sia tramite la nostra onlus/ong, che attraverso gruppi e onlus/ong che sostengono i Missionari della Consolata nel mondo) sono un aiuto essenziale per dare continuità ad un servizio educativo che ha bisogno di tempi lunghi.
«Date e vi sarà dato, una misura colma, abbondante…». Le parole di Gesù non sono vane. Se state pensando a come vivere il Natale, pianificando i regali da fare, le vacanze da far stare dentro i bilanci sempre più magri… non dimenticate i poveri. Vi ritoerà tutto con gli interessi. Grazie.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Pace in terra …

«E questo l’annuncio degli Angeli che, 2000 anni fa, accompagnò la nascita di Gesù Cristo (cfr. Lc 2,14) e che sentiremo risuonare giorniosamente nella santa notte di Natale, quando verrà solennemente aperto il Grande Giubileo. Questo messaggio di speranza che giunge dalla grotta di Betlemme vogliamo riproporre all’inizio del nuovo Millennio: Dio ama tutti gli uomini e le donne della terra e dona loro la speranza di un tempo nuovo, un tempo di pace. Il suo amore, pienamente rivelato nel Figlio fatto carne, è il fondamento della pace universale. Accolto nell’intimo del cuore, esso riconcilia ciascuno con Dio e con se stesso, rinnova i rapporti tra gli uomini e suscita quella sete di frateità capace di allontanare la tentazione della violenza e della guerra».
Così scriveva Giovanni Paolo II nel messaggio per la pace dell’anno 2000, all’inizio del terzo millennio. Sono parole che mantengono tutta la loro attualità anche alla fine di questo 2011 che è stato così pieno di speranza e disperazione e sembra concludersi all’ombra di nuove minacce di guerra. Ho provato mentalmente a ripercorrere gli avvenimenti di morte che hanno segnato quest’anno. È una lista impressionante: terremoti, guerre, attentati, fame, crisi politica, crisi economica, alluvioni, l’ostinazione dei dittatori, licenziamenti, insicurezza, dimostrazioni violente… Da far dire «basta con 2011»! Ho poi pensato alle positività, agli avvenimenti che incoraggiano e danno speranza. Ne ho vissuti diversi a livello personale: è una lunga lista, ma non voglio tediarvi col mio particolare. Di quelli più universali ne ricordo alcuni, a caso: la nascita del nuovo Sudan, la primavera araba, la giornata della gioventù a Madrid, la bella solidarietà da gente a gente nelle calamità, la generosità contro la fame, l’incontro di Assisi…
Ecco, l’incontro di Assisi! Ci riporta al tema della pace, dono del Dio fatto Uomo e proposta d’impegno della Giornata della Pace all’inizio del nuovo anno. «Educare i giovani alla Giustizia e alla Pace» è il tema del 2012.
Educare alla pace: è una sfida per tutti. Si educa alla pace vivendo la pace. Ma come si possono educare i giovani alla pace se noi non la viviamo? E come possiamo viverla se non viviamo la fede in Colui che «la nostra Pace»? Papa Benedetto, ad Assisi, ha detto con forza che usare la fede cristiana per giustificare la violenza, l’esclusione, le barriere e le segregazioni, «è una vergogna», è «un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua natura. Il Dio in cui noi cristiani crediamo è il Creatore e Padre di tutti gli uomini, a partire dal quale tutte le persone sono tra loro fratelli e sorelle e costituiscono un’unica famiglia. La Croce di Cristo è per noi il segno del Dio che, al posto della violenza, pone il soffrire con l’altro e l’amare con l’altro. Il suo nome è “Dio dell’amore e della pace” (2 Cor 13,11)».
Per educare alla vera pace è necessario allora ritornare alle radici della fede, perché la pace può essere davvero accolta e vissuta solo da quelli che vivono per piacere a Dio. Qual è il sacrificio davvero gradito a Dio? Fare la sua volontà, con cuore puro. «Questa è la volontà del Padre mio, che vi amiate… Questo vi comando: amatevi come io vi ho amato».
Una visione troppo idealista e spiritualista? Forse. Ma se davvero provassimo a vivere quello che diciamo di essere, a passare dall’apparire all’essere cristiani (di/in/con/per Cristo), dal relegare la fede alla chiesa al viverla nel quotidiano senza paura del prezzo da pagare e senza i compromessi del politicamente corretto, allora sì, la pace avrebbe davvero la possibilità di prevalere in questo mondo.

Pace in terra agli uomini in cui Dio si compiace…
Buon Natale e che la Speranza che è nel nostro cuore diventi amore e giustizia vissuta nel quotidiano dell’anno che viene.

Gigi Anataloni




La vergogna della fame

La povertà, il sottosviluppo e quindi la fame sono spesso il risultato di atteggiamenti egoistici che partendo dal cuore dell’uomo si manifestano nel suo agire sociale, negli scambi economici, nelle condizioni di mercato, nel mancato accesso al cibo e si traducono nella negazione del diritto primario di ogni persona a nutrirsi e quindi ad essere libera dalla fame. Come possiamo tacere il fatto che anche il cibo è diventato oggetto di speculazioni o è legato agli andamenti di un mercato finanziario che, privo di regole certe e povero di principi morali, appare ancorato al solo obiettivo del profitto? L’alimentazione è una condizione che tocca il fondamentale diritto alla vita. Garantirla significa anche agire direttamente e senza indugio su quei fattori che nel settore agricolo gravano in modo negativo sulla capacità di lavorazione, sui meccanismi della distribuzione e sul mercato internazionale. E questo, pur in presenza di una produzione alimentare globale che, secondo la FAO e autorevoli esperti, è in grado di sfamare la popolazione mondiale.

Papa Benedetto XVI
udienza alla Fao, 1 luglio 2011

Verso metà giugno ho cominciato a ricevere notizie della grave situazione di fame in Kenya, soprattutto nel Nord, dove anche nella «mia» Maralal (è stata la prima missione per me) la gente muore letteralmente di fame a causa di un lunghissimo periodo di siccità. So cosa vogliano dire siccità e fame: ero là nel 1992 quando sconvolsero la vita della gente e nella missione distribuivamo razioni a oltre 2000 persone ogni settimana e acqua ogni giorno a più di 700 famiglie. In quel frangente molto bestiame morì, ma non le persone. Ora, 20 anni dopo, la siccità ha colpito ancora e non solo muore il bestiame, ma con esso le persone, senza che ci siano scorte sufficienti, senza un efficace piano di aiuti, con il prezzo del cibo alle stelle e le solite speculazioni sulla pelle della gente. Questo mentre il Kenya (ma non è l’unico paese africano a farlo!) continua ad esportare fiori verso l’Europa (20% del mercato), latte (anche in Italia), verdura fresca per i supermercati londinesi e granaglie – svuotando le sue riserve – verso altri paesi africani che pagano meglio.
Per contro, viaggiando nella nostra bella Italia si nota facilmente come le aree incolte siano in aumento. Chi è troppo piccolo per l’agricoltura non coltiva più, chi è grande riceve invece sussidi per non coltivare oppure, invece di produrre per cibo, produce per il ben più redditizio mercato della cosiddetta bio-energia, che di «bio» (vita) ha davvero poco.
Poi sento da amici panettieri dell’esorbitante quantità di pane che sono costretti a buttare ogni giorno perché non «fresco di giornata», e dello spreco delle mense aziendali, scolastiche e pubbliche che non possono riciclare il cibo inutilizzato, e dei ristoranti e supermercati che buttano via quantità industriali di prodotti ancora perfettamente commestibili a causa di date di scadenza iperprotettive, spesso più utili alle tasche dei produttori che alla salute dei consumatori. Senza poi dimenticare le tonnellate di prodotti (dal latte alle arance) mandati bellamente al macero per non abbassare i prezzi di mercato, ed i magazzini nazionali e comunitari che hanno riserve di cibo ben inferiori a quanto previsto dalla legge e dal buonsenso perché costa troppo gestirle.
E c’è di peggio: il cibo è diventato preda della speculazione in borsa, con investitori senza scrupolo e senza controllo che ne fanno salire artificialmente il prezzo. E allora si capisce il perché delle «rivolte del pane», della rabbia dei poveri, delle morti per fame. Quale povero, guadagnando due dollari al giorno (se li guadagna!), può permettersi di pagae uno per un solo chilo di farina? E la farina da sola non basta, ci vogliono acqua pulita, carbone, olio, verdura, frutta, carne, sale, zucchero… che diventano lussi impossibili. Quante persone può saziare un chilo di farina, se le sazia?
È semplicemente un’oscenità che dopo tanto parlare, tanti dispendiosi ed enfatici summit a tutti i livelli per debellare la povertà entro il 2015, continuino a morire di fame uomini e donne in molte parti del pianeta. È il fallimento della politica che invece di servire il bene comune si è arresa alla logica del profitto, del più forte e di chi, ancor oggi, continua a pensare che una minoranza ricca abbia il diritto di accaparrarsi tutto, perché il mondo è fatto di dominatori e dominati, padroni e schiavi, benestanti e poveracci, di chi elargisce il lavoro e di chi deve ringraziare di avere il privilegio di lavorare anche se sottopagato, precario, sfruttato e perennemente indebitato.
Qualcuno certo dirà: «Non sono discorsi da missionari questi! Questo è fare politica!»
Forse, però vada a dirlo ai tanti missionari, missionarie e volontari che sul fronte della fame, della guerra, della povertà devono seppellire i morti…

di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Consolazione

Editoriale

Quando l’ultimo giorno di settembre 1964 lasciai casa per entrare in seminario, mia madre aveva le lacrime agli occhi, e non di gioia. Era al nono mese di mio fratello e il mio aiuto in casa (ero il «più grande» di sette [più uno]) sarebbe stato una benedizione. Anni dopo, alla mia ordinazione, il fotografo colse altre lacrime sul suo volto, di gioia stavolta, quella stessa gioia quieta e profonda che traspariva in lei ogni volta che poteva venire con me, anche se non glielo chiedevo, per una messa o una celebrazione. L’immagine della consolazione, contenta per il figlio.
Ho rivisto lei, quel suo sorriso contento, pensando alla Madonna Consolata di cui ricordiamo la festa il 20 di questo mese, Colei che è così colma di consolazione da diventare Consolatrice. Consolazione è rallegrarsi per il bene fatto da altri e realizzato in altri, è vedere la bellezza, sperare contro ogni speranza, vivere la primavera, giornire delle cose buone. Consolazione non si coniuga con invidia, pettegolezzo, gelosia, egoismo e violenza. Consolazione si declina con pazienza, mitezza, comprensione, cooperazione, attenzione, cura, solidarietà, gratuità. Consolazione porta pace, gioia, rispetto, fiducia, stima, apprezzamento. Consolazione non è solo dare, ma anche capacità di ricevere, attitudine questa che forse è la più carente nella nostra vita comunitaria ed ecclesiale.
Lo stile missionario della Consolazione è quello di chi non spegne il «lucignolo fumigante», coglie il positivo anche nelle situazioni più dure, offre una possibilità a chi lo ha già fregato tante volte, benedice i nemici, collabora con chi la pensa in modo diverso, si rallegra per il bene fatto dagli altri, incoraggia chi prova a far qualcosa di buono e nuovo, corregge – non ammazza – chi ha sbagliato, dà speranza ai disperati, accoglie gli emarginati … ups, che stia parlando di Uno che è finito in croce 2000 anni fa? «Andando, evangelizzate», ci ha detto, Lui che è la Consolazione attesa dalle genti. Consolare ed essere consolati: ecco un modo speciale di essere «buona notizia» in questo nostro mondo così pieno di paure, sospetti e rabbie.
I missionari e le missionarie della Consolata, che sono convinti di avere il «carisma» della consolazione come elemento distintivo tra tutti gli altri missionari, concluderanno i capitoli generali proprio il giorno della festa della «loro» Madonna, il prossimo 20 giugno, dopo aver dedicato sei intere settimane a capire cosa significa – in questo oggi – essere missionari di Cristo secondo il carisma della Consolata, nella versione data dal Beato Allamano (vedi il dossier di questo numero). Il desiderio (su cui invitiamo tutti ad unirsi in preghiera) è che abbiano il coraggio del loro «carisma» in questo mondo sempre più tentato di diventare come una colonia di ricci ossessionata dalla paura e dal mito della sicurezza, per continuare a rilanciare il messaggio di Gesù con lo stile che il Beato Giovanni Paolo II ha così ben sintetizzato all’inizio del suo pontificato: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!» (22 ottobre 1978).
È in questo spirito che si guarda con angoscia a quanto succede in Libia e negli altri paesi attorno al Mediterraneo, e che non si possono condividere le paure di chi vorrebbe erigere barriere nel Mare nostrum, come se la causa di tutti i nostri mali venisse solo da fuori. «No alla guerra! – diceva Giovanni Paolo II al Corpo Diplomatico il 13 gennaio 2003 -. La guerra non è mai una fatalità; essa è sempre una sconfitta dell’umanità. Il diritto internazionale, il dialogo leale, la solidarietà fra Stati, l’esercizio nobile della diplomazia, sono mezzi degni dell’uomo e delle Nazioni per risolvere i loro contenziosi». Chi ci guadagna da questa guerra fatta col contagocce, giocata sulla pelle dei libici e manovrata da non così oscuri interessi?
Grazie a tutti coloro che in questa nostra Italia hanno il coraggio di andare contro il politicamente corretto e il clamore mediatico e, con silenziosa discrezione, continuano a compiere azioni di accoglienza, amore, giustizia, pace e compassione sia verso gli immigrati sia verso gli stessi italiani che più soffrono a causa della crisi sociale e civile che stiamo tutti vivendo.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Guerra libica / Odissea dalla politica

Mentre parlano solo le armi, si resta senza parole. Ammutoliti, sconcertati. Anche noi di Pax Christi, come tante altre persone di buona volontà.
Il regime di Gheddafi ha sempre mostrato il suo volto tirannico. Pax Christi, con altri, ha denunciando le connivenze di chi, Italia in testa, gli foiva una quantità enormi di armi senza dire nulla, anche dopo la sua visita in Italia «sui diritti umani violati in Libia, sulla tragica sorte delle vittime dei respingimenti, su chi muore nel deserto o nelle prigioni libiche. Il dio interesse è un dio assoluto, totalitario, a cui tutto va immolato. Anche a costo di imprigionare innocenti, torturarli, privarli di ogni diritto, purché accada lontano da qui. In Libia.» (Pax Christi 2 settembre 2010).
Il Colonnello era già in guerra con la sua gente anche quando era nostro alleato e amico!
Non possiamo tacere la triste verità di un’operazione militare che, per quanto legittimata dal voto di una incerta e divisa comunità internazionale, porterà ulteriore dolore in un’area così delicata ed esplosiva, piena di incognite ma anche di speranze. Le operazioni militari contro la Libia non ci avvicinano all’alba, come si dice, ma costituiscono un’uscita dalla razionalità, un’ «odissea» perchè viaggio dalla meta incerta e dalle tappe contraddittorie a causa di una debolezza della politica.
Di fronte a questi fatti, vogliamo proporre cinque passi di speranza e uno sguardo di fede.
1) Constatiamo l’assenza della politica e la fretta della guerra. È evidente a tutti che non si sono messe in opera tutte le misure diplomatiche, non sono state chiamate in azione tutte le possibili forze di interposizione. L’opinione pubblica deve essee consapevole e deve chiedere un cambiamento della gestione della politica internazionale.
2) Si avverte la mancanza di una polizia internazionale che garantisca il Diritto dei popoli alla autodeterminazione.
3) Non vogliamo arrenderci alla logica delle armi. Non possiamo accettare che i conflitti diventino guerre. Teniamo desto il dibattito a proposito delle azioni militari, chiediamo che esse siano il più possibile limitate e siano accompagnate da seri impegni di mediazione. Perché si sceglie sempre e solo la strada della guerra? Ce lo hanno chiesto più volte in questi anni i tanti amici che abbiamo in Bosnia, in Serbia, in Kosovo, in Iraq.
4) Operiamo in ogni ambito possibile di confronto e di dialogo perché si faccia ogni sforzo così che l’attuale attacco armato non diventi anche una guerra di religione. In particolare vogliamo rivolgerci al mondo musulmano e insieme, a partire dall’Italia, invocare il Dio della Pace e dell’Amore, non dell’odio e della guerra. Ce lo insegnano tanti testimoni che vivono in molte zone di guerra.
5) Come Pax Christi continuiamo con rinnovata consapevolezza la campagna per il disarmo contro la produzione costosissima di cacciabombardieri F-35. Inoltre invitiamo tutti a mobilitarsi per la difesa della attuale legge sul commercio delle armi, ricordiamo anche le parole accorate di don Tonino Bello: «dovremmo protenderci nel Mediterraneo non come “arco di guerra” ma come “arca di pace”».
Giovanni Paolo II per molti anni ha parlato dei fenomeni bellici contemporanei come «avventura senza ritorno», «spirale di lutto e di violenza», «abisso del male», «suicidio dell’umanità», «crimine», «tragedia umana e catastrofe religiosa». Per lui «le esigenze dell’umanità ci chiedono di andare risolutamente verso l’assoluta proscrizione della guerra e di coltivare la pace come bene supremo, al quale tutti i programmi e tutte le strategie devono essere subordinati» (12 .01.1991).*
In questa prospettiva Pax Cristi ricorda ai suoi aderenti che il credente riconosce nei mali collettivi, o strutture di peccato, quel mistero dell’iniquità che sfugge all’atto dell’intelligenza e tuttavia è osservabile nei suoi effetti storici. Nella fede comprendiamo che di questi mali sono complici anche l’acquiescenza dei buoni, la pigrizia di massa, il rifiuto di pensare. Chi è discepolo del Vangelo non smette mai di cercare di comprendere quali sono state le complicità, le omissioni, le colpe. E allo stesso tempo con ogni mezzo dell’azione culturale tende a mettere a fuoco la verità su Dio e sull’uomo.

Sua Ecc.za Mons. Giovanni Giudici
presidente di Pax Christi Italia

Pavia, 21 marzo 2011
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* Vedi il nostro dossier su Giovanni Paoli II in questo stesso numero.

Giovanni Giudici




Italia, 150 anni

Sarà che sono invecchiato e che mi vergogno meno di quando ero giovane nel rivelare i miei sentimenti e che oltre venti anni all’estero hanno approfondito il modo con cui sento il mio paese. Sarà che quando a Nyeri, in Kenya, la seconda domenica di novembre di ogni anno, la comunità italiana cantava l’inno di Mameli prima di cominciare la messa nell’ossario dove riposano oltre 700 nostri soldati mi venivano i lucciconi, e che quando la BBC parlava male dell’Italia – più dei suoi politici, in verità – mi sentivo ferito dentro, mentre mi si riempiva il cuore di giornioso orgoglio al vedere l’ottantenne signor Cassini venire a messa guidando una splendida Alfa Romeo rossa degli anni Venti che lui aveva costruito pezzo per pezzo con le sue mani nella sua officina nella zona industriale di Nairobi. Sarà pure che percorrendo da Naivasha a Limuru la bella e duratura strada «degli italiani», che continua a sfidare la strapiombante scarpata della Rift Valley e i camion sovraccarichi che fanno spola con l’Uganda, mi fermavo a gustare quel grido di dignità, di genio e di fede che è la cappellina colà costruita e decorata dai «nostri» prigionieri di guerra; e che guardando al Monte Kenya mi emozionavo al ricordo dell’impresa di Felice Benuzzi e compagni (raccontata nel libro «Fuga sul Kenya»), i quali, scappando dal campo di prigionia, scalarono quel grandissimo monte per provare a se stessi e ai loro carcerieri che la vera libertà non può essere contenuta da nessun filo spinato; e che visitando, sempre a Nyeri, le tombe dove riposano decine di missionari e missionarie provenienti da ogni angolo d’Italia, non potevo non essere ammirato dal grande lavoro da essi fatto in terra d’Africa, essi che, disarmati, hanno conquistato molto di più di ogni impresa coloniale nazionale. Sarà che entrando nella mostra dedicata a san Giuseppe Cafasso a Castelnuovo Don Bosco, e vedendo la ricostruzione di una cella sotterranea con tre preti incatenati, non ho potuto fare a meno di pensare che la storia d’Italia l’hanno scritta anche i preti che, gettati nelle prigioni sabaude nella seconda metà del 19° secolo, hanno dato testimonianza di coerenza e fedeltà alla loro coscienza contro la ragion politica; e che nella nuova Italia unita, con una Chiesa «assediata», ci fu un’incredibile esplosione di energia missionaria con la nascita di ben quattro Istituti specificamente missionari e la partenza per i quattro angoli del mondo di migliaia di missionari e missionarie, volontari e volontarie che spesso hanno pagato con la vita la loro dedizione ai poveri e al Vangelo…

Sarà che non digerisco il fatto di essere stato classificato, senza essere consultato, come «padano» mentre ho sempre saputo di essere «italiano» dalla nascita, anche se ho mangiato polenta mattino, mezzogiorno e sera tutta la mia infanzia e ho scoperto con piacere la bontà di un piatto di spaghetti e una bella pizza calda solo «da grande»; e che mi rattrista il «particolarismo» dalla memoria corta di chi vuol costruire muri per difendere il proprio benessere e punta il dito contro gli «altri» e si richiama a tradizioni che non sono mai esistite se non nei miti di chi manipola la storia; e che, per di più, sono fiero di essere un italiano-padano frutto di incroci sconosciuti che mescolano sangue e genio dai quattro venti (come da sempre è successo nelle nostre pianure che hanno visto il passaggio di popoli da ogni dove, amici e nemici).

Sarà che …
Potrei andare avanti ancora, ma non serve. Il fatto è che sono felice di essere italiano, di far parte di un’Italia unita, pur con la sua storia non sempre gloriosa e le contraddizioni congenite. Questa nostra nazione non è certo perfetta, in più oggi è corrotta e resa egoista dal troppo benessere, oltre che essere governata da una classe dirigente a dir poco discutibile e azzoppata da una burocrazia che uccide la responsabilità; ma è la mia nazione, dove ho le mie radici e la famiglia e la mia storia. Occorre certo rimboccarsi le maniche affinché la logica del profitto non corrompa tutto, e farlo mentre siamo ancora in tempo, perché, grazie a Dio, l’Italia vera non è quella delle Tv di monopolio o della propaganda politica. Amo quest’Italia fatta di gente normale, né santa né diavola, generosa ed emotiva, fantasiosa e creativa, arroccata spesso nel suo «particolare» eppure così altruista, miscuglio stupendo di razze e popoli che nei millenni qui si sono amalgamati, trasformati e unificati. Amo il verde speranza della sua bandiera, e il bianco che ricorda fede e pura bellezza, e quel rosso che richiama i martiri, e non solo quelli politici, ma per me soprattutto quelli che han dato la loro vita per la Fede, dai tempi antichi ad oggi, visto che ogni anno missionari italiani pagano il prezzo del sangue.
Concludo con un «ciao» a tutti. Il bel «ciao» che, da veneto che era, è ormai è diventato internazionale. Ciao… sciao… schiavo (suo!), forse una volta un saluto servile, oggi invece un semplice, concreto atto di cortesia, affetto, disponibilità e accoglienza. Un saluto italiano e veramente cristiano: farsi servi gli uni degli altri! Ciao.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Non ti è lecito

«Se verrete a conoscere chiaramente che sono in pericolo la salvezza e l’onestà delle figliole,
non dovrete per niente consentire, né sopportare, né aver riguardo alcuno.
Se non potrete provvedere voi, ricorrete alle madri principali e, senza riguardo alcuno,
siate insistenti, anche importune e fastidiose» (Sant’Angela Merici).

Da anni, insieme a tre mie consorelle (suore Orsoline del S. Cuore di Maria), sono impegnata
in un territorio a dire di molti «senza speranza». Un territorio, quello casertano,
sempre più in ginocchio per il suo grave degrado ambientale, sociale e culturale, dove
anche la piaga dello sfruttamento sessuale, perpetrato a danno di tante giovani donne
migranti, è assai presente con i suoi segni di violenza e di vera schiavitù.
Come donna, come consacrata, provocata dal Vangelo di Gesù che parla di liberazione e di speranza,
insieme alle mie consorelle, ho scelto di «farmi presenza amica» accanto a queste giovani
donne straniere, spesso minorenni, per offrire loro il vino della speranza, il pane della vita e il
profumo della dignità.
Oggi, osservando il volto di Susan chinarsi e illuminarsi in quello del suo piccolo Francis, scelto e
accolto con amore, ripensando alla sua storia – una tra le tante storie accolte, la quale ancora
bambina (16 anni) si è trovata sulle nostre strade come merce da comprare, da violare e da usare
da parte di tanti uomini italiani – sono stata assalita da un sentimento di profonda vergogna, ma
anche di rabbia.
Ho sentito il bisogno, come donna, come consacrata e come cittadina italiana, di chiedere perdono
a Susan per l’indecoroso spettacolo a cui tutti, in questi giorni, stiamo assistendo. E non solo a
Susan, ma anche alle tante donne che hanno trovato aiuto e liberazione e alle tante, troppe donne,
ancora schiave sulle nostre strade. Ma anche ai numerosi volontari e ai tanti giovani che insieme
a noi religiose credono nel valore della persona, in particolare della donna, riconosciuta e rispettata
nella sua dignità e libertà.
Sono sconcertata nell’assistere come da «ville» del potere alcuni rappresentanti del governo,
eletti per cercare e fare unicamente il bene per il nostro Paese, soprattutto in un momento di così
grave crisi, offendano, umilino e deturpino l’immagine della donna. Inquieta vedere esercitare, in
maniera così sfacciata e arrogante, un potere che riduce la donna a merce e dove fiumi di denaro
e di promesse si intrecciano con corpi trasformati in oggetti di godimento.
Di fronte a tale e tanto spettacolo l’indignazione è grande!
Come non andare con la mente all’immagine di un altro «palazzo» del potere, dove circa duemila
anni fa al potente di tuo, incarnato nel re Erode, il Battista gridò con tutta la sua voce: «Non ti è
lecito, non ti è lecito!».
Anch’io oggi, anche a nome di Susan, sento di alzare la mia voce e dire ai nostri potenti, agli Erodi
di tuo, non ti è lecito! Non ti è lecito offendere e umiliare la «bellezza» della donna; non ti è lecito
trasformare le relazioni in merce di scambio, guidate da interessi e denaro; e soprattutto oggi
non ti è lecito soffocare il cammino dei giovani nei loro desideri di autenticità, di bellezza, di trasparenza,
di onestà. Tutto questo è il tradimento del Vangelo, della vita e della speranza!
Ma davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i
maschi? Poche sono le loro voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi
c’è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo
mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un
grande bisogno di liberazione.
E allora grazie a te, Susan, sorella e amica, per aver dato voce alla mia e nostra indignazione, ora
posso, come donna consacrata e come cittadina, guardarti negli occhi e insieme al piccolo Francis
respirare il profumo della dignità e della libertà.

Sr. Rita e sorelle, comunità Rut

Suor Rita




110 anni di missione, per guardare in avanti

Il 29 gennaio scorso i Missionari della Consolata hanno quietamente celebrato i 110 anni di fondazione, avvenuta nel 1901 per volere della Madonna Consolata, come ha sempre insistito a dire il fondatore di fatto, il Beato Giuseppe Allamano. 110 anni sono troppi per la vita di un uomo, ma molto pochi nella storia bimillenaria della Chiesa. Eppure hanno attraversato uno dei periodi più intensi e fecondi dell’epopea missionaria modea. Nonostante questo, attorno all’avvenimento non si è respirato un’aria di celebrazione o di festa, c’era piuttosto un atteggiamento di riflessione e ricerca. Ci si è volti sì al passato con riconoscenza, ma è al futuro che si guarda cercando di capire dove il Signore sta guidando la sua Chiesa.
L’Istituto, è non solo, deve ripensare profondamente il proprio ruolo nella Chiesa tenendo conto del cambiamento epocale in atto: non solo è cambiata la geografia della missione, ma la Missione stessa! Il cambiamento è così radicale che c’è chi teorizza addirittura la fine degli Istituti Missionari come tali perché diventati ridondanti (se non un ostacolo) in una Chiesa che – stupenda riscoperta del Concilio Vaticano II ! – è tutta missionaria per natura sua.
Quanto sta succedendo non è niente di nuovo. Sono anni che si riflette, discute e ricerca su queste tematiche: che senso abbia la Missione oggi e quale sia il ruolo dei missionari ai nostri giorni. Forse di questi tempi il processo è diventato più urgente a causa di fattori molto contingenti quali la scristianizzazione accelerata del mondo occidentale concomitante con l’invecchiamento del clero, la diminuzione delle vocazioni e l’impossibilità di mantenere il tradizionale numero di attività pastorali, religiose e caritative. Gli effetti di questa situazione sono sentiti da tutti, se non altro perché in tutte le diocesi italiane è in atto una ritrutturazione e ridistribuzione del clero senza precedenti, con accorporazioni, unificazioni e chiusura di parrocchie che spesso lasciano i fedeli smarriti e amareggiati.
In questo contesto anche i missionari (quelli classici, nati per andare nelle parti più remote del mondo) sono messi in discussione. La missione è ovunque! Che senso ha andare ad annunciare il Vangelo ai «lontani» e poi lasciare che i «vicini» lo mettano nel cassetto (quando va bene) o addirittura lo buttino nella spazzatura? In più, il nuovo esercito di preti e suore che vengono dal Sud del mondo a riempire i vuoti nelle nostre case di cura, ospizi e parrocchie, sono davvero missionari o sono solo usati come tappabuchi per mantenere un sistema superato? Domande queste che non si possono evitare, ma la cui risposta non è certo facile. Questioni che gli stessi missionari e missionarie della Consolata – queste ultime appena uscite dalle celebrazioni centenarie – si pongono continuamente e su cui sono chiamati a dare risposte efficaci durante i Capitoli Generali che si svolgeranno nei prossimi mesi di maggio e giugno a Roma.
Il cambiamento in atto non ci deve spaventare. Cambia il modo di fare Missione, ma la ragione fondamentale della Missione è sempre la stessa: Gesù Cristo. La Missione ha senso solo in Lui, missionario del Padre nello Spirito Santo. E lo Spirito Santo, nei secoli, ha dimostrato di avere una fantasia creativa incredibile, senza mai lasciarsi bloccare né dalle inadeguatezze dei missionari, né dalle prepotenza delle opposte forze in campo, né dal progresso tecnologico e scientifico. Da parte nostra basterebbe forse piantarla di lagnarsi, di fare le vittime e i rassegnati, di cercare i colpevoli, di aspettare l’ultima elaborazione teologica o soluzioni magiche, e – a costo di sembrare ingenui – vivere la fede che abbiamo ricevuto in dono, ciascuno secondo il proprio stato e carisma, attraverso una testimonianza di amore fattivo che sia contemplazione, giustizia, pace, vicinanza alla persona e (perché no?) anche impegno politico nuovo. Il «mondo», in fin dei conti, ha «fame» di Gesù. Ma è davvero Gesù, il Cristo, che oggi annunciamo?

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni