(Paesi di) Serie A e serie B


Mentre scriviamo seguiamo con apprensione la guerra in Repubblica democratica del Congo. All’Est, le milizie dell’M23 stanno prendendo d’assedio la città di Goma, capitale del Sud Kivu. Due milioni di persone sono prese in trappola e la situazione umanitaria è grave. A causa del conflitto nella regione, inoltre, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha censito 6,9 milioni di sfollati interni, la maggior parte dei quali sono in condizioni di necessità di tipo umanitario: «La Rdc sta vivendo una delle più grandi crisi umanitarie e di spostamento interno di popolazione del mondo».

L’inizio della guerra nell’Est della Rdc si fa risalire al 2 agosto del 1998, quando milizie di etnia banyamulenge attaccarono Goma appoggiate da Rwanda e Uganda, paesi confinanti. Da allora, alcuni conteggi parlano di almeno dieci milioni di morti. Oggi la situazione non è cambiata. I sedicenti «ribelli» si chiamano M23, sono sempre finanziati e dotati di armamenti moderni dal Rwanda. La Missione delle Nazioni Unite in Congo (Monusco), presente nel paese dal 2000, ha ammesso di non avere armi per fronteggiarli. Sullo stesso territorio è presente una missione della Sadc (Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale) con militari sudafricani, tanzaniani e malawiti.

L’esercito ruandese è invece entrato nel Paese (con un’invasione) nella primavera 2022 per appoggiare l’M23, e recentemente si prospettava un’altra aggressione, poi non avvenuta, in quanto truppe erano ammassate a Gisenyi, città ruandese confinante con Goma. Nell’Est della Rdc gli interessi dei Paesi confinanti sono soprattutto minerari. L’area è ricca di coltan (niobio e tantalio) e di altri elementi, essenziali per la realizzazione di componenti elettronici e batterie, ovvero vitali per mettere in atto la «transizione verde». Minerali che prendono illegalmente la via del Rwanda, dove sono lavorati e venduti a paesi terzi. L’Unione europea, il 19 febbraio, ha firmato un accordo con Kigali proprio sulle «materie prime critiche e strategiche» che prevede, tra l’altro, investimenti nel paese africano per assicurarsene la fornitura. Il governo di Kinshasa e la società civile congolese hanno duramente criticato l’accordo, ricordando che il Rwanda non è produttore di tali minerali ma li «preleva» in Congo. L’Ue sta dunque finanziando indirettamente la guerra.

Le domande che sorgono spontanee sono le seguenti: perché una guerra tanto lunga e importante in termini di vittime non provoca un intervento internazionale di mediazione? Perché i paesi occidentali appoggiano il paese aggredito se è europeo, mentre in Africa chiudono gli occhi e finanziano il Paese aggressore? Siamo dell’idea che l’Unione europea e gli Usa dovrebbero fare pressioni sul Rwanda affinché cessi di «appoggiare» l’M23, e interrompere ogni cooperazione economica e militare. Altri Paesi sul continente africano vivono guerre che hanno poca voce in Europa, e non trovano sforzi di mediazione nelle cancellerie.

In America Latina, inoltre, alcune grosse crisi sono dimenticate, come quella interna al Venezuela, che ha già spinto circa sei milioni di venezuelani a lasciare il Paese, per andare a vivere in condizioni di miseria in altri Stati della regione. Oppure in Ecuador, nel quale si sta consumando una guerra civile tra Stato e narcotrafficanti. O ancora in Nicaragua, dove una dittatura famigliare sta tenendo in scacco quasi sette milioni di abitanti.

Noi pensiamo che la guerra sia sempre un errore, ma anche che non ci siano popoli e paesi di serie A e altri di serie B. Crediamo nel principio di autodeterminazione di tutti i popoli e nell’universalità dei diritti umani. Che le vittime dei conflitti in Rdc e in altri paesi africani e latinoamericani siano importanti quanto quelle europee e mediorientali.


Cambiamenti

Prendendo tra le mani il numero di MC di marzo avrete notato qualcosa di diverso. La novità sta soprattutto nel tipo di carta. Speriamo che vi piaccia. Abbiamo deciso per questo cambiamento sia perché occorre sempre rinnovarsi, sia perché ci consente di investire maggiori risorse nel settore digitale della rivista. In effetti, da alcuni mesi il sito web di Missioni Consolata (www.rivistamissioniconsolata.it) è diventato uno spazio nel quale sono pubblicati articoli settimanali, oltre a tutti gli approfondimenti del mensile. Questa operazione ci permette di fornire un’informazione più tempestiva e aggiornata, ma anche di aumentare con molti contenuti l’offerta per il lettore. Vi invitiamo dunque a seguirci anche sul web.




Ritorna il feudalesimo?


Viviamo in un tempo strano e unico. Unico, perché è il solo tempo che abbiamo: nessuno di noi può scegliere quando e dove nascere. Strano, perché, nonostante il nostro orgoglio per le conquiste scientifiche, le nuove possibilità della comunicazione, i risultati in medicina, i sistemi democratici, la crescita di responsabilità nei confronti dell’ambiente, stiamo vivendo innumerevoli contraddizioni.

Tra queste c’è la crisi di identità di genere e, di conseguenza, delle relazioni tra uomini e donne, della famiglia, della natalità e della difesa della vita con aborto e morte assistita che diventano diritti. C’è la democrazia che scricchiola, insidiata da autoritarismi e dittature, ma anche da politici al servizio dei grandi poteri economici.

Per quanto riguarda l’ambiente, le decisioni sono ancora dettate da chi gestisce petrolio, carbone e grandi industrie. Inoltre, nell’agricoltura si espandono i latifondi a monocoltura e l’allevamento intensivo delle multinazionali che riducono la biodiversità di vegetali e animali, le produzioni a km zero, e tolgono spazio ai piccoli agricoltori.

Altro ambito di grandi potenzialità, ma anche di enormi problematiche, è quello della comunicazione e dell’intelligenza artificiale. L’internet e lo sviluppo del digitale hanno decisamente modificato il nostro modo di comunicare, di essere informati, di studiare e lavorare. E ne sono contento. I miei confratelli dicono che sarei stato uno dei primi missionari della Consolata a usare il cellulare, e ho cominciato a smanettare sui computer dai primi anni Ottanta. Ho vissuto con gioia e aspettativa l’evoluzione di questo mondo, con il sogno che aiutasse a far sparire le guerre, a far crescere la fraternità, favorendo la conoscenza e stima reciproca, e cancellare le disuguaglianze.

Oggi, però, i media digitali rischiano di essere strumenti di manipolazione, disinformazione sistematica e controllo, rafforzando il potere dei regimi autoritari e dei monopoli economici, e facendo crescere la disparità tra la ricchezza di pochi e la miseria di molti.

Guardando alla millenaria storia dell’umanità, ci sentiamo orgogliosi di vivere in un tempo dove non abbiamo più né imperatori né feudatari e dove «uno vale uno». Non siamo più nel Medioevo, ci diciamo. Abbiamo acquistato l’autonomia della politica dalla religione, abbiamo fatto passi da gigante in tutti i campi del sapere… eppure è bastata una crisi come quella del Covid-19 per buttare all’aria tutte le nostre sicurezze e accentuare tutte le nostre fragilità, che rivelano un mondo decisamente malato. Un mondo nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi a spese della maggioranza, non solo nei paesi poveri, ma anche in quelli del Nord del mondo, mentre le istituzioni sovranazionali, Onu inclusa, diventano via via irrilevanti. Sembra iniziata l’epoca di un nuovo feudalesimo.

Che fare per reagire a una simile situazione?

Non ho soluzioni in tasca. Ma certamente una delle prime cose da fare è quella di sviluppare un pensiero critico e libero che si fondi sulle domande e sulle ragioni centrali del nostro vivere. Un pensiero che passi dall’io al noi, dalla sete di potere e ricchezza alla coscienza che solo diventando servitori del bene comune possiamo costruire bellezza, bene essere e pace.

Questo, per noi che crediamo in Gesù Cristo, può venire solo dal confronto profondo con la Parola di Dio, nella quale troviamo le chiavi e i criteri per la vera libertà interiore, per rinnovare i nostri rapporti interpersonali e sociali, per un approccio bello e responsabile al creato. Lì c’è l’humus per supportare un vero cambio di mentalità («conversione») che non sia solo un’operazione di cosmesi fatta solo di parole, ma diventi un reale impegno che si realizza in piccoli gesti quotidiani e anche in un rinnovato schierarsi nel volontariato e nella politica (come cura della polis, la città, per il bene comune, come scriveva Aristotele).

Nella Parola troviamo anche le motivazioni per non mollare, per non cedere allo scoraggiamento e non rassegnarci alla violenza del mondo nel quale viviamo, e giocare la nostra vita al servizio degli altri, come ha fatto Gesù e, sul suo esempio, tantissimi testimoni che ricorderemo in modo particolare il prossimo 24 marzo, giornata dei missionari martiri.

Gigi Anataloni




L’umanità si è persa


Hadar, David, Fouad erano ragazzi israeliani. Erano studenti di architettura di Tel Aviv e Haifa, e li avevo conosciuti durante un tirocinio a Barcellona. Eravamo diventati amici. Io non conoscevo quasi nulla di Israele e della questione palestinese. Non avevo preconcetti. Loro raramente mi parlavano della situazione nel Paese. A volte si lamentavano del servizio militare che, per tutte e tutti durava tre anni e continuava poi per molto tempo con addestramenti periodici. Un giorno David si spinse a parlarmi degli attentati terroristici, dicendo: «Non ti puoi immaginare l’impressione che fa vedere l’esito di un’esplosione in piena città. E l’odore di carne bruciata…». Avevamo tutti appena finito l’università, avevamo grandi speranze e sogni. I loro, però, erano condizionati dal vivere in un luogo nel quale dovevano costantemente fare attenzione alla loro sicurezza, dove l’organizzazione dello Stato e della vita dei cittadini era impostata sul controllo e sulla protezione personale. Dove essere armati non era poi così strano.

Una decina di anni dopo, a inizio 2001, visitai Israele e la Cisgiordania. Si era nel pieno delle seconda intifada e i Territori palestinesi erano stati chiusi per ridurre al minimo la circolazione delle persone. C’erano stati diversi attentati in Israele a opera di Hamas e della Jihad islamica, per cui c’erano molti controlli e la tensione era alta. I militari ai check point per entrare e uscire dalla Cisgiordania seguivano rigide misure di sicurezza. Erano ragazzi e ragazze che mi ricordarono i miei amici.

Parlai con molte persone: ebrei israeliani, arabi israeliani, palestinesi della Cisgiordania, arabi cristiani, e alcuni stranieri, in particolare religiose e religiosi che vivevano da anni in Israele o nei Territori.

Entrai in contatto con molteplici realtà. Mi sorpresi nel vedere Gerusalemme divisa in quartieri così diversi tra loro. E poi i luoghi santi per ebrei e musulmani, vicini fisicamente ma lontani allo stesso tempo. Al Aqsa, nel mezzo della spianata delle moschee (terzo luogo santo dell’Islam), quasi sorretta dal muro del pianto, sacro per gli ebrei. Capii che gli arabi con nazionalità israeliana (circa il 20% della popolazione), vivevano una sorta di apartheid, con tanto di indicazione dell’etnia sulla carta d’identità.

Vidi le colonie israeliane in Cisgiordania (quindi fuori dello Stato di Israele): «Agglomerati urbani, ultramoderni, con tutti i servizi. Dominano perché costruiti in cima alle colline, spesso vicine alla città palestinesi, le circondano in tutte le direzioni. […] Sono collegate da superstrade, proibite ai palestinesi, e protette dai militari israeliani, che in poche decine di minuti portano alle città israeliane», scrivevo all’epoca. «Abitate normalmente da ebrei ultraortodossi sempre armati, e da cittadini israeliani attirati dalle facilitazioni economiche offerte dallo Stato». E ancora: «È una presenza surreale, inquietante anche a livello psicologico, soprattutto se si pensa che gli abitanti delle due parti (colonie e città palestinesi), così vicini, conducono vite completamente diverse, non hanno gli stessi diritti, e non c’è alcun contatto tra loro».

Vidi le case di Betlemme e di Ramallah bombardate dall’esercito israeliano.

Visitai un kibbuz nel nord di Israele, e parlai con chi ci viveva della loro esperienza comunitaria e pacifica. Una vita un po’ isolata e un po’ protetta allo stesso tempo.

Le tante facce di un piccolo fazzoletto di terra, concentrato di storia e di umanità.

Sono passati più di vent’anni e il mondo si è come dimenticato dei palestinesi. I «due stati per due popoli» non sono stati realizzati. Tuttavia, con gli accordi di Abramo del 2020, era iniziato un processo di distensione dei rapporti tra stati arabi e Israele, e così gli estremisti hanno reagito, avendo la meglio, come spesso accade.

«Hamas è il peggior nemico dei palestinesi». Non solo i suoi miliziani hanno compiuto una carneficina mai vista, ma usano gli abitanti di Gaza come scudi umani per difendersi. E che dire del governo israeliano e del suo esercito che si accanisce contro due milioni di civili – inclusi bambini e malati -, anziché preoccuparsi di liberare gli ostaggi?

Nella mia piccola esperienza dell’area ho visto due popoli, molto simili, che potrebbero dialogare, collaborare, ma si affidano a dirigenti estremisti che li portano a combattersi.

Talvolta penso ad Hadar, David, Fouad. Che ne sarà stato della loro vita blindata?

Intanto il motto di Vittorio Arrigoni, «restiamo umani», rimane inascoltato.

 




La missione è annuncio di pace


Una riflessione delle riviste missionarie italiane (Fesmi) in occasione della Giornata mondiale della pace (1 gennaio 2024).

Mai quanto quest’anno che sta iniziando la Giornata mondiale della pace che la Chiesa celebra nel primo giorno dell’anno ci interpella. Il vento di morte, violenza e distruzione che in queste settimane drammatiche ci ha raggiunto da Gaza, non ha fatto altro che aggiungersi alle ferite della guerra in Ucraina (combattuta tra cristiani, che arrivano addirittura a benedire le proprie armi), al conflitto violentissimo che da quasi tre anni ormai sfigura il Myanmar, a quello tornato a insanguinare il Sudan, alle tante altre guerre dimenticate che sempre più raramente entrano nelle scalette dei notiziari. Secondo l’organizzazione Acled (Armed conflict location and event data project), che raccoglie dati per monitorare i conflitti, al momento ci sono 59 guerre nel mondo.

Con sguardo profetico papa Francesco ci parla da tempo della «terza guerra mondiale a pezzi». In un contesto come questo, quale volto può assumere l’impegno del mondo missionario in favore della pace? Ci rendiamo conto che le parole di circostanza e i richiami generici a un destino comune non bastano più. C’è bisogno di gesti e scelte concrete, capaci di ridare corpo all’impegno per la pace.

Un primo passo è chiedere perdono. Perché le tante guerre tornate a riesplodere tutte insieme hanno un triste denominatore comune: sono il frutto imputridito di ingiustizie che durano da troppo tempo. Diritti negati, interessi predatori, ferite mai rimarginate. Molte volte ne abbiamo parlato sulle nostre riviste, ma senza riuscire a comunicare davvero quanto la sorte di questi fratelli e sorelle ci chiami in causa. Sono il dividendo degli affari che l’industria delle armi continua a mietere nascondendo dietro il paravento di presunte «opportunità» per il made in Italy il loro prezzo di sangue. Lo sappiamo tutti! Eppure abbiamo smesso di ricordarcelo quando questi conflitti falciavano vittime innocenti in terre lontane dai nostri occhi e dal nostro cuore (ad esempio nello Yemen).

Questo 1° gennaio 2024, allora, è davvero un’occasione per ricominciare a dire a tutti che «Pace a voi» è una parola irrinunciabile del Vangelo di Gesù. Che riconoscersi fratelli non è una vaga aspirazione del cuore, ma una precisa scelta di campo nei rapporti tra le nazioni. Che la riconciliazione tra i popoli non è un orizzonte buonista, ma un futuro che si costruisce anch’esso «a pezzi», cominciando dai gesti quotidiani di incontro tra chi dice basta alla logica del nemico.

È la pace che abbiamo visto rinascere in tanti angoli del mondo, in tante nostre missioni sfregiate dalla guerra. La pace di chi ha avuto il coraggio di voltare pagina, aprendo il proprio cuore al perdono. La pace di chi non si è rassegnato alla vendetta per il torto subito, ma ha saputo guardare avanti.
Ed è la strada per accogliere anche nuove grandi sfide globali, come quella dell’uso dell’intelligenza artificiale che papa Francesco ci indica nel suo messaggio di quest’anno: strappiamola a chi è già al lavoro per applicarla ad armi ancora più devastanti, per farne invece realmente un’opportunità di sviluppo al servizio di tutti.

La missione è annuncio di pace: torniamo a ripeterlo all’Italia di oggi.

Disegno di Don Giovanni Berti per Missionari Saveriani 2024

 




Tempi di angoscia e confusione


Caro Gesù Bambino,
come ogni dicembre torno a scriverti nel ricordo della tua venuta, festa di luce e di pace. Quest’anno però sono più confuso che mai, vista la situazione di crisi internazionale che tutti stiamo vivendo. Pensa che, probabilmente, a Betlemme quest’anno non potranno celebrare in sicurezza e libertà la memoria della tua nascita.

È proprio la terribile guerra che è riesplosa nella terra dove tu sei nato che aumenta il mio disagio e la mia confusione. La Palestina non trova pace, oggi come ieri: devastata nei secoli da violenze e stragi da cui anche tu sei stato colpito, quando sei dovuto fuggire con la tua famiglia dalla spietatezza degli sgherri di Erode venuti nel tuo villaggio a uccidere senza pietà tutti i bambini per essere certi di colpire te.

La guerra di oggi mostra la stessa spietatezza: non passa giorno che non ci siano notizie di massacri di bambini, addirittura neonati, senza contare quelli di anziani, donne e persone indifese. Non passa giorno senza la distruzione di case, scuole, ospedali e luoghi di culto. Neanche la guerra in Ucraina, con le sue folli violenze, ci ha abituati a una violenza sui civili tanto indiscriminata e su vasta scala.

Ma quello che fa male è soprattutto il fatto che, invece di spingerci a reagire rinnovando il nostro impegno per la pace e la vita, questa ennesima guerra (ennesima, perché sono almeno 59 quelle in atto nel mondo, con violenze inenarrabili sui civili, nell’indifferenza generale) sta tirando fuori il peggio di noi stessi, facendoci schierare – spesso con intolleranza – per una parte o per l’altra. La logica della violenza ci travolge, modella i nostri comportamenti, ci convince che solo con la distruzione dell’altro, il nemico, la pace sia possibile. E tornano in campo stereotipi che pensavamo superati, il razzismo riprende quota, la caccia al nemico diventa un dovere, l’antisemitismo riemerge. E tutti diventano nemici senza volto per i quali non c’è compassione, ma solo rabbia, rancore, odio o totale indifferenza. Ma non è con «mors tua vita mea» (la tua morte è la mia vita) che si ritrova la pace.

In questa logica, non vediamo più le persone vere e concrete, ma un’indistinta massa di nemici da colpire.

Proprio tutto il contrario di quanto tu hai provato a insegnarci con la tua vita, e papa Francesco ci ripete oggi senza stancarsi: la guerra è una follia che non risolve i problemi, non migliora la vita, non crea giustizia, non porta alla pace. L’unica risposta vera che costruisce la pace è l’amore, il perdono, la misericordia. «Porgi l’altra guancia», ci hai detto. «Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano».

Rompere, rovesciare la logica della violenza, come hai fatto tu sulla croce, è l’unica via.

Grazie di averci donato una persona come papa Francesco che, come il profeta anonimo di cui parliamo questo mese (vedi pag. 32), continua a ricordarci quello che davvero conta per la vita, per la pace, per l’ambiente: guardare a te che ti sei fatto vicino, che cammini con noi, che non ci molli mai, che sei la luce che scaccia confusione, tenebra, indifferenza, assuefazione e scoraggiamento, che sei parola di verità che decodifica fake news, luoghi comuni e slogan urlati senza contraddittorio.

Grazie anche per tutti coloro che, pur non facendo notizia, siano essi israeliani o arabi, ebrei, musulmani o cristiani, continuano a operare nel silenzio per la pace, pagando di persona per essere vicini a chi soffre, e contestano la logica della guerra con azioni concrete di riconciliazione, di vicinanza alle vittime, di soccorso a chi ha perso tutto.

Grazie per chi, in Palestina o in altre parti del mondo, continua a credere con te che la luce vince le tenebre, l’amore è più forte dell’odio, e che la pace si costruisce col perdono, il dialogo, il rispetto di tutti, specialmente dei più piccoli e dei più poveri.

È urgente imparare da te la misericordia, quella forza originariamente femminile e materna con la quale ti sei immedesimato, che cambia il nostro modo di relazionarci gli uni agli altri e ci fa vedere, pensare e agire in modo nuovo.

Che la luce della tua nascita possa essere per tutti più luminosa dei bagliori dei bombardamenti, del fuoco degli incendi, dell’oscurita dell’odio. Cacci ansia, confusione, indifferenza e riaccenda in ciascuno di noi la voglia di operare per la pace. Che la tua luce ci dia la capacità di guardarci in faccia senza paura e scoprirci fratelli e sorelle.




L’Africa dei militari

L’Africa, e in particolare il Sahel, ha vissuto una serie di colpi di stato dal 2020 a oggi. Due in Mali (18 agosto 2020 e 25 maggio 2021), uno in Guinea (5 settembre 2021), due in Burkina Faso (24 gennaio e 30 settembre 2022) e infine in Niger e in Gabon (26 luglio e 30 agosto 2023). Del golpe in Niger si è parlato molto, a sorpresa, anche in Italia. Forse perché è un paese strategico come crocevia delle migrazioni e di molti altri traffici. Forse perché vi sono presenti diversi eserciti stranieri, tra i quali un contingente italiano (sul quale si è spesso taciuto).

Sovente le popolazioni, soprattutto i giovani, hanno salutato con favore questi colpi di stato. In alcuni casi, le manifestazioni pro putsch sono state organizzate o promosse dalle giunte militari, mentre quelle contrarie prontamente represse (ad esempio in Niger).

La presa del potere con le armi è il sintomo di profondi problemi che sfociano in una deriva autoritaria e militarista.

La grave situazione di insicurezza dei paesi del Sahel, causata del proliferare e rafforzarsi di una galassia di gruppi armati legati ai diversi cartelli jihadisti (aggravatasi con la caduta di Gheddafi in Libia nel 2011, ma già iniziata in precedenza), ha portato a profonde crisi economiche e sociali. Il sociologo ed ex ministro del Burkina Faso Antoine Raogo Sawadogo ci diceva (MC maggio 2022): «Il colpo di stato è solo l’atto finale di una crisi istituzionale profonda, di società toccate da problematiche alle quali i regimi democratici non sono stati in grado di dare soluzioni». E ancora: «L’appoggio, almeno iniziale, delle popolazioni è dovuto al fatto che queste sperano che un governo forte, seppur non democratico, possa risolvere i loro problemi», e quindi «la democrazia all’occidentale è diventata una questione di secondo ordine, adesso si tratta di sopravvivenza».

Ma i militari non saranno la soluzione, neppure dei problemi di sicurezza, come già stanno dimostrando in Mali e in Burkina Faso. D’altronde sono gli stessi eserciti che non hanno saputo vincere i gruppi jihadisti prima dei colpi di stato.

Anzi, i golpe portano alla luce anche una crisi dello stesso esercito repubblicano. Un’istituzione che dovrebbe difendere la popolazione anziché prendere il potere con la forza.

Il risultato è una regressione dei diritti civili che, faticosamente, avevano fatto qualche passo avanti. Peggio, in molti casi, è la repressione violenta della popolazione. Come è avvenuto in diversi eccidi perpetrati dalle Forze armate maliane (Fama), affiancate dai nuovi alleati russi del gruppo Wagner. Un esempio tra i tanti è quello del villaggio di Moura, dove il 27 marzo 2022 sono state trucidate tra le 200 e le 400 persone dai militari loro compatrioti.

Tra i massacri di civili compiuti dall’esercito in Burkina Faso, ricordiamo quello a Karma, a 15 km dalla città di Ouahigouya, nel Nord del paese, il 20 aprile scorso. Qui i militari hanno ucciso almeno 147 civili inermi, tra cui 45 bambini.

Fa riflettere, poi, ascoltare le parole del presidente golpista del Burkina Faso, il capitano Ibrahim Traoré che, all’incontro Africa-Russia a San Pietroburgo, nel luglio scorso, ha fatto un discorso populista atteggiandosi a novello Thomas Sankara (il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, assassinato il 15 ottobre 1987), consegnando però il paese nella mani della Russia di Putin. «Qui di Sankara non ce ne sono», ci dicono dal Sahel. E si vede: Sankara non avrebbe mai fatto massacrare il suo popolo.

Il sentimento antifrancese e antimperialista presente in tutta l’area è legittimo (noi in MC abbiamo sempre denunciato lo sfruttamento dell’Africa da parte delle potenze occidentali), ma chi applaude ai diversi golpe solo perché si contrappongono alla presenza francese ha una visione superficiale, se non miope. Intanto i golpisti si rivolgono a nuovi attori imperialisti, come il citato gruppo Wagner, dalla nota attitudine predatoria nei confronti dei paesi loro alleati. Inoltre in Niger è stato deposto un presidente che tentava di contrastare la corruzione della classe politica, e indirettamente anche il potere neocoloniale francese.

Non saranno i militari a portare lo sviluppo e l’autonomia all’Africa. Il potere autoritario delle armi e di una classe – nella quale è presente a grandi dosi la corruzione – incapace di progetti politici non salverà il continente. Insomma: Africa indietro tutta.

 

 




Il Sinodo: da evento a processo


Una riflessione delle riviste missionarie italiane (Fesmi) in occasione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi che si svolge a Roma dal 4 al 29 ottobre e che ha per tema: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione».

Papa Francesco, nel suo discorso per il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo (17 ottobre 2015), ha rilanciato l’immagine della Chiesa come «sinodale e missionaria». In America Latina lui stesso ha vissuto il sinodo non solo e non tanto come evento speciale, ma come processo che interessa la Chiesa tutta, come popolo di Dio in ascolto del sensus fidei di tutti i battezzati nei loro diversi ministeri.
Una vera sinodalità, intesa come «cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio», spalanca la Chiesa sul mondo, accresce la sua credibilità, rinvigorisce il suo entusiasmo missionario e si fa portavoce dei poveri e voce critica di fronte a quelle strutture di peccato che tuttora impediscono che persone e popoli vedano riconosciuti, rispettati e promossi i propri diritti a vivere con dignità. Riprendendo in ciò le parole con cui Francesco ha concluso il suo discorso: «Una Chiesa sinodale è come un vessillo innalzato tra le nazioni (cfr. Is 11,12) in un mondo che – pur invocando partecipazione, solidarietà e trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica – consegna spesso il destino di intere popolazioni nelle mani avide di ristretti gruppi di potere».
Come Chiesa che «cammina insieme» ai popoli, partecipe dei travagli della storia, coltiviamo tuttora il sogno che le società si edifichino nella giustizia e nella fraternità, generando un mondo più degno di viverci per le generazioni che verranno.
Papa Francesco considera la sinodalità come costitutiva della vita e dell’agire della Chiesa. In tale visione il Sinodo sulla sinodalità diventa un’occasione privilegiata per riscoprire il discepolato di ogni credente, creando dialogo con tutti e scoprendo che tutte le Chiese
devono dare e ricevere, superando l’esperienza storica di chi manda missionari e aiuti e chi riceve soltanto.
Una delle esperienze più vere della vita missionaria da noi vissuta è la formazione di
collaboratori per far crescere le comunità locali. Camminando insieme nella vita, nella
preghiera, nella catechesi, i catechisti e gli animatori locali formano e trasformano
i missionari, insegnando ad amare la gente nel concreto, a usare un linguaggio più
essenziale per arrivare al cuore delle persone.

Guardando al mondo missionario, il Sinodo diventa inoltre una sfida a declericalizzare la Chiesa, soprattutto nelle comunità cristiane di antica origine, permettendo a ciascun battezzato di riscoprire i doni che lo Spirito elargisce per la comune condivisione, superando la tendenza tuttora presente dei «preti tuttofare».
Quanto alle giovani Chiese, pure tentate dal clericalismo insito nel processo formativo in troppi seminari, il Sinodo può ovviare al rischio che si consolidi un modello tradizionale di sacerdozio che ignora la bellezza, la novità, la creatività di una evangelizzazione povera e partecipativa, dove laici e ministri non ordinati svolgano servizi che arricchiscono l’intera comunità.

Un’autentica sinodalità aiuterà inoltre le Chiese del Sud del mondo, specie le più ricche di fedeli, laddove abbondano vocazioni sacerdotali e religiose, a resistere alla tentazione della grandeur, del benessere, del dare priorità alle opere e ai soldi.

Sinodalità, dunque, come tempo opportuno per convertirsi a un metodo nuovo ma antico di vivere la Chiesa e di evangelizzare. In uno stile meno preoccupato di redigere documenti e orientato invece a promuovere una vita cristiana autentica e pienamente vissuta. In quest’ottica, la sinodalità non si esaurisce nella celebrazione di saltuarie assemblee, per quanto speciali, ma da «fatto saltuario» diventa un percorso vissuto: da evento a processo.

Fesmi (Federazione delle riviste missionarie italiane)


Aderiscono le seguenti riviste:




Perché partire? Perché restare?


All’alba del 3 ottobre del 2013 un’imbarcazione carica di migranti somali ed eritrei, già in vista dell’isola di Lampedusa, prende fuoco. Sul ponte ci sono centinaia di persone. Alcune si buttano in acqua, altre resistono. Saranno 155 i sopravvissuti, e 368 i morti. Si parla subito della «più grande tragedia dell’immigrazione», ma sarà presto superata da altre.

Nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, un altro barcone proveniente dalla Turchia, si incaglia non lontano da Steccato di Cutro (Calabria). L’impatto è violento e il mare forza 5 completa l’opera distruggendo il battello. Su di esso viaggiano 180 migranti di diversi paesi (Afghanistan, Pakistan, Siria, Tunisia, Palestina). Ottanta saranno i sopravvissuti. Tra le vittime, sono in aumento le donne e i minori.

È il 13 giugno 2023. Al largo di Pylos, Grecia, un peschereccio stipato di persone si ribalta. Sono circa 700. Ne vengono salvate 104. Nella parte interna dello scafo ci sono donne e bambini. In generale, chi paga di meno occupa i posti peggiori.

Tra questi eventi, dieci anni di naufragi e migliaia di morti in mare.

All’indomani di quello del 2013 mi trovavo in Burkina Faso. Il fatto era sulla bocca di tutti. C’era un generale stato di shock per quel numero di morti così alto. Molti – forse con il senno di poi – mi dicevano che loro «non avrebbero mai tentato una simile avventura, perché la probabilità di fallimento, e il rischio di morire, erano troppo elevati».

Facendo un balzo indietro nel tempo, mi torna in mente il molo di Port-au-Prince, ad Haiti, nel 1997. Gli haitiani partivano con delle barche di legno dalla costa nord dell’isola, nel tentativo di raggiungere le Bahamas. Pochi ci riuscivano, molti morivano naufraghi o, come si diceva, «divorati dagli squali». Molti altri, intercettati dalla guardia costiera Usa, venivano riportati sull’isola. Ricordo le file di giovani appena sbarcati dalle motovedette a stelle e strisce: tra le mani un sacchetto bianco con un «kit di rimpatrio» (un po’ di cibo, una maglietta), in faccia la delusione di chi ha fallito. Molti haitiani mi dicevano che era da pazzi tentare la traversata. Ma il flusso continuava.

Quale sarà stato l’impatto del naufragio di Pylos sulla gente di Afghanistan, Pakistan, Siria? Dall’Europa, noi abbiamo sempre solo la nostra prospettiva, e facciamo fatica ad ascoltare cosa hanno da dire i popoli dei paesi di provenienza.

Dovremmo metterci in ascolto, invece di classificare i migranti in categorie (economici, climatici, politici), e chiedere loro: Perché partire? Perché restare? Perché pagare cifre da capogiro e rischiare la vita?

I migranti che ho incontrato in Niger negli ultimi anni, provenivano da tutta l’Africa occidentale e avevano tentato di attraversare il Sahara. Tutti con forti motivazioni.

Mi ha colpito una famiglia del Ciad: genitori e quattro figli. Lui nel suo paese aveva tentato più volte di studiare giurisprudenza, ma non era riuscito a causa della situazione: «Sappiamo che è un rischio lanciarsi con una famiglia in una migrazione. Siamo stati spinti dal fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in conflitti armati, o intercomunitari, c’è la repressione del governo, la cattiva gestione. Inoltre, le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne possano beneficiare per vivere in pace». L’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) recita: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. Ogni
individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese».

Liberi di scegliere se migrare o restare è il titolo del messaggio di papa Francesco per la 109a «giornata del migrante e del rifugiato» (24 settembre): «Migrare dovrebbe essere sempre una scelta libera, ma di fatto in moltissimi casi, anche oggi, non lo è. Conflitti, disastri naturali, o più semplicemente l’impossibilità di vivere una vita degna e prospera nella propria terra di origine costringono milioni di persone a partire […]. Per fare della migrazione una scelta davvero libera, bisogna sforzarsi di garantire a tutti un’equa partecipazione al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale».

Marco Bello, direttore editoriale




La missione sfida i missionari


Dal 22 maggio al 20 giugno 2023 quaranta rappresentanti eletti dei Missionari della Consolata sono stati riuniti a Roma nel XIV capitolo generale dell’istituto, un evento che avviene ogni sei anni. Il suo risultato più immediato è l’elezione del nuovo superiore generale e del suo consiglio, ma il frutto più sostanziale sono le scelte che vengono fatte, a partire dal carisma originale dell’istituto, per dare una risposta creativa alle sfide che il mondo contemporaneo pone all’evangelizzazione.

Mentre mi leggete il capitolo è già terminato, ma ho scritto queste righe quando stava per cominciare e, quindi, posso solo provare a condividere con voi alcuni degli elementi che hanno stimolato la riflessione e la ricerca dei capitolari prima di riunirsi.

Il punto di partenza è stato una constatazione: stiamo tutti vivendo un tempo della nostra storia che chiede nuove attenzioni e nuove risposte.

Ad esempio, il mondo occidentale non è più cristiano, la famiglia tradizionale è in crisi e in alcuni paesi come il nostro si registra un declino demografico.

Esiste poi, nell’Occidente, un’ostilità neanche troppo nascosta contro la Chiesa e la religione cristiana, con attacchi che vanno dalla denigrazione alle notizie inventate o enfatizzate, dalle battute apparentemente spiritose agli insulti, strumentalizzando proverbi stantii come: «Quando nasci alimenti il prete, quando vai a nozze inviti il prete, quando muori il prete gode», o luoghi comuni di stampo anticlericale ottocentesco.

Il futuro della Chiesa e dell’evangelizzazione è una sfida a tutto campo per la quale non servono risposte preconfezionate e che obbliga a guardare avanti con creatività, lungimiranza, tanta fede e umiltà. È un tempo che richiede un profondo discernimento per andare al cuore dei problemi e capire quello che davvero Dio vuole. Non è l’ora del fare, ma dell’ascolto, per una vera conversione.

Sono quattro le aree dell’ascolto: la Parola di Dio, per andare alle radici della vocazione missionaria e del suo stile; il carisma trasmessoci dal nostro fondatore, il beato Allamano; la realtà viva, sofferta e sfidante del mondo di oggi; l’Istituto stesso, fatto di persone concrete con le loro potenzialità ma anche le loro fragilità.

Oggi i Missionari della Consolata sono ben coscienti di non essere più un corpo monolitico come erano fino agli anni Settanta. Gli italiani sono ormai una minoranza, più anziani che giovani. Il cuore della forza missionaria oggi viene dall’Africa: uno scenario bellissimo che vede protagoniste delle Chiese giovani, aperte e generose, pur nella loro povertà, però anche pieno di incognite e nuovi problemi.

Il capitolo si è, quindi, messo in ascolto del nostro mondo con un’attenzione speciale ai poveri, ai popoli indigeni, agli sfruttati, ai marginali della storia, alle periferie e a quelle aree, soprattutto in Asia, mai raggiunte dal Vangelo. I capitolari hanno anche fatte proprie le sfide della comunicazione, della cura del creato, della promozione della pace, delle migrazioni. C’è poi una situazione nuova, che richiede risposte nuove: quella dell’Europa che tradizionalmente mandava missionari, ma oggi li richiede con urgenza.

Dall’ascolto viene poi la conversione per vivere le dimensioni più autentiche dell’identità dei Missionari della Consolata: «Prima santi, e poi missionari», diceva il beato Allamano, affinché ogni missionario diventi testimone e costruttore di gioia, libertà, fraternità, pace e giustizia là dove la Madonna Consolata ha voluto mandarlo.

Una delle caratteristiche dei Missionari della Consolata, fin dalle origini, è stata proprio quella di ascoltare le realtà che man mano andavano a incontrare, mettendo al centro del loro interesse la persona, ogni persona, con una predilezione per i poveri, i lontani, gli emarginati, quelli che la società considera di meno. Come ha fatto Gesù, il primo vero missionario del Padre.

Non abbiamo ancora in mano i documenti finali del capitolo. Non ci aspettiamo proposte spettacolari. La missione più vera si realizza di solito nel silenzio e nell’umiltà, in un dono di vita concretizzato in piccole cose fatte con amore in un quotidiano lontano dal clamore.

Che davvero ogni missionario possa essere strumento di consolazione nelle mani di Dio.

Gigi Anataloni

I due capitoli – IMC e MdC – con il cardinal Parolin


XIV Capitolo generale dei Missionari della Consolata

MESSAGGIO FINALE

Gratitudine, passione e speranza

Trentatre giorni vissuti insieme, un corpo solo! Missionari giunti dai diversi luoghi della Missione, impegnati a conoscersi, attraverso il racconto personale proprio e dei tanti che hanno rappresentato, attraverso la condivisione dei cammini belli e dei percorsi che ancora sfidano a camminare per andare “oltre”. La diversità delle provenienze ha, però, lasciato presto spazio a quella capacità di riconoscersi, tutti, Missionari della Consolata.

Sì, è stato facile riconoscersi e dirsi che siamo fratelli oltre ogni differenza: fratelli nell’ispiratrice, la nostra madre Consolata; fratelli nell’ispirato, il nostro padre e fondatore, Beato Giuseppe Allamano; fratelli nell’ispirazione, quel carisma ad gentes, novità che non tramonta.

Il Capitolo, infatti, ha voluto confermare ancora una volta la scelta della missione ad gentes, nella sua specificità e nella molteplice fantasia dell’amore che si dona.

Ad gentes che in questi giorni abbiamo accolto con commozione dalle parole e testimonianza di chi, tra le lacrime, ci raccontava della sua gente in Venezuela che non ha di che mangiare o di chi nel Congo, in Mozambico e in Ucraina continua a morire e a subire violenza a causa di guerre di cui non si vede mai la fine. Di chi, come profugo, arriva in Marocco stanco, ferito e sfinito dopo un lungo cammino. E, come queste, tante altre sofferenze tra le quali siamo presenti essendo chiamati a fermarci per ascoltare, per sederci accanto, per servire con semplicità ed essere presenza che annuncia Gesù con gesti di vita, con l’ascolto e la parola.

Più volte ci siamo detti che dobbiamo anche “prenderci cura” di ogni missionario in tutto l’arco della sua vita con un progetto di formazione continua. Occorre aiutare ognuno a camminare verso la sua pienezza di vita e di donazione, partendo da una relazione viva con Cristo, per “essere” prima che “per fare”, dove santità e missione si fondono ed esprimono la nostra identità e carisma.

Con gratitudine abbiamo volto lo sguardo al passato della nostra vita e della nostra storia scritta con la dedicazione ed il sacrificio di tanti nostri confratelli e di quelli che oggi continuano ed essere per noi di stimolo ed esempio “completando nella loro carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Con voi, guardiamo al presente con passione e con quella gioia nella quale il Papa ci ha chiesto di camminare, in comunità chiamate ad essere in uscita e in mezzo alla gente con la forza del nostro carisma e la ricchezza delle nostre culture e in comunione con le Missionarie della Consolata ed i Laici.

Guardiamo, inoltre, al futuro con speranza al vedere ancora tanti giovani che vogliono dare la loro vita per l’annuncio del vangelo e tanti altri dei quali vogliamo prenderci cura nel servizio pastorale e di animazione missionaria e vocazionale.

La Solennità della nascita di S. Giovanni Battista, il precursore, è occasione propizia a conclusione di questo nostro XIV Capitolo Generale. Con lui e come lui sappiamo accogliere il Vangelo perché desiderosi di giustizia e di libertà. Con lui e come lui non ci poniamo come l’esempio perfetto da seguire, ma rimaniamo aperti al futuro, indicandolo, Gesù Cristo.

I capitolari
Roma, 24 giugno 2023

 

 

 

 

 

 




Fare bene il bene (facendo informazione)


È per me un grande onore, ma anche una grande responsabilità, assumere il ruolo di direttore editoriale della rivista Missioni Consolata. Una pubblicazione che ha 125 anni di vita e ha avuto 12 direttori a cominciare dal canonico Giacomo Camisassa. Se, da un lato, il beato Allamano diceva ai suoi missionari «Fate bene il bene, senza fare rumore», ovvero fatelo, ma senza vantarvi o farvi pubblicità, dall’altro, fin da subito, aveva intuito l’importanza della comunicazione e dell’informazione, fondando la rivista «La Consolata», già nel 1899. Questa, da periodico che raccontava le attività del santuario di Torino, è diventata il mezzo per far conoscere le missioni, non appena i primi quattro missionari sono partiti nel maggio del 1902.

Mondi lontani, culture diverse, avventure e incontri molto particolari, sono diventati il principale contenuto che la rivista portava nelle case delle famiglie italiane di oltre cento anni fa. E iniziava così a fare, con il linguaggio e lo stile del tempo, informazione missionaria. Nel 1928 la testata ha dato vita a «Missioni Consolata» che ha affiancato «La Consolata».

Oggi, in un mondo che non sta andando bene, dove la guerra, la contrapposizione e il commercio delle armi sembrano dominare rispetto al dialogo, ai diritti e al benessere di tutti; dove la sopravvivenza stessa del pianeta è messa a rischio dalla peggiore crisi climatica mai vista, sotto lo sguardo disinteressato e cieco di chi governa; Missioni Consolata continua a raccogliere e raccontare in modo approfondito le storie che non hanno spazio su quotidiani, radio, web e Tv. Storie di persone, comunità, popoli, luoghi che hanno una grande importanza, anche se trascurate, e che solo una pubblicazione «alternativa» come la nostra, riesce a diffondere. Vicende talvolta positive e di speranza che, comunque, esistono.

Personalmente, mi prefiggo di continuare nel solco dei 12 direttori che mi hanno preceduto e, allo stesso tempo, di aprire lo sguardo a mezzi di comunicazione diversificati, per assicurare che le storie e il messaggio di MC viaggino sempre più lontano e raggiungano più persone possibile. In un cambiamento di epoca, anche una pubblicazione come la nostra deve attrezzarsi.

Il che significa portare MC a essere più presente nel mondo digitale, con un linguaggio adeguato, per riempire spazi di informazione con i nostri temi e i nostri valori. Senza abbandonare il supporto di carta.

Missioni Consolata è una rivista missionaria, e crediamo che continui ad avere un ruolo importante nella nostra società, forse ancora di più che 100 anni fa.

Pure essendo nato a Torino, ho conosciuto i missionari della Consolata in Brasile, nel 1992, durante un lungo viaggio «on the road» in Sudamerica. Esperienza che mi ha stimolato nella scrittura del mio primo articolo, pubblicato su MC nel febbraio dell’anno successivo. È stato l’inizio di un percorso. Sono così diventato collaboratore esterno di questa rivista.

Dal 1997 ho lavorato come volontario e cooperante prima ad Haiti, poi in Burundi e in Burkina Faso. Ad Haiti, in particolare, ero il responsabile della sezione fotografica del giornale in lingua creola «Libète», occupandomi di cronaca, ma anche della camera oscura, dell’archiviazione e della formazione di un giovane fotografo haitiano. Nel maggio 2006, rientrato dall’Africa, ho avuto la possibilità di integrare l’équipe di redazione di MC.

Nel cominciare questa nuova avventura, il mio pensiero va con gratitudine ai missionari che mi hanno preceduto. Francesco Bernardi, che ha pubblicato il mio primo articolo; Benedetto Bellesi, il mio primo direttore in MC; Ugo Pozzoli, sempre aperto e accogliente, e Gigi Anataloni, che ci ha guidati negli ultimi 12 anni e che continua come direttore responsabile della pubblicazione oltre che ad assumere l’incarico di direttore dell’archivio fotografico e video dell’istituto. Da ognuno ho imparato qualcosa. Sono riconoscente, inoltre, a padre Gottardo Pasqualetti, che mi chiamò, sotto indicazioni di Bernardi, a lavorare in redazione nel 2006.

Come équipe di redazione, rinnoviamo il nostro impegno di servizio alle lettrici e ai lettori di MC, per fornire loro un’informazione corretta, precisa, ricercata e approfondita. È verso di loro la nostra responsabilità più grande.

Marco Bello,
direttore editoriale