Kenya. Una terra estrema


L’area del lago Turkana è una zona isolata, nella quale il clima la fa da padrone. Non piove mai, anche
quando in altre zone si verificano alluvioni. È difficile procurarsi medicine e il cibo scarseggia sempre più. Anche andare a scuola è un’impresa. Eppure la gente non rinuncia a lottare.

«Qui i bambini non sanno che cos’è la pioggia. Perché non l’hanno mai vista!». Padre Mark Gitonga, missionario della Consolata a Loyangalani, sulle rive del lago Turkana, parla spesso per immagini. Immagini che, in questa terra estrema e affascinante del nord del Kenya, sono più efficaci di tante parole. Come «pioggia», appunto, «che per noi è solo un vocabolo nel dizionario».

Non la vedono da anni a Loyangalani, sulla sponda est di quello che è il lago desertico più grande al mondo: un vasto e luccicante specchio d’acqua, adagiato nella parte settentrionale della Great Rift valley – la più larga, lunga e cospicua frattura della crosta terrestre -, battuto dal vento e circondato dal nulla.

Il lago Turkana si trova in una delle regioni più inospitali del Paese: vaste distese di rocce laviche e sabbia, punteggiate qua e là da solitarie acacie. Qui, dove le temperature superano spesso i 50 gradi, si intrecciano e a volte si scontrano le vite di varie comunità di allevatori nomadi – in particolare Turkana, Samburu e Rendille – che, a causa della prolungata siccità, hanno perso circa l’80% del bestiame. Mentre gli El molo, che sono considerati la più piccola etnia dell’Africa e vivono in due villaggi lungo le rive del lago, cercano faticosamente di sopravvivere di pesca, nonostante le difficoltà sempre più grandi dovute ai cambiamenti climatici. Cambiamenti che sono all’origine anche di fenomeni estremi come, in altre zone del Paese, le devastanti inondazioni di fine ottobre e inizio novembre. Senza che qui scendesse una goccia di pioggia.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Isolati

«In questo momento siamo completamente isolati», racconta padre Mark a fine novembre. Insieme al diacono congolese Jacques Lwanzo garantisce una piccola presenza missionaria in quello che è un luogo simbolo per i Missionari della Consolata, che arrivarono fin qui oltre settant’anni fa sulla via verso l’Etiopia. Ancora oggi, padre Mark – che vive qui stabilmente dal 2019 – accompagna la piccola comunità cristiana, composta da circa cinquemila fedeli sparsi su un territorio vastissimo, e realizza molte iniziative in campo sanitario e soprattutto educativo, per provare a stare accanto alla gente delle contee Samburu e Marsabit e a dare un’opportunità di istruzione ai bambini che ne rappresentano il futuro. «Per qualche settimana sarà difficile muoversi – conferma il missionario -: l’acqua proveniente dalle montagne e l’esondazione di alcuni fiumi hanno provocato molti allagamenti e reso impraticabili le vie di comunicazione. Già in situazione normale le strade sono in cattive condizioni e alcune piste non sono percorribili a causa dell’insicurezza provocata dagli scontri tra comunità». Questi conflitti sono ulteriormente aumentati negli ultimi anni proprio a causa della grave emergenza provocata dalla siccità con conseguente perdita del bestiame, aumento dei prezzi e una crisi umanitaria senza precedenti.

Innalzamento delle acque. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Uno strano fenomeno

Ad aggravare la situazione, si è aggiunto un altro fenomeno complesso e ancora non completamente indagato dagli scienziati che riguarda direttamente il lago Turkana, le cui acque si stanno rapidamente innalzando, nonostante la mancanza di piogge. Pare sia legato non solo ai cambiamenti climatici, ma anche alle sorgenti sotterranee e ai movimenti delle placche tettoniche che provocano un analogo innalzamento di altri laghi della Rift Valley. A questo fenomeno si legano anche alterazioni della salinità del lago con riflessi sulle specie animali e vegetali che ci vivono, e anche sulla vita della gente.

Uno dei due villaggi degli El molo, ad esempio, quello di Tumkende, si ritrova oggi diviso in due: una parte sulla riva e un’altra che, a causa dell’inalzamento dell’acqua, è diventata un’isola. Anche la scuola e la chiesa sono minacciate: «Abbiamo già dovuto ricostruire la cucina e alcune aule, mentre ormai non si riesce più a entrare in chiesa perché l’acqua è arrivata sino alla porta», ci dice padre Mark, mentre ci mostra alcuni vecchi edifici che emergono appena dal lago.

Per le popolazioni, inoltre, è diventato ancora più difficile pescare, perché occorre allontanarsi sempre di più dalla riva per trovare il pesce. E se gli El molo, che sono tradizionalmente dediti alla pesca, riescono ad avventurarsi in acque più profonde, i Turkana, che sono fieri pastori e si sono avvicinati al lago solo perché hanno perso il bestiame, rischiano spesso la vita. Nessuno di loro, infatti, sa nuotare e per pescare usano esili zattere costruite con qualche tronco di palma, nonostante il forte vento e le onde spesso alte.

È una terra estrema in tutti i sensi quella del Turkana: una terra dove vita e morte si sfiorano continuamente. «La situazione umanitaria è catastrofica – ribadisce padre Mark -. Essere malnutriti è diventata la normalità per donne e bambini. E gli uomini non stanno molto meglio». In effetti, si fatica a capire come la gente riesca a sopravvivere. A maggior ragione ora che le alluvioni hanno distrutto quel poco che rimaneva loro a disposizione. Secondo le agenzie dell’Onu, «le inondazioni hanno danneggiato terreni agricoli, bestiame e attività commerciali, mettendo in pericolo i mezzi di sussistenza nelle aree nordorientali già colpite da siccità prolungata. I bisogni prioritari sono ripari, cibo, acqua e servizi di primo soccorso».

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Emergenza diffusa

L’emergenza riguarda non solo alcune zone del Turkana, ma anche le contee di Isiolo, Mandera, Marsabit, quella di Garissa più a sud est e quelle di Lamu e Mombasa verso la costa. Anche i due grandi campi profughi di Dadaab (contea di Garissa) e di Kakuma (contea di Turkana) – entrambi con oltre 270mila persone – sono stati colpiti e hanno registrato morti e feriti. Migliaia di persone già sradicate dalle loro terre sono di nuovo in fuga. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), «quasi 25mila persone nel campo di Dadaab sono state interessati dalle inondazioni e molte hanno cercato rifugio nelle scuole e nelle comunità vicine. Alcuni rifugiati hanno aperto le loro case per ospitare i nuovi sfollati, riducendo molte famiglie a una condizione di sovraffollamento. Le strade allagate hanno ostacolato gli spostamenti, rendendo particolarmente difficile l’accesso ai servizi per i più vulnerabili, tra cui le donne incinte che devono raggiungere gli ospedali. Nel campo di Kakuma, un centinaio di famiglie sono state costrette a spostarsi in aree più sicure a causa della massiccia erosione del suolo provocata dalle piogge».

Tutto ciò ha causato anche una situazione igienico-sanitaria molto preoccupante: «Centinaia di latrine sono state danneggiate, mettendo le persone a rischio di malattie infettive, tra cui il colera». Queste inondazioni fanno seguito alla più lunga e grave siccità mai registrata, il cui impatto è ancora drammatico in tutto il Corno d’Africa, dove più di 23 milioni di persone già soffrivano la fame e più di 5 milioni di bambini erano gravemente malnutriti, secondo il World food programme (Wfp).

Malnutrizione. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Cibo e medicine

Per la gente del Nord Kenya convivere con la mancanza di cibo è diventata la quotidianità ormai da diversi anni. A pochi chilometri da Loyangalani, alcune operatrici sanitarie provano a distribuire degli alimenti terapeutici per i bambini più piccoli. Sono loro a spostarsi da una comunità all’altra, perché la gente non riesce neppure a recarsi nei pochi dispensari presenti nei centri più grossi, come Loyangalani, appunto, o Moite più a nord. Oppure non ha nemmeno pochi spiccioli per pagare le medicine. Sempre che queste siano disponibili.

Un’infermiera consegna alcune bustine di cibo energetico a un bimbo di sei anni che pesa solo sei chili. Sua madre sembra pure lei una bambina, anche se porta le tradizionali collane e gli orecchini che la identificano come donna sposata. «Quando tornano nelle capanne, ne mangiano anche le mamme – ci fa notare l’infermiera -, ma che cosa possiamo fare? Pure loro non hanno niente…». Non c’è cibo e non ci sono medicine. «Da diversi mesi il governo non manda nulla», mentre padre Mark fa quello che può per rifornire almeno il dispensario della parrocchia, ma i pazienti sono pochissimi perché quasi nessuno è in grado di pagare cure e medicinali, per quanto costino cifre irrisorie. Se poi qualcuno sta veramente male, deve recarsi a Marsabit, a più di cinque ore di viaggio su piste dissestate, con una sorta di ambulanza che quasi nessuno può permettersi. E che comunque adesso non potrebbe muoversi a causa degli allagamenti con piste trasformate in fanghiglia.

Scuola. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Le scuole

Sul fronte istruzione le cose non vanno meglio. La missione cattolica gestisce otto scuole con circa 800 studenti. Il governo dovrebbe pagare gli insegnanti, ma sono pochissimi quelli a carico del sistema pubblico. Per tutti gli altri ci devono pensare i genitori o la parrocchia, con l’aiuto di qualche Ong. «In questa regione – fa notare padre Mark – circa il 90% delle persone scolarizzate lo deve ai missionari della Consolata che sono stati qui». Anche lui ha particolarmente a cuore il tema dell’istruzione, come strumento prioritario per «pensare a migliorare globalmente la situazione e le condizioni di vita delle popolazioni locali».

Per il momento, però, la situazione è alquanto precaria: «Da mesi il governo non ci manda il cibo per la mensa», si lamenta Teresalba Sintiyan, direttrice delle scuole elementari cattoliche di Loyangalani. «Istruzione e salute sono le grandi sfide di questo territorio e riguardano innanzitutto le bambine e donne che continuano a essere discriminate e marginalizzate. Non hanno voce, non vengono mandate a scuola e sono forzate a sposarsi giovanissime. La crisi climatica, poi, ha aggravato la situazione e accresciuto i conflitti intercomunitari».

È d’accordo padre Mark: «Quella dell’educazione è la grande sfida e la grande soluzione – dice convinto -. Ed è quello che mi tiene qui». Per questo non risparmia energie per garantire un’istruzione al maggior numero possibile di bambini e bambine.

Le strutture, a volte, sono molto rudimentali, piccole capannucce fatte di rami e paglia, mentre nei centri più grandi, come Loyangalani e Moite, sono in muratura e spesso prevedono anche uno studentato per permettere a quelli che vengono da lontano di poter frequentare le lezioni. «Purtroppo ancora oggi molte famiglie non mandano i bambini a scuola perché non ne capiscono l’importanza. Se lo fanno, a volte, è solo perché possano avere almeno una tazza di porridge al giorno».

A Moite, tutti devono contribuire alla cucina portando un po’ di quel bene preziosissimo che è l’acqua. Non appena albeggia, file di bambini si recano nel greto disseccato di un fiume, dove alcune ragazzine un po’ più grandi scavano nella sabbia finché non trovano un po’ d’acqua. Con alcune tazze riempiono pazientemente le piccole taniche degli alunni che le depositano nella cucina con il fuoco a terra prima di recarsi in classe.

Dall’inizio dello scorso anno, il cibo è fornito dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, che ha avviato proprio qui e in due villaggi vicini un progetto di sostegno nutrizionale per i piccoli allievi.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Teresa

«Stiamo combattendo con le poche forze e le poche risorse che abbiamo per risollevarci», ci dice Teresa Lopowar Etapar, che è la prima e unica donna laureata di questo villaggio grazie ai missionari. Teresa, che è veterinaria, ha deciso di mettere i suoi studi e le sue competenze a servizio della sua comunità. Un esempio e uno stimolo importanti per tanti giovani del posto. Non sono molti, infatti, quelli che tornano da queste parti una volta che sono partiti per altre regioni del Kenya. Lei però, come altri che i missionari hanno fatto studiare, ha voluto rimettersi in gioco qui, per il bene della sua gente.

Attualmente, il missionario sostiene altri 150 studenti in diverse scuole superiori del Kenya, grazie all’ospitalità di tante famiglie locali e al sostegno dei benefattori italiani, che purtroppo, però, si è molto ridotto dopo la pandemia di Covid-19.

«L’insicurezza alimentare è gravissima – ci fa notare Teresa -. Molta gente, nel suo cuore, vorrebbe tornare a dedicarsi alla pastorizia e alla vita che ha sempre fatto. Le comunità hanno chiesto alle autorità della contea di risarcirle del bestiame morto a causa della siccità, ma per ora hanno ricevuto solo promesse».

Qui, sul lago Turkana – come un po’ ovunque in Kenya – ci sono molto malcontento e molta disillusione rispetto alla classe politica locale e nazionale. Tante promesse, appunto, e pochissimi fatti concreti. Tutto il Paese è afflitto da una grave crisi economica acuita dall’innalzamento dei prezzi. Una situazione che ha un impatto ancora più drammatico in regioni poverissime, isolate e abbandonate come quelle del nord.

Lo scorso 25 novembre, il presidente William Ruto ha voluto dare un segno di solidarietà alle popolazioni del lago, recandosi personalmente a Loyangalani in occasione del tradizionale Festival culturale che si è svolto nonostante le difficoltà logistiche. Il presidente, arrivato in elicottero, ha lanciato un piano d’azione (2023-2027) per contrastare il cambiamento climatico con la partecipazione delle comunità locali, piegate da una crisi senza precedenti. Ma poi è volato via. E molti temono che, con lui, si siano involate anche le sue promesse.

Anna Pozzi

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Kenya. Due donne e la Rieti farm


Sara e Gladys, una volontaria e una suora, fanno una scommessa vincente sulla voglia di riscatto e sull’energia di altre donne, e sulle capacità organizzative di una
piccola Odv trevigiana. Nel giro di un decennio cambiano il volto e la qualità della vita di una comunità a due passi dalla sponda keniana del grande Lago Vittoria.

A Manyonge, un villaggio rurale di un migliaio di abitanti nella Siaya County, a due passi dalla sponda keniana del grande Lago Vittoria, Un articolato progetto di agricoltura sociale con l’impiego di nuove tecniche di coltivazione è diventato strumento di promozione della parità di genere e di tutela dei diritti umani.

La storia collega quel lontano lembo d’Africa con Montebelluna (Treviso), dove è nata nel 1987 l’Associazione volontariato insieme (Avi), promossa dallo scomparso padre Pierino Schiavinato, Missionario della Consolata (1939-2016).

L’associazione ha avuto come primo presidente Daniele Schiavinato, un fratello di padre Pierino che tutt’ora vive nella storica missione keniana di Mujwa (fondata nel 1911), dove ha creato un’impresa sociale rilanciando l’attività di una vecchia falegnameria che i Missionari della Consolata avevano avviato ancora in epoca coloniale. Per oltre vent’anni è stata guidata da Gino Merlo, che ne ha forgiato l’attuale impronta all’insegna del motto «se non fai niente non succede niente», e che ha poi passato il testimone all’attuale presidente Francesco Tartini.

coltivazioni e consociazione tra alberi e piante orticole

Due agronome

Sara P., montebellunese di nascita, anche se oggi vive sull’Appennino romagnolo, ha conseguito a Padova una laurea triennale in Cooperazione allo Sviluppo con specializzazione in area rurale, e ha poi completato gli studi a Firenze, con una laurea magistrale in Studi geografici e antropologici.
Gladys Adiambo Owuor è, invece, una religiosa keniana delle Franciscan sisters of st. Anna (Fsa), congregazione nata in Olanda nella prima metà dell’Ottocento che oggi ha la sua casa generalizia a Nairobi. La tonaca non le ha mai impedito di salire su un trattore o sul sellino posteriore di una moto, e accanto alla professione di fede può vantare anche un diploma in agronomia.

Nel 2004 le Fsa acquistano a Manyonge una tenuta agricola semi abbandonata di circa 8 ettari, digradanti verso il fiume Yala, e da quel momento suor Gladys inizia a coltivare il sogno di rivitalizzare la «Rieti farm» (così ribattezzata dopo un soggiorno di alcune suore nella cittadina laziale) e di trasformarla in un centro comunitario capace di migliorare le condizioni di vita della popolazione.

Il sogno inizia a concretizzarsi nel 2013 quando Sara decide di visitare l’ovest del Kenya, un territorio lontano dagli usuali percorsi turistici, e viene accolta nella missione in cui suor Gladys vive e presta il suo servizio, trovandosi a condividere idee e progetti di sviluppo di quel grande appezzamento di terreno.

Suor Gladys ha in mente di realizzare una fattoria modello che possa affiancare alla produzione di frutta e ortaggi anche un centro di formazione per gli agricoltori locali, per metterli in condizione di valorizzare al meglio i loro piccoli appezzamenti, e che possa incentivare la piccola imprenditoria femminile.

In Kenya le donne hanno un ruolo centrale nella lavorazione manuale dei campi, così come in tutti gli aspetti della vita economica e sociale, ma nel contempo soffrono una forte disparità di genere che le priva di diritti umani fondamentali e le sovraccarica di responsabilità familiari.

L’agricoltura praticata dalle donne Luo, l’etnia prevalente nella Contea di Siaya, è di mera sussistenza, incentrata su piccoli appezzamenti di terreno coltivati con metodi tradizionali, qualche capra e qualche pollo, e nelle famiglie più fortunate una mucca.

Le colture principali, destinate all’autoconsumo e al piccolo commercio locale, sono mais, sorgo, fagioli, piselli, arachidi, cassava, patata dolce, cavoli e banana. In un contesto così povero, anche a causa della deforestazione e di attività estrattive che hanno ridotto la biodiversità, alto è il rischio di abbandono della scuola e delle coltivazioni da parte della componente giovanile della comunità, per inseguire il miraggio di una vita migliore in qualche grande città come Kisumu. Un sogno che, per lo più, si infrange nelle squallide baraccopoli di periferia.

coltivazioni e consociazione tra alberi e piante orticole

I sogno diventa realtà

Sara raccoglie le idee dell’amica suor Gladys ma anche dati statistici e analisi socio economiche. Studia le linee di sviluppo del governo nazionale ed elabora il tutto mettendo a frutto i propri studi universitari, arrivando alla stesura del progetto: «Agricoltura, sicurezza alimentare e salute: il centro comunitario per lo sviluppo rurale integrato “Rieti farm”». Esso si propone di contrastare la povertà e la malnutrizione infantile con il miglioramento delle pratiche agricole, la diversificazione delle piccole produzioni locali e altre strategie per l’incremento del reddito, e soprattutto con il rafforzamento delle organizzazioni femminili. Il tutto garantendo al massimo l’equilibrio con il fragile ambiente naturale.

La scommessa è quella di trasformare un’agricoltura di sussistenza in un’agricoltura di resistenza e resilienza.

Resistenza e resilienza contro la tentazione di abbandonare il duro lavoro dei campi, regolato per secoli dai cicli delle piogge che i cambiamenti climatici hanno irreversibilmente alterato, e contro la deforestazione causata dalle monocolture industriali, come le piantagioni di ananas, quelle di palma da olio per il biodiesel o le coltivazioni in serra di rose che hanno ormai avvelenato, con il massiccio impiego di pesticidi, il Lago Naivasha.

sopralluogo al punto di prelievo acqua irrigua dal fiume Yala -2016

Il coinvolgimento dell’Avi

A questo punto inizia la ricerca dei finanziamenti, e per Sara è naturale bussare alla porta dell’Avi che, pur essendo una piccola organizzazione, opera in Kenya da oltre trent’anni. L’associazione ha una buona esperienza in materia di bandi pubblici, e ha già realizzato con successo alcuni progetti alimentari finanziati dalla Presidenza del Consiglio, grazie ai fondi dell’otto per mille che sono gestiti direttamente dallo stato e sono destinati a contrastare la fame nel mondo.

Il progetto della «Rieti farm» viene adattato alle linee guida di Palazzo Chigi e presentato nel 2014. La risposta positiva arriva l’8 febbraio 2016. Nel frattempo, il 24 maggio 2015 papa Francesco ha regalato al mondo la sua enciclica Laudato si’ che esorta alla cura della «casa comune» offrendo nuove importanti motivazioni per realizzare il progetto.

Dopo una missione di verifica in loco e una rimodulazione del quadro economico, la prima tranche viene accreditata alla fine del 2017, e i lavori iniziano a febbraio 2018.

particelle per coltivazioni dimostrative -2019

Investimenti

Tra il 2018 ed il 2020 si procede alla recinzione dell’intera proprietà e al rifacimento dell’impianto di irrigazione, per il pompaggio dell’acqua del fiume Yala sino alla parte sommitale della fattoria, dove vengono collocati quattro serbatoi sopraelevati da 10mila litri e un quinto da 6mila, che poi la distribuiscono per caduta ai vari appezzamenti coltivati. Vengono ristrutturati alcuni edifici già presenti, ricavandone un ufficio con la necessaria dotazione tecnologica, una sala riunioni, una cucina condivisa e alcuni alloggi per i dipendenti, con servizi igienici. Nel tempo arriva anche l’allacciamento alla rete elettrica che consente la sostituzione della vecchia pompa a diesel e l’illuminazione dei fabbricati. Viene acquistata una moto per gli spostamenti del personale e anche tendoni e sedie per ospitare i seminari di formazione.

La gente di Manyonge ha sempre utilizzato l’acqua del fiume anche per usi domestici, limitandosi a farla bollire. Il progetto iniziale prevede soltanto la realizzazione di un serbatoio e di un impianto di filtraggio per distribuirla chiarificata in prossimità del villaggio, evitando alla popolazione una lunga discesa sino alla riva dello Yala, sempre con l’occhio attento ai coccodrilli.

Ci si accorge ben presto che non è una soluzione sufficiente e Avi riesce a ricavare dal proprio bilancio ulteriori risorse per realizzare un pozzo che pesca l’acqua potabile a 80 metri di profondità. Per la comunità di Manyonge, e soprattutto per i bambini, più esposti alle patologie intestinali, la qualità della vita fa un gigantesco passo avanti.

S.P. e sr. Gladys all’uscita da un ufficio governativo a Siaya -2016

Produzioni

Vengono selezionati e messi a dimora piante particolarmente adatte alla tipologia di terreno e al clima, resistenti alle fitopatie e alla siccità, e allo stesso tempo rispondenti alle abitudini alimentari della popolazione. Alle orticole e alle leguminose si affianca la frutta tropicale per la quale il Kenya è famoso: ananas, banano, papaya, frutto della passione, mango, avocado, ma anche arance e meloni.

Il progetto prevede pure la costruzione di una stalla e l’acquisto di cinque mucche da latte, libere di muoversi in un’area a pascolo dove vengono seminate erbe specifiche per l’alimentazione bovina, mentre il letame viene reimpiegato per la fertilizzazione del terreno.

A seconda delle stagioni, la produzione oscilla dai venti ai quaranta litri di latte al giorno, sufficiente per soddisfare le esigenze di una trentina di famiglie, ma la domanda è molto più alta.

Allevamento, orticoltura e attività agroforestali sono praticate in sinergia, con gli obiettivi di ottenere un buon livello di fertilità del terreno, alternare le aree a pascolo con le aree coltivate, nutrire gli animali con foraggio e fieno autoprodotti, ottenere alimenti sani e vitali, instaurare un ciclo produttivo virtuoso per l’uomo e per l’ambiente e incentivare gli agricoltori locali a riprodurlo nelle rispettive piccole proprietà.

La produzione del centro comunitario viene venduta sul mercato locale: in parte alle mense scolastiche della subcontea, in parte alla popolazione delle immediate vicinanze che la acquista all’ingrosso per rivenderla al mercato e incrementare il proprio reddito. I ricavi ottenuti dalla vendita permettono al centro di sostenere le proprie attività al servizio della comunità.

Incontro volontari AVI con gruppi femminili della comunità di Manyonge -2016

Formazione

Alla Rieti farm viene introdotta la riforestazione, piantando oltre tremila alberi per contrastare l’erosione del suolo, fungere da barriera frangivento e ombreggiare il terreno, in modo da conservarne l’umidità e proteggere le orticole e le piante da frutto dal torrido sole tropicale.

La presenza di varietà arboree è di importanza strategica per la funzione educativa del centro, dove i piccoli produttori locali apprendono un nuovo approccio all’agricoltura che integra consapevolezza ecologica e conservazione ambientale.

Parte del terreno viene destinata a produzioni dimostrative che consentono di trasmettere la pratica della pacciamatura (tecnica agricola di protezione del suolo intorno alle piante, ndr) per conservare al massimo l’umidità naturale, la rotazione delle coltivazioni.

Le attività formative prevedono anche l’organizzazione di visite guidate in altre fattorie della regione, strategie di diversificazione del reddito domestico incentrate su pollicoltura e apicoltura, strategie di commercializzazione dei prodotti agricoli e tecniche di conservazione e stoccaggio dell’ortofrutta e dei prodotti caseari.

Attenzione particolare viene dedicata alla gestione dell’acqua, alle tecniche di potabilizzazione domestica, alle malattie veicolate da acqua infetta e alla loro prevenzione, e anche al riutilizzo a scopi irrigui.

Altri percorsi formativi sono incentrati su gestione della salute e la prevenzione delle patologie più comuni nella zona, come la malaria, la nutrizione bilanciata e le tecniche di conservazione e la preparazione del cibo, le dinamiche familiari, il ruolo maschile e femminile e quello dei giovani, i cambiamenti culturali e i conflitti intergenerazionali.

Durante l’emergenza Covid questi incontri hanno confortato e supportato una comunità disorientata e allarmata, e il centro ha assunto anche un ruolo di ammortizzatore sociale, interfacciandosi con le istituzioni locali e offrendo alla popolazione informazioni e materiali utili alla prevenzione del contagio.

Visitatori speciali

il nuovo apiario e l’arrivo delle attrezzature per la lavorazione del miele

L’attività del Centro è stata occasione formativa anche per alcuni studenti dell’istituto agrario Sartor di Castelfranco Veneto (Tv), che, nel 2018 e nel 2019, ha organizzato due visite in loco di altrettanti gruppi di studenti guidate dalla dirigente Antonella Alban, che lasceranno un ricordo indelebile nei giovani partecipanti.

Nel tempo la Rieti farm è diventata una tappa obbligata anche per chi si avvicina all’Avi per dedicare le proprie vacanze a visitare i suoi progetti di cooperazione internazionale.

Nuove idee, nuovo progetto

La pandemia ha dilatato di circa un anno i tempi di realizzazione del progetto, e la decisione del governo del Kenya di chiudere per l’intero anno scolastico 2020  tutte le scuole ha fortemente penalizzato la vendita dei prodotti alle mense, che dopo l’emergenza è fortunatamente ripresa.

Suor Gladys viene scherzosamente ribattezzata Iron sister per la tenacia e l’energia con le quali, a dispetto del suo fisico minuto, riesce a coordinare ogni cosa, mentre Sara svolge dall’Italia un lavoro certosino e prezioso di gestione contabile. Da questo scambio continuo nascono fatalmente nuove idee, anche per rispondere alle nuove fragilità sociali che la pandemia ha portato con sé.

Nasce così il nuovo progetto «A rural hub for change» con l’obiettivo di affrontare la crisi sociale ed economica che il Covid-19 ha lasciato in eredità, allargando l’ambito di azione anche ad altri villaggi della contea e perseguendo due obiettivi specifici: il contrasto alla disoccupazione giovanile e la valorizzazione del ruolo femminile nei processi di trasformazione e sviluppo delle comunità rurali.

Il sostegno al piccolo allevamento come attività integrativa di reddito

Sara e Gladys definiscono precise linee strategiche di intervento, volte a consolidare i risultati già acquisiti e a raggiungerne di nuovi: produzione agricola basata sulla diversificazione e sull’introduzione di nuovi prodotti come miele e funghi shitake; acquisto di nuove mucche da latte; realizzazione di un laboratorio per la trasformazione dei prodotti; formazione di gruppi di giovani e di donne in attività agricole sostenibili e generatrici di reddito. Ma anche consulenza per l’avvio di piccole imprese agricole; formazione nell’ambito della promozione della salute, della prevenzione, della nutrizione, dell’ecologia e della sostenibilità ambientale; promozione della cultura e dell’informazione attraverso la creazione di una biblioteca di comunità.

Gli investimenti prevedono l’acquisto di un trattore per ridurre la necessità di lavoro manuale e garantire alle lavoratrici una maggiore disponibilità di tempo per la vita familiare e la formazione personale; la costruzione di un apiario e di una fungaia; la realizzazione di un vivaio per diffondere l’agroforestazione, la realizzazione di un laboratorio per la produzione di marmellate, conserve e altri trasformati e, non ultimo, la costruzione di una biblioteca comunitaria, con annessa sala riunioni, a supporto delle attività educative e formative.

Il sostegno al piccolo allevamento come attività integrativa di reddito

In questa nuova fase vengono individuati come possibili beneficiari delle azioni di supporto alla piccola imprenditoria locale 250 giovani tra i 18 ed i 35 anni, e 150 donne. Mentre le attività formative e il servizio biblioteca si stima possano raggiungere 900 persone tra adulti e minori.

Nel frattempo, il Centro comunitario Rieti farm è diventato un punto di riferimento per le istituzioni locali, come gli uffici regionali del ministero dell’Agricoltura, la Jooust University di Bondo e due istituti agrari della contea, e ha istaurato collaborazioni e scambi anche con altri progetti di agricoltura sostenibile promossa nella regione da varie organizzazioni internazionali.

Avi, Montebelluna

cancello e viale di ingresso alla fattoria




Kenya: Inondazioni a Parkati


C’è un villaggio praticamente sconosciuto nella profondità della Rifty Valley in Kenya, pochi chilometri a Sud del Lago Turkana. Per la gente di quel villaggio, nel 1981 padre Luigi Graiff, missionario della Consolata, ha dato la vita, ucciso da razziatori mentre andava per aiutare i più poveri. Quel villaggio si chiama Parkati.

La notte tra il 25 e il 26 aprile ha piovuto abbondantemente e Parkati è stata spazzata da un’inondazione terribile che ha causato la perdita di bestiame e la distruzione di edifici, comprese parti della scuola e del dispensario. Per fortuna non ci sono morti tra la gente perché è precipitosamente scappata verso le parti più alte della valle mentre l’acqua invadeva le capanne, i pochi negozi e i recinti del bestiame portando via tutto.

Un colpo terribile per una comunità che, duramente provata dalle distruzioni, è rimasta praticamente senza cibo a causa dei danni ai pochi negozi e alla morte di moltissime capre.

Le immagini parlano per loro. Si sono salvate la chiesa e la scuola materna, mentre le toilette sono da ricostruire.

Il villaggio di Parkati è nella diocesi di Maralal ed è servito dai missionari di Yarumal che hanno sede nella missione di Tuum.

notizia segnalata da Daniel Lorunguya

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Kenya: Chiamata a ricostruire insieme la nazione


Lettera dei Vescovi del  Kenya a tutta la popolazione
12 novembre 2020

“Quanto è bello e delizioso vivere insieme come fratelli e sorelle” (Ps. 133:1)

Preambolo

Noi della Conferenza episcopale del Kenya, riuniti per l’Assemblea plenaria del novembre 2020 presso il Villaggio di Subukia del Santuario di Maria, abbiamo avuto il tempo di riflettere e discutere dello stato della nostra nazione.

In primo luogo, riconosciamo le molte grazie e la protezione che Dio ci ha dato dopo l’annuncio della mortale pandemia di Covid-19. Notiamo con grande preoccupazione l’aumento del numero di persone infettate dal coronavirus, e le molte vite che stiamo perdendo ogni giorno. Inviamo le nostre condoglianze alle famiglie che hanno perso i loro cari per questa pandemia e vi assicuriamo le nostre continue preghiere. Per coloro che sono malati, vi assicuriamo le nostre preghiere per la guarigione.

Siamo molto preoccupati per gli oneri finanziari che ci troviamo di fronte a tutti noi, specialmente per i poveri che non possono permettersi le spese mediche per i malati, e le spese funebri per coloro che sono morti. Ci appelliamo alla generosità dei nostri cari kenioti per raggiungere i bisognosi e contribuire ad alleviare il peso finanziario e psicologico che stanno portando. Dovremmo essere guidati dalla nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo.

Ci appelliamo anche agli ospedali, in particolare a quelli privati, a non sovraccaricare coloro che vengono per cure mediche.

Incoraggiamo il governo a considerare modi più creativi per contenere la diffusione del virus oltre ai protocolli universali raccomandati, tra cui l’uso di maschere, la distanza sociale, il lavaggio delle mani e la sanificazione. Ognuno ha la responsabilità personale di garantire un ambiente sicuro per le persone con cui viviamo, lavoriamo e interagiamo nella nostra vita quotidiana.

Vogliamo ricordare ai leader religiosi e ai fedeli dei protocolli sviluppati dal Consiglio inter religioso (Interfaith Council) che dobbiamo continuare ad essere più vigili e conformi per garantire la sicurezza dei nostri fedeli.

Osservazioni sulla relazione BBI

Cari kenioti, il 26 ottobre 2020 ci è stato presentato il rapporto BBI (Buinding Bridges Initiative), che è stato il prodotto di un lungo processo di stretta di mano.

Come Conferenza episcopale del Kenya, abbiamo accolto con favore la BBI come un’opportunità per tutti i kenioti di impegnarsi in modo costruttivo nel discutere di quelle questioni che riguardano il nostro paese e hanno causato conflitti e divisioni perenni.

La nostra speranza era che la relazione BBI affrontava le quattro principali preoccupazioni che abbiamo sollevato nella plenaria del 20 novembre a Nakuru, vale a dire:

  1. Riconciliazione e guarigione nazionale;
  2. Ripristino dei valori, governance democratica e istituzioni di governo, c) Recupero e ricostruzione dell’economia e dei servizi.
  3. La mancanza di riforme strutturate e redentrici, come è stato sottolineato nei 4 punti dell’Agenda del Dialogo nazionale e processo di riconciliazione del Kenya guidato da Kofi Annan nel 2008.

Come Vescovi, abbiamo seguito con grande processo dal suo inizio fino a questo momento. Come risultato di questo processo, e leggendo la relazione che è stata lanciata al Bomas del Kenya il 26 ottobre 2020, vogliamo fare le nostre osservazioni.

l. Esecutivo ampliato

Guardando alla proposta sull’esecutivo è molto chiaro che il documento BBI dà il potere al presidente di nominare un primo ministro e due vice primo ministro. L’esecutivo ampliato avrebbe dovuto riflettere il volto del Kenya e domare la struttura “winner-takes -it -all” (il vincitore prende tutto). Ma dare al Presidente il potere di nominare il Primo Ministro e i due vice rischia di consolidare più potere intorno al presidente creando così un Presidenza imperiale. Questo emendamento potrebbe creare lo stesso problema che si è proposto di risolvere.

È molto importante attenersi al principio della separazione dei poteri, perché è la spina dorsale della democrazia.

2. Un Parlamento gonfio

L’espansione del Senato a 94 membri e dell’Assemblea nazionale a 363 sarà un enorme onere per i contribuenti di questo paese che già sono oberati da un enorme peso per pagare il salario al numero attuale di legislatori. Non vi è alcun motivo per cui dovremmo avere un numero così elevato di legislatori. Non vogliamo più governo, ma un governo migliore.

3. IEBC politicizzato

La proposta di far nominare membri di partiti politici alla IEBC (Independent Electoral and Boundaries Commission) è pericolosa, poiché politicizzerà l’IEBC compromettendo così la sua indipendenza. Questa proposta trasformerà l’IEBC in un abito politico con interessi di parte. Sorgerà il problema di quanto saranno eque le elezioni.

4. Formazione del Consiglio di Polizia del Kenya

La proposta di formazione di un Consiglio di polizia del Kenya guidato dal Segretario di Gabinetto degli Interni con altri quattro membri, per sostituire l’IPOA (Independent Policing Oversight Authority) è una mossa che probabilmente renderà il Kenya uno stato di polizia e comprometterà l’indipendenza della polizia dall’esecutivo.

Lettura e discernimento della relazione BBI

Noi, vostri Pastori, vogliamo incoraggiare la lettura e la discussione della relazione. È necessario che i keniani abbiano la possibilità di interagire con esso, discuterne in altri ambiti e dare le loro opinioni. La relazione offre ai keniani l’opportunità di riflettere su come possano costruire una solida nazione democratica, giusta, pacifica e inclusiva di tutti. Dà loro la possibilità di vedere come possono far funzionare le istituzioni ed essere al servizio di ogni cittadino, indipendentemente dalla tribù, dall’appartenenza politica o dallo status sociale. È un’occasione per riflettere apertamente e candidamente sulle misure concrete per combattere l’impunità, la corruzione e la politica dell’esclusione.

Dovremmo quindi prestare attenzione quando si discute e si sottolinea come il documento potrebbe essere migliorato,  evitando il rischio di assumere posizioni dure e fare richieste settarie, e porre ultimatum che distruggono il significato e lo spirito stesso della BBI.

Per sua stessa natura la relazione è il prodotto della stretta di mano nata dal dialogo e dalla consultazione. È quindi della massima importanza che questo processo si muova sulla strada del dialogo e della costruzione del consenso, piuttosto che su prese di posizione.

Da parte sua, il governo e tutti gli attori politici non devono dimenticare che lo scopo principale e l’intenzione del processo BBI era quello di mettere insieme tutti i keniani. Si tratta di unità (costruire ponti , buinding bridges initiative BBI, ndr). Tutti devono quindi abbracciare uno spirito di patriottismo, ascoltare le raccomandazioni formulate e adeguare la relazione affinché rifletta il consenso popolare.

Ascoltando ciò che molti cittadini del Kenya stanno dicendo in tutto il paese, è urgente dare loro l’opportunità di rivedere la relazione per quanto riguarda alcune delle questioni sollevate in tutto il paese, vale a dire, l’esecutivo ampliato, l’aumento della rappresentanza dell’assemblea nazionale, la ricostituzione di IEBC, la creazione del Consiglio di polizia del Kenya, la sostituzione dell’IPOA, la rappresentanza delle donne, l’indipendenza della magistratura, persone con disabilità, ecc.

Il nostro intento circa la relazione BBI è quello di incoraggiare tutti i kenioti a leggerla e comprenderne il contenuto in vista della costruzione del consenso. A questo punto, vogliamo ricordare con forza a tutti gli attori, compresi noi stessi come vescovi, che questo processo ha gravi implicazioni per il futuro di questo paese. Le raccomandazioni costituzionali, amministrative e politiche contenute nel documento dovrebbero essere viste alla luce del discernimento. Esortiamo tutti coloro che sono coinvolti in questo processo ad aiutare i kenioti a comprendere in modo semplice il contenuto della relazione, evidenziando chiaramente proposte specifiche e le loro implicazioni. I nostri esperti di diritto sono incoraggiati tradurre la relazione in termini semplici per permettere a tutti di capire.

Il governo dovrebbe facilitare un solido processo di educazione civica per aiutare tutti i kenioti ad apprezzare la relazione al fine di prendere decisioni informate al riguardo.

Cari kenioti, soprattutto i nostri leader politici, non si tratta di competizione politica, non si tratta di pro o contro, SI o NO, non si tratta del 2022. Dovrebbe trattarsi del KENYA, di quale strada vogliamo prendere come kenioti, non solo per noi stessi, ma per i posteri. Si tratta di consenso.

È nostra raccomandazione, in quanto Vescovi cattolici in Kenya, che qualsiasi emendamento per migliorare la relazione sia ancora ascoltato e incluso, ove necessario. Ciò significa che la relazione è ancora un progetto in corso, non ancora inciso nella pietra; e quindi, ogni voce dovrebbe essere ospitata.

Dibattito sul Referendum

Noi Vescovi cattolici, dopo aver esaminato la relazione BBI,  vediamo che affronta le questioni a tre livelli, vale a dire proposte legislative e politiche, amministrative e istituzionali, e  proposte costituzionali. Inoltre, ci sono quelle proposte costituzionali che richiedono un referendum e altre che non lo richiedono.

Mentre c’è una richiesta di referendum, che ha generato opinioni pro e contro, noi vogliamo porci le seguenti domande:

  • Sulla scia degli effetti persistenti della pandemia di Covid-19 che ha colpito le famiglie in tutto il paese, è questo il momento di sottomettere i kenioti ad un’accresciuta attività politica per intraprendere riforme costituzionali fondamentali?
  • Colpito dalla pandemia Covid-19, con l’economia colpita, il paese ha i fondi necessari per effettuare un referendum prima del 2022, 18 mesi prima delle elezioni generalli, un processo che richiede altro denaro? Può il paese permettersi di spendere le sue risorse molto limitate in un referendum quando c’è una lotta nei settori dell’istruzione e della sanità per fornire un sostegno urgentemente necessario a causa degli effetti della pandemia di Covid-19?

Di conseguenza, riteniamo che le proposte legislative o che richiedono modifiche politiche o istituzionali e amministrative debbano essere trattate attraverso gli appropriati organi e  istituzioni di governo già esistenti. Le proposte che richiedono modifiche costituzionali da approvare con un referendum dovrebbero essere separate e gestite come un unico gruppo da approvare dai kenioti con un voto. Questo per evitare il rifiuto di buone idee che sono già state generate nella relazione BBI. Questo è il motivo per cui continuiamo a sottolineare l’importanza di costruire consenso piuttosto che lo schieramento.

Ethos nazionale: formazione della Coscienza

Siamo soddisfatti dell’enfasi posta sull’etica nazionale. Due sono i principali problemi come paese che abbiamo più e più volte evidenziato, questi sono:

  • Agire senza ascoltare la nostra coscienza, e
  • La corruzione rampante che ha permeato ogni settore della società.

La relazione BBI sottolinea questioni che toccano il nostro ruolo di leader religiosi.

Siamo preoccupati che come nazione stiamo perdendo la nostra coscienza collettiva. In Kenya negli ultimi venticinque anni e soprattutto dopo la nuova Costituzione del 2010, l’enfasi è stato sui diritti del popolo. Purtroppo, questo ha talvolta oscurato la coscienza della nazione, oscurando ciò che è giusto in coscienza, a vantaggio del solo diritto di agire. Mentre questa libertà umana intrinseca deve essere difesa, deve essere compresa nel contesto di ciò che è vero e ciò che è giusto. Queste richieste di diritti hanno talvolta offuscato le corrispondenti responsabilità personali e comuni. Lo sfruttamento dei bambini, la tratta di esseri umani, la violazione delle donne e degli uomini, la soluzione delle controversie con al violenza anche tra le coppie in cui il dialogo è sempre più in diminuzione, i litigi tra i leader, dimostrano tutti che un diritto ingannevole ha rimpiazzato la responsabilità di prendere decicioni morali e spirituali, e ha messo a tacere la coscienza.

Per questo, nella nostra lettera pastorale pubblicata lo scorso anno, abbiamo sottolineato la centralità della coscienza individuale per il rinnovamento e la riconciliazione della nostra Nazione.

Tuttavia, quando la coscienza è deformata o disinformata, e quando malizia o vizi guidano la persona, si finisce per scegliere il male rispetto al bene. Quando non ascoltiamo la nostra coscienza, ci immergiamo facilmente nel peccato e nella condotta malvagia, senza preoccuparci delle conseguenze delle nostre azioni sulla nostra vita e del nostro rapporto con Dio. La coscienza può essere deformata da cattive abitudini e vizi. In particolare tutte le azioni di avidità in tutte le sue forme e in gli altri vizi  capitali, il fatalismo e le tendenze suicide indicano tutte una coscienza deformata, fuorviata o disinformata. Il conflitto, la corruzione e l’avidità che vediamo in tutto il paese, nelle famiglie, nelle scuole, nelle comunità e negli affari pubblici nascono dall’ignorare e dal rifiutare la guida della coscienza nel prendere decisioni.

La nostra cultura come africani, kenioti

La relazione BBI mette in risalto il valore della coscienza nel capitolo sull’ethos nazionale. È difficile realizzare le nostre aspirazioni nazionali se non sono ancorate a un’etica fondata. Non siamo un popolo senza cultura, una cultura che ha valori e sistemi per garantirne il successo. Siamo africani, e kenioti in particolare, che vogliono continuare a migliorare la propria vita attraverso sistemi di governo migliori. Ma, questo processo, non dovrebbe in alcun modo allontanarci dalla nostra ricca cultura dell’essere umani, di essere religiosi ed essere persone che apprezzano gli altri, compresi i rifugiati provenienti da vicino e da lontano. La nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo non deve essere inghiottita da una cultura materialistica. L’accumulo di ricchezza deve essere all’interno della nostra cultura di possedere solo ciò per cui hai veramente lavorato. I nostri bisnonni, le bisnonne erano conosciute per la loro generosità soprattutto agli sconosciuti. Ognuno in una famiglia aveva la sua giusta parte.

Riconosciamo quindi le proposte di questa sezione secondo cui gli anziani, i leader religiosi e le istituzioni di apprendimento hanno un ruolo fondamentale nel formare la coscienza, non solo dei bambini, ma anche degli adulti. Nessuna delle proposte avanzate nella relazione o nella Costituzione sarà realizzata se continueremo ad agire in modo da ignorare la nostra coscienza individuale e collettiva. Una coscienza formata si fonda sull’ethos in modo che siamo in grado di ascoltare Dio e noi stessi in ogni momento della nostra vita, sia giovani e che vecchi. Non dobbiamo quindi ingannare noi stessi credendo che bastino i documenti legali da soli a proteggerci dalla caduta in peccato. La migliore legge e la legge di Dio sono iscritte nella nostra coscienza. Come persone che credono Dio abbiamo l’obbligo di fare ciò che è giusto in ogni momento.

Siamo determianti aa intensificare i nostri sforzi per formare una società che abbia coscienza in linea con la relazione BBI. Accogliamo con favore e incoraggiamo la promozione dell’ethos sia nelle nostre istituzioni di apprendimento di base che in quello terziario. Ci impegniamo a sostenere tutte le parti interessate nella formazione dell’ethos nazionale, per il bene di tutti i kenioti.

Conclusione

Cari kenioti, come vostri Pastori, ci appelliamo a ciascuno e a ciascuno di voi a cercare il bene più grande della nostra nazione, a cercare l’unità e a lavorare per la vera riconciliazione. Chiediamo a tutti noi leader, e in particolare ai leader politici, di vedere un quadro più ampio di una nazione unita, resiliente e riconciliata, dove tutti noi siamo custodi dei nostri fratelli e sorelle. Questo è il momento di evitare la politica divisiva, di cercare le vie del dialogo e di condividere i nostri valori.

Rivolgendoci a voi, cari kenioti e a tutte le persone di buona volontà, da questo santuario mariano dove ci riuniamo ogni anno per pregare per la nostra nazione, invocando l’intercessione materna della Madre di Dio, chiediamo unità, amore e riconciliazione e la guarigione da tutti i mali e soprattutto dalla pandemia Covid-19.

Possa la Pace di Cristo rimanere con voi tutti. Dio vi benedica tutti! Dio benedica il Kenya!

Mons Philip Anyolo
presidente della  Conferenza episcopale del Kenya
Arcivescovo Kisumu e Amministratore Apostolico di Homa Bay

Data: giovedì 12 Novembre 2020

(seguono le firme di tutti gli altri vescovi)
[nostra traduzione dall’originale inglese]




Kenya: In viaggio con il vescovo «selvaggio»

Foto e testi di Daniele Romeo


Sole. Polvere. Calore. Il suono delle campane delle mucche. Il belato delle capre. Il sottofondo costante, ritmico, quasi ipnotico del canto di guerrieri Samburu, che si preparano a festeggiare l’evento dell’iniziazione alla vita adulta di un gruppo di ragazzi. Accade ogni quindici anni circa. È una scena affascinante, antica, quasi biblica. Come biblica è la figura di Virgilio Pante, the wild bishop, il «vescovo selvaggio», come lo chiamano nella diocesi di Maralal e come lui stesso ama definirsi.

Pante, come preferisce essere chiamato, è la mia guida e il mio «autista» instancabile alla scoperta del territorio abitato dalle etnie Samburu, Turkana e Pokot, in un safari fotografico che mi permetterà di conoscerlo e apprezzarlo insieme a un altro grande missionario poco convenzionale in un territorio difficile, isolato, al centro di eterni conflitti e dominato dalla filosofia dell’«Io, adesso»: monsignor Virgilio Pante e padre Aldo Giuliani, missionari della Consolata.

Il viaggio

Mi trovo nel Kenya del Nord, la Samburu County, nella diocesi di Maralal, per un viaggio fotografico esplorativo in un’area nella quale da decenni, esattamente dal 1952, operano i missionari della Consolata. Partito da Nairobi, sono arrivato a Maralal, dove monsignor Pante ha la sua sede. E da Maralal partirò, accompagnato dal missionario, alla scoperta delle missioni più remote della sua diocesi.

Lungo l’itinerario percepisco un’atmosfera fraterna, serena, fatta di amicizia e condivisione che solo il viaggiare in compagnia e col supporto di chi da sempre vive in simbiosi e sintonia con questa terra, può creare. Un senso di pace interiore mi fa sentire solidale con questi luoghi isolati. Siamo in una delle zone forse più difficili del Kenya, segnata dalla violenza causata dalla follia dell’uomo e dalla durezza e sobrietà di un ambiente naturale che pure è di sorprendente bellezza.

A decidere ogni singola tappa, villaggio e missione da visitare, per tutto il tempo al volante della sua Toyota 4×4, è il vescovo Pante, narratore instancabile e conoscitore di ogni angolo di quella che lui chiama la «sua sposa» (la sua diocesi) che ha attraversato in tutte le direzioni con la sua moto.

Monsignor Pante, la mitra, la Yamaha

Ordinato vescovo della diocesi di Maralal il 6 ottobre del 2001, è fiero di aver donato, un paio di anni fa, a papa Francesco la sua mitra in pelle di capra. Mitra che non rappresenta per lui solo un simbolo cristiano, ma uno stile di vita e la memoria della sua stessa esistenza in mezzo ai pastori samburu da quando nel 1972 iniziò la sua avventura missionaria in un territorio in bilico tra montagne e deserto e segnato dalla conflittualità delle tribù di pastori nomadi che lo abitano, sempre in competizione per le magre risorse.

Durante il nostro viaggio mi racconta che da quel lontano 1972, molte cose sono cambiate in meglio mentre molte sono peggiorate. Altre sono rimaste identiche, come la sua smisurata passione missionaria.

Allora quelle terre erano relativamente pacifiche, spazi infiniti e incantati tra gli scenari maestosi della Rift Valley, punteggiati, come in un dipinto, dai pastori samburu al seguito delle loro greggi. A quel tempo era solo, lui e la sua motocicletta Yamaha, che ancora oggi custodisce gelosamente a Maralal e usa spesso e volentieri, non solo sulle strade e piste polverose del Nord.

Viaggiare nel Nord del Kenya non è agevole. Lontani solo poche ore da Nairobi, ci si addentra in zone con strade sterrate e prive di qualsiasi indicazione, sulle quali un fuoristrada non è certo un lusso. In questo ambiente, Pante si muove come nel giardino di casa, senza esitazioni, conoscendo a occhi chiusi il cammino che porta ai villaggi più isolati, alle manyatte (tipici insediamenti dei Samburu) immerse nel mezzo del nulla e alle missioni di Baragoi, Barsaloi, South Horr, Tuum e Sererit.

Veniamo accolti dai bambini. All’inizio ci fissano con i loro sguardi timidi e incuriositi, ma, dopo pochi attimi, ci circondano sorridenti festeggiando l’arrivo del vescovo. Grazie alla sua dimestichezza con le lingue samburu e swahili, il vescovo mi aiuta a godere di racconti, storie e leggende degli anziani dei villaggi.

La Suguta Valley e i conflitti etnici

«Cactus, alberi di acacia e polvere: sono le ultime cose che i militari della polizia keniota hanno visto quando sono stati uccisi in un’imboscata in uno dei luoghi più inospitali della terra». Queste le parole con cui Pante descrive la «valle della morte» quando l’osserviamo dall’alto andando verso Baragoi. Situato a Sud del lago Turkana e parte della Rift Valley, questo è uno dei luoghi più caldi e inospitali del mondo. La valle è stata ed è tuttora luogo di rifugio sicuro per razziatori di bestiame, sia Turkana che Samburu, che si rubano il bestiame a vicenda, un tempo solo per dare prova di coraggio contro il «nemico», oggi anche istigati da mestatori e trafficanti di bestiame.

Il conflitto tra Samburu, Turkana e Pokot è il tema dominante delle conversazioni con monsignor Pante. La riconciliazione è l’obiettivo della sua missione di vescovo. Sono decine gli episodi raccontati durante le lunghe ore trascorse in auto. Capisco così come la competizione per il bestiame e l’approvvigionamento di acqua e pascoli nella Samburu County sono oggi manifestazioni di contese e rivalità non solo di tipo etnico ma anche politico.

La cultura della razzia tra le comunità di Samburu, Turkana, Pokot, Borana, Gabbra e Rendille è cambiata negli ultimi 40 anni. Mentre un tempo erano gli anziani i guardiani delle istituzioni tribali, oggi lo sono molto meno. Tra le fila delle comunità di pastori nomadi, sono emersi politici e astuti uomini d’affari pronti a sfruttare le rivalità tradizionali e l’oggettiva scarsità di risorse per scatenare le violenze e affermarsi. Queste lobby politiche e imprenditoriali giocano un ruolo determinante nel conflitto, pagando e armando i guerrieri. La competizione per la supremazia politica è strettamente intrecciata con quella per le scarse risorse idriche e dei pascoli tra Turkana, Samburu e Pokot. Le élite politiche armano le loro comunità non solo durante la stagione secca per prendere il sopravvento nella corsa alle risorse limitate, ma durante tutto l’anno, per sostenere politiche locali e contese tra leader delle diverse etnie.

A guadagnarci sono poi i trafficanti di bestiame che lo possono acquistare a prezzi irrisori e rivendere vantaggiosamente a Nairobi o addirittura in Medio Oriente.

Ma Pante è anche molto fiducioso nel cammino di riconciliazione da lui avviato. Il ruolo della Chiesa, la presenza dei missionari sempre più «neri» e la crescita del numero dei sacerdoti locali offrono a Samburu, Turkana, Pokot, strumenti che permettono di costruire una convivenza pacifica: il dialogo, la scuola, il mercato. Incontri di preghiera, condivisione e scambio tra anziani delle diverse etnie, bambini Samburu e Pokot che dormono, mangiano e giocano insieme nella stessa scuola-collegio, mercati intertribali, nuove scuole.

È un cammino lungo e difficile, ma lentamente sta portando risultati.

Dan Romeo


Scatti ed emozioni di un fotografo

U na serie di articoli fotografici, sotto il titolo «I viaggi di Dan», troveranno spazio su queste pagine per un po’ di tempo. Confesso che è emozionante per me avere l’opportunità di condividere con i lettori di Missioni Consolata la mia passione per la fotografia, i viaggi e le azioni umanitarie.

Mi auguro di riuscire a farvi partecipi di cosa c’è dietro al lavoro di un fotografo e viaggiatore umanitario. Ho vissuto esperienze con Onlus e Ong come la stessa Missioni Consolata Onlus, Unicef, Save the children e molte altre in 55 nazioni diverse.

Vorrei soprattutto farvi entrare in contatto con le realtà che ho visitato, tutte molto diverse dalla nostra, e con le situazioni vissute, ben lontane dalla quotidianità, dal comfort e dal consumismo a cui siamo abituati. Sarò felice di poter condividere con voi una passione che ha aperto per me nuovi orizzonti.

Chi è il fotografo umanitario

Essere un fotografo umanitario e documentare le attività di una Ong, non rappresenta solo l’opportunità di viaggiare
e di vedere decine di posti diversi in tutto il mondo, ma di provare, e poi trasmettere,
emozioni che difficilmente altri tipi di lavori
o di fotografia possono offrire: paesaggi, sguardi, profumi, odori, gioie, dolori.

I viaggi e la fotografia umanitaria sono uno strumento potente che può generare consapevolezza e cambiamenti nelle nostre vite.

Le immagini catturate dalle fotografie possono far sognare le persone e proiettarle in territori remoti, far comprendere popoli, tradizioni, condizioni di vita lontani dai nostri.

Ci sono poi sempre alcune immagini che, per il fotografo, segnano i singoli viaggi e reportage perché sono legate a momenti nei quali si è creata una connessione umana e un’empatia particolare con i soggetti ripresi. Sono quelle che condividerò con voi.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

 




Kenya: Ritorno alle origini della missione

Testo e foto di padre Jaime Carlos Patias |


La visita a Tuthu, in Kenya, la prima storica missione nella vita dei missionari della Consolata, serve da
ispirazione per rinnovare e reinventare lo stile delle loro presenze nel mondo.

In Kenya per una sessione di consiglio, la direzione generale dell’Istituto si reca in visita a Tuthu, provincia di Murang’a, nella regione centrale di quella nazione che è il primo amore dei missionari della Consolata. Questa piccola località, a 140 km da Nairobi, sui monti dell’Aberdare a oltre 2.500 metri, fu la destinazione finale dei primi quattro missionari della Consolata inviati in Africa dal beato Giuseppe Allamano.

I padri Tommaso Gay (31 anni) e Filippo Perlo (29), e i giovani fratelli missionari Luigi Falda (19) e Celeste Lusso (18) arrivarono in Kenya l’8 maggio 1902. A Nairobi, incontrarono Monsignor Allgeyer, superiore dei missionari dello Spirito Santo, che suggerì loro di recarsi tra il popolo kikuyu, in risposta all’invito del chief (capo) Karuri wa Gekure che voleva una scuola nel suo villaggio di Tuthu. Iniziò così l’evangelizzazione cattolica nel cuore del Kenya.

1903 – Capannone fatto erigere da Karoli (anche Karuri o Karori) a uso scuola. Karoli, in piedi, osserva alcuni dei suoi figli tra i quali sta seduto padre Vignoli

Nel villaggio di Karuri

La strada che porta a Tuthu si snoda tra verdissime piantagioni di tè distese sulle ripide colline che caratterizzano la zona, all’orizzonte le montagne dell’Aberdare che i primi missionari dovettero attraversare a piedi, partendo da Naivasha (dove arrivava la ferrovia) con un viaggio di due giorni accompagnati da portatori (per tutto il materiale necessario a impiantare la missione) e soffrendo le basse temperature di notte (a oltre duemila metri e a fine giugno, il periodo più freddo dell’anno).

Le difficoltà degli inizi, ci fanno comprendere l’insistenza dell’Allamano sull’importanza della preparazione e il motivo per cui voleva i suoi missionari «santi in modo superlativo», zelanti, disposti a sacrificare la vita, perché preferiva la qualità, al numero. «Prima santi, poi missionari», ripeteva spesso, sottolineando la santità come valore prioritario.

L’evangelizzazione e la promozione umana era il metodo proposto dal Fondatore e fu applicato puntualmente dai suoi missionari. Per prima cosa i missionari si dedicarono allo studio della lingua kikuyu e, dopo neppure un anno, iniziarono una piccola scuola in una capanna offerta da Karuri. Visitavano sistematicamente la gente nei villaggi con una particolare attenzione alla cura dei malati e ai bambini orfani o abbandonati. Lungimiranti e intraprendenti, portarono semi nuovi per l’agricoltura e installarono una segheria per le varie costruzioni necessarie per lo sviluppo delle missioni.

Gli errori commessi erano compresi e perdonati dalla gente che vedeva la buona volontà e la retta intenzione dei missionari dediti unicamente al servizio della popolazione che il Signore aveva loro affidato.

«Un albero secolare attorniato da liane e gettante le radici in due branche separate forma come un tunnel; ivi fu sepolta Suor Giordana morta nelle missione di Tusu. Due catechisti più coraggiosi si uniscono alle suore nelle preci di suffragio» (dida originale da MC 1907/11 p. 163)

Una croce nella foresta

Dal 1903 la missione di Tuthu ebbe la presenza delle Suore Vincenzine (quelle fondate da san Giuseppe Cottolengo), che lavorarono in Kenya a fianco dei missionari della Consolata per più di 20 anni. Una croce (un tempo di legno) con il nome di suor Giordana rimane nella foresta a pochi chilometri da Tuthu, a perenne memoria della loro presenza e del servizio per la gente.

La loro partenza da Tuthu nel 1909 diede un’ulteriore spinta al processo per la fondazione dell’Istituto delle suore missionarie della Consolata avvenuta nel 1910.

Appena arrivati a Tuthu, i missionari celebrarono la prima messa di ringraziamento, il 29 giugno 1902, ai piedi di un mugumo, albero sacro della tradizione kikuyu. Per ricordare tale evento e proprio sul luogo della celebrazione fu poi costruita la cappella della memoria. La struttura in metallo è adornata da pareti in vetro colorato. A fianco, al posto dell’albero, c’è una stele con una grande croce, su cui è scritta la data di arrivo, i nomi dei quattro missionari e il motto: «Annunceranno la mia gloria alle nazioni» (Is 66, 19). Due portici con i misteri del santo Rosario partono da entrambi i lati della cappella e si estendono lungo la piazza come per accogliere in un abbraccio i pellegrini che visitano quel luogo sacro da cui si è irradiato il dono delle fede.

Il battesimo del chief Karuri e della sua ultima moglie (scelta dopo aver onorevolmente sistemato le altre) con i nomi di Giuseppe e Consolata, suggellò un processo di avvicinamento e reciproca fiducia che con il tempo avrebbe trasformato Tuthu in un centro di irradiazione del cristianesimo in altre regioni fino a raggiungere il Nord del Kenya. Da Murang’a i missionari della Consolata raggiunsero Nyeri, Nanyuki, Isiolo, Meru e, più tardi, Embu. Oggi, la vitalità delle diverse comunità cristiane continua a dare un contributo decisivo alla società attraverso l’educazione, i centri sanitari e molte altre attività di carattere sociale ed economico.

Messa di ringraziamento

Il 2 marzo 2019, dopo 117 anni, la direzione generale celebra l’eucaristia nello stesso luogo. È presente anche padre Luigi Brambilla, attuale parroco del santuario della Consolata di Tuthu da cui sono nate ben altre 31 parrocchie nella sola diocesi di Murang’a.

Il superiore generale, padre Stefano Camerlengo, presiede l’eucarestia e nell’omelia ricorda che «questa è una visita storica, in quanto non capita spesso che la direzione generale al completo si rechi in una regione e tanto meno visiti una nostra comunità locale. Soprattutto perché la missione di Tuthu rappresenta l’inizio della nostra missione in terra africana. Non possiamo, come missionari della Consolata dimenticare questo, perché un popolo senza memoria non può vivere – insiste padre Stefano -. Lo stesso vale per un istituto: la memoria storica è garanzia per il futuro».

Durante l’Eucaristia sono richiamate le diverse situazioni di sofferenza e conflitto dove l’istituto è presente come in Venezuela, nella Repubblica Democratica del Congo e in Costa d’Avorio. Con la mente e la preghiera la direzione generale ricorda tutti i missionari che sono passati da Tuthu e tutti quelli che hanno evangelizzato il Kenya tra i popoli nomadi, i contadini delle campagne e gli abitanti delle città.

«Sotto la croce preghiamo per trovare la forza e il coraggio di reinventare lo stile missionario delle nostre comunità, consapevoli che guardando al passato si costruisce il futuro attraverso uno sforzo quotidiano, convinti che il meglio per il nostro istituto e per la missione deve ancora venire», conclude il padre generale.

L’atmosfera di sacralità che circonda i luoghi della memoria di Tuthu, fa sorgere spontaneamente suggestioni ed emozioni. Il consigliere generale per l’Africa, padre Godfrey Msumange, ricorda che «qui siamo nelle nostre radici. Mi piace immaginare 117 anni fa. Mi metto nella pelle dei primi missionari. Certamente erano decisi, coraggiosi, determinati e pieni di zelo missionario. In mezzo a mille sfide, animati dalla fede e amore di Dio, hanno superato tutto. Quanti sacrifici», esclama baba Godfrey. «Proprio per questo mi piace dire che il loro vero nome è passione missionaria, è amore, è coraggio, è dono. Sì, verso il Signore ma soprattutto verso i fratelli e sorelle desiderosi di conoscere il Signore».

Padre Mino Francesco Vaccari, da tanti anni missionario in Kenya, è arrivato dalla missione di Rumuruti per unirsi alla comunità. In un momento di condivisione, durante la preghiera delle lodi, dal profondo della sua esperienza, con emozione, ci confida che «questo posto è molto importante per l’Istituto e la storia della missione in Kenya, quindi dobbiamo tenerlo come il centro di irradiazione della fede. È la prima volta che incontro tutta la direzione generale riunita così. Sembra di essere al tempo degli Apostoli che erano uniti come in una sola famiglia. Sentire la vicinanza della direzione generale è una benedizione per me e per tutti».

Prendendo lo spunto da quella confidenza, padre Stefano aggiunge che «l’esempio dei primi missionari indica chiaramente che non siamo solo delle comunità per la missione, ma comunità in missione. Siamo strumenti dello Spirito, l’unico che muove i cuori ed è capace di trasformare le persone e la storia. Fare missione è ascoltare il cuore della gente… è trasmettere l’esperienza della tenerezza di Dio e della compassione di Gesù soprattutto a chi è debole e ai margini».

Parole sagge che traggono dall’esperienza di Tuthu insegnamenti per l’oggi della missione. Secondo il consigliere generale per l’Europa, padre Antonio Rovelli, «la memoria non deve diventare un semplice contenitore di ricordi ma, come Tuthu ci insegna, deve essere qualcosa che si custodisce a partire dal futuro. Il ricordo dell’eroismo dei primi missionari deve rivitalizzare la vita dei missionari della Consolata oggi e dare un rinnovato impulso al coraggio e all’entusiasmo per l’evangelizzazione e custodire la memoria di Tuthu significa farci tutti responsabili del nostro passato per gettarci in un movimento proteso in avanti verso altre tappe della missione universale». Al termine della visita, il superiore generale esprime un augurio per tutte le nostre comunità sparse nel mondo: «L’esempio dei primi quattro missionari di Tuthu ci sia di stimolo per reinventare l’arte del vivere insieme attraverso un esodo continuo da sé e i seguenti atteggiamenti fondamentali: l’accoglienza, il dialogo, la fraternità e la corresponsabilità in missione».

L’Istituto nato nel 1901 ai piedi della Madonna Consolata a Torino, in Italia, ha più di cento anni, e rimane fedele al carisma ereditato dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Seguendo le orme dei pionieri nella missione di Tuthu, continua a raggiungere nuovi popoli e culture. Prova di questo è l’inizio di una nuova presenza in Madagascar. I missionari dell’Allamano oggi sono 950 dei quali 463 sono africani. Sono presenti in 28 paesi in Africa, America, Asia ed Europa. La Consolata è la protagonista di tutto questo con il suo silenzio, il suo ascolto, la sua donazione.

Jaime Carlos Patias
Consigliere generale per l’America


Tuthu: umile inizio di una grande missione

«E tu Tuthu non sei il più piccolo insignificante villaggio del Kikuyu perché da te è iniziato l’annuncio di salvezza a tante genti…». Sono milioni i cristiani che in Kenya, devono a questo villaggio l’origine della loro fede: dalle zone poco a Nord di Nairobi fino ai confini dell’Etiopia e della Somalia.

Anche un fiume maestoso parte da una sorgente piccola e modesta: è l’inizio, è la nascita.

I cristiani che vengono in visita e in preghiera trovano il luogo ideale: bellezza della natura, tanta pace e silenzio, la bella chiesa, la cappella della memoria, il chiostro del rosario, la grotta di Lourdes, la cappella dell’adorazione. Poi intorno, posti suggestivi nella foresta. Il luogo dove i missionari impiantarono una storica segheria, o il posto del martirio del catechista Aloisio Kamau dove abbiamo eretto una croce a ricordo, meta di pellegrini e preghiere.

Qui storia e geografia si uniscono a fare di Tuthu un posto veramente suggestivo, testimone della grandezza del Fondatore e dei primi missionari.

Non deve succedere che perdiamo questa storia e questa testimonianza. Nelle dovute proporzioni, sarebbe come se Assisi rimanesse senza Francescani! Torino e Tuthu dovrebbero gemellarsi: la radice dell’istituto e la radice delle nostre missioni.

La porta della chiesa

Fu voluta da padre Tommaso Biasizzo che costruì l’attuale chiesa. Si rivolse a fratel Filippo Abbati, autore di altari, porte, tabernacoli intagliati in legno, sparsi in diverse nostre missioni «storiche».

Fratel Filippo chiese a me di disegnargli i «cartoni» con i soggetti suggeriti da padre Biasizzo.

Nel pannello in alto a sinistra sono rappresentati i simboli dei sacrifici kikuyu generalmente offerti sotto un mugumo (un maestoso ficus) considerato albero sacro. Su quello di destra, i simboli della nuova fede: la Croce e la Madonna Consolata.

Nei pannelli di mezzo è rappresentato l’incontro dei missionari, scesi dalle motagne dell’Aberdare, con il capo Karuri wa Gakure. In basso a destra è inciso il logo di quel tempo dei missionari della Consolata e, a sinistra, un simbolo del Kenya.

padre Luigino Brambilla
parroco della parrocchia santuario della Consolata a Tuthu

 




Kenya: Visita alla tomba della Beata Leonella Sgorbati, martire


Suor Leonella, missionaria della Consolata italiana è stato assassinata il 17 settembre 2006 da estremisti islamici in Somalia, mentre lasciava la scuola di infermiere per rientrare a casa.

Fu colpita da sette proiettili. In ospedale, prima di morire, sussurrò: “Io perdono, perdono, perdono”. La martire è stata beatificata il 26 maggio 2018 in una cerimonia presieduta dal Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, a Piacenza, Italia, luogo di nascita della missionaria.

La Beata è sepolta nella chiesa Nostra Signora dell’Universo, accanto alla Casa Regionale delle Suore Missionarie della Consolata a Nairobi, in Kenya.

Il luogo è stato visitato mercoledì, 13 marzo, dalla Direzione Generale dei Missionari della Consolata in occasione di un incontro di condivisione e comunione con le missionarie. Ricordando che la Beata Leonella Sgorbati è la Protettrice e modello per l’anno 2019 sia delle missionarie che dei missionari.

Attraverso la sua intercessione, chiediamo la protezione del Signore per i nuovi percorsi missionari intrapresi dalle due congregazioni fondate dal Beato Giuseppe Allamano.

Chiesa Nostra Signora dell’Universo della casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi

Chi è la beata Leonella Sgorbati?

Leonella è nata il 9 dicembre 1940 a Rezzannella di Gazzola (Piacenza). Fu battezzata nella parrocchia di San Savino di Gazzola, proprio il giorno della sua nascita con il nome di Rosa. Riceve la sua prima comunione e confermazione il 26 maggio 1947. Entra nella congregazione il 5 maggio 1963, e il 22 novembre 1965, emette la sua prima professione religiosa. Fa gli studi infermieristici in Inghilterra e in Kenya, dove ha emette la professione perpetua il 19 novembre 1972. Lavora poi per molti anni negli ospedali del Kenya, in particolare a Nkubu nel Meru, e nella formazione di giovani infermieri e infermiere.
Nel 1993 è stata nominata Superiora Regionale MC del Kenya. Nel 2002, alla fine di questa missione, Suor Leonella parte per Somalia, in un momento in cui il paese sta attraversando una convulsione politica, e l’influenza islamica estremista sta guadagnando terreno. Nonostante ciò, vede con entusiasmo la possibilità di gestire il centro di formazione per infermieri, preparando professionisti per l’unico ospedale in Somalia. Tra i fondamentalisti islamici serpeggia il sospetto che Suor Leonella, attraverso la scuola, faccia fatto proselitismo, per formare dei cristiani. Per questo è stata brutalmente uccisa con la sua guardia del corpo.

Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per l’America

Nella casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi la direzione generale dei missionari in visita della sorelle missionarie.

Alla tomba di suor beate Leonella Sgorbati nella chiesa Nostra Signora dell’Universo della casa regionale delle suore della Consolata a Nairobi




Elezioni 2017 in Kenya – cronologia


Elezioni in Kenya, giorno dopo giorno dal 27 luglio al 12 agosto 2017

Aggiornamento del: 13 Agosto 2017 alle ore 9.00

Seggi elettorali che hanno inviato i risultati: 40.762 su 40.883
Partecipazione: 79.26 % (86% nel 2013)
Elettori registrati: 19.611.423
Voti validi: 15.142.783
Voti controversi: 5.191
Voti rifiutati: 401.1981
Fonte: https://public.rts.iebc.or.ke/results/results.html

Stato dei voti per il posto di presidente:

Uhuru Kenyatta JP 8.208.373 voti (54.21%)
Raila Odinga ODM 6.799.850 voti (44.9%)

Per che cosa si è votato

Ogni elettore doveva dare sei voti diversi:

  • – a livello nazionale: presidente, membro del parlamento (Assemblea Nazionale), senatore, rappresentante delle donne;
  • a livello di contea (47 contee): governatore e membri dell’assemblea di contea

CRONOLOGIA

27 luglio 2017, assassinio di Christopher Msando presidente della Independent Electoral and Boundaries Commission (IEBC).

In preparazione alle elezioni c’è un diffuso timore che si ripetano le violenze del 2007 che causarono circa 1.100 morti e 600mila rifugiati interni. In tutte le chiese si intensifica la preghiera e gli inviti alla calma e alla partecipazione responsabile.

8 agosto 2017
Votazioni (dalle 7 alle 17, e in molti posti anche oltre viste le lunghe code). La polizia e dispiegata in forze (circa 180mila uomini) per prevenire disordini. Partecipazione altissima senza particolari tensioni.

9 agosto 2017
escono i primi risultati parziali che proiettano la vittoria di Huhuru Kenyatta, il presidente uscente, del partito Jubilee del Kenya ;
Raila Odinga (che corre per la quarta volta al posto di presidente), del Nasa – National Super Alliance – accusa di imbroglio dicendo che il sistema computerizzato dei voti controllato dalla ICBC è stato manomesso e hakerato.
Scoppiano tafferugli a Mathare (uno slum di Nairobi noto come roccaforte del partito di Odinga) e Kisumu. Ci sono almeno cinque morti.

10 agosto 2017
l’Iebc (Independent Electoral and Boundaries Commission) invita alla calma e ad attendere i risultati finali rifiutando l’accusa che i dati siano stati manipolati e hakerati usando il password del suo defunto presidente assassinato.
Anche altre voci autorevoli invitano alla calma e ad attendere i risultati.

In giornata il capo della Pubblica Amministrazione invita tutti i dipendenti della stessa a ritornare al lavoro.

Nel pomeriggio l’on. Odinga e i suoi, in una conferenza stampa,  insistono che i risultati riguardanti il presidente sono stati manipolati e che la vittoria sarebbero ampiamente in favore di Odinga.

Interviene la Law Society of Kenya (Lsk) che in una dichiarazione afferma che le elezioni sono andate bene, che occorre attendere i risultati finali e che se qualcuno ha di che lamentarsi vada in corte.

Gli osservatori internazionali (l’Elections Observation Group – Elog – composto da membri della Comunità Europea, Unione Africana, Commonwealth, East African Community e il Carter Centre, con 8.300 osservatori sul campo) elogiano lo svolgimento delle elezioni e non trovano irregolarità di rilievo nel processo elettorale e nel rilascio dei risultati.

11 agosto 2017
L’onorevole Raila Odinga del Nasa accusa gli osservatori internazionali di aver avvallato un processo elettorale che per lui è bacato e manipolato.
Continuano ad essere resi pubblici i risultati, man mano che i voti vengono certificati, circa i governatori, la rappresentante della donne e i vari parlamentari e senator e i membri delle assemblee di Contea.
Alle 9.00 ca., l’Iebc informa che mancano ancora pochi risultati per poter dare l’annuncio ufficiale sul presidente.
Alle 15 ca. (ora italiana) il partito di Odinga nega di aver dichiarato Odinga come vincitore e invita la Iebc a dare l’annuncio ufficiale solo quando tutti i documenti relativi sono arrivati e verificati.
Allo stesso tempo la Iebc comunica che mancano solo i documenti di due circoscrizioni elettorali e invita di nuovo alla pazienza.
In serata la Iebc annuncia la rielezione del Presidente Huhuru Kenyatta con William Ruto come suo vice presidente.
Alle ore 23.00 (ora italiana) in un messaggio televisivo il presidente rieletto si rivolge all’opposizione ricordando che “siamo tutti cittadini della stessa repubblica” e ha invitato alla pace.
Ma l’opposizione continua a contestare i risultati e denunciando brogli, scoppiano disordini negli slum di Mathare e Kibera e a Kisumu.

12 agosto 2017
I vescovi cattolici, (Kenya Conference of Catholic Bishops – KCCB)

pubblicano un comunicato stampa in cui

  • Lodano il popolo del Kenya per il modo calmo e sobrio in cui ha partecipato alle elezioni.
  • Fanno le congratulazioni al presidente eletto Huhuru Kenyatta e agli altri candidati alla presidenza, riconoscendo la loro condotta sobria (conducting themselves with sobriety) durante la campagna elettorale.
  • Congratulano la Iebc per il modo con cui ha gestito un processo elettorale oggettivamente difficile.
  • Poi, però, sottolineano i seguenti punti:
    • un appello al presidente eletto e al suo governo a muoversi velocemente per guarire e unire la nazione divisa dopo un periodo elettorale emotivo: i vescovi si augurano che nessuna comunità venga emarginata o esclusa per il modo con cui ha sostenuto e scelto i candidati;
    • un invito urgente a tutti i politici a usare un linguaggio che promuova unità, pace e riconciliazione;
    • invitano le forze di sicurezza a non usare forza eccessiva nel controllo delle folle e a rispettare la santità della vita; i vescovi sono particolarmente dispiaciuti per le notizie di morti e distruzioni di proprietà;
    • i vescovi prendono atto che anche dopo l’annuncio ufficiale dei risultati ci sono molte lamentele circa la correttezza di tutto il processo elettorale, per questo implorano e urgono (implore and urge) le parti interessate a usare i mezzi legali offerti dalla Costituzione per risolvere i problemi.
  • Concludendo assicurano i Keniani della loro vicinanza, sostegno e preghiera, invitano a mantenere pace e tolleranza sempre (maintain peace and tolerance at all times) e a ritornare alla vita normale lasciando alle Istituzioni incaricate il compito di risolvere le questioni legate alle elezioni.

Violenze morti, rapporti contraddittori.
In serata Nasa, la coalizione dell’opposizione, accusa le forze di sicurezza di brutalità e violenza annunciando che ci sono già altre 100 morti, molti dei quali uccisi da pallottole sparate a bruciapelo dalla polizia.  La notizia è riportata con rilievo anche dai giornali italiani.
Ma la Kenya National Commission on Human Rights (KNCHR) dichiara che ha l’evidenza documentata di 24 morti (di cui 17 a Nairobi, tra cui la bambina di 10 anni) in relazione ai disordini connessi con le elezioni dell’8 agosto.




Kenya: Stampa 3D per «piedi felici»


In Kenya è nata una piccola compagnia che si occupa di stampa tridimensionale. L’African Born 3D printing (Ab3D) è la prima start up africana che stampa oggetti in materiali plastici, produce stampanti 3D e fa formazione al loro uso. La società progetta, disegna e costruisce i suoi prodotti usando materiale elettronico riciclato, parti meccaniche reperibili localmente e software open source. La sua mission è quella di usare la tecnologia per migliorare la vita.

All’origine della Ab3D c’è la fantasia e l’ingegno di Roy Ombatti. Roy, un giovane keniano di 27 anni, proviene da una famiglia cattolica della classe media che però fa fatica a pagargli gli studi fino a completare l’università a causa della severa crisi economica che in Kenya, nei primi anni del 2000, colpisce in particolare il ceto medio. Conscio di questo, Roy fa tesoro dei suoi studi anche più di molti suoi coetanei e si impegna a fondo per realizzare il sogno coltivato fin da bambino di diventare un ingegnere meccanico e creare oggetti meravigliosi, usando e sfidando le leggi della fisica e della matematica, e di portare cambiamenti positivi nella società attraverso il suo lavoro.

Dopo aver fatto la scuola primaria nella Consolata School di Nairobi, ha frequentato la secondaria alla Strathmore School e ottiene l’ammissione nell’Università di Nairobi, la più antica del paese, fondata nel 1956, ben prima dell’indipendenza del Kenya. Nell’attesa di cominciare il corso di Ingegneria meccanica cui si è iscritto, Roy coglie l’occasione offertagli da un suo zio, volontario di una Ong, e va in Malawi a condividerne l’esperienza con bambini orfani a causa dell’Aids o Hiv positivi. Un’esperienza traumatica per lui, come ricorderà in seguito, perché «oggi sono lì a giocare con uno di loro, e domani mi dicono che è morto».

Vedendo di persona lo stato pietoso del sistema sanitario del Malawi, non diverso dallo stato in cui versano quelli di molte altre nazioni nel continente, Roy sente che deve fare qualcosa e non solo stare a guardare. Ritorna in Kenya per iniziare l’università e comincia a tenere gli occhi aperti sulla sua stessa comunità per individuarne i bisogni e capire cosa lui possa fare per cambiare la situazione. Scopre presto che molti bambini delle famiglie più povere – quelli che vivono negli slum, le periferie degradate di Nairobi dove manca acqua, non ci sono fogne e nelle case non ci sono reti antizanzara – soffrono a causa di molte malattie che potrebbero essere facilmente curabili, anzi, anche evitate con un’adeguata prevenzione. Purtroppo la gente degli slum non ha le risorse per uscire da quella situazione.

Il salto nella stampa 3D

All’università ha un’occasione unica: partecipare ad una competizione internazionale di stampa 3D, la 3D4D (3D for Development) organizzata dalla Techfor Trade, una onlus inglese impegnata a «cercare, promuovere e sostenere un’innovazione tecnologica rispettosa dell’ambiente che aiuti gli scambi commerciali e allevi la povertà». Roy vi partecipa con un progetto che gli è caro: stampare delle scarpe su misura per piedi resi deformi dalle pulci penetranti, quegli stessi piedi che aveva visto in troppi bambini degli slum. Chiama il suo progetto «Happy Feet», Piedi felici.

Le pulci penetranti sono terribili, perché si infilano sotto la pelle dei piedi e lì si installano facendovi il nido che diventa sempre più grosso. Di solito è facile toglierle se sono in superficie, ma se trascurate (come può succedere ai bambini non curati attentamente dai loro genitori o da famigliari) possono causare infiammazioni dolorose fino a impedire una deambulazione corretta o a lasciare piedi deformi. Per rimuovere le pulci si usano spine, lame, spilli o aghi che, non disinfettati o usati su diverse persone, aumentano il pericolo di trasmettere e/o ricevere l’Hiv. Il fatto di camminare a piedi nudi espone poi al rischio di essere infestati di nuovo dalle pulci.

Il progetto è bello e fa sognare, ma per realizzarlo Roy ha bisogno di poter usare stampanti 3D che siano alla portata delle sue tasche di studente universitario. Questo in Kenya non è facile, visto che sono tutte importate dall’estero e costano molto.

Roy capisce allora che se vuole realizzare il suo sogno di «Piedi felici» deve risolvere il problema fondamentale: l’accesso facile alle stampanti 3D e alla relativa tecnologia. Convinto della potenzialità del mezzo per migliorare la vita della gente comune, si concentra allora sulla nuova sfida, riesce a ottenere dei finanziamenti e così fonda la sua start up per la produzione e uso di stampanti 3D.

Nasce così la Ab3D per costruire stampanti 3D usando materiale elettronico riciclato, software open source e parti meccaniche reperibili sul mercato locale. Questo abbatte i costi e facilita manutenzione e riparazioni. Una stampante 3D usa meno energia di un frigorifero e come materia prima per stampare oggetti può riutilizzare plastica dai rifiuti. «L’uso della plastica riciclata non costituisce un rischio, anzi risolve un problema, e i filamenti ottenuti permettono di stampare gli oggetti utili alla comunità», dice oggi Roy spiegando che fino a quando useremo derivati dal petrolio avremo sempre a che fare con la plastica. Tanto vale allora usarla in modo positivo. Le statistiche provano che la plastica è uno dei maggiori elementi inquinanti nel mondo. Oltre otto milioni di tonnellate ne sono riversate negli oceani ogni anno. Di questo passo entro il 2050 sarà un disastro, nel mare ci sarà più plastica che pesci, questo è l’allarme lanciato al World Economic Forum del 2016.

Promuovere una coltura 3D

A questi primi passi Roy ne aggiunge un altro: promuovere la stampa 3D nelle scuole di modo che le future generazioni di giovani lavoratori possano imparare a pensare la tecnologia a servizio di uno sviluppo che non aumenti i problemi, ma li risolva. Tale formazione aumenterebbe la possibilità dei ragazzi di trovare impiego e le loro capacità imprenditoriali.

Secondo Roy è importante applicare il 3D all’apprendimento pratico nelle scuole. «Avessimo meno teoria e più pratica sia nelle scuole che nelle nostre università, avremmo studenti che finirebbero i loro studi con capacità reali, più gente capace di soluzioni nuove per risolvere i problemi globali». Secondo lui troppi giovani finiscono l’università con la testa piena di teorie ma incapaci di tradurle in pratica nel mondo vero del lavoro.

Tre prestigiose scuole private in Kenya hanno già comperato le stampanti dell’Ab3d: Makini School, Banda School e Nova Academia, seguite a ruota anche da tre scuole di informatica. Tra le università, quella di Gondar in Etiopia e quella di Bristol in Inghilterra. L’obiettivo è quello di diffondere le stampanti nel maggior numero di scuole possibile, anche se sembrano più apprezzate all’estero che in patria. Mentre i giovani studenti sono aperti alle novità e al futuro, i dirigenti scolastici sono ancora della vecchia generazione e, purtroppo, sono loro che tengono i cordoni della borsa.

La stampa 3D può essere applicata in molti campi diversi, le sue possibilità sono ancora tutte da scoprire. L’Ab3D sta stampando ora microscopi per laboratori nel settore della sanità e per le scuole, protesi per chi ne ha bisogno, siringhe speciali per uso medico e ovviamente le scarpe «Happy Feet». «Sono tutte iniziative orientate al bene della comunità», sottolinea Roy, «ma stiamo cercando nuove strade per aiutare in modo più diretto ed efficace». Per questo Roy e il gruppo dei suoi collaboratori stanno cercando di essere sempre più propositivi e attenti ai bisogni di ogni giorno. Un dialogo più serrato tra «i tecnici» e la comunità con le sue necessità concrete è importante per tutti. La gente si apre ai benefici del progresso tecnologico e i tecnici imparano dalla gente ad affrontare e risolvere problemi reali.

Katya Nyangi Mwita*

*Giovane russo-keniana che dopo aver insegnato inglese a Mosca e lavorato come giornalista della stessa lingua in un’agenzia di informazione russa, ora, in Kenya, lavora in un centro specializzato in educazione e comunicazione.

Vedi su Youtube (in inglese) African Born 3D Printing
e Intermission with 3D Printing Innovators Carl & Roy




Kenya lago Turkana vento di sviluppo


La zona intorno al lago Turkana è la più povera e lasciata a se stessa del Kenya. Da qualche anno a questa parte, però, qualcosa è cambiato: un giacimento di petrolio, il progetto dell’impianto eolico più grande d’Africa, la diga sul tratto etiope del fiume Omo, un enorme bacino sotterraneo d’acqua hanno portato l’area al centro dell’attenzione. E davanti a una sfida decisiva.

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Quando si cerca di descrivere Loiyangalani, villaggio «dalle molte piante» sulle rive del lago Turkana, è facile venire colti dall’ansia da prestazione. D’istinto, viene voglia di cercare una combinazione di parole originale, unica e definitiva per un posto che non ha niente di già visto, per un posto che somiglia solo a se stesso. Qualcuno parla di paesaggio lunare, altri dell’angolo remoto di mondo dove Dio ha accatastato tutti i sassi che erano avanzati dalla creazione, altri ancora di tempo sospeso, promemoria per un’umanità che dovrebbe ricordarsi da dove viene.

Forse l’unica operazione davvero onesta è quella della semplice elencazione: montagne di pietre nere, colline di roccia marrone, sabbia ocra, sassi bianchi, l’acqua del lago: turchese la mattina, verde petrolio a mezzogiorno, blu turbante di tuareg la sera. Donne turkana coperte di rosso e di collane di perline, pochissimi uomini, almeno durante il giorno, perché la gran parte sono fuori dal villaggio col bestiame. Capanne a forma di igloo di paglia gialla, ghiaia grigia, chiazze di erba cresciuta dove il sole s’è distratto, dimenticandosi di seccarla. Capre, cammelli, zebù, qualche asino. Le acacie, quelle sì identiche ovunque, capaci di crescere anche fra i sassi, testarde e indifferenti. L’antenna  bianca e rossa della rete cellulare, rare casette squadrate di cemento.

Un elenco, certamente non completo, per descrivere un luogo speciale.

Le piaghe: siccità, conflitti, analfabetismo

Quel che è certo, invece, è che la zona intorno al lago Turkana è la più povera del Kenya. Tanto per cominciare, è collegata malissimo con il resto del paese: da Nairobi a Loiyangalani, occorrono tre giorni di 4×4, due per i più audaci; gli abitanti della zona parlano di «andare in Kenya» quando si accingono a uscire dal loro distretto.

La parte a Ovest del lago, la Turkana County, e quella a Est, la Marsabit County, hanno tassi di povertà del 94 e del 91 per cento. Seicentomila persone vivono con meno di 1.562 scellini keniani al mese (circa 15 euro) nelle zone rurali, e 2.913 (circa 30 euro) nelle zone urbane. Con trenta gradi d’inverno e quarantacinque d’estate, frequenti ondate di siccità e qualche rara ma devastante inondazione, la popolazione della zona vive prevalentemente di pastorizia, integrata con la pesca. Il tasso di analfabetismo è intorno all’85 per cento (96 per le donne), quello di infezione da HIV oltre l’undici per cento, circa il doppio di quello nazionale. Gli scontri fra gruppi etnici, connessi principalmente ai furti di bestiame e alle conseguenti rappresaglie, non hanno mai assunto le dimensioni di un conflitto su ampia scala, ma hanno accompagnato la storia della convivenza nell’area da tempo immemorabile, con tutti i morti e i feriti che inevitabilmente si contano in un luogo dove anche una banale ferita come un taglio può essere fatale, vista la carenza di centri sanitari. Qualcuno calcola che ogni maschio, dai 17 anni in su, abbia un AK47 e il banditismo è un fenomeno tutt’altro che sconosciuto.

Questo è il contesto, già di suo non certo facile, sul quale si sono innestate negli anni Dieci di questo secolo una serie di scoperte e di eventi che mettono il Turkana davanti a un bivio: da una parte la strada del salto di qualità, dall’altra quella della distruzione senza appello.

Acqua che viene, acqua che va

Nel 2013 il governo del Kenya e l’Unesco hanno annunciato che la ricerca da loro condotta con finanziamenti giapponesi ha portato alla scoperta nella Turkana county (dall’altra parte del lago rispetto a Loiyangalani) di un enorme riserva sotterranea di acqua. Si tratta di due bacini, uno vicino alla città di Lotikipi e l’altro, molto più piccolo, a Lodwar (capitale della county e sede della diocesi). Solo Lotikipi dispone, a una profondità di circa trecento metri, di oltre duecento miliardi di metri cubi, pari a circa nove volte le riserve totali del Kenya. Lo sfruttamento delle risorse idriche, una volta portata l’acqua in superficie, sarebbe anche sostenibile, perché il bacino ha un rifoimento annuale spontaneo più che sufficiente – 3,4 miliardi di metri cubi – grazie all’acqua proveniente dalle montagne dell’Etiopia. A fronte di un consumo annuale di acqua pari a 2,7 miliardi di metri cubi all’anno per tutto il paese, la stima è che il bacino garantirebbe acqua all’intero Kenya per settant’anni.

Ma il condizionale è ancora d’obbligo. Intanto perché il trovare l’acqua e il renderla disponibile, con tutto l’investimento in perforazioni e infrastrutture connesso, sono due cose molto diverse. E poi perché nel marzo 2015 alcuni test su pozzi scavati a Lotikipi hanno rivelato che l’acqua è troppo salina per il consumo umano, almeno secondo il Rift Valley Water Services Board, e dovrebbe quindi subire un lungo e costoso processo di desalinizzazione. Altre fonti suggeriscono invece che i rapporti basati sui test sono troppo pessimistici, che in altri pozzi il grado di salinità sarebbe molto inferiore e che comunque l’acqua sarebbe adatta almeno per usi agricoli e per abbeverare il bestiame.

Mentre le ricerche per stabilire la fruibilità di quest’acqua sono ancora in corso, gli effetti di un altro mega-progetto idrico, stavolta in un paese confinante, rischiano invece di essere drammatici. La diga Gibe III sul fiume Omo, in Etiopia, è entrata in funzione lo scorso ottobre. Secondo Addis Abeba, la diga dovrebbe aumentare del 234 per cento la produzione elettrica etiope: 1.870 megawatt che andranno ad alimentare le ambizioni industriali nazionali e ad aumentare l’esportazione di energia all’estero. Regolando il flusso del fiume, inoltre, la diga servirà i progetti di irrigazione su larga scala che il governo etiope intende realizzare nella vallata dell’Omo.

Ma, avverte Survival inteational, l’Omo fornisce al lago Turkana circa il novanta per cento delle sue acque e l’irrigazione in Etiopia potrebbe ridurre della metà l’afflusso idrico facendo abbassare il Turkana di venti metri. Il danno per l’ecosistema sarebbe pesantissimo, inducendo non solo una drastica riduzione della disponibilità di pesce ma anche un inasprirsi della siccità che porterebbe a ulteriori conflitti, anche transfrontalieri, fra le migliaia di pastori della zona in cerca di acqua per gli animali.

Le promesse non mantenute del petrolio

A complicare ulteriormente il quadro è arrivata, nel 2012, la scoperta di un giacimento di petrolio – dalla capacità quantificata in seicento milioni di barili – fra Lokichar e Lodwar, nell’area a Ovest del lago.

La multinazionale anglo-irlandese Tullow Oil, insieme alla compagnia partner canadese Africa Oil e, più di recente, alla danese Maersk, prevede di cominciare lo sfruttamento commerciale dei pozzi nel 2020 ma, a dar retta al quotidiano online Business Daily, il governo keniano sta spingendo per anticipare i tempi. In ballo, funzionale all’esportazione di petrolio, c’è la costruzione dell’oleodotto Lapsset (Lamu Port Southe Sudan-Ethiopia Transport), che collegherebbe il porto di Lamu (sull’Oceano Indiano), alla città di Isiolo, nel centro del Kenya, per biforcarsi poi in due bracci, uno diretto in Etiopia e l’altro in Sud Sudan e Uganda.

Mentre la Tullow Oil si è affrettata fin dal 2012 a pubblicizzare sul proprio sito i progetti di cooperazione che sostiene nell’area del giacimento e a istituire borse di studio per studenti keniani, sul campo le difficoltà non hanno tardato a manifestarsi. In un articolo dello scorso luglio, l’Economist raccontava delle diffidenze fra le compagnie petrolifere, che lamentano la difficoltà a trovare localmente personale qualificato, e la comunità locale, che teme di essere «scippata» degli impieghi migliori a favore di personale proveniente da altre aree, e minaccia ricorsi contro i possibili danni ambientali.

Nel 2013, un gruppo di quattrocento lavoratori ha attaccato gli impianti di trivellazione chiedendo più lavoro e più benefici, mentre nel 2014 il crollo del prezzo del petrolio ha indotto un altro ridimensionamento, almeno nell’immediato, delle speranze delle popolazioni del Turkana: finché il greggio resta sotto i 70 dollari al barile, stimano gli esperti, non è conveniente continuare le operazioni di estrazione. E infatti la Tullow negli ultimi mesi ha decisamente spinto sul freno.

Il vento dello sviluppo

Se il petrolio frena, il vento accelera: il mega-progetto della wind farm, il parco eolico, sarà completato entro ottobre 2016, annuncia la Kenya Electricity Transmission Company (Ketraco), che sta supervisionando i lavori di costruzione. La Lake Turkana Wind Power Limited, consorzio titolare del progetto prevalentemente composto da aziende private nordeuropee, prevede di produrre i primi 50 megawatt a settembre, mentre i 310 megawatt totali dell’impianto a pieno regime saranno immessi nella rete elettrica kenyana entro luglio 2017.

Siamo ora sulla riva orientale del lago Turkana, a una quarantina di chilometri da Loiyangalani. Qui verranno installate 365 turbine con una capacità di 850 kilowatt ciascuna su una superficie di circa 160 chilometri quadrati, per un costo complessivo vicino ai 700 milioni di dollari: l’investimento privato più consistente nella storia del Kenya indipendente, capace di fornire al paese circa un quarto dell’energia di cui ha bisogno. Il Turkana è particolarmente indicato per lo sfruttamento dell’energia eolica, poiché il vento in questa zona permette di raggiungere un fattore di capacità – cioè il rapporto fra l’energia effettivamente prodotta e quella che l’impianto è capace di produrre in condizioni ottimali costanti – del 62 per cento, contro il 25-35 per cento degli altri impianti. La Banca Mondiale, all’inizio fra i sostenitori del progetto, si è sfilata nel 2012 dopo avere sollevato dubbi sulla capacità del sistema kenyano di assorbire davvero tutta quell’energia, sottolineando il rischio per i consumatori di pagare annualmente l’equivalente di cento milioni di dollari per elettricità di fatto non utilizzata.

Nessuno dei membri del consorzio, per la verità, ha fatto una tragedia del ritiro della Banca, anzi, pare che alla Ketraco qualcuno abbia perfino commentato: meglio così, tanto creava solo inutili ostacoli. Tanto più che, se ancora c’erano dubbi sull’affare rappresentato dal parco eolico, ci ha pensato Google a fugarli, buttando sul piatto quaranta milioni di dollari per riservarsi il 12,5 per cento delle quote una volta che l’impianto sarà funzionante. Il colosso statunitense ha così voluto ribadire il suo interesse per le energie sostenibili e, ovviamente, anche per l’opportunità di aumentare i propri clienti, dal momento che elettricità e Inteet vanno a braccetto.

Pro e contro

Anche nel caso del parco eolico non mancano le perplessità e i contrasti, a cominciare dalle difficoltà di comprensione del progetto da parte della popolazione locale nella fase iniziale delle consultazioni. In più ci sono anche ricorsi legali da parte dei rappresentanti comunitari contro le violazioni del diritto alla terra (soprattutto per garantire il diritto di pascolo) nelle aree dove saranno installate le turbine. A questo si aggiungono poi – come per gli impianti petroliferi – le aspettative non sempre soddisfatte delle comunità riguardo alla creazione di nuovi posti di lavoro (i locali non sono preparati per un lavoro così diverso dalla pastorizia e dalla pesca), l’arrivo di personale esterno e l’incremento del flusso turistico grazie a strade migliori, con tutto quello che ne consegue in termini di aumento dei prezzi, incidenza di malattie sessualmente trasmissibili e impatto complessivo su una comunità finora fortemente isolata.

Da ultimo, a complicare la situazione, ci sono i contrasti sulla spartizione dei benefici tra la Marsabit county (con i Turkana e altre etnie) e la Samburu county (prevalentemente Samburu) che condividono gli incerti confini proprio nell’area del wind park.

Progetti come questi, come minimo inducono un miglioramento dal punto di vista delle infrastrutture, a cominciare dalla costruzione delle strade e, come dice un  leader comunitario citato dal Guardian, «offrono ai bambini una scelta che i loro padri e nonni non hanno avuto». Ma è proprio su questo che si gioca la partita: se non ci sarà una chiara ed equa ripartizione dei benefici e un coinvolgimento reale delle comunità, il Turkana non sarà un modello di sviluppo per tutta l’Africa ma un incubo fatto di sfruttamento, devastazione degli ecosistemi e migrazione forzata di migliaia di persone verso le già affollate e dolenti periferie urbane.

Chiara Giovetti