Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Rivista scomoda

Buonasera, quest’anno ho voluto aggiungere al bonifico per il vostro progetto natalizio (la cardiologia di Neisu) un secondo bonifico specifico per la vostra rivista, perché la vostra rivista è «scomoda».

La ritiro dalla buca delle lettere, la poso sul tavolino, la ignoro per un po’, voglio rimanere nel mio guscio di «sicurezze», non voglio sentire di altri guai, non voglio pensare (ci sono già le mille preoccupazioni del lavoro, figli, genitori anziani…), voglio solo pensieri leggeri. E poi?

Passa qualche giorno, faccio uno sforzo e riprendo in mano la rivista e poi la leggo dalla prima all’ultima pagina, mi appassiono perfino all’economia che, spiegata da Francesco Gesualdi, ha tutto un altro sapore! E quindi questa mail per dirvi grazie perché la vostra «scomoda» rivista rompe la cappa di comodità in cui vuole rifugiarsi la mia mente e vuole nascondersi il mio cuore, grazie perché mi portate lontano dal mio rassicurante piccolo mondo, mi fate conoscere realtà di cui l’informazione di massa si disinteressa come non esistessero, grazie e un incoraggiamento a continuare, sotto gli occhi amorevoli della Consolata, nonostante tutte le difficoltà che incontrate.

Manuela Pogliano
23/12/2022

 Trent’anni di penna

Nel febbraio del 1993, esattamente 30 anni fa, veniva pubblicato il mio primo articolo. Si trattava in realtà di due pezzi, la storia di una mia esperienza diretta, vissuta con l’amico Roberto Minetti, in alcune favelas di Rio de Janeiro, e una piccola riflessione personale sullo stesso tema.

Io e Roberto, nel 1992, eravamo in viaggio in Sudamerica e, in quel periodo, eravamo stati accolti da padre Claudio Fattor, missionario della Consolata, alla missione nel quartiere Benfica, area di Rio de Janeiro nel mezzo delle favelas (foto qui in basso): la famosa Mangueira, Morro do Telegrafo, Arará, Tuiutí e altre. Nonostante fossimo in viaggio già da mesi (avevamo attraversato la Patagonia in autostop, arrivando fino alla Terra del Fuoco), in quei giorni entrammo in contatto con una realtà assolutamente nuova per noi, scioccante, scomoda, che ci metteva in discussione. Una realtà che, decidemmo, si doveva raccontare, meglio, denunciare. E così fu.

Rientrati in Italia, Roberto mi portò alla Casa Madre dei missionari, in corso Ferrucci a Torino. Era la fine del 1992. Qui incontrammo per primo padre Franco Cellana, all’epoca superiore della comunità. Fu molto accogliente e, dopo i nostri racconti, non esitò ad alzare il telefono e chiamare il direttore della rivista Missioni Consolata, padre Francesco Bernardi.

Francesco ci ricevette subito. Ci ascoltò, e con i suoi occhi vispi, un mezzo sorriso incorniciato dalla barba che all’epoca aveva, manipolando una penna, ci disse che poteva pubblicare qualcosa, se gli avessimo proposto un testo.

Radunate le idee, di getto, iniziai a scrivere. In quei mesi mi capitava spesso di scrivere delle riflessioni, ero ancora pieno di immagini del Sudamerica e di sentimenti contrastanti. Mi sentivo un disadattato in Italia ed ero particolarmente ispirato. Roberto, invece, non mi seguì in questa iniziativa.

Fu così che nacquero quei due primi articoli, quasi spontaneamente, mentre dentro di me cresceva qualcosa, lo stimolo per un mio nuovo ruolo nella vita. Da un lato, occorreva fare qualcosa per ridurre le disuguaglianze di cui ero stato testimone e, dall’altro, bisognava far sapere alla gente di questa parte del Mondo che quelle situazioni esistevano.

A Rio avevo incontrato altri due personaggi particolari. Il primo era il giornalista Giuseppe Nava, che all’epoca lavorava per Missões Consolata, la rivista dei missionari in Brasile. Un giornalista che si occupava di temi sociali, in particolare di popoli indigeni, che affascinò me e Roberto con i suoi racconti e con il tipo di lavoro che faceva, dandomi sicuramente diversi stimoli.

E poi, monsignor Aldo Mongiano, vescovo di Boa Vista, di passaggio a Rio per andare in Italia, con il quale visitammo i cantieri preparatori della conferenza di Rio92. Lui ci parlò molto della sua missione e dei popoli indigeni. Ma ci fece anche riflettere sul nostro futuro. Voglio ricordare che eravamo neolaureati in ingegneria elettronica, con il massimo dei voti, e avevamo preso un periodo per visitare, in economia massima, il Sudamerica. Al nostro rientro tutte, o quasi, le strade ci erano aperte.

Questa è la storia del mio primo articolo con le prime foto pubblicate, per combinazione o per genesi, proprio su Missioni Consolata. In seguito, pubblicai su diverse testate italiane, e alcune estere.

Quindi iniziai a mettermi in testa l’idea di continuare a scrivere e a produrre immagini. Ma sempre con l’obiettivo di far conoscere e di denunciare realtà difficili.

La fotografia, che mi aveva appassionato fino dall’infanzia, la vedevo ora come il più potente mezzo per comunicare queste realtà. Il testo scritto avrebbe contribuito a descriverle.

Incontrai il mio primo giornalista in Italia, Sante Altizio, nella stanza della nostra comune amica Gabriella Roux, nel collegio femminile di via delle Rosine a Torino. Sante mi spiegò come funzionavano le cose per la professione giornalistica nel nostro paese.

Poi cercai altre storie, altri soggetti. Andai in Centro America e incontrai il movimento civile dei guatemaltechi, in particolare le Comunità di popolazioni in resistenza. Documentai la loro lotta.

In seguito, in Italia, mi presentarono il fotogiornalista Paolo Siccardi, il quale mi diede diversi consigli che si sarebbero rivelati preziosi.

Nel 1996 mi iscrissi all’Ordine dei Giornalisti, grazie a diverse collaborazioni che avevo messo in piedi negli anni precedenti. Fu per me un primo traguardo: ero ufficialmente giornalista.

Era deciso, avrei continuato anche su questa strada (intanto vivevo facendo il ricercatore nel settore delle telecomunicazioni), ma non sapevo ancora quanto spazio avrebbe preso nella mia vita.

Marco Bello
Torino, febbraio 2023

Energia e soffio vitale

Caro padre,
ho già scritto altre volte su queste pagine. In particolare, in uno dei miei scritti parlavo di Dio come fonte di energia. «Allora, il Signore Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). E commentavo: «Come non interpretare quel soffio come Energia?».

Ebbene, nella vostra rivista di novembre, ho apprezzato molto l’articolo su Albert Einstein e qui mi ha fatto ricordare la famosa formula: E=mc2. Da qualche tempo questa formula mi ronza nelle orecchie cercando di andare oltre la materia rappresentata in poche lettere per descrivere tutto l’universo. Pensavo: ma non è anche divina questa Energia che impregna tutta la materia?

Un giorno, in un «lampo» intravvidi qualcosa che va oltre la materia: «ED=mc2+F2».

Mi spiego: alla E di energia ho aggiunto la D di divino, alla mc2 ho aggiunto la F di fede col 2 inteso come fede al quadrato, ossia grande fede. Badi che non intendo dire che la formula di Einstein sia errata, assolutamente no! È solo un tentativo di comprendere l’universo per coloro che credono in qualcosa che va oltre la materia (e qui sono comprese tutte le forme di religione).

Lei cosa ne pensa? Mi piacerebbe segnalarla a Piergiorgio Pescali autore dell’articolo, ma non so come fare. La ringrazio anticipatamente per l’interessamento. Un cordiale saluto.

Angelo Brugnoni
14/12/2022

Ho passato questa email al nostro Piergiorgio Pescali, ovviamente. Ecco qui la sua breve email di risposta quasi immediata.

Gent.mo sig. Brugnoni,
capisco che il verso biblico da lei citato possa indurre a interpretazioni scientifiche; personalmente, però, ho sempre interpretato che il soffio vitale che Dio ha instillato nell’uomo sia l’unicità che Dio stesso ha voluto per l’essere umano, concedendogli un dono unico che altri esseri non hanno. Quel soffio divino, quindi, è assai diverso dalla materia.

Le formule scientifiche hanno significato perché utilizzano parametri matematicamente riconducibili a realtà concrete. Nella fattispecie, la formula di Einstein ha avuto conferme e continua ad averle nel nostro mondo fisico. Inserire in questa formula (ma il discorso vale anche per tutte le altre) indici non quantificabili dal punto di vista matematico, non avrebbe senso dal punto di vista scientifico. «E», «m» e «c» sono grandezze fisiche ben determinate, che trovano riscontro nelle sperimentazioni fisiche.

Quali valori e quale unità di misura si potrebbero dare a D e F? Penso che chi ha il dono della fede non abbia bisogno di formule matematiche per spiegare il mondo in cui viviamo, la sua natura, la sua genesi e il suo termine.

Con cordialità.

Piergiorgio Pescali
15/12/2022

Unità: cantiere di fraternità

A fine gennaio, come di consueto, si celebra la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Da noi in Italia, dove si è in gran parte cattolici, non si avverte il problema della divisione tra cristiani. Né si mostra grande sensibilità. Ma in terra d’Africa o d’Asia, dove sono stato come missionario, suonava invece come uno scandalo. «Portateci il Cristo e non le vostre divisioni!», sentivo implorare. Riunirsi in nome dello stesso Cristo da una parte protestanti e dall’altra cattolici – quasi due mondi separati – era, infatti, una ben triste testimonianza.

Ora i tempi stanno cambiando… In Marocco si è perfino costituita nel 2012 a Rabat, insieme, in corresponsabilità tra protestanti e cattolici, una originale Università di teologia, unica al mondo, dal nome «Almowafaqa» (significa accordo). Rappresenta una vera novità nel panorama teologico, includendo persino professori musulmani. La Chiesa cattolica in Marocco, d’altronde, accoglie fraternamente nei suoi luoghi di culto o di accoglienza comunità protestanti. Per gli ortodossi, ricordo quando qualcuno chiedeva a père Michel, cattolico, di celebrare la Pasqua ortodossa. Ma di fronte all’imbarazzo del sacerdote, si mostrava rassicurante. «Non si preoccupi, padre, faccia come il solito, metta solo un po’ più di candele sull’altare!». Gli ortodossi, infatti, nel celebrare adorano la luce, segno vivo del Risorto.

Come missionario ho avuto l’occasione di accompagnare comunità di migranti italiani a Londra, nel mondo anglicano e nella città di Ginevra, definita la «Roma di Calvino». Ricordo quando con due ragazze italiane siamo stati al culto nella centralissima St. Martin in the Fields a Londra e la loro viva sorpresa di vedere officiare una donna pastore in talare romana. Il sermone, poi, fu di una brevità, un’efficacia e un’ispirazione esemplari. La sorpresa più grande, alla fine, quando la donna pastore alla porta d’uscita saluta come sempre ad uno ad uno tutti i presenti. Arrivato il loro turno, sapendo che non erano anglicane ma italiane, con un sorriso inesprimibile le invitava a un caffè nel bar della cripta! Sì, distanza e prossimità, allo stesso tempo, sorprendenti.

A Ginevra, invece, ci venne l’idea di invitare alla preparazione della cresima dei nostri giovani, Philippe, il pastore calvinista della parrocchia accanto. Venne con tutta la preparazione dotta della Parola di Dio, con l’esperienza di padre di famiglia di ben cinque figli e con l’amabilità sorridente del vicino di casa. Il campo da trattare era precisato, anche se sconfinato: lo Spirito Santo nella Bibbia.

Quale, però, fu la nostra sorpresa nel vedere, alla fine del lungo incontro, i nostri ragazzi pronunciare disinvoltamente termini in greco o in ebraico come «pneuma», «ruah» dopo un bel percorso filologico! Ma entusiasti, soprattutto, della loro ultima scoperta: la creazione dell’uomo. Fu un bacio in bocca dato ad Adamo da Dio. È così che Dio stesso trasmise il suo soffio di vita. Evidentemente, il pastore era ricorso alla scioltezza di linguaggio dei suoi figli, ottenendo un vero e insperato successo!

In altra occasione, in una celebrazione funebre, ci si era divisi i momenti con un pastore calvinista: a lui la spiegazione della Parola e il percorso di vita di un migrante italiano che conosceva, a me i gesti del rito e il loro commento simbolico (che i protestanti non contemplano). Alla fine, non posso dimenticare come la moglie stessa del pastore, raggiante, ci venne incontro per ringraziare entrambi. La complementarità dei nostri interventi pare aver dato alla celebrazione senso, interiorità, fede convinta e condivisa. Anche allora il pastore aveva fatto brillare due qualità della tradizione protestante: l’essenzialità e l’efficacia della parola.

Un altro giorno, alla messa per una defunta italiana, notavo la presenza di un pastore protestante nell’assemblea. Durante il corteo verso il camposanto, allora, discretamente avvicinandomi gli chiedevo di improvvisare la preghiera al cimitero. Mi rispondeva con un’occhiata indecifrabile. Ma, poi, in quel luogo sacro che sembrava un giardino, mentre scendeva lentamente la bara nella terra, incominciava forte: «Tu ci hai fatti di terra, Signore, e alla terra noi ritorniamo…», improvvisando così una commossa preghiera finale. Con il suo linguaggio biblico ci inchiodò alla terra. Ci fece sentire tutti semplice argilla. E ci depose, allo stesso tempo, nelle palme accoglienti delle mani di Dio. Per i presenti fu un momento forte, indimenticabile, di speranza.

Per me sono occasioni incredibili di fraternità con pastori protestanti, da sempre appassionati della Parola di Dio. Parola che essi hanno conosciuto, elaborato e interiorizzato non da sessant’anni come noi, ma da ben cinque secoli!

Ecumenismo è costruire dei ponti, lanciare delle passerelle con quelli dell’altra riva. Sapendo che, un giorno, Dio stesso prosciugherà il mare che ci separa.

Renato Zilio, missionario scalabriniano
 a Casablanca, Marocco, autore di  «Dio attende alla frontiera», EMI, 30ª ristampa
11/01/2023