Un luogo dove vivere (Es 23,20-24,18)


Il libro dell’Esodo è il racconto dell’uscita d’Israele dalla «casa di schiavitù», dall’Egitto, per diventare un popolo libero. Esso ci mostra che per ottenere tale libertà, non basta essere liberati dall’oppressore, come si scopre strada facendo. Dio, dopo aver portato il popolo nel deserto, gli ha proposto un legame personale definitivo, «sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (la citazione è di Lv 26,12, ma è il senso di Es 19,5-6). Questo legame, che in qualche modo era regolamentato dal decalogo, è stato ripreso e chiarito in modalità che ora vederemo e che ci permetteranno di evidenziare alcuni elementi importanti. Oltre a una terra da cui uscire, infatti, c’era anche bisogno di una terra in cui vivere, e questa è stata promessa, anche se la promessa non riguarda solo la terra, ma allude a tante altre cose.

Un angelo davanti a te (Es 23,20)

«Se ci fosse Dio» è una frase che abbiamo sentito o ci siamo trovati a pensare molte volte. Molto spesso, la frase esprime quello che noi pensiamo che faremmo se fossimo noi Dio. Si tratta di una tentazione, a cui, in qualche modo, questo testo risponde: «Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato».

Dio promette che un «messaggero» (questo è il significato della parola «angelo») condurrà il popolo nella terra promessa. A chi si deve pensare? A un essere invisibile, non umano? A un intervento miracoloso? Nel Primo Testamento si parla spesso di «angeli», ma sembra sempre un modo per indicare l’intervento divino senza nominare Dio apertamente. Quasi mai leggiamo di interventi «magici» che risolvono le questioni. Normalmente gli uomini devono mettersi in gioco, conquistarsi la fiducia, interpretare e rischiare.

Sembra, insomma, che l’«angelo» di cui si parla sia un uomo. E non sembra che questi sia Mosè, altrimenti non verrebbe usato il futuro (peraltro, Mosè non arriverà nella terra promessa).

Dio invita il popolo ad avere fiducia: Lui interverrà. Ma non lo farà direttamente, bensì attraverso persone, delle quali bisognerà vagliare l’affidabilità, decidere se sono degne di fiducia.

È la presentazione della vita umana che non offre certezze ma invita a mettersi in gioco anche soltanto per valutare di chi fidarsi.

In tutta la storia dell’umanità occorre aspettarsi che Dio intervenga tramite persone umane che però potrebbero essere ingannevoli. Bisognerà, quindi, continuamente mettersi in gioco, cercare di capire, scommettere, fidarsi.

Il sogno di un legame

Il modo con cui Dio immagina la relazione con il suo popolo sembra davvero sognante: «Terrò lontana da te la malattia, non ci sarà donna che abortisce o sterile, ti farò giungere al numero completo dei tuoi giorni» (Es 20,25). Nell’originale ebraico tante parole sono tipiche della poesia, non di un trattato legale.

Il motivo si può cogliere nell’insistenza con cui Dio chiede che il popolo gli sia fedele, senza volgersi ad altri dèi.

Il richiamo alla fedeltà e il tono poetico (poco adatto a un trattato legale) ci possono fare avvicinare all’interpretazione più verosimile del passo: Dio non sta firmando un contratto, ma sta impegnandosi in un legame. Il paragone più vicino non è l’acquisto di una casa, ma un matrimonio. Dio sogna di essere amato, di vivere sempre insieme al suo popolo. Non è un legame di convenienza, ma di amore.

Ecco perché il testo insiste sul tenersi lontano dall’idolatria, sulla gelosia divina. L’immagine è precisa: Dio non vuole altri, perché è innamorato del suo popolo. Lo lega in un rapporto alla pari, perché lo ama. Con l’umanità non stipula un contratto di assicurazione, ma un legame di cuore per sempre, come uno sposo che sogna la sua vita insieme all’amata.

L’espulsione degli altri

Se da un lato Dio chiede al popolo di discernere chi sono i suoi angeli e di fidarsi di loro, da parte sua, sembra impegnarsi a scacciare chi occupa la terra che gli è destinata. Lo fa con attenzioni graduali e sorprendenti, affinché i nuovi occupanti non trovino poi una terra desolata e invasa da bestie selvatiche (23,29-30).

La nostra sensibilità moderna si stupisce e scandalizza: perché la salvezza di un popolo deve significare la morte o l’espulsione di altri?

Una prima risposta ha la sua radice nella mentalità semitica antica. Per quella cultura, chi si impegna in un compito deve innanzitutto dimostrare di esserne capace, di esserne all’altezza. Dio non può promettere agli ebrei che vivranno nella terra destinata a loro, se non è capace di fare piazza pulita di chi ci abita adesso. Noi amiamo vedere delicatezza e dolcezza, persino commozione e fragilità, anche nei potenti; la cultura che scrive queste righe, invece, voleva che il garante assicurasse di avere la forza necessaria per garantire.

Ma poi, strisciante, si insinua un’altra spiegazione appena andiamo a indagare più da vicino i nomi degli espulsi. In Gen 10,15-18 e 1Cr 1,13-16 troviamo elenchi più ampli, che arrivano a una dozzina di popolazioni. Qui ne troviamo «solo» tre, che ci lasciano un po’ perplessi: degli Ittiti sappiamo tanto, compreso il fatto che non si sono mai stabiliti in Palestina; i Cananei, invece, resteranno nella terra anche secoli dopo l’insediamento ebraico, continuando, soprattutto al Nord, a essere i vicini di casa, a volte più tollerati e a volte più odiati. Gli Evei, stranamente, non hanno lasciato alcuna traccia di sé se non in questi elenchi. Quando andiamo a controllare anche le liste più ampie, troviamo di nuovo popolazioni che avrebbero continuato a vivere insieme agli ebrei per lunghi secoli (Amorrei, Gebusei, Aramei) oppure altre di cui non abbiamo traccia se non in questi elenchi (Gergesei, Architi, Sinei, Semariti, Amatiti).

Agli archeologi e biblisti, dopo lunghe analisi, è venuto il sospetto che i nomi delle popolazioni che non hanno lasciato traccia di sé (in un territorio piccolo e arido come quello della Palestina) siano forse stati inventati. Come se Dio, innamorato del suo popolo, abbia esagerato il numero delle alternative a cui aveva rinunciato per la sua unica amata.

Non ci sembri irrispettoso. A noi pare che nella Bibbia debba trovare spazio solo ciò che è rigorosamente storico, secondo i nostri criteri moderni. Ma la storia, di fatto, ci dice che gli ebrei si infiltrarono quasi di soppiatto nella terra di Canaan, senza cancellare chi ci viveva già prima. In realtà questi testi che stiamo considerando sembrano più scritti poetici e retorici, che documenti storici. Storiograficamente potremmo ritenere falsa questa presentazione delle popolazioni scacciate, e considerarla invece come un tenero tentativo di ribadire al popolo d’Israele quanto il suo Dio ne è innamorato. Nel genere del canto d’amore, i particolari possono essere inventati, il contenuto di affetto, no.

Sul monte

Normalmente solo Mosè parlava con Dio, come ripete anche Esodo 24,2: «solo Mosè si avvicinerà al Signore». Di fatto, però, salgono sul monte anche Aronne, Nadab, Abiu e settanta anziani (24,9). E il loro messaggio sarà poi trasmesso a tutto il popolo.

Se è vero che, riprendendo anche l’umanissima tradizione della lontananza di Dio dall’umano, Esodo immagina che l’uomo non possa avvicinarsi al Signore senza morire (Es 20,19), qui però un’ampia rappresentanza del popolo lo incontra senza conseguenze (24,10-11). Da una parte Dio rimarca la sua distanza e alterità rispetto al mondo, dall’altra vuole incontrarsi con i suoi, e non sopporta di tenerli lontani o fare loro del male.

Sempre di più il comportamento di Dio si mostra comprensibile e affascinante se lo pensiamo diverso da un assicuratore, un legislatore o un condottiero, se lo vediamo come un innamorato che vuole mantenere la propria distanza e dignità ma, nello stesso tempo, e molto di più, non vuole in alcun modo perdere o fare del male al suo amato popolo.

Un’alleanza

In diverse occasioni, nel Primo Testamento, Dio viene ritratto nel gesto di stringere un’alleanza con gli uomini (Gn 6,18; 9,9-17; 15; 17,2-21; Es 6,4-5 …). In tutte queste situazioni il modello di alleanza è quello paritario. Dio, cioè, non stringe un patto con gli uomini tenendoli in condizione subalterna, come fossero dei sudditi.

Spesso noi non riusciamo a cogliere tutti i sottintesi di riti antichi che sicuramente erano meglio noti ai primi lettori dell’Esodo di venticinque secoli fa, ma qualcosa capiamo lo stesso. Il sangue, ad esempio, è simbolo della vita e dice la serietà del patto: idealmente, chi lo viola sarà tenuto a effondere il sangue proprio, in punizione. Ma è interessante che (in Es 24,6-8) il sangue venga sparso mezzo sul popolo e mezzo sull’altare: Dio non si tira fuori, non si ritiene superiore, anzi, minaccia anche se stesso di vendetta e punizione se violerà l’accordo.

I riti di iniziazione spesso calcano la mano sul rischio di morte, perché l’accordo è questione importante che va presa sul serio: questo vale anche, simbolicamente, nell’iniziazione cristiana, come si intuisce dal fatto che in greco il verbo «battezzare» significava «affogare». Qui, però, Dio si mette in gioco allo stesso modo: la sua natura è diversa da quella dell’uomo, ma lui accetta di «scendere» al livello umano, per un accordo che sia di vera reciprocità.

È significativo il fatto che non riusciamo a capire con precisione quale sia il contenuto di questa alleanza: è il decalogo (Es 20,1-17)? È il corpo legale più ampio (Es 20,22-23,19)? È qualcos’altro che non ci viene raccontato?

Cose da innamorati

Sembrerebbe che il cuore dell’accordo sia l’accordo stesso. Come, di nuovo, tra innamorati, a Dio pare interessare soprattutto stringere un accordo alla pari con un popolo di cui è innamorato. I contenuti dell’accordo sembrano secondari e riformabili (Dio li riformerà tante volte lungo la storia). Quello che non cambia pare essere solo la sua intenzione di continuare a relazionarsi con l’essere umano.

Si direbbe quasi che la vera terra che Dio promette è la relazione tra sé e l’uomo, tramite il popolo ebraico.

Un innamorato che fantastichi di vivere con la sua amata in una bella casetta solitaria sui monti, vivendo di allevamento e scaldandosi a legna, quando poi si trovasse a vivere in un appartamento con riscaldamento centralizzato e lavoro d’ufficio, potrebbe ritenere di avere compiuto il proprio sogno comunque: il sogno infatti è quello di vivere con la propria amata, non i dettagli del modo in cui vivere insieme.

E Dio sembra essere interessato soprattutto, o meglio solo, a continuare a vivere con il suo popolo. L’unico ostacolo immaginabile a tale sogno è il (possibile) rifiuto del popolo ad accogliere la piena comunione di vita con lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 14 – continua)




Africa dell’Ovest. Salvatori della patria?


La crisi sociale si fa sentire in Africa dell’Ovest. E il malcontento della popolazione verso chi governa aumenta. Così i militari tornano in auge, prendono il potere con la forza. E la gente, per ora, applaude. Sarà il declino della democrazia nell’area?

L’Africa Occidentale non fa molto notizia in questi tempi. Eppure, nei suoi 5,12 milioni di km2 (17 volte l’Italia) abitano circa 400 milioni di persone. Dell’area fanno parte i paesi del Sahel (Senegal, Gambia, Mali, Burkina Faso, Niger), zona climatica semi arida, cerniera tra il Sahara e la fascia più umida, e i paesi della costa (Guinea-Bissau, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria).

Tutti insieme fanno parte della Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (acronimo Cedeao in francese o Ecowas, inglese), che è un accordo economico regionale. Ha pure una parte di cooperazione sulla sicurezza, l’Ecomog (Economic community of West african states monitoring group). L’Ecomog prevede, tra l’altro, in casi specifici, l’invio di forze militari di interposizione nell’area.

Tra la metà del 2020 e il gennaio 2022 si sono verificati quattro colpi di stato in tre paesi della regione. Le giunte militari che hanno preso il potere e avviato transizioni in regime speciale, hanno tutte dichiarato di voler riportare i paesi a elezioni democratiche. Gli stati interessati sono: Mali, Guinea e, per ultimo, Burkina Faso. Tutti e tre sono stati sospesi dalla Cedeao e il primo è stato sottoposto a embargo e sanzioni.

Vista la concomitanza di questi eventi, ci sembra importante fare il punto sui fatti accaduti e sulle loro conseguenze, senza la pretesa di essere esaustivi. Gettiamo uno sguardo sull’area per fare emergere le tendenze comuni dei singoli colpi di stato, e gli elementi di originalità di ciascuno.

Mali

È il 18 agosto 2020 quando un gruppo di militari, comandati dal colonnello Assimi Goïta, mette bruscamente fine alla presidenza di Ibrahim Boubakar Keita, detto Ibk. Anche in Mali il gruppo di potere è stato fortemente contestato e accusato di corruzione, in particolare dopo le legislative di aprile (ne abbiamo parlato in MC novembre 2020). Le manifestazioni di piazza sono state represse dalle forze di sicurezza, che hanno lasciato sul campo morti e feriti. È stato in particolare il Movimento 5 giugno – Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-Rfp), a guidare il dissenso: una convergenza di elementi della società civile e partiti di opposizione.

I militari hanno approfittato di questo slancio popolare per realizzare il colpo, battezzandosi Comitato nazionale di salute del popolo (Cnsp).

È bene ricordare che il Mali, dal 2012, vive una guerra interna contro i movimenti indipendentisti e jihadisti nati nel Nord del paese, anche a causa di influenze straniere dell’islam radicale, e propagatisi nel centro prendendo una rischiosa piega di tipo etnico. Conflitto che vede l’intervento esterno francese nel gennaio 2013, poi affiancato dalla presenza di un contingente di caschi blu dell’Onu (Minsuma), una delle missioni con maggiori perdite tra gli effettivi (cfr MC giugno 2017). Nel 2015 sono stati firmati degli accordi di pace tra il governo e una parte dei gruppi in conflitto.

La giunta, che prende il potere nell’agosto 2020, sotto pressioni della Cedeao e in negoziazione con M5-Rfp, insedia un presidente civile Bah N’Daw (ex militare ed ex ministro in pensione) e un primo ministro civile, Moctar Ouane, per il governo di transizione. Goïta, che rimane l’uomo forte, mantiene la carica di vicepresidente.

(Photo by Issouf SANOGO / AFP)

Golpe su golpe

Qualcosa si incrina quando, nel maggio 2021, il primo ministro pensa di cambiare i due responsabili dei dicasteri chiave di difesa e sicurezza. La giunta reagisce il 24 maggio, facendo arrestare presidente e primo ministro di transizione e imponendo altri due militari come ministri. Si parla di secondo colpo di stato, questa volta contro le istituzioni di transizione, quindi non democratiche. Di fatto è un ribadire, chi comanda effettivamente nel paese, già in stato di emergenza.

«Sembra che la Francia avesse fatto pressioni sul governo per cambiare questi due ministri e metterne due più favorevoli alla propria politica. I due licenziati avevano studiato in Russia e stavano interagendo per creare una relazione con quel paese. È stata un’operazione un po’ maldestra», ci dice un cooperante che da anni vive nel paese saheliano.

Già da un po’ di tempo Goïta stava percorrendo la pista russa, nell’ottica di avere militari (o miliziani) in grado di realizzare anche lavori «sporchi». La tendenza è quella di sostituire l’appoggio militare dell’ex colonizzatore francese, in un certo senso fallimentare, con quello russo.

Allo stesso tempo già dal 2019, la Francia, per ragioni anche interne, aveva optato per un disimpegno sul terreno (ritiro graduale della missione Barkhane con 5mila uomini e mezzi), promuovendo la creazione della Task force Takuba (estate 2020), una forza a base di militari della Unione europea (tra cui da marzo 2021 un contingente italiano di circa 200 uomini con elicotteri), con compiti di consulenza e assistenza.

Colonello Assimi Goita in conferenza stampa, Mali, 19 agosto 2020. (Photo by MALIK KONATE / AFP)

Via i colonialisti

Nel paese il sentimento antifrancese, che sempre cova sotto le ceneri, era cresciuto già nel periodo della presidenza Ibk, accusato di essere troppo sottoposto agli interessi transalpini. Il potere golpista ha poi iniziato un’operazione di propaganda, puntando sull’identità maliana, per spingere questa dinamica di intervento dei russi.

Secondo fonti di Radio France internationale (Rfi), nel gennaio di quest’anno, uomini del gruppo Wagner avrebbero già preso possesso della base militare di Tombuctu, lasciata dai militari francesi, anche se il governo maliano continua a negare. Wagner è una milizia di mercenari russi, vicina al Cremlino, della quale si è parlato per la prima volta a livello internazionale nel 2014, per il suo appoggio ai separatisti del Donbass, in Ucraina. Il gruppo Wagner, in Africa, è già presente in Repubblica Centrafricana (cfr Mc maggio 2021), Nord del Mozambico, Libia e, pare, in Sudan (torneremo prossimamente su Wagner con un approfondimento).

La tensione tra le autorità di Bamako e quelle di Parigi aumenta. Il 31 gennaio di quest’anno l’ambasciatore di Francia viene espulso dal paese. Stessa sorte era toccata al contingente danese della Takuba.

Il ritiro di Barkhane e della Takuba viene deciso. Parte dei militari vengono ricollocati in Niger, lungo la frontiera con il Mali, dopo l’accordo con il presidente nigerino Mohamed Bazoum, avvenuto a metà febbraio di quest’anno.

«Sono stati visti militari bianchi, con la divisa russa. Ufficialmente non ci sarebbero, ma qualcuno di loro, ferito, è già stato curato in ospedale. Non è chiaro il loro dislocamento. Quello che si sa per certo, è che da gennaio è ripresa un’offensiva importante contro i jihadisti, e ci sono state più vittime civili in quel mese che in tutto il 2021», dice la nostra fonte.

A metà marzo Human rights watch e Rfi riportano esecuzioni sommarie di civili a opera dei militari della Fama (Forze armate maliane). Anche Michelle Bachelet, alto commissario per i diritti umani dell’Onu, fa una dichiarazione di denuncia l’8 marzo.

La reazione del governo di transizione è durissima: le trasmissioni in Mali di Rfi e della televisione France24 (entrambe dello stato francese) vengono sospese. In un comunicato ufficiale del governo, Rfi viene paragonata alla famigerata Radio mille colline, che nel Rwanda del 1994 incitava al genocidio.

«In questo momento, in generale, la popolazione maliana sembra favorevole ai golpisti. Forse perché occorreva dare un taglio alla dipendenza dalla Francia.

Una parte della popolazione non condivide il golpe, ma solo perché getta discredito sul paese a livello internazionale. Ma se aumentano gli attacchi militari e quindi le vittime civili, bisogna vedere se questo consenso terrà», ci dice ancora il nostro interlocutore da Bamako.

Intanto la giunta, il 21 febbraio, fa approvare la Carta di transizione, che prevede una durata del regime fino al 2027.

Mali. (Photo by Michele Cattani / AFP)

Repubblica di Guinea

Alpha Condé, oppositore storico, vince finalmente le elezioni nel 2010 e diventa presidente della Repubblica. Si ripete cinque anni più tardi, confermandosi per un secondo mandato. La Costituzione non ne prevede di ulteriori, ma lui indice un referendum costituzionale nel maggio 2020, che la modifica per potersi ricandidare. I partiti di opposizione, e in generale, la società civile, non sono contenti di questa forzatura (peraltro comune a diversi capi di stato africani), e il malcontento sfocia in manifestazioni di piazza che vengono violentemente represse. Condé si fa così eleggere per un terzo mandato, nell’ottobre 2020.

I problemi crescono con l’aumento dei prezzi dei beni essenziali. La goccia è l’aumento del carburante, il 3 agosto del 2021, da 9mila a 11mila franchi guineani al litro. La gente scende in piazza.

«La popolazione soffriva perché i prezzi stavano aumentando, ma allo stesso tempo i ministri e politici al governo si costruivano dei “castelli” (delle grandi case, ndr) in modo molto evidente», ci racconta Djéneba, una sociologa guineana che lavora per una Ong internazionale.

Il 5 settembre 2021 un gruppo di militari, guidati dal tenente colonnello Mamadi Doumbouya, arresta il presidente Condé e prende il potere. La giunta si fa chiamare Comitato nazionale per la riconciliazione e lo sviluppo (Cnrd, sigla in francese). Il primo ottobre Doumbouya si autoproclama presidente. La gestione è opaca e a tutt’oggi non è chiaro chi siano esattamente i componenti del Cnrd.

«La gente diceva: “I ladri sono partiti”. La giunta al potere ha subito abbassato il prezzo del carburante, portandolo a 10mila franchi. La popolazione comprende solo la questione dei prezzi dei beni di prima necessità. Il presidente ha poi incontrato i grandi operatori economici per cercare di tenere a freno l’aumento dei prezzi. Ma è complicato, perché dipendono anche dall’estero», continua la nostra interlocutrice, raggiunta telefonicamente. Così a inizio marzo i prezzi riprendono a salire, mentre la giunta cerca di calmierare almeno quelli dei prodotti nazionali.

Viene nominato un governo di transizione, un parlamento di transizione, e redatta una Carta di transizione, che dovrebbe regolamentare questi organi, le relazioni tra gli stessi e la durata.

Quest’ultima in particolare, dettaglio molto delicato, dovrebbe essere determinata da una concertazione tra il Cnrd e le «forze vive della nazione». Una coalizione di 58 partiti politici denuncia, invece, una «visione unilaterale del Cnrd», e il tentativo di tenere la politica lontana dalla transizione.

Guinea, Colonello Mamady Doumbouya. (Photo by Cellou BINANI / AFP)

Una speranza

La gente comune, invece, ha ancora una certa speranza: «Sì, perché vediamo trasparenza e la maturità con le quali stanno gestendo il paese».

Anche i responsabili religiosi appoggiano la transizione. L’arcivescovo di Conakry, Vincent Koulibaly, durante la messa dello scorso Natale, ha detto: «Per servire il nostro paese, occorre amare la verità. Se noi amiamo la Guinea, niente ci impedirà di attaccare su tutti i fronti i mali che frenano il suo sviluppo. È in questo senso che gli sforzi del Cnrd e del suo governo sono orientati in questo momento. Meritano di essere sostenuti da tutti i guineani, non solo nei discorsi, ma anche nelle azioni» (africaguinee.com).

Intanto il Cnrd organizza gli incontri delle Assises nationales, per dare corpo al cosiddetto «dialogo nazionale». A oggi si attende di sapere ufficialmente quanto durerà la transizione, mentre voci parlano di 36 mesi.

Burkina Faso

Il «paese degli uomini integri» aveva vissuto un’insurrezione popolare terminata con la cacciata del presidente Blaise Compaoré, al potere da 27 anni, nell’ottobre 2014. Si era poi rivoltato contro un tentativo di colpo di stato del suo fidato generale Gilbert Dienderé un anno dopo, il 15 settembre.

Ma dopo le elezioni e l’arrivo al potere di Roch Marc Christian Kaboré (cfr MC dicembre 2018 e gennaio 2019) il Burkina Faso aveva visto un peggioramento della situazione di sicurezza interna con l’arrivo sul suo territorio di gruppi islamisti radicali e la nascita di altri gruppi autoctoni, che oggi controllano porzioni del territorio. Così quando il 24 gennaio di quest’anno, un commando militare depone il presidente, al suo secondo mandato iniziato a gennaio 2021, e prende il potere, la popolazione non insorge, anzi scende in strada a gridare il suo sostegno.

Vengono rapidamente convocate delle assise nazionali, delle quali fanno parte diversi settori della società burkinabè (partiti, sindacati, società civile, giovani), inclusi i rappresentanti degli sfollati interni, per approvare gli organi di transizione e la durata.

Presto fatto, il presidente di transizione è il capo della giunta (Movimento patriottico per la salvaguardia e la restaurazione), il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba. Viene poi designato un primo ministro di transizione, Albert Ouderaogo, che formerà il suo governo il 6 marzo, e un’assemblea legislativa di transizione di 75 membri. La transizione è prevista di una durata di 36 mesi. Gli obiettivi principali dell’esecutivo sono la lotta al terrorismo per riportare la sicurezza nel paese, e il rinforzo della governance tramite la lotta alla corruzione.

Il tenente collonello Paul-Henri Sandaogo Damiba, Presidente del Burkina Faso. (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)

Il sociologo ex ministro

Chiediamo il parere sulla situazione ad Antoine Raogo Sawadogo, sociologo, già ministro dell’Amministrazione territoriale e sicurezza, padre del decentramento amministrativo in Burkina, e fondatore del Laboratoire Citoyenneté (laboratorio di cittadinanza attiva), che raggiungiamo telefonicamente.

«Viviamo oggi una grave crisi della sicurezza, che sottende diverse altre crisi. La crisi alimentare, perché i contadini cacciati dai loro territori a causa degli attacchi jihadisti, non hanno potuto coltivare. Inoltre la stagione delle piogge è stata scarsa, per cui abbiamo un grosso deficit alimentare. Una crisi della casa, in quanto gli sfollati, che sono oggi circa 1,5 milioni (su una popolazione di 21 milioni, nda), sono andati a ingrossare le città, che non erano preparate ad assorbirli. Una crisi sanitaria, perché le stesse città non hanno servizi di base sufficienti per tutte queste persone, per cui osserviamo una recrudescenza delle malattie veicolate dall’acqua o causate dalla malnutrizione. Poi c’è la crisi scolastica perché abbiamo circa 4mila scuole chiuse o distrutte a causa degli attacchi terroristici, e i bambini sono lasciati all’abbandono.

Tutto questo fa sì che la situazione in Burkina sia deleteria. E purtroppo la crisi della sicurezza continua o, addirittura, è peggiorata, dopo il colpo di stato che avrebbe dovuto fermarla».

E continua, con voce grave: «Il golpe non è che la conclusione di una serie di malfunzionamenti, quelli riguardanti la sicurezza, ma anche la governance del paese. La popolazione aveva l’impressione che nessun organo dello stato fosse in piedi per servirla, ma piuttosto, che quelli che erano responsabili di dirigere il paese fossero lì per servire se stessi».

L’ex ministro cita il caso delle miniere d’oro, metallo del quale il paese è diventato grande produttore nell’ultimo decennio. Sembra infatti che la metà dell’oro estratto sparisca a causa dell’opacità delle aziende di estrazione. «Se lo stato non spiega ai cittadini cosa succede, l’opinione pubblica vive di voci. C’era un grande problema di dialogo tra i cittadini e coloro che devono rappresentarli. Inoltre, l’Assemblea nazionale (il parlamento) non svolgeva il suo ruolo di controllo sui governanti tramite le interpellanze sulle questioni fondamentali».

E conferma: «Quindi il colpo di stato è venuto a dare un punto finale, a fermare tutto questo, e ha dato speranza alla popolazione».

Ma oggi la delusione e la disperazione sono già palpabili, perché la situazione, invece di migliorare, è ancora peggiorata.

Chiediamo a Raogo cosa pensa la gente di una transizione – annunciata da parte dei golpisti – di 36 mesi. «Penso che la durata della transizione non sia una preoccupazione della popolazione. La preoccupazione sono le crisi che abbiamo elencato. Alla gente oggi non importa di essere governati da un regime democratico o da un regime di emergenza, non è questo il problema. D’altronde non sono stati serviti bene durante il lungo periodo democratico. La democrazia all’occidentale è un problema di secondo ordine, adesso la questione è la sopravvivenza».

Ovviamente ci sono settori che non sono contenti: «I partiti politici non sono d’accordo, ma cosa hanno ancora da dire? Non hanno portato il benessere della popolazione. Così come certe associazioni, penso a Le Balai citoyens, che hanno cavalcato l’insurrezione del 2014, e i cui membri hanno poi preso soldi dall’estero. Alcuni sono entrati in politica ma sono allo stesso livello degli altri. Tutti loro sono inascoltabili oggi».

La Cedeao, dopo aver sospeso Mali e Guinea a causa dei rispettivi colpi di stato, ha sospeso a fine gennaio anche il Burkina Faso: «La Cedeao non ha più credito agli occhi di nessuno. Da quando siamo in crisi non ha spedito un solo sacco di viveri, né medicine. Solo parole. Nessuno ha più orecchie per ascoltarli».

Dimostranti in Ouagadougou in Burkina Faso. (Photo by Olympia DE MAISMONT / AFP)

Democrazia a rischio?

«La dinamica in generale dei colpi di stato nell’area è inquietante. Iniziano a esserci situazioni stabili di regimi non democratici», ci ha detto il cooperante italiano a Bamako.

Abbiamo chiesto a Enrico Casale, giornalista esperto di Africa e collaboratore di MC, cosa hanno in comune questi eventi. «Da un lato vediamo una grande fragilità delle istituzioni di questi paesi, che faticano a intraprendere la strada per la democrazia. Dall’altro ci sono delle minacce esterne, come l’integralismo islamico che porta a tensioni fortissime dal punto di vista militare (specie per Mali e Burkina), e poi la malavita. Questa ha un peso dalla Guinea fino al Nord Africa per traffici di droga, sigarette, migranti. Va notato che entrambi questi fenomeni si alimentano con il malcontento stesso.

Quest’area sta poi vivendo un forte cambiamento climatico che causa tensioni tra pastori e agricoltori».

E quindi: «Tutto ciò porta a instabilità, in paesi con istituzioni fragili la reazione sono spesso colpi di stato che forniscono soluzioni solo temporanee perché non risolvono nulla o molto poco».

E continua: «Poi c’è un altro elemento, che è l’insofferenza nei confronti della Francia, ex paese colonialista. Questi paesi ne stanno prendendo le distanze, e si buttano tra le braccia di altri attori, come Russia e Cina. E la Francia stessa si sta ritirando».

Abbiamo visto come, nei tre casi esaminati, la popolazione abbia acclamato i colpi di stato.

«Questo perché la fragilità istituzionale si è tradotta in mancanza di sicurezza e incapacità di dare soluzioni ai problemi epocali di questi paesi. Di fronte a una democrazia fragile, la gente preferisce un governo forte. Ma questo è molto rischioso per la tenuta democratica di tutta l’area. Anche a causa delle nuove alleanze, perché Cina e Russia, che hanno i loro interessi, non hanno nessuna attenzione per la democrazia in questi paesi. Quindi queste giunte militari rischiano di durare a lungo».

Casale allarga il discorso al continente: «Più in generale, in Africa, fino a tutti gli anni 2000 eravamo abituati a uno schema semplice, in cui si manteneva una struttura di influenza postcoloniale. Adesso ci sono tanti nuovi protagonisti, quelli citati, ma anche India, Turchia, Vietnam e la struttura delle influenze si è notevolmente complicata».

Marco Bello


Processo Sankara

Il 6 aprile scorso, nell’ambito del processo per l’assassinio di Thomas Sankara e 12 suoi collaboratori (15 ottobre 1987), sono stati condannati all’ergastolo l’ex presidente Blaise Compaoré, il suo addetto alla sicurezza Hyacinthe Kafando (entrambi in contumacia) e il generale Gilbert Diendéré.

Conakry, Guinea, 18 settembre 2021. (Photo by JOHN WESSELS / AFP)

 




Mondo, fabbrica di disuguaglianze


Un tempo le disuguaglianze interessavano soprattutto le classi sociali, oggi riguardano anche le nazioni. Allora si riferivano soltanto a reddito e patrimonio, oggi includono anche alcuni parametri ecologici. Con una certezza: i ricchi sono inviolabili. Sempre e ovunque.

L’uguaglianza è una delle aspirazioni più antiche dell’umanità, ma a giudicare da come stanno andando le cose, abbiamo ancora molta strada da fare. L’8 dicembre scorso, a firma del World inequality lab, è uscito il Rapporto 2022 sulle disuguaglianze mondiali e le notizie non sono incoraggianti. Il rapporto certifica che le disuguaglianze vanno crescendo a tutti i livelli. Un tempo ci si limitava ad analizzare le differenze esistenti nella distribuzione del reddito e del patrimonio, con l’esplodere della crisi ambientale si dedica molta attenzione anche alle disparità esistenti nell’ambito dell’impronta di carbonio e, più in generale, di quella ecologica.

Le disuguaglianze non parlano direttamente della condizione delle persone, quanto delle differenze che esistono fra loro.  Quando i mondi erano chiusi, i raffronti avevano senso solo all’interno delle singole realtà territoriali. Nei tempi antichi avremmo potuto studiare le differenze esistenti all’interno dell’impero egizio, dell’impero babilonese, dell’Impero Romano, o di quello di Carlo Magno. Raffronti allargati non avrebbero avuto molto senso perché le realtà sociali e geografiche erano poco comunicanti tra loro.

Nord e Sud

A partire dal 1500, l’Europa iniziò però ad andare alla conquista del resto del mondo per appropriarsi delle sue ricchezze. In un primo tempo, lo fece per servire le necessità belliche dei propri sovrani, poi quelle economiche delle proprie imprese. In quell’epoca accanto alle differenze tra classi, iniziarono anche quelle tra le nazioni.

Sul finire della Seconda guerra mondiale, quando la struttura coloniale era ancora in piedi, il mondo era formato da una ristretta cerchia di paesi localizzati nel Nord, con una buona capacità produttiva e tecnologica, che convivevano con una massa di paesi del Sud senza alcun tipo di infrastruttura e di capacità produttiva se non quella agricola e mineraria al servizio delle esigenze economiche del Nord del mondo.

Benché si vadano restringendo, le differenze costruite in quel tempo sono ancora ben visibili a livello di produzione e consumi. Basti dire che il Nord del mondo, che ospita appena il 16% della popolazione complessiva, assorbe tutt’ora il 38% di tutta l’energia impiegata a livello mondiale.

Volti della diseguaglianza. Foto Leroy Skalstad – Pixabay.

Il reddito pro capite

Volendo, invece, fare una fotografia più particolareggiata del livello di ricchezza raggiunto da ogni paese, ha senso utilizzare come parametro il reddito pro capite, che si ottiene dividendo la ricchezza annuale prodotta per il numero di abitanti presenti nel paese. Un esercizio matematico che, pur non essendo di alcun aiuto per conoscere la reale distribuzione della ricchezza, dà un’idea di massima della ricchezza disponibile in rapporto alla popolazione. Da questo punto di vista, la Banca mondiale divide il mondo in quattro gruppi: paesi a basso reddito, a reddito medio basso, a reddito medio alto, a reddito elevato.

Al primo gruppo, anche detto Quarto mondo, appartengono i paesi con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno. In tutto 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale. All’ultimo gruppo, anche detto Primo mondo, appartengono i paesi con reddito pro capite superiore a 12.696 dollari. In tutto 77 nazioni localizzate principalmente in Europa e Nord America, con una popolazione complessiva di 1,2 miliardi di persone corrispondenti al 16% della popolazione mondiale. Ai due estremi il Burundi con meno di 800 dollari pro capite all’anno e il Lussemburgo che supera i 122.000 dollari pro capite all’anno.

Tutto ciò indica quanto sia ancora profonda la ferita inflitta dal colonialismo al Sud del mondo e quanto pesi ancora sulla incapacità di molti paesi di rimettersi in piedi da un punto di vista   economico, umano e sociale. Anche perché, a un certo punto, è finito il colonialismo inteso come occupazione straniera, ma non è finito il dominio economico che, anzi, si è riorganizzato attorno a nuove alleanze che hanno portato all’emergere di una inedita classe mondiale comprendente super ricchi di ogni nazionalità.

La ricchezza

Per ragioni di tipo metodologico, il rapporto del World inequality lab ha preferito depurare la popolazione mondiale dei bambini in modo da concentrarsi solo sugli adulti stimati in 5,1 miliardi. Ha poi stabilito che, in base alle condizioni di vita, la popolazione può essere suddivisa in tre fasce d’appartenenza: la classe povera, quella media e la ricca.

La classe povera corrisponde al 50% del totale (2,5 miliardi di adulti), quella media al 40% (2 miliardi) e quella ricca al 10% (517 milioni). Il rapporto segnala come è distribuita la ricchezza fra i tre gruppi precisando che la ricchezza ha due facce: quella del reddito e quella del patrimonio.

Il reddito si riferisce agli introiti incassati tramite il lavoro o i profitti in un certo periodo di tempo. Il patrimonio si riferisce a tutto ciò che si è accumulato nel tempo sotto forma di beni durevoli (case, auto, elettrodomestici) e di valori finanziari. Nel 2021, il reddito complessivo, a livello mondiale, è stato calcolato in 86mila miliardi di euro, di cui solo l’8% è stato goduto dal 50% più povero. La quota più alta è stata goduta dal 10% più ricco che ha intascato il 52% del reddito complessivo. E il brutto è che, nel corso del tempo, la situazione è addirittura peggiorata. Considerato che, nel 1820, il 10% più ricco si appropriava del 50% del reddito prodotto a livello mondiale e il 50% più povero intascava il 14%, se ne conclude che, nel 1820, il reddito del 10% più ricco era 18 volte più alto del 50% più povero, oggi è salito a 38 volte. Disparità che si riflettono anche rispetto al patrimonio. Nel 2021 il patrimonio privato complessivo ammontava a 377mila miliardi di euro ed era distribuito in maniera ancora più iniqua del reddito: solo il 2% risultava di proprietà del 50% più povero, mentre il 10% più ricco possedeva il 76% di tutto il patrimonio esistente.

Se vogliamo, la situazione è ancora peggiore perché, nella classe ricca, c’è una casta ristretta, corrispondente all’1% di tutti gli adulti, che da sola si appropria del 19% del reddito mondiale. E se concentriamo l’attenzione sul patrimonio, scopriamo che appena 56,2 milioni di adulti possiedono il 45,8% di tutto il patrimonio privato, qualcosa come 3,4 milioni di dollari a testa.

L’inquinamento dei ricchi e quello dei poveri

Disparità che si riflettono anche nei livelli di inquinamento: il 10% più ricco è responsabile del 49% delle emissioni di anidride carbonica, con l’1% più ricco che contribuisce da solo al 15%. Per contro il 50% più povero è responsabile solo del 7%.

Le statistiche non dicono quale sia la nazionalità degli appartenenti al 50% più povero, ma considerato che il loro reddito medio si aggira sui 2.700 euro all’anno è probabile che risiedano quasi totalmente nei paesi del Sud del mondo. Invece, conosciamo la nazionalità dell’1% più ricco, i famosi 56,2 milioni di adulti che siedono all’apice della «piramide della ricchezza». Ce la rivela il Credit Suisse col suo Global wealth report. Come c’era da aspettarsi, la fetta più ampia di super ricchi ha un passaporto statunitense (39%), seguita da quelli con un passaporto europeo (31%), precisando che quelli di nazionalità italiana sono 1.480, pari al 3% del totale mondiale. Un tempo al terzo posto venivano quelli di nazionalità giapponese, ma ora sono stati sorpassati da quelli di nazionalità cinese che rappresentano il 9% del totale. Fra le altre nazionalità, oltre a quella canadese, sudcoreana, taiwanese, compaiono quella russa, indiana, brasiliana, messicana, saudita.

Se abbandoniamo il livello mondiale e scendiamo nel dettaglio delle singole nazioni, troviamo che il paese più iniquo, fra quelli con dati disponibili, è il Sudafrica dove il 10% più ricco si appropria del 66,5% del reddito prodotto e detiene l’86% del patrimonio privato. In questo paese la ricchezza detenuta dal 50% più povero ha addirittura segno negativo, indice del fatto che i poveri possiedono solo debiti.

Il paese più equo, invece, sarebbe la Slovacchia dove il 10% più ricco assorbe il 28% del reddito prodotto e detiene il 43% del patrimonio privato. Su valori simili si trova anche l’Italia dove il 10% più ricco si prende il 32% del reddito prodotto e detiene il 48% del patrimonio privato.

Fra le ragioni per cui le disuguaglianze continuano a crescere, due meritano particolare menzione: la globalizzazione selvaggia e una politica fiscale accomodante con i ricchi.

Volti della diseguaglianza. Foto Leroy Skalstad – Pixabay.

Lo stato a difesa dei redditi dei ricchi

Uno degli effetti della globalizzazione è stata la riscrittura della geografia mondiale del lavoro. Libere di spostare la produzione dove il lavoro costa meno, molte imprese hanno chiuso i loro stabilimenti nel vecchio mondo industrializzato per rifornirsi presso contoterzisti sorti come funghi in Cina, India, Bangladesh, Indonesia.

Ad un tratto tutti i lavoratori del mondo si sono ritrovati uno contro l’altro: quelli italiani contro quelli polacchi, quelli spagnoli contro quelli bengalesi, tutti pronti a vendersi per un salario più basso in modo da conquistare il lavoro tanto agognato. Ed è successo che la quota di prodotto nazionale lordo andato ai salari si è ridotta ovunque. Mediamente a livello mondiale è diminuita del 9% passando dal 72%, nel 1982, al 63%, nel 2017.

L’Italia rispecchia esattamente questa media. L’iniquità distributiva poteva essere compensata dall’intervento riequilibratore degli stati tramite il sistema fiscale. Ma – ahinoi – anche su questo piano da anni assistiamo a scelte che tendono a favorire i ricchi. Lo testimoniano la riduzione delle aliquote sugli alti redditi, l’abbattimento delle tasse di successione, la mancata introduzione di una seria imposta sul patrimonio. E l’Italia non fa eccezione. Basti dire che l’ultima legge di bilancio riduce ulteriormente le aliquote sull’Irpef, l’imposta sulle persone fisiche, che da cinque passano a quattro, dove la prima rimane ferma al 23% per i redditi fino a 15mila euro e l’ultima rimane ferma al 43%. La riforma è stata presentata come una scelta di equità perché la tassazione del 43% è stata abbassata a 50mila euro, mentre prima si applicava oltre i 75mila euro. Ma il vero scandalo non sanato è che chi guadagna centinaia di migliaia di euro all’anno paga come chi guadagna 50mila euro. Non così nel 1974, quando l’imposta sulle persone fisiche fece la sua prima comparsa. A quel tempo gli scaglioni erano 32, con l’ultimo al 72% sui redditi oltre 258mila euro. Somma che, rapportata ai prezzi di oggi, corrisponde a 3,3 milioni di euro. Redditi da capogiro che ben pochi raggiungono. Eppure, nessuno vuole toccarli. Per adulazione? Per calcolo politico? Per paura di ritorsioni? Forse per tutto un po’, ma di certo c’è che oltre ad acuire le disuguaglianze, l’inviolabilità dei ricchi priva le casse pubbliche di introiti importanti che rendono i governi sempre più deboli e incapaci di garantire i servizi richiesti da una società moderna.

Lo stato e la vendita dei beni comuni

Questa situazione di penuria genera anche un altro fenomeno: lo spogliamento degli stati di ogni tipo di proprietà, perché la necessità di far cassa li induce a vendere tutto ciò che è bene comune: strade, edifici, terreni, attività produttive. Nei primi anni Ottanta, i governi dei paesi occidentali possedevano fra il 15 e il 30% della ricchezza complessiva presente nei loro paesi, oggi molti di loro registrano una quota pari allo 0%. In alcune nazioni il capitale pubblico è addirittura negativo perché i debiti superano il valore delle proprietà pubbliche. Il nuovo rapporto sulle disuguaglianze documenta che in questa situazione si trovano Stati Uniti e Gran Bretagna, ma forse anche l’Italia considerato che il nostro debito pubblico supera il 150% del Pil.

Tutto questo, però, non è frutto della malvagità della natura, ma della volontà umana. Per cui può essere cambiato, se ciascuno di noi lo vuole. E lo vorremo nella misura in cui rafforzeremo le nostre convinzioni morali e la nostra volontà di partecipazione.

Francesco Gesualdi

 




Salute mentale, servono dati e risorse


Circa un miliardo di persone nel mondo soffre di disturbi di salute mentale o derivanti dall’uso di alcol e droghe. Eppure, solo una persona su quattro ha la possibilità di accedere a trattamenti adeguati. Il risultato è una perdita significativa di anni di vita in salute e un costo molto elevato per l’economia mondiale. MConlus affronta anche questo problema tramite le sue missioni in Costa d’Avorio, Messico e Kenya.

Secondo i dati elaborati Our world in data, il portale di divulgazione scientifica sviluppato dall’università di Oxford, nel 2019 erano 792 milioni le persone che convivevano con un disturbo di salute mentale. Il più comune era l’ansia, che toccava 284 milioni di persone, seguito dalla depressione per 264 milioni; 46 milioni di individui presentavano disturbi dello spettro bipolare, 20 milioni erano affetti da schizofrenia o altre psicosi e 16 milioni avevano disordini alimentari. A questi si aggiungevano poi 107 milioni di persone con disturbi derivanti dall’uso di alcol e 71 milioni dall’uso di droghe, per un totale di poco meno di un miliardo di persone@.

I dati, chiarisce il portale, vengono dall’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington, a Seattle (Usa), il cui studio Global burden of disease (Gbd) ha indagato gli effetti di 290 malattie e 67 fattori di rischio nel mondo. Il Gbd@ è uno dei principali punti di riferimento per gli studi sulla salute mentale, ampiamente citato e utilizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tuttavia, gli stessi ricercatori che lo hanno realizzato segnalano che su questo tema i dati sono spesso lacunosi e raccolti in modo disomogeneo, specialmente quando riguardano i paesi a medio e basso reddito. Di conseguenza, in particolar modo in quei paesi, l’ampiezza del fenomeno è probabilmente sottostimata.

La pandemia da Covid-19, calcola inoltre l’Ihme, ha indotto un aumento dei casi di ansia (+76,2 milioni) e depressione grave (+53,2 milioni), colpendo in modo particolare le donne e i più giovani@.

Malato mentale chiuso in gabbia nelle Filippine.

Anni di vita persi e risorse insufficienti

Le persone con problemi di salute mentale gravi, sottolinea l’Oms sulla sua pagina dedicata alla salute mentale, muoiono prematuramente – anche con vent’anni di anticipo – a causa di malattie prevenibili e la depressione è una delle principali cause di disabilità.

L’aspetto della disabilità e degli anni vissuti in meno, precisa Our world in data, è molto importante, perché permette di cogliere l’impatto che questi disturbi hanno sulla salute in modo più dettagliato di quanto non sia possibile fare limitandosi solo ai decessi. In particolare, permette di cogliere il cosiddetto «carico di malattia» (disease burden) misurato in anni di vita corretta per disabilità (Daly, o Disability-adjusted life year), cioè la somma del numero di anni persi a causa di malattia o disabilità più quelli persi per morte prematura.

Utilizzando questo indicatore, i disturbi legati alla salute mentale rappresentano il 5% del carico globale di malattia e sono responsabili del 14% degli anni vissuti con malattia o disabilità@.

I problemi di salute mentale non risparmiano gli adolescenti: uno su cinque soffre di questi disturbi e il suicidio è la seconda causa di morte fra le persone fra i 15 e i 29 anni. Anche nelle situazioni post-conflitto la proporzione di persone con un problema di salute mentale è di una ogni cinque. Il costo per l’economia mondiale dei due disturbi più diffusi, l’ansia e la depressione, è quantificato in circa mille miliardi di dollari l’anno@.

Nonostante questi dati, la spesa media per la salute mentale è di circa il 2% al livello globale e anche nell’aiuto pubblico allo sviluppo la quota destinata ad affrontare questo tema non va oltre l’1% dell’aiuto destinato al settore sanitario (che a sua volta è una frazione di quello totale). Tre quarti delle persone affette da uno di questi disturbi non ricevono alcun trattamento e, anzi, si trovano spesso a vivere in contesti in cui pregiudizio, violazioni dei diritti umani, stigmatizzazione e leggi del tutto inadeguate rendono ancora più difficile la loro situazione.

Incontro di formazione a Guadalajara, Messico

La salute mentale e lo stigma

Diversi reportage negli ultimi anni hanno descritto le condizioni in cui sono spesso costrette a vivere le persone affette da questi disturbi nei paesi a basso reddito@: la pratica di incatenare i malati e di confinarli in luoghi come i prayer camps, i campi di preghiera, è una violazione dei diritti umani e peggiora la loro condizione. Anche questa rivista ha raccontato nel 2018 uno degli sforzi di fornire un’assistenza adeguata alle persone con disagio mentale e diffondere la conoscenza del problema in alcuni paesi dell’Africa Occidentale (vedi MC 8-9/2018, Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon).

Priorità: salute mentale

Oggi, nel centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata hanno avviato un servizio di assistenza per le persone con disturbi di salute mentale che il responsabile, padre Matteo Pettinari, progetta di far diventare un giorno un vero e proprio centro diurno.

Uno dei vantaggi di un servizio come questo è poter distinguere fra disturbi di salute mentale, malattie neurologiche e patologie che non hanno nulla a che fare con le due condizioni precedenti. Operare questa distinzione è particolarmente importante nel caso di un disturbo cronico del cervello come l’epilessia@, la cui comprensione in paesi come quelli africani è tuttora inficiata da superstizioni e stigmatizzazione.

Padre Matteo riporta il caso di un giovane preso in carico dal centro di salute di Dianra: «Étienne ha l’epilessia, ma purtroppo qui non è stata subito riconosciuta come tale e, anzi, è stata interpretata come un problema di interferenza con il mondo degli spiriti e altre letture di questo genere, che affondano le proprie radici nella tradizione culturale e nella cosmovisione del popolo senoufo. Per questo la famiglia lo ha progressivamente ritirato dalla scuola e portato da diversi guaritori, che sono intervenuti sulla dieta togliendo la carne o i legumi, senza ovviamente ottenere miglioramenti. Il nostro centro di salute è riuscito a intercettare il suo bisogno di assistenza e inserirlo in un programma che prevede il trattamento farmacologico. Ora Étienne riesce a gestire il piccolo punto ristoro del centro sanitario e ad avere una vita comparabile con quella di persone non affette da questa malattia, ricavando anche un reddito che lo rende economicamente indipendente. Inoltre, adesso ha un contesto di relazioni che lo sostengono, liberandolo dall’isolamento al quale sono spesso condannate le persone nella sua situazione».

Il dispensario di Dianrà, in Costa D’Avorio

La salute mentale e il conflitto

Lo scorso 29 marzo padre Ramón Lázaro Esnaola condivideva via Telegram dal Messico una notizia apparsa in un articolo sul sito di una radio di Guadalajara: nei primi tre mesi del 2022, nello stato di Jalisco c’è stato un solo giorno senza omicidi, il 23 marzo. Le statistiche del governo federale, continuava l’articolo, rivelano che dal 1° gennaio al 27 marzo c’erano stati 364 omicidi dolosi, 4,23 al giorno in media@. In Italia, nello stesso periodo gli omicidi sono stati 67@.

Secondo un’indagine dell’Istituto nazionale di statistica del Messico (Inegi) effettuata su un campione di 27mila abitazioni, il 39,6% degli intervistati di 18 o più anni dichiara di aver sentito spari frequenti di arma da fuoco nei pressi della propria abitazione nell’ultimo trimestre del 2021@.

Servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

Alla tensione e violenza generalizzata si aggiunge poi la violenza domestica: sempre l’istituto nazionale di statistica riporta in uno studio del 2016 realizzato su oltre 142mila case che una donna su quattro di età superiore ai 15 anni aveva subito una forma di violenza – fisica, emotiva, sessuale – da parte del partner negli ultimi 12 mesi (il dato saliva al 43% considerando tutta la vita); oltre una su cinque riportava che le violenze avevano avuto luogo nell’ambiente di lavoro, il 17,4% in  ambito scolastico e il 10% in ambito familiare escludendo il compagno, quindi da parte di fratelli, sorelle, padri, madri, patrigni, matrigne e altri parenti@.

In un contesto come questo, gli interventi che i missionari della Consolata stanno mettendo in atto cercano di fornire alle persone alcuni strumenti che permettano loro di affrontare le situazioni di violenza e i lutti. In particolare, riporta padre Ramón nella relazione sul progetto finanziato dagli Amici di Missioni Consolata con la raccolta fondi del 2020@, nei laboratori proposti nel corso del progetto si è lavorato sull’identificare «situazioni che generano squilibri emotivi, modelli, convinzioni che hanno causato la perdita di autostima», incoraggiando la conoscenza di sé e lo sforzo di basare il proprio processo decisionale su motivazioni razionali e non impulsive, mentre i laboratori più specifici sulla perdita e sul lutto sono previsti entro la fine di quest’anno.

Quanto alla risposta delle autorità sanitarie pubbliche, riferisce sempre dal Messico padre Alex Conti, il Sistema nazionale per lo sviluppo integrale delle famiglie «è presente in ogni comune e fornisce assistenza psicologica a costi accettabili, anche se non pubblicizza molto il servizio. Un servizio di assistenza psicologica è presente anche in molte parrocchie».

Dal 2018 vi è poi una legge, la Nom 035, per la «prevenzione dei fattori di rischio psicosociale, ovvero quegli elementi in un ambiente di lavoro che possono rappresentare un rischio per la salute mentale delle persone, come orari lunghi, sovraccarico di lavoro, leadership negativa e mancanza di controllo sul lavoro, tra gli altri. Questo regolamento è obbligatorio per tutti i luoghi di lavoro», ma secondo il quotidiano El Economista solo un terzo delle imprese ha applicato la legge in tutti i suoi aspetti@.

«Gli psicologi professionisti privati forniscono assistenza a costi variabili che vanno dai 300 pesos (circa 13,54 euro) in periferia e dagli 800 ai 1.200 (36-54 euro) in città per le persone dei ceti più ricchi. Uno dei problemi è che gli assistiti spesso non hanno costanza e, nel caso di quelli meno abbienti, danno priorità ad altre spese».

Formazione di operatori per il nuovo servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

la cittadella psichiatrica a Nairobi

Lo scorso novembre il quotidiano Avvenire riportava la notizia della firma di un memorandum d’intesa fra il governo keniano del presidente Uhuru Kenyatta e Gksd, «una partecipata del Gruppo San Donato che gestisce in Italia 17 ospedali privati in convenzione col Servizio sanitario nazionale, tra cui eccellenze come il San Raffaele di Milano». L’intesa dovrebbe portare alla costruzione, su una superficie di 80 ettari, di un complesso per la salute mentale, il Mathari Mental Hub, in grado di ospitare fino 600 pazienti assistiti da 1.100 membri dello staff fra medici e tecnici. Si tratterebbe di un «polo d’eccellenza di salute mentale – pubblica e gratuita – non solo per il Kenya, ma per tutta l’Africa Centrale»@.

Anche solo dalla città di Nairobi non mancherebbero gli utenti: una ricerca sulle sex workers di Nairobi, disponibile sul sito della Cambridge University Press, ha riportato che su 1.039 persone, di età media pari a 33,7 anni, che hanno preso parte allo studio, circa una su quattro soffriva di depressione moderata/grave, una su dieci d’ansia moderata o grave, il 14% di disturbo da stress post traumatico e il 10,2% segnalava un comportamento suicidario recente: un tentativo di suicidio nel 2,6% dei casi e ideazione suicidaria nel 10%. Tra le donne con disturbi di salute mentale, circa due su tre hanno avuto anche un problema da abuso di alcol o droghe@.

Chiara Giovetti




Basta versare sangue


Fermatevi. Basta versare sangue. Fermatevi. Guardate: l’ho versato io per voi. L’ho già versato io. Al posto vostro. In vostro favore. «Il mio sangue dell’alleanza» (Mc 14,24): quel patto nuovo che non prevede più la morte di chi lo trasgredisce, ma la vita rinnovata nella riconciliazione.

Fermatevi, voi che avete violato il patto: io mi dò a voi per legarvi a me.

Non lasciate più che la paura vi abiti. La vostra vita è custodita dalle mani premurose del Padre, radunata dal Figlio, sollevata dalla brezza mattutina dello Spirito.

Se tutto vi è dato, non c’è niente che dobbiate difendere.

Se la vita è tanto sovrabbondante da essere eterna, che bisogno avete di conquistarvi anche solo un minuto in più?

Smettete di lottare allo scopo di non morire. Lottate invece per vivere. Perché la vita piena che vi è data sia rivelata al mondo.

Fermatevi, voi, che per inganno o costrizione spezzate i vostri corpi mentre spezzate i corpi altrui. Fermatevi, voi, che mandate al massacro gli altri per i vostri interessi, o forse per vincere il terrore dell’abisso sul quale state in equilibrio.

Basta spezzare corpi. Mi sono spezzato io per voi.

Le vostre mani, piuttosto, siano telai che tessono fraternità con i fili divini dell’umanità.

Amico

Luca Lorusso


Leggi tutto:

  • Bibbia on the road: Magnificat, inno alla nuova alleanza
  • Parole di corsa: Non temere di osare
  • Amico mondo: Christus vivi. Amati
  • Missione e Missioni: In Certosa arriva l’estate
  • Progetto: A scuola sotto un tetto




Un libro che parla di ferite nel cuore della Chiesa e uno di amore


Lo scisma e l’amore

Un giornalista e una teologa affrontano, senza peli sulla lingua, quella frangia di chiesa che si oppone a Francesco, parlando di scisma.

Una giovane laica missionaria parla, mettendo a nudo il suo cuore, del suo grande Amore: quello per Dio e per l’uomo, incontrati nella sua Italia, in Brasile, Benin, Palestina e Thailandia.

Lo scisma emerso

Si intitola Lo scisma emerso. Conflitti, lacerazioni e silenzi nella Chiesa del Terzo Millennio. Lo hanno scritto il giornalista Francesco Antonioli e la teologa Laura Verrani, ed è stato pubblicato in febbraio da Edizioni Terra Santa (dimostrando coraggio).

Il titolo è la perfetta sinossi di quanto hanno raccolto i due autori nelle 250 pagine del volume. Il mix è intrigante, da una parte c’è Antonioli che è un giornalista professionista dal curriculum importante e da sempre attento anche alle «cose di Chiesa»; dall’altra c’è Verrani, una teologa che da oltre venti anni si occupa di catechesi biblica. I loro saperi e i loro stili si fondono e raccontano, forse per la prima volta con così grande nettezza, ciò che purtroppo è sotto gli occhi di tutta la comunità ecclesiale: la spaccatura creata, nella Chiesa di Francesco, dall’ostilità di quella parte cosiddetta «tradizionalista», minoritaria, ma rumorosa. «Basta, chiamiamo le cose con il loro nome – si legge a pagina 13 -. E pronunciamole: senza il timore di tacere. È ben radicata una prassi corrosiva, nella Chiesa cattolica, che nasce dall’abitudine di edulcorare la verità, soprattutto quando risulta spiacevole o in grado di cambiare lo status quo». La vecchia abitudine dell’essere umano di accumulare polvere sotto il tappeto sta producendo danni enormi alla comunità ecclesiale. Dall’uso disinvolto del denaro, al recente caso torinese delle «vocazioni forzate», dalle discriminazioni di genere, agli abusi psicologici e sessuali, gli autori ricostruiscono la cronaca, ma danno anche una lettura di prospettiva, Vangelo alla mano.

La domanda di fondo offerta dal libro è: vista la spaccatura interna alla Chiesa, aperta anche dalla pessima abitudine di non dare i nomi giusti alle cose, quale Chiesa vogliono i cattolici? «Questa frattura profonda – scrivono gli autori – non è uno degli effetti della cosiddetta secolarizzazione. Per lo meno: anche, ma soltanto in parte. Il punto è che la pandemia […] ha divaricato ulteriormente le posizioni da quando, nel 2013, è salito al soglio pontificio Jorge
Mario Bergoglio. Una divaricazione sempre più evidente e graffiante. È questa la Chiesa del Vangelo? È questo il futuro della presenza dei cattolici nella società civile?».

Lo scisma emerso è una lettura che scorre veloce, non è per addetti ai lavori, per amanti delle analisi in filigrana, ma per tutti coloro che vivono e si muovono all’interno della comunità, credenti e non. Inevitabilmente è una lettura che lascia un po’ di amaro in bocca, ma tanto Laura Verrani quanto Francesco Antonioli, come si evince chiaramente dalla lettura del loro lavoro, non hanno alcuna intenzione di picconare una casa pericolante che sentono in tutto e per tutto anche la loro, anzi: «La Chiesa sta vivendo per la prima volta una chiamata al confronto sinodale capillare – scrivono -. Bisogna dirci ciò che non funziona. Senza livore, polemiche o anticlericalismo pregiudiziali. È invece proprio in quanto credenti e sinceramente appartenenti alla Chiesa che riteniamo importante mettere sul tavolo le questioni».


Amare, voce del verbo…

Nel febbraio scorso è uscita anche una piccola chicca che vale davvero la pena segnalare: Amare, voce del verbo… Come esperienze e vite intrecciate mi hanno fatto conoscere l’Amore, libro d’esordio della giovanissima Maristella Tommaso per le Edizioni San Paolo.

Nata a Conversano (Ba) ventotto anni fa, Maristella è stata segretaria regionale di Missio Giovani Puglia. Ora vive a Torino, è membro della Consulta del Centro missionario dell’arcidiocesi e collabora per la formazione missionaria dei giovani. Quella di Maristella
Tommaso è una riflessione ad alta voce, un mettere nero su bianco un flusso di parole che pone al centro di tutto l’Amore. Già, quello con la A maiuscola. Quell’Amore che si è fatto carne, il Verbo, e che è venuto in mezzo a noi. Gesù.

Non stupisca che l’autrice si sia spinta così avanti (o in alto): il suo non è un trattato teologico, né ha velleità filosofiche. Piuttosto è un percorso di scoperta di sé e di quell’Amore percepito con chiarezza, nel quale ha un peso determinante la missione, il tempo trascorso in Brasile, Benin, Palestina e Thailandia.

«Sono stata fortunata e lo dico spesso – scrive -. Sono sempre stata circondata da persone meravigliose che mi hanno rivelato l’Amore. L’Amore che si incarna, che si spoglia, che si fa povero con i poveri, che ci accarezza con tenerezza, ci sostiene e ci libera. L’Amore che si fa uomo e che cammina insieme a noi, che si fa strada, silenzio, speranza. L’Amore che ci spinge ad andare, a tendere verso gli altri, a prenderli per mano, che ci sprona a migliorare, che alimenta il nostro entusiasmo, che ci fa uscire per le strade e si fa presente negli occhi che incrociamo, nelle mani che stringiamo, nei volti che accarezziamo, nei piedi di chi decide di fare un pezzo di strada insieme a noi».

Un inno alla speranza in tempi che sembrano, forse per la prima volta da decenni a questa parte, davvero bui.

L’autrice traccia anche una piccola personale road map, un sentiero lessicale che ha ricostruito per dare senso e profondità alla voce del verbo amare. Tredici capitoli per declinare quel verbo in altrettanti verbi all’infinito: proteggere, attendere, camminare, stare, perdonare, vivere, sorridere, cadere, guarire, liberare, risorgere, (r)esistere, sognare.

In ogni capitolo c’è la vita vissuta di Maristella: gli incontri, le sofferenze, le rinascite, la fede, i dubbi. Racconta tutto con naturalezza e semplicità, accompagnando il lettore in un cammino di scoperta che, partendo dall’autrice, diventa, in qualche modo, corale.

«Siate sentieri, lasciatevi percorrere. Siate mani sempre spalancate che sappiano accogliere qualsiasi cosa come un dono, sappiano accarezzare e sappiano donare. Siate sorrisi in un mondo in cui, purtroppo, regnano l’odio, l’indifferenza, il razzismo, l’egoismo. Siate piedi per chi ha paura di cambiare strada, di camminare e di percorrere sempre insieme agli altri le strade che Dio vi metterà davanti. Siate occhi capaci di guardare oltre, capaci di oltrepassare muri, capaci di innamorarsi ancora, ancora e ancora. Siate costruttori di pace… innalzate ponti e abbiate sempre il cuore aperto al mondo. […] Quando vi dicono che siete il futuro non ci credete, voi siete il presente! Il presente. Impegnatevi oggi. Amate oggi. Sporcatevi le mani. Metteteci la faccia, ma oggi».

 




Charles de Foucauld: il fratello universale


Tra i modelli presentati da papa Francesco nella recente enciclica Fratelli tutti c’è anche Charles de Foucauld. A conclusione del testo, infatti, lo presenta come «fratello universale»: «Voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al beato Charles de Foucauld. Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”. Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò a essere fratello di tutti».

Quando il Concistoro del 3 maggio 2021 approvò la canonizzazione di Charles de Foucauld, monsignor Paul Desfarges, arcivescovo di Algeri e presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa, disse con gioia: «È un grande giorno per la Chiesa in Algeria. Charles de Foucauld ha un posto di rilievo nella nostra Chiesa. È lui che voleva essere fratello universale, lui che è andato per primo incontro agli altri, lui che si è fatto prossimo. Ed è un po’ la vocazione della nostra Chiesa».

Militare controvoglia

Charles de Foucauld (Fratel Carlo di Gesù) nasce a Strasburgo, in Francia, il 15 settembre 1858. Rampollo di una famiglia nobile, militare e cattolica, viene battezzato due giorni dopo la nascita. A soli 6 anni perde entrambi i genitori. Insieme a sua sorella Marie è preso in cura dal nonno materno Charles-Gabriel de Morlet, del quale seguirà la carriera militare. Il 28 aprile 1872, riceve la prima comunione e la confermazione. Intelligentissimo, presto perde la fede e s’immerge in una vita mondana gaudente e di disordine che però lo lascia insoddisfatto.

Entra nella Scuola militare di Saint-Cyr e di Saumur, diventando sottotenente di cavalleria, ma si annoia infinitamente. Conosciuto come amante del piacere e della vita facile, viene cacciato dall’esercito per cattiva condotta. A venti anni muore il nonno e si ritrova solo, padrone di un immenso patrimonio.

Mio Dio, se esisti, fa’ che ti conosca

Nel 1882 si dimette dall’esercito e, dopo aver rinunciato al matrimonio con una ragazza protestante, intraprende una pericolosa esplorazione in Marocco (1883-1884) con l’aiuto del rabbino Mardocheo, e per questo otterrà una medaglia d’oro dalla Società di geografia di Parigi.

La scoperta della fede musulmana, la ricerca interiore della verità, la bontà e l’amicizia discreta della cugina Marie de Bondy, e l’aiuto dell’abbé Huvelin, gli faranno riscoprire la fede cristiana.

Cerca di conoscere Dio ripetendo una «strana invocazione: “Mio Dio, se esisti, fa’ che ti conosca”». All’amico Henry de Castries, nella lettera del 14 agosto 1901, racconta come debba proprio all’Islam il risveglio della fede «morta» durante dodici anni, e di come fosse attirato dalla «semplicità del dogma» del monoteismo musulmano e perciò anche dalla «semplicità» della sua gerarchia e della sua morale (Lettere a Henry de Castries [LHC], 94).

A fine ottobre 1886, mentre a Parigi redige «Ricognizione in Marocco», incontra l’abbé Henry Huvelin nella chiesa di Sant’Agostino, e la sua vita cambia radicalmente. «Non appena credetti che c’era un Dio, ho capito che non potevo far altro che vivere per Lui solo» (LHC, 96-97). Ha 28 anni.

A partire da quel momento il Vangelo diventerà il libro di riferimento per conoscere Gesù e per imitarlo, mentre l’abbé Huvelin resterà «il padre e la guida» fino alla sua morte.

Come un viaggiatore nella notte

(Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Conquistato dall’idea di abbandonarsi a Dio realizzando sempre la sua volontà, fratel Carlo proverà vari itinerari di santità, come un viaggiatore nel buio della notte, alla costante ricerca della sua vera vocazione.

In un pellegrinaggio in Terra Santa, consigliatogli dall’abbé Huvelin, Charles approfondisce la sua chiamata: seguire e imitare Gesù nella vita nascosta di Nazareth, perché «l’amore ha per primo effetto l’imitazione». Poi, attratto dalla vita monastica, il 15 gennaio 1890 entra nella Trappa di Nôtre-Dame des Neiges (nel Sud della Francia), prendendo il nome di fratel Maria Alberico. Il desiderio di vivere una povertà più radicale lo porta in Siria, nella Trappa di Nostra Signora del Sacro Cuore, dove però non trova quello che cerca. Vi dimora per sette anni, lasciandosi formare alla scuola monastica e cercando l’imitazione più perfetta di Gesù vivente a Nazareth.

Poi chiede di lasciare la trappa per andare a Nazareth, e si stabilisce come domestico presso le Clarisse, vivendo in una capanna, nella povertà e nel nascondimento. «Gesù ti ha stabilito per sempre nella vita di Nazareth: niente vestito particolare, come Gesù a Nazareth; non meno di otto ore di lavoro al giorno, come Gesù a Nazareth. La tua vita di Nazareth può essere condotta dappertutto: vivila nel luogo più utile al prossimo».

A Nazareth, su consiglio dell’abbé Huvelin, medita e studia il Vangelo, per conoscere Gesù, e diventare cristiforme: «Non posso concepire l’amore senza un bisogno, un bisogno imperioso di conformità, di somiglianza e soprattutto di partecipazione a ogni pena, ogni difficoltà, ogni asprezza della vita».

Compone con cura un opuscoletto intitolato Il modello unico, breve sintesi del Vangelo, che porterà anche nel Sahara. Sarà per lui come uno specchio nel quale riflettersi per ritrovare i tratti del proprio volto in quelli del volto di Gesù.

Oltre al Vangelo, fa anche dell’Eucarestia un pilastro della sua spiritualità. La celebrazione e l’adorazione eucaristica non sono per lui una semplice liturgia, ma una forma di vita.

Essere dove Dio ci vuole

Nel servizio, nel lavoro umilissimo, nella meditazione del Vangelo ai piedi del tabernacolo, fratel Charles cerca di vivere «l’esistenza umile e oscura del divino operaio di Nazareth», come piccolo fratello di Gesù nella santa casa di Nazareth tra Maria e Giuseppe.

Nazaret, Basilica dell’ annunciazione, chiesa inferiore, grotta sacra

A Nazareth scopre anche il mistero della Visitazione come un nuovo modo di fare missione e di trasmettere la fede. Si propone di partecipare all’opera della salvezza imitando «la Santa Vergine nel mistero della Visitazione, portando come lei, in silenzio, Gesù e la pratica delle virtù evangeliche tra i popoli infedeli».

Ed è ancora a Nazareth che comprende che fare la volontà di Dio vuol dire: «Essere dove Dio ci vuole, fare ciò che Dio vuole da noi, nello stato dove lui ci chiama; pensare, parlare, agire come Gesù avrebbe pensato, parlato, agito, se il Padre suo lo avesse messo in quel particolare stato».

Madre Elisabetta, badessa del convento delle Clarisse di Gerusalemme, lo convince a diventare prete per «fare» il maggior bene delle anime.

Dopo un’adeguata preparazione e gli studi di teologia a Roma, viene ordinato sacerdote a 43 anni (1901) nella cappella del seminario di Viviers, in Francia. Gli viene dato il permesso di abitare nel Sahara. «I miei ritiri di diaconato e di sacerdozio mi hanno mostrato che questa vita di Nazareth, che mi sembrava essere la mia vocazione, bisognava viverla non in Terra Santa, tanto amata, ma tra le anime le più ammalate, le pecore le più abbandonate». «Portare Gesù in silenzio presso i popoli infedeli e santificarli con la presenza del santo tabernacolo, come la Vergine Santissima santificò la casa di Giovanni portandovi Gesù».

Missionario monaco

Col passare del tempo, Charles prende sempre più coscienza che «la mia vita non è quella di un missionario, ma quella di un eremita» (LHC, 28/10/1905). «Io sono monaco, non missionario, fatto per il silenzio, non per la parola» (Lettera a mons. Guérin, 02/07/1907).

Vive solitario in Algeria, allora colonia francese, mettendosi al servizio del prefetto apostolico del Sahara, monsignor Charles Guérin, stabilendosi a Beni Abbès (1901-1904), oasi di settemila palme, dove costruisce il suo eremo, che chiama la Fraternità del Sacro Cuore. Lì cercherà di portare a Cristo tutti gli uomini che incontra «non con le parole, ma con la presenza del Ss. Sacramento, l’offerta del divin sacrificio, la preghiera, la penitenza, la pratica delle virtù evangeliche, la carità, una carità fraterna e universale, condividendo fino all’ultimo boccone di pane con ogni povero, ogni ospite, ogni sconosciuto che si presenti e ricevendo ogni uomo come un fratello benamato».

Per questa sua attività caritatevole sarà chiamato: le marabout (santone musulmano, ndr.), «nome che già tutti gli indigeni mi danno; io mi trovo benissimo con loro, essi del resto sono bravissima gente».

Il sogno di Beni Abbès è proprio quello di una fratellanza universale: «Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani e ebrei e idolatri a guardarmi come loro fratello – il fratello universale. Essi cominciano a chiamare la casa: la fraternità (khawa in arabo) e questo mi è caro» (lettera a Marie de Bondy, 07/02/1902).

Fratel Charles desidera fortemente condividere la missione con un compagno, anche per garantire la continuità dell’opera. A tale scopo prepara il regolamento dei Piccoli fratelli del Sacro Cuore di Gesù e, in seguito, il regolamento delle Piccole sorelle del Sacro Cuore di Gesù (che saranno poi fondati nel 1933, ndr). Compirà tre viaggi in Francia alla ricerca di qualche sacerdote disposto a vivere con lui l’esperienza eremitica nel deserto, senza sucesso.

A Beni Abbès è scosso dal fenomeno «vergognoso» della schiavitù, tollerata, se non favorita, anche dalle autorità militari francesi. Scrive lettere indignate ai superiori ecclesiastici, ad amici e parenti influenti, religiosi e laici, per ottenere che una simile ingiustizia venga estirpata definitivamente. Il 9 gennaio 1902 riscatta il primo schiavo, che chiama Giuseppe del Sacro Cuore, e ne riscatterà altri in seguito. In una lettera scritta a liberazione avvenuta afferma: «Oggi è uno dei giorni più belli della mia vita: per la prima volta ho potuto riscattare uno schiavo; non senza fatica, con l’aiuto di san Giuseppe al quale avevo affidato l’opera, questa sera sono riuscito a rendere la libertà a un povero ragazzo del Sudan strappato alla sua famiglia 4 o 5 anni fa» (lettera a dom Martin, 09/01/1902).

Gridare il vangelo con la vita

«Gridare il Vangelo con la vita», per Charles de Foucauld significa imitare Gesù, testimoniandolo nella quotidianità con la propria esistenza.

Dopo lunghe esitazioni, accetta l’invito del comandante François-Henry Laperrine ad accompagnarlo nell’Hoggar per pacificare i Tuareg, recentemente sottomessi alla Francia. Nel marzo 1904, seguendo le guarnigioni francesi di stanza in Algeria, si spinge nel deserto fino al villaggio di Tamanrasset, scegliendo un nome col quale Arabi e Tuareg lo possano designare: si chiamerà Abd-Isa, che significa servo di Gesù.

Ci va convinto che la sua missione non è quella di convertire, ma piuttosto quella di compiere un lavoro preparatorio alla evangelizzazione. «Senza predicare, bensì imparando la lingua della gente, conversando con loro, stabilendo rapporti di amicizia». Convinto del fatto che «la parola è molto, ma l’esempio, l’amore, la preghiera sono mille volte di più», nelle lettere a parenti e amici ribadisce che il suo intento è di fraternizzare, fare crollare muri di pregiudizi e avere relazioni affettuose con i tuareg.

Fonda un eremo nello sperduto villaggio, e poi un altro sull’Assekrem a 2.780 metri sul massiccio dell’Hoggar. Si fa piccolo e povero, annullandosi in una vita nascosta, pur di portare la testimonianza evangelica a quei popoli che il deserto ha a lungo nascosto. Sa che non li avrebbe conquistati con la predicazione, ma soltanto con la presenza dell’Eucarestia, con l’esempio, la penitenza, la fraterna carità universale.

L’eremo cappella di fratel Charles a Tamanrasset (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Tamanrasset

All’eremo Charles accoglie i poveri, assiste i malati con medicinali che si fa inviare da parenti e amici in Francia, ma soprattutto dedica molte ore al giorno allo studio della lingua tuareg (il tamahaq) con l’aiuto di un interprete locale.

Vive una vita di preghiera, meditando continuamente la Sacra Scrittura, e di adorazione, nell’incessante desiderio di essere, per ogni persona, il «fratello universale», immagine viva dell’Amore di Gesù. «Vorrei essere buono perché si possa dire: “Se tale è il servo, come sarà il Maestro?”». Vuole «gridare il Vangelo con la sua vita». Gli uomini del deserto lo accolgono per la mitezza del carattere e la mansuetudine del comportamento. Per lui «gli uomini non sono più soltanto i nostri fratelli, essi sono Gesù stesso». «Non soffro di solitudine, la trovo molto dolce, ho il sacramento dell’Eucaristia, il migliore degli amici, al quale parlare giorno e notte».

Pratica un’ascesi dura, prega e lavora come un monaco. La sua dieta consiste in una poltiglia di amido di grano pestato con un po’ di burro, della purea di datteri e del pane senza lievito, deteriorando pian piano la sua salute.

Momenti duri

L’anno 1907 è un anno terribile nella vita di Charles. Riceve un duro colpo apprendendo della morte di Gustave-Adolphe de Calassanti-Motylinski (orientalista francese), punto di riferimento per i suoi lavori linguistici. Inoltre, la carestia imperversa sull’Hoggar dove non piove più dall’inizio del 1906. Conosce una grande prostrazione non potendo celebrare l’Eucarestia, neanche il giorno di Natale, perché non ha nessun altro cristiano con lui.

Nel gennaio 1908 Charles è spossato fisicamente e col morale a terra ed entra in una vera notte spirituale.

Scrive nel taccuino: «Sono malato, costretto a interrompere ogni lavoro. Gesù, Maria, Giuseppe, a voi dono la mia anima, il mio spirito, la mia vita».

Musa ag Amastane, l’amenokal (capo) dei Tuareg, avverte Laperrine, mentre i poveri abitanti di Tamanrasset, nel vederlo distrutto dalla debolezza e dalla febbre, si danno da fare a cercare «tutte le capre che abbiano un po’ di latte in questa terribile siccità, in un raggio di quattro chilometri», e il malato, a poco a poco, si riprende. Gli salvano la vita.

Quando fratel Charles scopre quello che i poveri hanno fatto per lui, condividendo tutto ciò che avevano, per salvarlo, incomincia ad apprezzare la capacità di amore e di riconoscenza di cui la civiltà tuareg è capace.

È il momento della sua seconda conversione. Al medico protestante Dautheville che nel 1908 gli chiede cosa fa per convertire i Tuareg, risponde: «Io non cerco di convertirli, cerco di migliorarli; voi siete protestante, un altro può essere non credente, loro sono musulmani. Sono convinto che un giorno ci ritroveremo tutti in Paradiso, senza passare per la Chiesa cattolica romana, ma perché ciò avvenga dobbiamo meritarlo: cerco di aiutare me stesso e gli altri a meritare un giorno di ritrovarsi insieme in Paradiso».

Il 1910 è l’anno della morte delle persone care. In aprile muore di tifo e di sfinimento, a trentasette anni, monsignor Guérin, prefetto apostolico e amico, lasciando in Charles un grande vuoto.

L’abbé Huvelin muore il 10 luglio. Apprendendo la notizia, che gli giunge il 15 agosto, Charles scriverà: «Ci si sente soli al mondo… come l’oliva rimasta sola in cima al ramo, dimenticata dopo la raccolta».

Nel novembre successivo anche il generale Henry Laperrine è trasferito in Francia. Non tornerà prima della morte dell’amico.

«È la solitudine che cresce. Ci si sente sempre più soli al mondo. Gli uni sono partiti per la loro patria, gli altri vivono la loro vita sempre più lontano dalla nostra».

La montagna dell’Assekrem dove fratel Chuarles ha costruito il suo eremo a 2780m di altezza. (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Eremo dell’Assekrem

Nell’anno seguente Charles sale al nuovo eremo dell’Assekrem, nel cuore del massiccio dell’Hoggar, a 2.780 metri, insieme a Ba Hamu, segretario di Musa Ag Amastane, per seguire i Tuareg che vi hanno condotto le loro greggi a causa della siccità. Approfitta per lavorare più alacremente alla lingua, entrando in relazione più profonda con i nomadi allevatori.

Auspica anche il coinvolgimento dei laici nell’opera di evangelizzazione, perché per lui la missione non si limita alla testimonianza personale, ma ha anche lo scopo più ampio di «civilizzare materialmente, intellettualmente, moralmente i Tuareg» tramite l’istruzione scolastica, l’esempio del lavoro, l’insegnamento dei principi elementari della morale naturale, le tecniche dell’agricoltura e dell’allevamento, il commercio e l’industria. Ma il suo desiderio non si realizzerà.

«Ho due eremi, a mille e cinquecento chilometri l’uno dall’altro! Passo tre mesi in quello del Nord, sei mesi in quello del Sud, tre mesi per andare e venire, ogni anno. Quando mi trovo in un eremo, vivo in clausura, sforzandomi di farvi una vita di lavoro e di preghiera. Durante il viaggio, penso alla fuga in Egitto, e ai viaggi annuali della santa Famiglia a Gerusalemme».

Il testamento

Prima di lasciare l’Assekrem, il 13 dicembre 1911, Charles redige il testamento, indirizzato al cognato Raymond de Blic. In esso precisa: «Desidero essere seppellito nel luogo stesso dove morrò, e riposarvi fino alla resurrezione. Proibisco che si trasporti il mio corpo e che lo si tolga dal luogo dove il buon Dio mi avrà fatto terminare il mio pellegrinaggio». Chiede di avvertire, in caso di morte, monsignor Bonnet, vescovo di Viviers, e i due grandi amici: Gabriel Tourdes, «amico d’infanzia», e François-Henry Laperrine. Il 24 ottobre 1914 Charles aggiunge un foglietto al suo testamento, ripetendo: «Voglio essere seppellito nel luogo dove morrò; sepoltura molto semplice, senza cassa; tomba molto semplice, senza monumento, sormontata da una croce di legno». Le sue volontà non verranno rispettate.

Laperrine, nel 1915, lo descrive così: «Père de Foucauld ha adottato come abito uno simile a quello dei Trappisti, ma in cotone bianco e con un Sacro Cuore di stoffa rossa cucita sul petto. Alla vita ha una cintura di cuoio dalla quale pende un rosario. I piedi nudi calzano i sandali tuareg. La sua influenza nella zona è molto grande. L’amenokal dei Tuareg dell’Hoggar non prende nessuna decisione importante senza consultarlo. Gli adolescenti e i bambini tuareg, in particolare, hanno un’assoluta fiducia in lui» (Laperrine, Le Père de Foucauld, in Revue de Cavalerie, Paris 1919).

Il bordji di Tamanrasset, costruito da fratel Charles, dove è stato poi ucciso nel dicembre 1916 (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Come un’ostia

Nel giugno del 1916, per difendersi dai razziatori marocchini a Ovest e dai ribelli senussiti ad Est, Charles si trasferisce nel fortino, dove al tramonto del 1° dicembre una banda di predoni tuareg, alleati ad alcuni Senussiti libici, saccheggiano il suo eremo. Un ragazzotto di 15 anni, preso dal panico per l’arrivo di due cammellieri, gli spara a bruciapelo. Muore sul colpo a 58 anni, nella solitudine più totale.

È il 1° venerdì del mese, e l’intenzione di preghiera per quel dicembre è la conversione dei musulmani. Il giorno seguente la gente lo seppellisce nella sabbia. Tre settimane dopo, il capitano De la Roche trova nella sabbia del bordj (forte) l’ostensorio, e dà l’ostia a un soldato, ex seminarista, perché la consumi. Ostia, gettata per terra, come il corpo di colui che l’aveva consacrata e che aveva fatto della sua vita una eucaristia, realizzando pienamente e realmente il comando del Signore: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19).

Laperrine lo seppellisce il 26 aprile 1929 nel cimitero francese di El Golea, dove ancora oggi riposa.

La sua morte sembra adempiere quanto lui stesso aveva predetto pochi anni prima: «Come il grano nel Vangelo, devo marcire nella terra del Sahara per preparare la futura messe. Tale è la mia vocazione». Nella morte realizza perfettamente la sua vocazione: «Silenzio­samente, segretamente come Gesù a Nazareth, oscuramente, come Lui, passare sconosciuto sulla terra come un viaggiatore nella notte, poveramente, laboriosamente, disarmato e muto davanti all’ingiustizia come Lui, lasciandomi come l’Agnello divino tosare e immolare senza fare resistenza né parlare, imitando in tutto Gesù a Nazareth e Gesù sulla Croce».

Il suo ricordo rimarrà per sempre

Leggendo il Vangelo, fratel Charles aveva imparato che la santità non è separazione dal mondo ma fraternità universale, arrivando a considerare fratelli i musulmani con cui viveva.

Oggi, la sua memoria è conservata anche a Roma, nella Basilica di san Bartolomeo all’isola, santuario dei martiri del XX e XXI secolo. Il piccolo fratello di Gesù è presente, e la cazzuola con il cuore e la croce incisi nel manico, che lo aiutò a costruire il fortino di Tamanrasset, tiene viva la sua memoria.

«L’amore consiste non nel sentire che si ama, ma nel voler amare; quando si vuol amare, si ama; quando si vuol amare sopra ogni cosa, si ama sopra ogni cosa».

Giuseppe Ronco

La toma di fratel Charles  a El Goela (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

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Il 15 maggio 2022, papa Francesco ha canonizzato Charles de Foucauld, il fratello universale, in Piazza San Pietro.




Portogallo. Rifugiati come in famiglia


A Cacém (Lisbona), in Portogallo, una comunità di missionari della Consolata, due sacerdoti, un fratello e tre seminaristi, apre le porte a tre giovani profughi africani accogliendoli in casa. Un’esperienza di missione interculturale e interreligiosa, e di famiglia.

È il 26 giugno 2019. Siamo all’aeroporto di Lisbona per dare il benvenuto a Salim e Ismael, 19 e 20 anni, musulmani del Sudan, sbarcati in Italia due mesi fa, e accolti dal Portogallo.

Sguardi indagatori, strette di mano. Chiedo all’interprete di tradurre in arabo queste parole: «È da tempo che vi aspettiamo. Benvenuti. Se vorrete, la nostra comunità sarà la vostra famiglia».

Nella nostra casa, a Cacém, periferia di Lisbona, in questo momento siamo in sette: tre seminaristi tra i ventisette e i trent’anni, uno colombiano, uno keniano, uno tanzaniano, tutti al quarto anno di teologia, poi ci sono fratel Gerardo Secondino, italiano con quindici anni di Mozambico alle spalle, padre Norberto Ribeiro Louro, un portoghese 84enne con una lunga storia missionaria, anche lui in Mozambico, un ospite venticinquenne della Guinea Bissau, studente universitario, e chi scrive.

La nostra casa è un grande spazio che ospita una Caf, «comunità apostolica formativa», cioè un piccolo seminario a dimensione famigliare e missionariamente attivo nel territorio.

Facciamo accoglienza, attività di animazione con gruppi, parrocchie, scout. Nei nostri terreni abbiamo ricavato 80 orti comunitari coltivati da famiglie bisognose della zona. Infine, collaboriamo con altre realtà del sociale.

Quando mi presento a Salim e Ismael, sento che i due giovani ci vengono affidati, e che loro si affidano a noi.

Forse siamo degli incoscienti. Ci stiamo mettendo in un’avventura senza sapere bene dove ci porterà: si troveranno bene questi due giovani con noi? Riusciremo ad accoglierli?

Aprire cuore e casa

L’accoglienza non è un’esperienza nuova per noi, perché fin dall’inizio di questa comunità formativa, nel 2015, la nostra casa è aperta per chi ne avesse bisogno: è stato con noi un giovane senzatetto portoghese con problemi di alcolismo, poi lo studente della Guinea Bissau, da solo in Portogallo, poi altri con altre storie che si sono fermati per tempi più o meno lunghi.

L’idea è che la comunità, già caratterizzata da una grande diversità culturale (come spesso accade nelle case dei Missionari della Consolata), cercando di vivere come una famiglia, si offra temporaneamente come famiglia anche a chi ne ha bisogno per un percorso di recupero, inserimento, autonomia.

La scelta di aprire la casa a Salim e Ismael è, quindi, in linea con l’esperienza di accoglienza già avviata e con lo stile di formazione che vogliamo offrire ai nostri seminaristi: una fraternità autentica e missionaria.

Inoltre, l’apertura ai profughi risponde anche all’appello più volte ripetuto da papa Francesco alle comunità cristiane e religiose perché accolgano nelle loro case i migranti che arrivano.

Salim, Ismael e Bright

L’occasione è venuta quando il Jesuit Refugee Service ci ha cercati per sapere se, come alcuni anni prima si era ipotizzato, la Consolata fosse ancora disponibile a cedere la casa di Cacém per l’accoglienza. Con la nuova comunità arrivata da pochi anni, non potevamo accogliere un grande numero di persone, ma subito abbiamo detto che eravamo aperti a fare qualcosa.

Salim e Ismael, quindi, sono i primi due profughi che accogliamo. Per arrivare da noi hanno fatto un lungo viaggio. Sono passati per il Ciad e la Libia, costretti a lavorare nelle miniere d’oro in condizioni disumane per pagare il debito contratto per il passaggio in macchina ricevuto, hanno attraversato il Mare Mediterraneo su un barcone.

Quando sono partiti dalle loro case, nel Darfur in guerra, avevano 15 anni. Si sono conosciuti in viaggio e sono arrivati a Messina, in Sicilia, cinque anni dopo.

Sedersi a tavola insieme

I primi tempi comunichiamo con Salim e Ismael tramite sguardi, gesti, sorrisi e qualche parola di inglese. Sedersi a tavola con loro due ha qualcosa di misterioso e profondo.

I primi mesi sono caratterizzati dai tentativi di comunicare, dall’attenzione a essere il più possibile accoglienti e a far sentire i nostri ospiti a casa loro, dall’emozione di vivere quella pagina di vangelo che dice: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35), che molte volte abbiamo ascoltato e che ora si concretizza in questo piccolo e coraggioso passo fatto come comunità. La parola di Dio «che opera in noi» (1Ts 2, 13) ha orientato una scelta, è diventata gesto, incontro, volto, presenza.

Scambi interreligiosi

Sin dai primi giorni, nonostante i limiti della comunicazione, i ragazzi s’inseriscono in modo sorprendente nella comunità. Osservano come funzionano le cose in casa e contribuiscono in modo attivo alla vita comunitaria: rispettano gli orari, lavano i piatti e fanno le pulizie con noi. Mentre noi celebriamo l’eucaristia alla sera, loro preparano la tavola per la cena. Presto si crea come una simbiosi tra noi, anche sul piano religioso: la differenza è vissuta con rispetto, naturalezza e curiosità da entrambe le parti. Non è infrequente che ci chiedano spiegazioni sulla nostra fede. Il fatto di essere musulmani in una comunità di religiosi non crea nessuna perplessità: Salim e Ismael sono genuinamente sostenuti dalla loro spiritualità e per loro, che pregano quattro volte al giorno, non è strano parlare di preghiera e vedere che noi ci riuniamo per le nostre celebrazioni. A nostra volta, noi possiamo vedere da vicino come i musulmani vivono il Ramadan, condividere le loro feste.

Poco prima dello scoppio della pandemia, a inizio 2020, arriva nella nostra casa un altro ospite. Si chiama Bright, ha 28 anni, è nigeriano, pentecostale, fuggito dalle persecuzioni religiose.

Bright ci racconta di aver viaggiato per tre anni. Giunge da noi molto provato da ciò che deve aver sofferto in Libia. Ci racconta che è un saldatore e che dei mesi trascorsi a Bari ricorderà sempre la pasta che mangiava tutti i giorni.

Il suo primo discorso alla comunità riunita è un’ispirata preghiera di ringraziamento a Gesù.

Il Giovedì Santo, nel mezzo del lockdown, quando celebriamo la messa in casa, laviamo i piedi ai tre giovani. Il servizio che la nostra comunità sta facendo è fatto alla scuola di Gesù.

Toccare la carne

L’arrivo di Salim, Ismael e Bright, con tutto quello che porta con sé, conferma ancora una volta la verità di quel testo per noi molte volte ispiratore, che troviamo nella parte finale dell’Evangelii Gaudium, quando papa Francesco parla di un rinnovato impulso missionario: «A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo» (EG 270).

Prendersi cura di qualcuno significa diminuire le distanze, accogliere qualcuno in casa vuol dire accettare che diventi parte di noi, lasciare che i suoi problemi diventino anche un po’ i nostri: per questo la vita si complica, ma si complica meravigliosamente, perché da questo incontro ne usciamo tutti più ricchi.

Verso un futuro migliore

Certo che la differenza culturale mette alla prova non poche volte la nostra capacità di ascolto e di dialogo. Non è facile nemmeno capire la sofferenza discreta di chi continua a essere perseguitato dalla preoccupazione per i familiari lontani ancora in pericolo. Accompagniamo con un’apprensione, quasi da genitori, i loro primi colloqui di lavoro.

Sperimentiamo poi anche la gioia del chiarimento e del perdono, della fiducia e dell’amicizia che cresce nelle piccole attenzioni quotidiane. Abbiamo accesso a uno spessore umano che non ci lascerà uguali.

Molte volte papa Francesco ci ha esortati a guardare negli occhi il povero e a toccare la sua mano quando facciamo l’elemosina, indicando così un atteggiamento imprescindibile che deve marcare qualsiasi tipo di solidarietà, perché sia anzitutto attenta alla persona. Abbiamo l’esempio di Gesù, che nei Vangeli molto spesso tocca le persone che hanno bisogno di essere curate, che sempre cerca il contatto.

Ricevendo in casa questi giovani non facciamo l’elemosina: li aiutiamo a realizzare il sogno di un futuro migliore che li ha condotti sino ai margini dell’Europa. Quando li guardo negli occhi vedo futuro: un futuro sognato, che ha radici in un passato di sofferenza, che è stato come una stella che li ha guidati in un viaggio lungo e pieno di pericoli, fino a correre il rischio di morire nelle acque del Mediterraneo.

Come una famiglia

Nell’enciclica Fratelli tutti, il papa ci ricorda che ogni gesto di solidarietà per essere autentico deve nascere dall’amore, chiede il coinvolgimento nella relazione: «L’amore implica dunque qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti» (FT 94).

Durante il lockdown della prima fase della pandemia, quando la nostra comunità sembra l’arca di Noè, ci rendiamo conto chiaramente di cosa sia questa «amicizia sociale» di cui parla il papa.

In casa siamo in tredici: oltre a noi sei missionari, ai tre giovani profughi e allo studente guineano, c’erano anche un uomo, padre di due figli, divorziato e ospitato temporaneamente in attesa di trovare altra sistemazione, e una coppia di pensionati sardi, bloccati in Portogallo per un’emergenza di salute e per la chiusura delle frontiere.

Mentre tutto fuori si ferma, dentro, in comunità, la vita continua: i turni di cucina, le lezioni di informatica e di portoghese per sostituire quelle sospese fuori, i lavori di manutenzione e pulizia della casa e del parco, persino alcuni momenti di preghiera interreligiosa per chiedere la fine della pandemia. Tutti ci sentiamo e siamo utili e responsabili gli uni degli altri. Anche chi è accolto.

Facendo un esercizio del corso di portoghese, Bright, descrivendo ai compagni il luogo dove vive, sintetizza: «In casa viviamo tutti insieme, come una famiglia».

Guardando la nostra tavola durante i pasti e le persone così diverse che, attorno a essa, prendono posto, spesso con il gusto di stare insieme e di raccontarsi, penso più volte che, in quest’angolo di periferia urbana, stiamo celebrando nel nostro piccolo una liturgia dell’accoglienza dal respiro universale.

Un passo per volta

Il progetto promosso dall’Alto commissariato per le migrazioni del governo portoghese prevede una permanenza dei giovani di un anno e mezzo presso di noi. Un tempo utile per conseguire l’autonomia linguistica e finanziaria. Vista però la difficile situazione causata dalla pandemia e visto che le istituzioni non offrono molte possibilità, in comunità decidiamo di nostra iniziativa di tenere con noi i giovani ancora per sei mesi, per aiutarli a consolidare la loro autonomia.

Salim e Ismael non hanno una formazione scolastica perché sono partiti presto dal loro paese, ma sono molto intelligenti. Salim vorrebbe diventare meccanico. Dopo aver preso la terza media, farà un corso di formazione. Intanto ha trovato un lavoro. Ismael ha il sogno di diventare ingegnere. Deve completare gli studi di base. Nel frattempo, ha iniziato a lavorare come muratore in un’impresa di un nostro amico.

In questo processo ci accorgiamo di come sia importante fare il primo passo: molte istituzioni a cui bussiamo sono immediatamente disponibili ad aiutare in diversi modi: i nostri Laici missionari della Consolata, ad esempio, si mobilitano da subito per molte necessità, e uno di loro assume Bright nella sua piccola impresa di montaggio di pannelli solari. Bright sarà con noi ancora fino alla primavera del 2022.

Le avventure della carità e della missione iniziano sempre con un primo passo fatto con coraggio e amore da qualcuno, al quale poi si uniscono altri per continuare il cammino che spesso si apre in modo imprevisto.

Vivere il vangelo

La domenica in cui salutiamo Salim e Ismael, che ora hanno la possibilità di affittare una stanza, a maggio 2021, viviamo un momento molto toccante: durante il pranzo chiedo che sia proclamato il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, quello nel quale Gesù parla del giudizio finale identificandosi con i bisognosi: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare… ero straniero e mi avete accolto…». La lettura è fatta in portoghese e in arabo.

È emozionante ascoltare le parole di Gesù pronunciate in arabo da quei giovani musulmani. Non è difficile per loro riconoscersi nello straniero, solo, con i soli vestiti che ha addosso. E per noi è evidente che quelle parole di Gesù le abbiamo vissute: sentiamo lo stupore per la semplicità del Vangelo e la forza con cui esso trasforma la nostra vita quando proviamo a metterlo in pratica.

In questi due anni, nonostante la religione diversa, accogliendoci gli uni gli altri, abbiamo scritto insieme una pagina di Vangelo e di bene. Il Vangelo è semplice, ed è possibile e bello viverlo, basta aprirgli il cuore e la casa.

Amici, fratelli, figli

Nei loro discorsi di ringraziamento, sinceri e visibilmente commossi, ci dicono di aver ritrovato nella nostra comunità la famiglia che hanno lasciato cinque anni fa, quando sono partiti dal loro paese. Uno di loro cita persino le parole di Gesù, «amatevi gli uni gli altri», affermando di avere vissuto proprio questo. Di essere stato accolto non come un bisognoso, ma come un amico, un fratello, un figlio.

Salim e Ismael, che non conoscevano molto della nostra religione, attraverso la nostra accoglienza, hanno capito chi sono i cristiani.

Non abbiamo accolto i profughi per fare un’attività tra le altre, ma per vivere, noi sacerdoti, insieme al fratello missionario e ai nostri seminaristi in formazione, la vocazione di cristiani e di missionari. L’apertura e l’accoglienza fanno parte dello stile di vita di una comunità missionaria. È un modo di vivere il Vangelo, non tanto preoccupati di testimoniare qualcosa, ma anzitutto desiderosi di vivere autenticamente il nostro essere missionari, di dare senso alla nostra presenza qua dove siamo.

Ermanno Savarino,
Comunità apostolica formativa dei Missionari della Consolata a Cacém, Lisbona, Portogallo


 * Reu: Regione Europa IMC




Accoglienza profughi dall’Ucraina /5


Carissimi amici e benefattori
un saluto a tutti voi

Dopo una pausa dall’ultima comunicazione vi aggiorno sulla situazione che ci vede impegnati tutti insieme ad aiutare coloro che sono colpiti dalla guerra in Ucraina.

Qui a Łomianki come del resto in Polonia siamo passati ormai ad una seconda fase dall’inizio del conflitto inziato quasi due mesi fa e purtroppo non ancora interrotto. Dopo l’ondata di profughi improvvisa e gigantesca che si faceva notare ovunque nel paese, direi che ora siamo passati a una gestione delle migliaia di persone giunte qui. Qualcuno (pochi) ha provato a rientare nel paese ricongiungendo la famiglia in Ucraina; invece, la maggior parte di donne e di bambini che vivono ormai da 2 mesi presso le famiglie o nei centri in cui hanno trovato alloggio, sono ancora qui tra noi.

Se per fortuna non si notano piu le folle di arrivi di donne e bambini alle stazioni dei treni, tuttavia nei centri di assitenza le code giornaliere sono sempre ben visibili, come capita nella parrocchia di Łomianki, dove ogni giorno continuiamo coi volontari a distribuire generi di prima necessità. Permettetemi di ringraziare molti di voi per le generose offerte che ci avete fatto avere, grazie alle quali possiamo quotidianamente comprare e nuovamente riempire gli scaffali del centro di aiuto della parrocchia, che rapidamente si svuotano.

Ringraziamo anche i volontari che da diverse parti del mondo hanno scelto di vivere nella nostra casa per aiutare in diversi modi, tra questi ricordiamo Clara un’infermiera di Torino, Kessie una dottoressa del Sud Africa e Adriano un volontario di origine italiana abitante in Canada.

Se la situazione in Polonia si puo definire in questo momento di gestione, lo stesso non si puo dire nella vicina Ucraina, dove purtroppo come ben sapete il conflitto continua con una cruenza e una violenza raccapricciante. Le notizie che ascoltiamo dai media e ancor piu le storie dei testimoni che incontriamo sono molto tristi. Per questo motivo stiamo sempre piu organizzando i nostri sforzi non solo qui sul posto ma anche inviando aiuti di vario genere in Ucraina soprattuto nelle zone occupate, escluse da ogni rifornimento.

Sono gia 4 i trasporti partiti, (e per grazia arrivati!) nell’Est del paese come nella zona di Charkow dove proseguono i combattimenti. In quei luoghi ogno genere di aiuti e visto come una manna dal cielo, perche il prolungare del conflitto ha ridotti ogni scorta nei magazzini. Un frate francescano mi ha detto che in quella regione dove abita, per fare benzina alla propria auto con l’aiuto di un amico, sono andati a fare rifornimento da un treno abbandonato che aveva ancor del carburante nel serbatoio. Queste perché i benzinai o sono esauriti i sono stati distrutti.

In questi giorni stiamo organizzando altre spedizioni nella regione di Zaporoze esattamente a Energodar dove si trova la centrale atomica piu grande di Europa. La città è stata occupata.   Prevedo questa estate, se le condizioni lo permetteranno, di recarmi in Ucraina.

In questo momento è difficile fare delle previsioni. La situazione è ancora molto confusa e purtroppo non si vedono ancora spiragli per un cessate il fuoco. Una delle poche cose di cui si e sicuri che purtroppo si continuerà a lungo. Oltre a questo, una cosa che vediamo bene è il rischio che una volta terminata la guerra questa stessa continui nei cuori di molte persone che hanno subito violenza e sopprusi.

Per questo continuaimo a pregare per la fine della guerra chiedendo a Dio il dono della pace e continuando a costruiore pace attorno a noi.
Un saluto a tutti

padre Luca Bovio


Le foto sono da Charkow, in Ucraina. Sono le persone beneficiate dagli aiuti che abbiamo inviato.




Sommario Rivista MC maggio 2022

Il numero di maggio è online il 16 del mese


Editoriale

Dossier

Articoli

Rubriche.

Editoriale

Ascoltare con il cuore nell’orecchio

A fine mese, il giorno dell’Ascensione, si celebrerà la 56ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Il tema, «Ascoltare con l’orecchio del cuore», può stupire: abituati a una comunicazione incalzante, infatti, rischiamo di scordare che l’ascolto è preliminare al comunicare. Tanto più oggi, quando i canali della comunicazione si moltiplicano creando una cacofonia che disorienta. La tentazione, da parte dell’utente, è quella di tapparsi le orecchie, o di lasciare filtrare frammenti disparati e senza logica, oppure di sintonizzarsi su un solo canale, una sola voce, escludendo tutti gli altri.


Dossier

Ritorno a Kabul: «Maometto è il suo profeta»

Il reparto femminile del Centro di riabilitazione della Croce rossa internazionale a Kabul. Foto Angelo Calianno.

Il nostro collaboratore Angelo Calianno è tornato in Afghanistan dopo la riconquista del potere da parte dei Talebani. Questo è il suo racconto.

Kabul. Avevo lasciato l’Afghanistan nel 2018. Avevo lasciato un paese devastato dagli attentati dei Talebani che cercavano di destabilizzare il governo. Avevo lasciato un paese dove i clan dei signori della droga si contendevano il dominio sui campi di oppio.

Kabul era un susseguirsi di checkpoint, andirivieni di elicotteri americani, strutture blindate e soldati armati a guardia di banche, ministeri, alberghi. Nonostante questo, nonostante la corruzione dilagante, il paese aveva fatto molti passi in avanti. Molte Ong e compagnie straniere avevano cominciato a investire, le donne erano finalmente più presenti nella politica e nei media, pur rimanendo, quella afghana, una società estremamente patriarcale.

Atterrando a Kabul oggi, la sensazione è surreale. L’aeroporto è semideserto, a parte la presenza massiccia dei Talebani, schierati in ogni angolo. Capelli e barba lunga, uniforme assemblata con capi d’abbigliamento di diverse nazioni, e armi semiautomatiche americane, sono i Talebani a occupare tutti i checkpoint che, prima di agosto 2021, erano presenziati dall’esercito regolare. La bandiera bianca, con la scritta: «Sono testimone che nessuno merita di essere adorato se non Allah, sono testimone che Maometto è il suo profeta», ha ovunque soppiantato il tricolore nazionale afghano.


Articoli

La guerra di Putin – Aggressione e resilienza

Due donne ucraine passano davanti a un carro armato russo fuoriuso e alle macerie di edifici distrutti dall’aggressore nella città di Trostianets (29 marzo 2022). Foto Fadel Senna – AFP.

Per il presidente russo, l’Ucraina «non esiste» come stato autonomo. Un’affermazione smentita dall’incredibile resistenza degli ucraini all’invasione di Mosca. Una guerra – «operazione militare speciale», secondo i russi – che, dal 24 febbraio, ha cambiato il mondo.

Da mesi, la domanda che in tanti si ponevano era: ci sarà una guerra contro l’Ucraina o il presidente russo Vladimir Putin sta solo bluffando? La risposta è arrivata la notte del 24 febbraio, quando i convogli corazzati russi hanno attraversato il confine ucraino e i missili hanno iniziato a colpire prima obiettivi militari e poi civili. Mentre la guerra imperversava sempre più cruenta, tutti hanno cominciato a discutere sul perché. Speculazioni e mezze verità che non hanno senso se non si fa un passo indietro, analizzando il legame morboso che lega la Russia all’Ucraina e a come è nato il conflitto nel Donbass, dimenticato ma in atto da otto anni.

 

Un’accoglienza fuori del comune – Le Queens, regine del campo

Momenti (concitati) di gioco durante una partita. Foto Davide Casali.

In un mondo di relazioni sempre più disumane, una squadra di calcio formata da donne – richiedenti asilo, rifugiate e operatrici sociali – sfida violenza, pregiudizi e maschilismo. Accade a Torino.

In una sera estiva del 2017, in una Torino afosa e deserta, è nata l’idea delle Queens. Una squadra di calcio femminile per dare la possibilità a donne richiedenti asilo e rifugiate, supportate dalle operatrici della cooperativa sociale Progetto Tenda, di andare oltre gli schemi, senza curarsi di ciò che gli altri credevano possibile o impossibile.

 

Incontro con il fotografo Francesco Malavolta – Una foto per cambiare il mondo

Ha incontrato la fotografia per caso. Così come i suoi primi soggetti: i migranti. Ora vede il suo lavoro come una missione. Al centro c’è l’essere umano, con la sua storia. E non come mezzo per fare soldi o diventare famosi.

Francesco Malavolta è un fotogiornalista. Vive a Roma, dove lavora come addetto stampa per un viceministro, ma è originario della Calabria: «Sono nato a Corigliano Calabro, ho vissuto 22 anni a Palermo e ora sono a Roma per lavoro, ma in realtà non sento di appartenere a nessun luogo specifico. Stando sempre in giro, i posti in cui vivo sono come dormitori, appartengo a tutti i mondi che ho raccontato e non a uno in particolare», racconta Francesco.

 

Reu 04. Rifugiati come in famiglia

A Cacém (Lisbona), in Portogallo, una comunità di missionari della Consolata, due sacerdoti, un fratello e tre seminaristi, apre le porte a tre giovani profughi africani accogliendoli in casa. Un’esperienza di missione interculturale e interreligiosa, e di famiglia.

È il 26 giugno 2019. Siamo all’aeroporto di Lisbona per dare il benvenuto a Salim e Ismael, 19 e 20 anni, musulmani del Sudan, sbarcati in Italia due mesi fa, e accolti dal Portogallo.

Sguardi indagatori, strette di mano. Chiedo all’interprete di tradurre in arabo queste parole: «È da tempo che vi aspettiamo. Benvenuti. Se vorrete, la nostra comunità sarà la vostra famiglia».

Nella nostra casa, a Cacém, periferia di Lisbona, in questo momento siamo in sette: tre seminaristi tra i ventisette e i trent’anni, uno colombiano, uno keniano, uno tanzaniano, tutti al quarto anno di teologia, poi ci sono fratel Gerardo Secondino, italiano con quindici anni di Mozambico alle spalle, padre Norberto Ribeiro Louro, un portoghese 84enne (andato il cielo il 25 aprile 2022, ndr) con una lunga storia missionaria, anche lui in Mozambico, un ospite venticinquenne della Guinea Bissau, studente universitario, e chi scrive.

 

Ritornano i colpi di stato militari come soluzioni delle crisi – Salvatori della patria?

(Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)

La crisi sociale si fa sentire in Africa dell’Ovest. E il malcontento della popolazione verso chi governa aumenta. Così i militari tornano in auge, prendono il potere con la forza. E la gente, per ora, applaude. Sarà il declino della democrazia nell’area?

L’Africa Occidentale non fa molto notizia in questi tempi. Eppure, nei suoi 5,12 milioni di km2 (17 volte l’Italia) abitano circa 400 milioni di persone. Dell’area fanno parte i paesi del Sahel (Senegal, Gambia, Mali, Burkina Faso, Niger), zona climatica semi arida, cerniera tra il Sahara e la fascia più umida, e i paesi della costa (Guinea-Bissau, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria).


Rubriche

Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Dalla domanda «Dov’è Dio quando gli uomini sono in guerra?» a quella se nel mondo ci sia «troppa popolazione».
Segue la toccante testimonianza di padre Angelo Casadei dalle rive del fiume Putumayo in Colombia, dove da molti anni è in corso una guerra alimentata da trafficanti di droga e altri interessi.
Si chiude con la notizia della consacrazione di due nuovi ausiliari per la diocesi di Caracas in Venezuela.

 

Esodo 14: Un luogo dove vivere (Es 23,20-24,18)

Il libro dell’Esodo è il racconto dell’uscita d’Israele dalla «casa di schiavitù», dall’Egitto, per diventare un popolo libero. Esso ci mostra che per ottenere tale libertà, non basta essere liberati dall’oppressore, come si scopre strada facendo. Dio, dopo aver portato il popolo nel deserto, gli ha proposto un legame personale definitivo, «sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (la citazione è di Lv 26,12, ma è il senso di Es 19,5-6). Questo legame, che in qualche modo era regolamentato dal decalogo, è stato ripreso e chiarito in modalità che ora vedremo e che ci permetteranno di evidenziare alcuni elementi importanti. Oltre a una terra da cui uscire, infatti, c’era anche bisogno di una terra in cui vivere, e questa è stata promessa, anche se la promessa non riguarda solo la terra, ma allude a tante altre cose.

 

La chiamano economia: Mondo, fabbrica di disuguaglianze

Volti della diseguaglianza. Foto Leroy Skalstad – Pixabay.

Un tempo le disuguaglianze interessavano soprattutto le classi sociali, oggi riguardano anche le nazioni. Allora si riferivano soltanto a reddito e patrimonio, oggi includono anche alcuni parametri ecologici. Con una certezza: i ricchi sono inviolabili. Sempre e ovunque.

L’uguaglianza è una delle aspirazioni più antiche dell’umanità, ma a giudicare da come stanno andando le cose, abbiamo ancora molta strada da fare. L’8 dicembre scorso, a firma del World inequality lab, è uscito il Rapporto 2022 sulle disuguaglianze mondiali e le notizie non sono incoraggianti. Il rapporto certifica che le disuguaglianze vanno crescendo a tutti i livelli. Un tempo ci si limitava ad analizzare le differenze esistenti nella distribuzione del reddito e del patrimonio, con l’esplodere della crisi ambientale si dedica molta attenzione anche alle disparità esistenti nell’ambito dell’impronta di carbonio e, più in generale, di quella ecologica.

 

Perdenti special: Charles de Foucauld: il fratello universale

Tra i modelli presentati da papa Francesco nella recente enciclica Fratelli tutti c’è anche Charles de Foucauld. A conclusione del testo, infatti, lo presenta come «fratello universale»: «Voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al beato Charles de Foucauld. Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”. Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò a essere fratello di tutti».

Quando il Concistoro del 3 maggio 2021 approvò la canonizzazione di Charles de Foucauld, monsignor Paul Desfarges, arcivescovo di Algeri e presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa, disse con gioia: «È un grande giorno per la Chiesa in Algeria. Charles de Foucauld ha un posto di rilievo nella nostra Chiesa. È lui che voleva essere fratello universale, lui che è andato per primo incontro agli altri, lui che si è fatto prossimo. Ed è un po’ la vocazione della nostra Chiesa».

 

Cooperando: Salute mentale, servono dati e risorse

Circa un miliardo di persone nel mondo soffre di disturbi di salute mentale o derivanti dall’uso di alcol e droghe. Eppure, solo una persona su quattro ha la possibilità di accedere a trattamenti adeguati. Il risultato è una perdita significativa di anni di vita in salute e un costo molto elevato per l’economia mondiale. MCOnlus affronta anche questo problema tramite le sue missioni in Costa d’Avorio, Messico e Kenya.

Secondo i dati elaborati Our world in data, il portale di divulgazione scientifica sviluppato dall’università di Oxford, nel 2019 erano 792 milioni le persone che convivevano con un disturbo di salute mentale. Il più comune era l’ansia, che toccava 284 milioni di persone, seguito dalla depressione per 264 milioni; 46 milioni di individui presentavano disturbi dello spettro bipolare, 20 milioni erano affetti da schizofrenia o altre psicosi e 16 milioni avevano disordini alimentari. A questi si aggiungevano poi 107 milioni di persone con disturbi derivanti dall’uso di alcol e 71 milioni dall’uso di droghe, per un totale di poco meno di un miliardo di persone@.

Photo: Oleksandr Ratushniak, UNDP Ukraine

Amico: Basta versare sangue.

Fermatevi. Basta versare sangue. Fermatevi.
Guardate: l’ho versato io per voi.
L’ho già versato io. Al posto vostro. In vostro favore.
«Il mio sangue dell’alleanza» (Mc 14,24): quel patto nuovo che non prevede più la morte di chi lo trasgredisce, ma la vita rinnovata nella riconciliazione.

 

Libri: Un libro che parla di ferite nel cuore della Chiesa e uno di amore

Lo scisma e l’amore. Lo scisma emerso. Un giornalista e una teologa affrontano, senza peli sulla lingua, quella frangia di chiesa che si oppone a Francesco, parlando di scisma.
Amare, voce del verbo... Una giovane laica missionaria parla, mettendo a nudo il suo cuore, del suo grande Amore: quello per Dio e per l’uomo, incontrati nella sua Italia, in Brasile, Benin, Palestina e Thailandia.