Centrafrica. Religioni contro la guerra

Un imam, un pastore e un vescovo in campo per la pace

Centrafrica
Marco Bello

La crisi nel paese inizia a fine 2012. Subito viene propagandata come guerra di religione. Ma i responsabili delle maggiori confessioni non ci stanno. E la visita di papa Francesco sarà determinante. Incontro con il cardinale Dieudonné Nzapalainga.

La Repubblica Centrafricana è un paese ricco (di diamanti, oro, altri minerali e legname), abitato da gente povera o molto povera che non ha accesso ai servizi primari. Situato nel cuore del continente, non ha sbocchi sul mare, e poche strade, mal messe, lo collegano al Golfo di Guinea, attraverso il Camerun.

Il Centrafrica, come viene anche chiamato, ha vissuto anni di guerra intensa, solo recentemente trasformatasi in una «pace precaria».

Gli inizi della crisi

È il dicembre 2012 quando gruppi armati dei paesi confinanti, Sudan e Ciad, attaccano città e villaggi del Nord. Si dicono di fede islamica e si fanno chiamare Seleka.

Nella capitale, Bangui, tre leader religiosi stringono un patto. Creano una piattaforma per la pace. Sono l’arcivescovo cattolico, Diedonné Nzapalainga, il pastore capo Nicolas Guerekoyame-Gbangou e il presidente degli imam Omar Kobine Layama. Tre uomini, tre appartenenze religiose, un unico obiettivo: non fare precipitare il paese in un bagno di sangue.

«Chiarimmo fin da subito che non ci trovavamo assieme per discutere di dogmi o delle nostre divisioni. Il paese era in pericolo, volevamo unire le nostre competenze e intelligenze per salvare delle vite umane». Ci dice mons. Nzapalainga, già intervistato varie volte da MC (cfr. MC maggio 2021), che incontriamo durante una visita in Italia nel mese di maggio.

Il cardinale sta presentando la sua autobiografia, fresca di stampa: «La mia lotta per la pace. A mani nude contro la guerra in Centrafrica», scritto con la giornalista Laurence Desjoyaux, e pubblicato dalla Libreria editrice vaticana.

Il 15 dicembre 2012 i tre capi religiosi fanno una dichiarazione congiunta: «Il nostro paese è uno e indivisibile. È un paese laico. Nella sua storia non ci sono mai state guerre di religione. Siamo sempre vissuti in simbiosi, in armonia. Ci ha sempre caratterizzato l’ospitalità. Ora noi veniamo a sapere che ci si accanisce su esseri umani per ragioni religiose. Noi, leader religiosi, diciamo no! Che nessuno dica che questa è una guerra di religione!». Nasce quel giorno la Piattaforma delle confessioni religiose del Centrafrica, che avrà un ruolo importante per evitare conseguenze del conflitto ancora più disastrose.

Il gruppo inizia subito un lavoro di sensibilizzazione, utilizzando versetti del Corano e della Bibbia, per dimostrare ai fedeli che i libri sacri non vogliono la guerra e ripudiano la violenza.

Ci racconta il cardinale: «L’imam ha cercato nel Corano cosa si dice su pace, perdono e riconciliazione. Il pastore e io stesso lo abbiamo fatto con la Bibbia. Trovati i versetti, ci siamo messi intorno a un tavolo e li abbiamo messi insieme, per proporli ai nostri fedeli. Sono religioni monoteiste rivelate, e ci sono delle parole che ci uniscono. Questo l’ho vissuto sul terreno, nel cuore della crisi».

Una spirale perversa

I gruppi di Seleka, inizialmente, venivano da Sudan e Ciad, non parlavano la lingua locale, il sango, ma l’arabo. Nei territori che occupavano andavano dai musulmani, con i quali riuscivano a capirsi, e si facevano ospitare. Allo stesso tempo depredavano e compivano violazioni e massacri. In primo luogo, contro i non musulmani, ma non solo. Nel frattempo, giovani musulmani centrafricani, si univano ai guerriglieri per motivi di convenienza.

Cristiani e animisti si vedevano perseguitati. I musulmani locali, spesso costretti a ospitare gli invasori, venivano considerati collaborazionisti. Si stava innescando così la spirale della contrapposizione di religione. L’equilibrio tra le comunità di fede diversa in Centrafrica era saltato. Si trattava, nella realtà, di una strumentalizzazione da parte di gruppi, il cui unico obiettivo era prendere il potere. E così avrebbero fatto.

«Se ci siamo levati contro la visione confessionale del conflitto, è perché avevamo l’impressione che ci venisse imposta una narrazione che non corrispondeva alla sociologia religiosa del nostro paese. Da noi le famiglie di religione mista sono numerose, e fino a quel momento ciò non aveva mai posto problema», scrive il cardinale nella sua biografia.

Miliziani anti-Balaka davanti a casa distrutta dai Seleka a circa 300 km a Nord di Bangui, il 25 aprile 2014. AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO

Riconciliazione sul campo

Ma il terzetto non si è limitato a questo. È andato a parlare con il presidente, all’epoca François Bozizé, e poi ha ideato e sperimentato una vera metodologia di riconciliazione.

«Andavamo insieme a parlare con i responsabili di istituzioni, con chi governa, per chiedere loro di disarmare i loro cuori dal desiderio di uccidere», ci racconta il cardinale.

La metodologia di riconciliazione è la seguente. Quando una città o una zona veniva presa d’assalto, vi si recavano fisicamente. Qui si dividevano e ognuno incontrava la propria comunità confessionale. L’obiettivo era ascoltare le ragioni e le recriminazioni di ogni gruppo.

In un momento successivo, si chiedeva a ogni comunità di mandare dieci rappresentanti e si organizzava un incontro delle tre delegazioni con la mediazione dei tre responsabili religiosi. Era la seconda tappa, chiamata ascolto e dialogo, la più delicata.

Nella città di Mobaye, nel Sud del paese, ad esempio, da mesi gli abitanti della città non si parlavano più e si consideravano nemici. Si trattava di mettere a confronto le diverse verità. «Noi responsabili religiosi abbiamo dovuto spingere i relatori a riportare tutto quello che era stato detto nei rispettivi gruppi – dice il cardinale -. Avevano paura». Cardinale, imam e pastore, infatti, dopo l’incontro, sarebbero andati via, e i rappresentanti dei diversi gruppi temevano ritorsioni. «Noi abbiamo insistito, si dovevano superare le parole di circostanza, in modo che la verità fosse manifesta».

Una mediazione di questo tipo è stata efficace a Mobaye, e anche ad Alindao, nel centro.

La terza fase del metodo si realizzava in un grande incontro al mercato, con tutti, in particolare con la presenza dei ribelli. E qui i tre capi religiosi parlavano, cercando di riportare al centro i valori etici di base, come non rubare, non uccidere. «A tutti mostravamo che c’è un’autorità sopra di loro, un’autorità che si chiama Dio. Loro erano potenti signori della guerra. L’avessero voluto avrebbero potuto ucciderci». In effetti nei territori occupati la legge la facevano loro. Era fondamentale incontrarli per il processo di riconciliazione.

In una fase successiva della guerra, quando altri miliziani, gli anti-Balaka, sedicenti cristiani, perseguitavano la popolazione, il terzetto ha potuto parlare direttamente anche con loro. «Nel nostro paese, dove tutti sono credenti, la nostra autorità di capi religiosi è più forte di quella degli uomini in armi».

«Lo scopo delle nostre trasferte era di creare uno spazio di parola perché venissero accolte tutte le sofferenze, si ricostituisse una memoria comune e una comunità, là dov’erano rimasti solo il comunitarismo e le divisioni. Le parole pronunciate e ascoltate in un contesto favorevole permettevano di interrompere il ciclo della vendetta».

Guerra civile

La guerra è continuata con la presa della capitale da parte dei gruppi Seleka, il 24 marzo 2013. Questi hanno proseguito le loro devastazioni, soprattutto a danno dei cristiani. In quel periodo il cardinale Dieudonné interveniva nei vari quartieri di Bangui, quando veniva a conoscenza di qualche attacco a chiese e strutture religiose: «Andavo soprattutto allo scopo di confortare, consolare e rassicurare. Erano i miei preti, i miei operatori pastorali, i miei fedeli, a essere più in pericolo». L’arcivescovo di Bangui si è preso in questo modo molti rischi, ma oggi ci dice: «Quando si fa una scelta, si va fino in fondo. La mia scelta di essere vescovo coincideva con quella di restare con il popolo tutto. Non volevo abbandonare gli altri per salvare la mia vita».

E sono venuti poi gli anti-Balaka, le milizie costituitesi in tutto il paese in reazione ai Seleka, ma anche queste frammentate e prive di ogni controllo. Hanno attaccato la capitale il 5 dicembre 2013 e volevano vendicarsi dei soprusi perpetrati dai Seleka. Monsignor Nzapalainga, sapendo che l’imam Kobin era in forte pericolo, perché i musulmani a quel punto erano i primi a essere nel mirino, è andato a prelevare lui e la famiglia e li ha ospitati per mesi nell’arcidiocesi. «Anche la nostra vicinanza si traduceva in una testimonianza».

Intanto, gruppi di Seleka erano presenti, e la guerra civile è dilagata, in capitale e nel resto del paese.

Papa Francesco a Bangui. (Photo by GIANLUIGI GUERCIA / AFP)

Il Papa a Bangui

Monsignor Nzapalainga ha organizzato una visita della Piattaforma delle confessioni religiose a Roma da papa Francesco. Lui, insieme all’imam Kobin e al pastore Nicolas, in udienza dal papa gli hanno chiesto di recarsi a Bangui, per portare la pace.

Papa Francesco ha deciso di aprire il Giubileo della Misericordia in Centrafrica. La data della visita è stata fissata per fine novembre 2015.

Fino a pochi giorni prima, checkpoint erano presenti sul percorso previsto per la papamobile. In città si sparava, in particolare nel quartiere Pk5, una specie di ghetto dove si erano isolati i musulmani della capitale.

Per Nzapalainga e i suoi, l’organizzazione della visita è stata complicatissima.

Il papa è arrivato il 29 novembre. Ha visitato prima i fratelli protestanti, poi ha aperto la porta Santa della Misericordia, alla cattedrale di Bangui, e infine ha compiuto una memorabile visita ai musulmani, al quartiere Pk5. Qui ha pregato con l’imam in moschea. Per il cardinale, è stato l’inizio della pacificazione del paese.

Monsignor Nzapalainga ricorda: «Umanamente, militarmente e diplomaticamente, non era possibile che il papa aprisse un giubileo a Bangui. Quello che ha fatto è stato un atto di fede. È venuto in un paese in guerra, dove alla vigilia si uccideva. La sua venuta ha avuto l’effetto di unire tutte le comunità. È andato dai protestanti, dai musulmani. Molti musulmani hanno preso coraggio e sono usciti dal loro quartiere.

L’apertura della porta della cattedrale è stata simbolica del fatto che eravamo chiusi in noi stessi, non volevamo accogliere, non volevamo ricevere, ascoltare l’altro. Era la guerra che ci paralizzava, ci chiudeva in una prigione. Il papa è venuto ad aprire la porta del nostro cuore, della fraternità e del perdono verso gli altri. Questo gesto è rimasto in noi, e oserei dire che Bangui è diventata capitale spirituale del mondo.

Noi, musulmani, protestanti e cattolici, ci siamo detti: “Questo è il messaggio di un uomo di Dio che ci invita a vivere la nostra spiritualità”. È stata l’inizio della salvezza per il popolo centrafricano».

Papa Francesco con l’Imam Nehedid Tidjani a Bangui il 30 Novembre 2015. (Photo by GIUSEPPE CACACE / AFP)

Ucraina, un’altra guerra

Chiediamo a monsignor Nzapalainga cosa pensa della guerra in Ucraina.

«Non auguro una guerra a nessuno e a nessun popolo. Quando arriva è la distruzione, la sofferenza, la morte. Dio ci ha creati per la vita e per vivere insieme. Ma ascolto sovente alla televisione dire che bisogna dare più armi agli ucraini perché si possano difendere; invece, non sento dire che bisogna toccare i cuori degli uomini e delle donne che hanno preso le armi affinché possano vedere gli altri come fratelli e sorelle.

Si dice, dopo la guerra ci sarà la pace, ma non possiamo invece economizzare vite e distruzioni, evitando la guerra? Uomini e donne di pace usano un linguaggio diverso da quello delle armi.

È fondamentale che i protagonisti possano vedersi in faccia, possano discutere, negoziare, trovare un compromesso. È così che avremo un inizio di soluzione». Nzapalainga porta a confronto la sua esperienza: «Io sono andato a discutere con i ribelli, con i nemici, per dire loro di deporre le armi. Bisogna trattare con i nemici. Mi auguro che succeda anche per questo conflitto, che si vada verso una situazione di pace».

Russi e rwandesi

Dopo un breve periodo di calma, a inizio 2016, durante il quale sono state realizzate le elezioni che hanno portato alla presidenza Faustin-Archange Touadera, i gruppi ribelli, riorganizzati sotto altre forme, hanno ripreso a combattersi. A fine 2016 il contingente francese dell’operazione Sangaris, presente dall’inizio della crisi, è stato ritirato.

A loro sono subentrati mercenari russi, come il gruppo Wagner e, infine, il Rwanda, con il suo esercito, sempre interessato a estendere la propria influenza nei paesi ricchi di minerali preziosi. Entrambi gli interventi sono stati sollecitati da Touadera, nel 2020 (cfr. MC maggio 2021, pag. 57). Il presidente è stato poi rieletto a gennaio 2021 per un secondo mandato. Nel frattempo la guerra è continuata, ma l’intervento di questi due attori esterni in appoggio all’esercito regolare ha ribaltato la situazione. Oggi il governo controlla l’80% del territorio, e il restante 20% è in mano ai ribelli. Prima era l’esatto contrario.

Il cardinale vede oggi qualche segno di speranza nel paese, ma ci conferma che si tratta di una situazione molto precaria.

Marco Bello

Archivio MC

Ribelli, mercenari ed eserciti, Marco Bello, maggio 2021.
Solo Dio può salvare il Centrafrica, Federico Trinchero, agosto 2018.

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