Salute mentale, servono dati e risorse


Circa un miliardo di persone nel mondo soffre di disturbi di salute mentale o derivanti dall’uso di alcol e droghe. Eppure, solo una persona su quattro ha la possibilità di accedere a trattamenti adeguati. Il risultato è una perdita significativa di anni di vita in salute e un costo molto elevato per l’economia mondiale. MConlus affronta anche questo problema tramite le sue missioni in Costa d’Avorio, Messico e Kenya.

Secondo i dati elaborati Our world in data, il portale di divulgazione scientifica sviluppato dall’università di Oxford, nel 2019 erano 792 milioni le persone che convivevano con un disturbo di salute mentale. Il più comune era l’ansia, che toccava 284 milioni di persone, seguito dalla depressione per 264 milioni; 46 milioni di individui presentavano disturbi dello spettro bipolare, 20 milioni erano affetti da schizofrenia o altre psicosi e 16 milioni avevano disordini alimentari. A questi si aggiungevano poi 107 milioni di persone con disturbi derivanti dall’uso di alcol e 71 milioni dall’uso di droghe, per un totale di poco meno di un miliardo di persone@.

I dati, chiarisce il portale, vengono dall’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington, a Seattle (Usa), il cui studio Global burden of disease (Gbd) ha indagato gli effetti di 290 malattie e 67 fattori di rischio nel mondo. Il Gbd@ è uno dei principali punti di riferimento per gli studi sulla salute mentale, ampiamente citato e utilizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tuttavia, gli stessi ricercatori che lo hanno realizzato segnalano che su questo tema i dati sono spesso lacunosi e raccolti in modo disomogeneo, specialmente quando riguardano i paesi a medio e basso reddito. Di conseguenza, in particolar modo in quei paesi, l’ampiezza del fenomeno è probabilmente sottostimata.

La pandemia da Covid-19, calcola inoltre l’Ihme, ha indotto un aumento dei casi di ansia (+76,2 milioni) e depressione grave (+53,2 milioni), colpendo in modo particolare le donne e i più giovani@.

Malato mentale chiuso in gabbia nelle Filippine.

Anni di vita persi e risorse insufficienti

Le persone con problemi di salute mentale gravi, sottolinea l’Oms sulla sua pagina dedicata alla salute mentale, muoiono prematuramente – anche con vent’anni di anticipo – a causa di malattie prevenibili e la depressione è una delle principali cause di disabilità.

L’aspetto della disabilità e degli anni vissuti in meno, precisa Our world in data, è molto importante, perché permette di cogliere l’impatto che questi disturbi hanno sulla salute in modo più dettagliato di quanto non sia possibile fare limitandosi solo ai decessi. In particolare, permette di cogliere il cosiddetto «carico di malattia» (disease burden) misurato in anni di vita corretta per disabilità (Daly, o Disability-adjusted life year), cioè la somma del numero di anni persi a causa di malattia o disabilità più quelli persi per morte prematura.

Utilizzando questo indicatore, i disturbi legati alla salute mentale rappresentano il 5% del carico globale di malattia e sono responsabili del 14% degli anni vissuti con malattia o disabilità@.

I problemi di salute mentale non risparmiano gli adolescenti: uno su cinque soffre di questi disturbi e il suicidio è la seconda causa di morte fra le persone fra i 15 e i 29 anni. Anche nelle situazioni post-conflitto la proporzione di persone con un problema di salute mentale è di una ogni cinque. Il costo per l’economia mondiale dei due disturbi più diffusi, l’ansia e la depressione, è quantificato in circa mille miliardi di dollari l’anno@.

Nonostante questi dati, la spesa media per la salute mentale è di circa il 2% al livello globale e anche nell’aiuto pubblico allo sviluppo la quota destinata ad affrontare questo tema non va oltre l’1% dell’aiuto destinato al settore sanitario (che a sua volta è una frazione di quello totale). Tre quarti delle persone affette da uno di questi disturbi non ricevono alcun trattamento e, anzi, si trovano spesso a vivere in contesti in cui pregiudizio, violazioni dei diritti umani, stigmatizzazione e leggi del tutto inadeguate rendono ancora più difficile la loro situazione.

Incontro di formazione a Guadalajara, Messico

La salute mentale e lo stigma

Diversi reportage negli ultimi anni hanno descritto le condizioni in cui sono spesso costrette a vivere le persone affette da questi disturbi nei paesi a basso reddito@: la pratica di incatenare i malati e di confinarli in luoghi come i prayer camps, i campi di preghiera, è una violazione dei diritti umani e peggiora la loro condizione. Anche questa rivista ha raccontato nel 2018 uno degli sforzi di fornire un’assistenza adeguata alle persone con disagio mentale e diffondere la conoscenza del problema in alcuni paesi dell’Africa Occidentale (vedi MC 8-9/2018, Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon).

Priorità: salute mentale

Oggi, nel centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata hanno avviato un servizio di assistenza per le persone con disturbi di salute mentale che il responsabile, padre Matteo Pettinari, progetta di far diventare un giorno un vero e proprio centro diurno.

Uno dei vantaggi di un servizio come questo è poter distinguere fra disturbi di salute mentale, malattie neurologiche e patologie che non hanno nulla a che fare con le due condizioni precedenti. Operare questa distinzione è particolarmente importante nel caso di un disturbo cronico del cervello come l’epilessia@, la cui comprensione in paesi come quelli africani è tuttora inficiata da superstizioni e stigmatizzazione.

Padre Matteo riporta il caso di un giovane preso in carico dal centro di salute di Dianra: «Étienne ha l’epilessia, ma purtroppo qui non è stata subito riconosciuta come tale e, anzi, è stata interpretata come un problema di interferenza con il mondo degli spiriti e altre letture di questo genere, che affondano le proprie radici nella tradizione culturale e nella cosmovisione del popolo senoufo. Per questo la famiglia lo ha progressivamente ritirato dalla scuola e portato da diversi guaritori, che sono intervenuti sulla dieta togliendo la carne o i legumi, senza ovviamente ottenere miglioramenti. Il nostro centro di salute è riuscito a intercettare il suo bisogno di assistenza e inserirlo in un programma che prevede il trattamento farmacologico. Ora Étienne riesce a gestire il piccolo punto ristoro del centro sanitario e ad avere una vita comparabile con quella di persone non affette da questa malattia, ricavando anche un reddito che lo rende economicamente indipendente. Inoltre, adesso ha un contesto di relazioni che lo sostengono, liberandolo dall’isolamento al quale sono spesso condannate le persone nella sua situazione».

Il dispensario di Dianrà, in Costa D’Avorio

La salute mentale e il conflitto

Lo scorso 29 marzo padre Ramón Lázaro Esnaola condivideva via Telegram dal Messico una notizia apparsa in un articolo sul sito di una radio di Guadalajara: nei primi tre mesi del 2022, nello stato di Jalisco c’è stato un solo giorno senza omicidi, il 23 marzo. Le statistiche del governo federale, continuava l’articolo, rivelano che dal 1° gennaio al 27 marzo c’erano stati 364 omicidi dolosi, 4,23 al giorno in media@. In Italia, nello stesso periodo gli omicidi sono stati 67@.

Secondo un’indagine dell’Istituto nazionale di statistica del Messico (Inegi) effettuata su un campione di 27mila abitazioni, il 39,6% degli intervistati di 18 o più anni dichiara di aver sentito spari frequenti di arma da fuoco nei pressi della propria abitazione nell’ultimo trimestre del 2021@.

Servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

Alla tensione e violenza generalizzata si aggiunge poi la violenza domestica: sempre l’istituto nazionale di statistica riporta in uno studio del 2016 realizzato su oltre 142mila case che una donna su quattro di età superiore ai 15 anni aveva subito una forma di violenza – fisica, emotiva, sessuale – da parte del partner negli ultimi 12 mesi (il dato saliva al 43% considerando tutta la vita); oltre una su cinque riportava che le violenze avevano avuto luogo nell’ambiente di lavoro, il 17,4% in  ambito scolastico e il 10% in ambito familiare escludendo il compagno, quindi da parte di fratelli, sorelle, padri, madri, patrigni, matrigne e altri parenti@.

In un contesto come questo, gli interventi che i missionari della Consolata stanno mettendo in atto cercano di fornire alle persone alcuni strumenti che permettano loro di affrontare le situazioni di violenza e i lutti. In particolare, riporta padre Ramón nella relazione sul progetto finanziato dagli Amici di Missioni Consolata con la raccolta fondi del 2020@, nei laboratori proposti nel corso del progetto si è lavorato sull’identificare «situazioni che generano squilibri emotivi, modelli, convinzioni che hanno causato la perdita di autostima», incoraggiando la conoscenza di sé e lo sforzo di basare il proprio processo decisionale su motivazioni razionali e non impulsive, mentre i laboratori più specifici sulla perdita e sul lutto sono previsti entro la fine di quest’anno.

Quanto alla risposta delle autorità sanitarie pubbliche, riferisce sempre dal Messico padre Alex Conti, il Sistema nazionale per lo sviluppo integrale delle famiglie «è presente in ogni comune e fornisce assistenza psicologica a costi accettabili, anche se non pubblicizza molto il servizio. Un servizio di assistenza psicologica è presente anche in molte parrocchie».

Dal 2018 vi è poi una legge, la Nom 035, per la «prevenzione dei fattori di rischio psicosociale, ovvero quegli elementi in un ambiente di lavoro che possono rappresentare un rischio per la salute mentale delle persone, come orari lunghi, sovraccarico di lavoro, leadership negativa e mancanza di controllo sul lavoro, tra gli altri. Questo regolamento è obbligatorio per tutti i luoghi di lavoro», ma secondo il quotidiano El Economista solo un terzo delle imprese ha applicato la legge in tutti i suoi aspetti@.

«Gli psicologi professionisti privati forniscono assistenza a costi variabili che vanno dai 300 pesos (circa 13,54 euro) in periferia e dagli 800 ai 1.200 (36-54 euro) in città per le persone dei ceti più ricchi. Uno dei problemi è che gli assistiti spesso non hanno costanza e, nel caso di quelli meno abbienti, danno priorità ad altre spese».

Formazione di operatori per il nuovo servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

la cittadella psichiatrica a Nairobi

Lo scorso novembre il quotidiano Avvenire riportava la notizia della firma di un memorandum d’intesa fra il governo keniano del presidente Uhuru Kenyatta e Gksd, «una partecipata del Gruppo San Donato che gestisce in Italia 17 ospedali privati in convenzione col Servizio sanitario nazionale, tra cui eccellenze come il San Raffaele di Milano». L’intesa dovrebbe portare alla costruzione, su una superficie di 80 ettari, di un complesso per la salute mentale, il Mathari Mental Hub, in grado di ospitare fino 600 pazienti assistiti da 1.100 membri dello staff fra medici e tecnici. Si tratterebbe di un «polo d’eccellenza di salute mentale – pubblica e gratuita – non solo per il Kenya, ma per tutta l’Africa Centrale»@.

Anche solo dalla città di Nairobi non mancherebbero gli utenti: una ricerca sulle sex workers di Nairobi, disponibile sul sito della Cambridge University Press, ha riportato che su 1.039 persone, di età media pari a 33,7 anni, che hanno preso parte allo studio, circa una su quattro soffriva di depressione moderata/grave, una su dieci d’ansia moderata o grave, il 14% di disturbo da stress post traumatico e il 10,2% segnalava un comportamento suicidario recente: un tentativo di suicidio nel 2,6% dei casi e ideazione suicidaria nel 10%. Tra le donne con disturbi di salute mentale, circa due su tre hanno avuto anche un problema da abuso di alcol o droghe@.

Chiara Giovetti




Basta versare sangue


Fermatevi. Basta versare sangue. Fermatevi. Guardate: l’ho versato io per voi. L’ho già versato io. Al posto vostro. In vostro favore. «Il mio sangue dell’alleanza» (Mc 14,24): quel patto nuovo che non prevede più la morte di chi lo trasgredisce, ma la vita rinnovata nella riconciliazione.

Fermatevi, voi che avete violato il patto: io mi dò a voi per legarvi a me.

Non lasciate più che la paura vi abiti. La vostra vita è custodita dalle mani premurose del Padre, radunata dal Figlio, sollevata dalla brezza mattutina dello Spirito.

Se tutto vi è dato, non c’è niente che dobbiate difendere.

Se la vita è tanto sovrabbondante da essere eterna, che bisogno avete di conquistarvi anche solo un minuto in più?

Smettete di lottare allo scopo di non morire. Lottate invece per vivere. Perché la vita piena che vi è data sia rivelata al mondo.

Fermatevi, voi, che per inganno o costrizione spezzate i vostri corpi mentre spezzate i corpi altrui. Fermatevi, voi, che mandate al massacro gli altri per i vostri interessi, o forse per vincere il terrore dell’abisso sul quale state in equilibrio.

Basta spezzare corpi. Mi sono spezzato io per voi.

Le vostre mani, piuttosto, siano telai che tessono fraternità con i fili divini dell’umanità.

Amico

Luca Lorusso


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Un libro che parla di ferite nel cuore della Chiesa e uno di amore


Lo scisma e l’amore

Un giornalista e una teologa affrontano, senza peli sulla lingua, quella frangia di chiesa che si oppone a Francesco, parlando di scisma.

Una giovane laica missionaria parla, mettendo a nudo il suo cuore, del suo grande Amore: quello per Dio e per l’uomo, incontrati nella sua Italia, in Brasile, Benin, Palestina e Thailandia.

Lo scisma emerso

Si intitola Lo scisma emerso. Conflitti, lacerazioni e silenzi nella Chiesa del Terzo Millennio. Lo hanno scritto il giornalista Francesco Antonioli e la teologa Laura Verrani, ed è stato pubblicato in febbraio da Edizioni Terra Santa (dimostrando coraggio).

Il titolo è la perfetta sinossi di quanto hanno raccolto i due autori nelle 250 pagine del volume. Il mix è intrigante, da una parte c’è Antonioli che è un giornalista professionista dal curriculum importante e da sempre attento anche alle «cose di Chiesa»; dall’altra c’è Verrani, una teologa che da oltre venti anni si occupa di catechesi biblica. I loro saperi e i loro stili si fondono e raccontano, forse per la prima volta con così grande nettezza, ciò che purtroppo è sotto gli occhi di tutta la comunità ecclesiale: la spaccatura creata, nella Chiesa di Francesco, dall’ostilità di quella parte cosiddetta «tradizionalista», minoritaria, ma rumorosa. «Basta, chiamiamo le cose con il loro nome – si legge a pagina 13 -. E pronunciamole: senza il timore di tacere. È ben radicata una prassi corrosiva, nella Chiesa cattolica, che nasce dall’abitudine di edulcorare la verità, soprattutto quando risulta spiacevole o in grado di cambiare lo status quo». La vecchia abitudine dell’essere umano di accumulare polvere sotto il tappeto sta producendo danni enormi alla comunità ecclesiale. Dall’uso disinvolto del denaro, al recente caso torinese delle «vocazioni forzate», dalle discriminazioni di genere, agli abusi psicologici e sessuali, gli autori ricostruiscono la cronaca, ma danno anche una lettura di prospettiva, Vangelo alla mano.

La domanda di fondo offerta dal libro è: vista la spaccatura interna alla Chiesa, aperta anche dalla pessima abitudine di non dare i nomi giusti alle cose, quale Chiesa vogliono i cattolici? «Questa frattura profonda – scrivono gli autori – non è uno degli effetti della cosiddetta secolarizzazione. Per lo meno: anche, ma soltanto in parte. Il punto è che la pandemia […] ha divaricato ulteriormente le posizioni da quando, nel 2013, è salito al soglio pontificio Jorge
Mario Bergoglio. Una divaricazione sempre più evidente e graffiante. È questa la Chiesa del Vangelo? È questo il futuro della presenza dei cattolici nella società civile?».

Lo scisma emerso è una lettura che scorre veloce, non è per addetti ai lavori, per amanti delle analisi in filigrana, ma per tutti coloro che vivono e si muovono all’interno della comunità, credenti e non. Inevitabilmente è una lettura che lascia un po’ di amaro in bocca, ma tanto Laura Verrani quanto Francesco Antonioli, come si evince chiaramente dalla lettura del loro lavoro, non hanno alcuna intenzione di picconare una casa pericolante che sentono in tutto e per tutto anche la loro, anzi: «La Chiesa sta vivendo per la prima volta una chiamata al confronto sinodale capillare – scrivono -. Bisogna dirci ciò che non funziona. Senza livore, polemiche o anticlericalismo pregiudiziali. È invece proprio in quanto credenti e sinceramente appartenenti alla Chiesa che riteniamo importante mettere sul tavolo le questioni».


Amare, voce del verbo…

Nel febbraio scorso è uscita anche una piccola chicca che vale davvero la pena segnalare: Amare, voce del verbo… Come esperienze e vite intrecciate mi hanno fatto conoscere l’Amore, libro d’esordio della giovanissima Maristella Tommaso per le Edizioni San Paolo.

Nata a Conversano (Ba) ventotto anni fa, Maristella è stata segretaria regionale di Missio Giovani Puglia. Ora vive a Torino, è membro della Consulta del Centro missionario dell’arcidiocesi e collabora per la formazione missionaria dei giovani. Quella di Maristella
Tommaso è una riflessione ad alta voce, un mettere nero su bianco un flusso di parole che pone al centro di tutto l’Amore. Già, quello con la A maiuscola. Quell’Amore che si è fatto carne, il Verbo, e che è venuto in mezzo a noi. Gesù.

Non stupisca che l’autrice si sia spinta così avanti (o in alto): il suo non è un trattato teologico, né ha velleità filosofiche. Piuttosto è un percorso di scoperta di sé e di quell’Amore percepito con chiarezza, nel quale ha un peso determinante la missione, il tempo trascorso in Brasile, Benin, Palestina e Thailandia.

«Sono stata fortunata e lo dico spesso – scrive -. Sono sempre stata circondata da persone meravigliose che mi hanno rivelato l’Amore. L’Amore che si incarna, che si spoglia, che si fa povero con i poveri, che ci accarezza con tenerezza, ci sostiene e ci libera. L’Amore che si fa uomo e che cammina insieme a noi, che si fa strada, silenzio, speranza. L’Amore che ci spinge ad andare, a tendere verso gli altri, a prenderli per mano, che ci sprona a migliorare, che alimenta il nostro entusiasmo, che ci fa uscire per le strade e si fa presente negli occhi che incrociamo, nelle mani che stringiamo, nei volti che accarezziamo, nei piedi di chi decide di fare un pezzo di strada insieme a noi».

Un inno alla speranza in tempi che sembrano, forse per la prima volta da decenni a questa parte, davvero bui.

L’autrice traccia anche una piccola personale road map, un sentiero lessicale che ha ricostruito per dare senso e profondità alla voce del verbo amare. Tredici capitoli per declinare quel verbo in altrettanti verbi all’infinito: proteggere, attendere, camminare, stare, perdonare, vivere, sorridere, cadere, guarire, liberare, risorgere, (r)esistere, sognare.

In ogni capitolo c’è la vita vissuta di Maristella: gli incontri, le sofferenze, le rinascite, la fede, i dubbi. Racconta tutto con naturalezza e semplicità, accompagnando il lettore in un cammino di scoperta che, partendo dall’autrice, diventa, in qualche modo, corale.

«Siate sentieri, lasciatevi percorrere. Siate mani sempre spalancate che sappiano accogliere qualsiasi cosa come un dono, sappiano accarezzare e sappiano donare. Siate sorrisi in un mondo in cui, purtroppo, regnano l’odio, l’indifferenza, il razzismo, l’egoismo. Siate piedi per chi ha paura di cambiare strada, di camminare e di percorrere sempre insieme agli altri le strade che Dio vi metterà davanti. Siate occhi capaci di guardare oltre, capaci di oltrepassare muri, capaci di innamorarsi ancora, ancora e ancora. Siate costruttori di pace… innalzate ponti e abbiate sempre il cuore aperto al mondo. […] Quando vi dicono che siete il futuro non ci credete, voi siete il presente! Il presente. Impegnatevi oggi. Amate oggi. Sporcatevi le mani. Metteteci la faccia, ma oggi».

 




Charles de Foucauld: il fratello universale


Tra i modelli presentati da papa Francesco nella recente enciclica Fratelli tutti c’è anche Charles de Foucauld. A conclusione del testo, infatti, lo presenta come «fratello universale»: «Voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al beato Charles de Foucauld. Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”. Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò a essere fratello di tutti».

Quando il Concistoro del 3 maggio 2021 approvò la canonizzazione di Charles de Foucauld, monsignor Paul Desfarges, arcivescovo di Algeri e presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa, disse con gioia: «È un grande giorno per la Chiesa in Algeria. Charles de Foucauld ha un posto di rilievo nella nostra Chiesa. È lui che voleva essere fratello universale, lui che è andato per primo incontro agli altri, lui che si è fatto prossimo. Ed è un po’ la vocazione della nostra Chiesa».

Militare controvoglia

Charles de Foucauld (Fratel Carlo di Gesù) nasce a Strasburgo, in Francia, il 15 settembre 1858. Rampollo di una famiglia nobile, militare e cattolica, viene battezzato due giorni dopo la nascita. A soli 6 anni perde entrambi i genitori. Insieme a sua sorella Marie è preso in cura dal nonno materno Charles-Gabriel de Morlet, del quale seguirà la carriera militare. Il 28 aprile 1872, riceve la prima comunione e la confermazione. Intelligentissimo, presto perde la fede e s’immerge in una vita mondana gaudente e di disordine che però lo lascia insoddisfatto.

Entra nella Scuola militare di Saint-Cyr e di Saumur, diventando sottotenente di cavalleria, ma si annoia infinitamente. Conosciuto come amante del piacere e della vita facile, viene cacciato dall’esercito per cattiva condotta. A venti anni muore il nonno e si ritrova solo, padrone di un immenso patrimonio.

Mio Dio, se esisti, fa’ che ti conosca

Nel 1882 si dimette dall’esercito e, dopo aver rinunciato al matrimonio con una ragazza protestante, intraprende una pericolosa esplorazione in Marocco (1883-1884) con l’aiuto del rabbino Mardocheo, e per questo otterrà una medaglia d’oro dalla Società di geografia di Parigi.

La scoperta della fede musulmana, la ricerca interiore della verità, la bontà e l’amicizia discreta della cugina Marie de Bondy, e l’aiuto dell’abbé Huvelin, gli faranno riscoprire la fede cristiana.

Cerca di conoscere Dio ripetendo una «strana invocazione: “Mio Dio, se esisti, fa’ che ti conosca”». All’amico Henry de Castries, nella lettera del 14 agosto 1901, racconta come debba proprio all’Islam il risveglio della fede «morta» durante dodici anni, e di come fosse attirato dalla «semplicità del dogma» del monoteismo musulmano e perciò anche dalla «semplicità» della sua gerarchia e della sua morale (Lettere a Henry de Castries [LHC], 94).

A fine ottobre 1886, mentre a Parigi redige «Ricognizione in Marocco», incontra l’abbé Henry Huvelin nella chiesa di Sant’Agostino, e la sua vita cambia radicalmente. «Non appena credetti che c’era un Dio, ho capito che non potevo far altro che vivere per Lui solo» (LHC, 96-97). Ha 28 anni.

A partire da quel momento il Vangelo diventerà il libro di riferimento per conoscere Gesù e per imitarlo, mentre l’abbé Huvelin resterà «il padre e la guida» fino alla sua morte.

Come un viaggiatore nella notte

(Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Conquistato dall’idea di abbandonarsi a Dio realizzando sempre la sua volontà, fratel Carlo proverà vari itinerari di santità, come un viaggiatore nel buio della notte, alla costante ricerca della sua vera vocazione.

In un pellegrinaggio in Terra Santa, consigliatogli dall’abbé Huvelin, Charles approfondisce la sua chiamata: seguire e imitare Gesù nella vita nascosta di Nazareth, perché «l’amore ha per primo effetto l’imitazione». Poi, attratto dalla vita monastica, il 15 gennaio 1890 entra nella Trappa di Nôtre-Dame des Neiges (nel Sud della Francia), prendendo il nome di fratel Maria Alberico. Il desiderio di vivere una povertà più radicale lo porta in Siria, nella Trappa di Nostra Signora del Sacro Cuore, dove però non trova quello che cerca. Vi dimora per sette anni, lasciandosi formare alla scuola monastica e cercando l’imitazione più perfetta di Gesù vivente a Nazareth.

Poi chiede di lasciare la trappa per andare a Nazareth, e si stabilisce come domestico presso le Clarisse, vivendo in una capanna, nella povertà e nel nascondimento. «Gesù ti ha stabilito per sempre nella vita di Nazareth: niente vestito particolare, come Gesù a Nazareth; non meno di otto ore di lavoro al giorno, come Gesù a Nazareth. La tua vita di Nazareth può essere condotta dappertutto: vivila nel luogo più utile al prossimo».

A Nazareth, su consiglio dell’abbé Huvelin, medita e studia il Vangelo, per conoscere Gesù, e diventare cristiforme: «Non posso concepire l’amore senza un bisogno, un bisogno imperioso di conformità, di somiglianza e soprattutto di partecipazione a ogni pena, ogni difficoltà, ogni asprezza della vita».

Compone con cura un opuscoletto intitolato Il modello unico, breve sintesi del Vangelo, che porterà anche nel Sahara. Sarà per lui come uno specchio nel quale riflettersi per ritrovare i tratti del proprio volto in quelli del volto di Gesù.

Oltre al Vangelo, fa anche dell’Eucarestia un pilastro della sua spiritualità. La celebrazione e l’adorazione eucaristica non sono per lui una semplice liturgia, ma una forma di vita.

Essere dove Dio ci vuole

Nel servizio, nel lavoro umilissimo, nella meditazione del Vangelo ai piedi del tabernacolo, fratel Charles cerca di vivere «l’esistenza umile e oscura del divino operaio di Nazareth», come piccolo fratello di Gesù nella santa casa di Nazareth tra Maria e Giuseppe.

Nazaret, Basilica dell’ annunciazione, chiesa inferiore, grotta sacra

A Nazareth scopre anche il mistero della Visitazione come un nuovo modo di fare missione e di trasmettere la fede. Si propone di partecipare all’opera della salvezza imitando «la Santa Vergine nel mistero della Visitazione, portando come lei, in silenzio, Gesù e la pratica delle virtù evangeliche tra i popoli infedeli».

Ed è ancora a Nazareth che comprende che fare la volontà di Dio vuol dire: «Essere dove Dio ci vuole, fare ciò che Dio vuole da noi, nello stato dove lui ci chiama; pensare, parlare, agire come Gesù avrebbe pensato, parlato, agito, se il Padre suo lo avesse messo in quel particolare stato».

Madre Elisabetta, badessa del convento delle Clarisse di Gerusalemme, lo convince a diventare prete per «fare» il maggior bene delle anime.

Dopo un’adeguata preparazione e gli studi di teologia a Roma, viene ordinato sacerdote a 43 anni (1901) nella cappella del seminario di Viviers, in Francia. Gli viene dato il permesso di abitare nel Sahara. «I miei ritiri di diaconato e di sacerdozio mi hanno mostrato che questa vita di Nazareth, che mi sembrava essere la mia vocazione, bisognava viverla non in Terra Santa, tanto amata, ma tra le anime le più ammalate, le pecore le più abbandonate». «Portare Gesù in silenzio presso i popoli infedeli e santificarli con la presenza del santo tabernacolo, come la Vergine Santissima santificò la casa di Giovanni portandovi Gesù».

Missionario monaco

Col passare del tempo, Charles prende sempre più coscienza che «la mia vita non è quella di un missionario, ma quella di un eremita» (LHC, 28/10/1905). «Io sono monaco, non missionario, fatto per il silenzio, non per la parola» (Lettera a mons. Guérin, 02/07/1907).

Vive solitario in Algeria, allora colonia francese, mettendosi al servizio del prefetto apostolico del Sahara, monsignor Charles Guérin, stabilendosi a Beni Abbès (1901-1904), oasi di settemila palme, dove costruisce il suo eremo, che chiama la Fraternità del Sacro Cuore. Lì cercherà di portare a Cristo tutti gli uomini che incontra «non con le parole, ma con la presenza del Ss. Sacramento, l’offerta del divin sacrificio, la preghiera, la penitenza, la pratica delle virtù evangeliche, la carità, una carità fraterna e universale, condividendo fino all’ultimo boccone di pane con ogni povero, ogni ospite, ogni sconosciuto che si presenti e ricevendo ogni uomo come un fratello benamato».

Per questa sua attività caritatevole sarà chiamato: le marabout (santone musulmano, ndr.), «nome che già tutti gli indigeni mi danno; io mi trovo benissimo con loro, essi del resto sono bravissima gente».

Il sogno di Beni Abbès è proprio quello di una fratellanza universale: «Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani e ebrei e idolatri a guardarmi come loro fratello – il fratello universale. Essi cominciano a chiamare la casa: la fraternità (khawa in arabo) e questo mi è caro» (lettera a Marie de Bondy, 07/02/1902).

Fratel Charles desidera fortemente condividere la missione con un compagno, anche per garantire la continuità dell’opera. A tale scopo prepara il regolamento dei Piccoli fratelli del Sacro Cuore di Gesù e, in seguito, il regolamento delle Piccole sorelle del Sacro Cuore di Gesù (che saranno poi fondati nel 1933, ndr). Compirà tre viaggi in Francia alla ricerca di qualche sacerdote disposto a vivere con lui l’esperienza eremitica nel deserto, senza sucesso.

A Beni Abbès è scosso dal fenomeno «vergognoso» della schiavitù, tollerata, se non favorita, anche dalle autorità militari francesi. Scrive lettere indignate ai superiori ecclesiastici, ad amici e parenti influenti, religiosi e laici, per ottenere che una simile ingiustizia venga estirpata definitivamente. Il 9 gennaio 1902 riscatta il primo schiavo, che chiama Giuseppe del Sacro Cuore, e ne riscatterà altri in seguito. In una lettera scritta a liberazione avvenuta afferma: «Oggi è uno dei giorni più belli della mia vita: per la prima volta ho potuto riscattare uno schiavo; non senza fatica, con l’aiuto di san Giuseppe al quale avevo affidato l’opera, questa sera sono riuscito a rendere la libertà a un povero ragazzo del Sudan strappato alla sua famiglia 4 o 5 anni fa» (lettera a dom Martin, 09/01/1902).

Gridare il vangelo con la vita

«Gridare il Vangelo con la vita», per Charles de Foucauld significa imitare Gesù, testimoniandolo nella quotidianità con la propria esistenza.

Dopo lunghe esitazioni, accetta l’invito del comandante François-Henry Laperrine ad accompagnarlo nell’Hoggar per pacificare i Tuareg, recentemente sottomessi alla Francia. Nel marzo 1904, seguendo le guarnigioni francesi di stanza in Algeria, si spinge nel deserto fino al villaggio di Tamanrasset, scegliendo un nome col quale Arabi e Tuareg lo possano designare: si chiamerà Abd-Isa, che significa servo di Gesù.

Ci va convinto che la sua missione non è quella di convertire, ma piuttosto quella di compiere un lavoro preparatorio alla evangelizzazione. «Senza predicare, bensì imparando la lingua della gente, conversando con loro, stabilendo rapporti di amicizia». Convinto del fatto che «la parola è molto, ma l’esempio, l’amore, la preghiera sono mille volte di più», nelle lettere a parenti e amici ribadisce che il suo intento è di fraternizzare, fare crollare muri di pregiudizi e avere relazioni affettuose con i tuareg.

Fonda un eremo nello sperduto villaggio, e poi un altro sull’Assekrem a 2.780 metri sul massiccio dell’Hoggar. Si fa piccolo e povero, annullandosi in una vita nascosta, pur di portare la testimonianza evangelica a quei popoli che il deserto ha a lungo nascosto. Sa che non li avrebbe conquistati con la predicazione, ma soltanto con la presenza dell’Eucarestia, con l’esempio, la penitenza, la fraterna carità universale.

L’eremo cappella di fratel Charles a Tamanrasset (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Tamanrasset

All’eremo Charles accoglie i poveri, assiste i malati con medicinali che si fa inviare da parenti e amici in Francia, ma soprattutto dedica molte ore al giorno allo studio della lingua tuareg (il tamahaq) con l’aiuto di un interprete locale.

Vive una vita di preghiera, meditando continuamente la Sacra Scrittura, e di adorazione, nell’incessante desiderio di essere, per ogni persona, il «fratello universale», immagine viva dell’Amore di Gesù. «Vorrei essere buono perché si possa dire: “Se tale è il servo, come sarà il Maestro?”». Vuole «gridare il Vangelo con la sua vita». Gli uomini del deserto lo accolgono per la mitezza del carattere e la mansuetudine del comportamento. Per lui «gli uomini non sono più soltanto i nostri fratelli, essi sono Gesù stesso». «Non soffro di solitudine, la trovo molto dolce, ho il sacramento dell’Eucaristia, il migliore degli amici, al quale parlare giorno e notte».

Pratica un’ascesi dura, prega e lavora come un monaco. La sua dieta consiste in una poltiglia di amido di grano pestato con un po’ di burro, della purea di datteri e del pane senza lievito, deteriorando pian piano la sua salute.

Momenti duri

L’anno 1907 è un anno terribile nella vita di Charles. Riceve un duro colpo apprendendo della morte di Gustave-Adolphe de Calassanti-Motylinski (orientalista francese), punto di riferimento per i suoi lavori linguistici. Inoltre, la carestia imperversa sull’Hoggar dove non piove più dall’inizio del 1906. Conosce una grande prostrazione non potendo celebrare l’Eucarestia, neanche il giorno di Natale, perché non ha nessun altro cristiano con lui.

Nel gennaio 1908 Charles è spossato fisicamente e col morale a terra ed entra in una vera notte spirituale.

Scrive nel taccuino: «Sono malato, costretto a interrompere ogni lavoro. Gesù, Maria, Giuseppe, a voi dono la mia anima, il mio spirito, la mia vita».

Musa ag Amastane, l’amenokal (capo) dei Tuareg, avverte Laperrine, mentre i poveri abitanti di Tamanrasset, nel vederlo distrutto dalla debolezza e dalla febbre, si danno da fare a cercare «tutte le capre che abbiano un po’ di latte in questa terribile siccità, in un raggio di quattro chilometri», e il malato, a poco a poco, si riprende. Gli salvano la vita.

Quando fratel Charles scopre quello che i poveri hanno fatto per lui, condividendo tutto ciò che avevano, per salvarlo, incomincia ad apprezzare la capacità di amore e di riconoscenza di cui la civiltà tuareg è capace.

È il momento della sua seconda conversione. Al medico protestante Dautheville che nel 1908 gli chiede cosa fa per convertire i Tuareg, risponde: «Io non cerco di convertirli, cerco di migliorarli; voi siete protestante, un altro può essere non credente, loro sono musulmani. Sono convinto che un giorno ci ritroveremo tutti in Paradiso, senza passare per la Chiesa cattolica romana, ma perché ciò avvenga dobbiamo meritarlo: cerco di aiutare me stesso e gli altri a meritare un giorno di ritrovarsi insieme in Paradiso».

Il 1910 è l’anno della morte delle persone care. In aprile muore di tifo e di sfinimento, a trentasette anni, monsignor Guérin, prefetto apostolico e amico, lasciando in Charles un grande vuoto.

L’abbé Huvelin muore il 10 luglio. Apprendendo la notizia, che gli giunge il 15 agosto, Charles scriverà: «Ci si sente soli al mondo… come l’oliva rimasta sola in cima al ramo, dimenticata dopo la raccolta».

Nel novembre successivo anche il generale Henry Laperrine è trasferito in Francia. Non tornerà prima della morte dell’amico.

«È la solitudine che cresce. Ci si sente sempre più soli al mondo. Gli uni sono partiti per la loro patria, gli altri vivono la loro vita sempre più lontano dalla nostra».

La montagna dell’Assekrem dove fratel Chuarles ha costruito il suo eremo a 2780m di altezza. (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Eremo dell’Assekrem

Nell’anno seguente Charles sale al nuovo eremo dell’Assekrem, nel cuore del massiccio dell’Hoggar, a 2.780 metri, insieme a Ba Hamu, segretario di Musa Ag Amastane, per seguire i Tuareg che vi hanno condotto le loro greggi a causa della siccità. Approfitta per lavorare più alacremente alla lingua, entrando in relazione più profonda con i nomadi allevatori.

Auspica anche il coinvolgimento dei laici nell’opera di evangelizzazione, perché per lui la missione non si limita alla testimonianza personale, ma ha anche lo scopo più ampio di «civilizzare materialmente, intellettualmente, moralmente i Tuareg» tramite l’istruzione scolastica, l’esempio del lavoro, l’insegnamento dei principi elementari della morale naturale, le tecniche dell’agricoltura e dell’allevamento, il commercio e l’industria. Ma il suo desiderio non si realizzerà.

«Ho due eremi, a mille e cinquecento chilometri l’uno dall’altro! Passo tre mesi in quello del Nord, sei mesi in quello del Sud, tre mesi per andare e venire, ogni anno. Quando mi trovo in un eremo, vivo in clausura, sforzandomi di farvi una vita di lavoro e di preghiera. Durante il viaggio, penso alla fuga in Egitto, e ai viaggi annuali della santa Famiglia a Gerusalemme».

Il testamento

Prima di lasciare l’Assekrem, il 13 dicembre 1911, Charles redige il testamento, indirizzato al cognato Raymond de Blic. In esso precisa: «Desidero essere seppellito nel luogo stesso dove morrò, e riposarvi fino alla resurrezione. Proibisco che si trasporti il mio corpo e che lo si tolga dal luogo dove il buon Dio mi avrà fatto terminare il mio pellegrinaggio». Chiede di avvertire, in caso di morte, monsignor Bonnet, vescovo di Viviers, e i due grandi amici: Gabriel Tourdes, «amico d’infanzia», e François-Henry Laperrine. Il 24 ottobre 1914 Charles aggiunge un foglietto al suo testamento, ripetendo: «Voglio essere seppellito nel luogo dove morrò; sepoltura molto semplice, senza cassa; tomba molto semplice, senza monumento, sormontata da una croce di legno». Le sue volontà non verranno rispettate.

Laperrine, nel 1915, lo descrive così: «Père de Foucauld ha adottato come abito uno simile a quello dei Trappisti, ma in cotone bianco e con un Sacro Cuore di stoffa rossa cucita sul petto. Alla vita ha una cintura di cuoio dalla quale pende un rosario. I piedi nudi calzano i sandali tuareg. La sua influenza nella zona è molto grande. L’amenokal dei Tuareg dell’Hoggar non prende nessuna decisione importante senza consultarlo. Gli adolescenti e i bambini tuareg, in particolare, hanno un’assoluta fiducia in lui» (Laperrine, Le Père de Foucauld, in Revue de Cavalerie, Paris 1919).

Il bordji di Tamanrasset, costruito da fratel Charles, dove è stato poi ucciso nel dicembre 1916 (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Come un’ostia

Nel giugno del 1916, per difendersi dai razziatori marocchini a Ovest e dai ribelli senussiti ad Est, Charles si trasferisce nel fortino, dove al tramonto del 1° dicembre una banda di predoni tuareg, alleati ad alcuni Senussiti libici, saccheggiano il suo eremo. Un ragazzotto di 15 anni, preso dal panico per l’arrivo di due cammellieri, gli spara a bruciapelo. Muore sul colpo a 58 anni, nella solitudine più totale.

È il 1° venerdì del mese, e l’intenzione di preghiera per quel dicembre è la conversione dei musulmani. Il giorno seguente la gente lo seppellisce nella sabbia. Tre settimane dopo, il capitano De la Roche trova nella sabbia del bordj (forte) l’ostensorio, e dà l’ostia a un soldato, ex seminarista, perché la consumi. Ostia, gettata per terra, come il corpo di colui che l’aveva consacrata e che aveva fatto della sua vita una eucaristia, realizzando pienamente e realmente il comando del Signore: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19).

Laperrine lo seppellisce il 26 aprile 1929 nel cimitero francese di El Golea, dove ancora oggi riposa.

La sua morte sembra adempiere quanto lui stesso aveva predetto pochi anni prima: «Come il grano nel Vangelo, devo marcire nella terra del Sahara per preparare la futura messe. Tale è la mia vocazione». Nella morte realizza perfettamente la sua vocazione: «Silenzio­samente, segretamente come Gesù a Nazareth, oscuramente, come Lui, passare sconosciuto sulla terra come un viaggiatore nella notte, poveramente, laboriosamente, disarmato e muto davanti all’ingiustizia come Lui, lasciandomi come l’Agnello divino tosare e immolare senza fare resistenza né parlare, imitando in tutto Gesù a Nazareth e Gesù sulla Croce».

Il suo ricordo rimarrà per sempre

Leggendo il Vangelo, fratel Charles aveva imparato che la santità non è separazione dal mondo ma fraternità universale, arrivando a considerare fratelli i musulmani con cui viveva.

Oggi, la sua memoria è conservata anche a Roma, nella Basilica di san Bartolomeo all’isola, santuario dei martiri del XX e XXI secolo. Il piccolo fratello di Gesù è presente, e la cazzuola con il cuore e la croce incisi nel manico, che lo aiutò a costruire il fortino di Tamanrasset, tiene viva la sua memoria.

«L’amore consiste non nel sentire che si ama, ma nel voler amare; quando si vuol amare, si ama; quando si vuol amare sopra ogni cosa, si ama sopra ogni cosa».

Giuseppe Ronco

La toma di fratel Charles  a El Goela (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

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Il 15 maggio 2022, papa Francesco ha canonizzato Charles de Foucauld, il fratello universale, in Piazza San Pietro.




Portogallo. Rifugiati come in famiglia


A Cacém (Lisbona), in Portogallo, una comunità di missionari della Consolata, due sacerdoti, un fratello e tre seminaristi, apre le porte a tre giovani profughi africani accogliendoli in casa. Un’esperienza di missione interculturale e interreligiosa, e di famiglia.

È il 26 giugno 2019. Siamo all’aeroporto di Lisbona per dare il benvenuto a Salim e Ismael, 19 e 20 anni, musulmani del Sudan, sbarcati in Italia due mesi fa, e accolti dal Portogallo.

Sguardi indagatori, strette di mano. Chiedo all’interprete di tradurre in arabo queste parole: «È da tempo che vi aspettiamo. Benvenuti. Se vorrete, la nostra comunità sarà la vostra famiglia».

Nella nostra casa, a Cacém, periferia di Lisbona, in questo momento siamo in sette: tre seminaristi tra i ventisette e i trent’anni, uno colombiano, uno keniano, uno tanzaniano, tutti al quarto anno di teologia, poi ci sono fratel Gerardo Secondino, italiano con quindici anni di Mozambico alle spalle, padre Norberto Ribeiro Louro, un portoghese 84enne con una lunga storia missionaria, anche lui in Mozambico, un ospite venticinquenne della Guinea Bissau, studente universitario, e chi scrive.

La nostra casa è un grande spazio che ospita una Caf, «comunità apostolica formativa», cioè un piccolo seminario a dimensione famigliare e missionariamente attivo nel territorio.

Facciamo accoglienza, attività di animazione con gruppi, parrocchie, scout. Nei nostri terreni abbiamo ricavato 80 orti comunitari coltivati da famiglie bisognose della zona. Infine, collaboriamo con altre realtà del sociale.

Quando mi presento a Salim e Ismael, sento che i due giovani ci vengono affidati, e che loro si affidano a noi.

Forse siamo degli incoscienti. Ci stiamo mettendo in un’avventura senza sapere bene dove ci porterà: si troveranno bene questi due giovani con noi? Riusciremo ad accoglierli?

Aprire cuore e casa

L’accoglienza non è un’esperienza nuova per noi, perché fin dall’inizio di questa comunità formativa, nel 2015, la nostra casa è aperta per chi ne avesse bisogno: è stato con noi un giovane senzatetto portoghese con problemi di alcolismo, poi lo studente della Guinea Bissau, da solo in Portogallo, poi altri con altre storie che si sono fermati per tempi più o meno lunghi.

L’idea è che la comunità, già caratterizzata da una grande diversità culturale (come spesso accade nelle case dei Missionari della Consolata), cercando di vivere come una famiglia, si offra temporaneamente come famiglia anche a chi ne ha bisogno per un percorso di recupero, inserimento, autonomia.

La scelta di aprire la casa a Salim e Ismael è, quindi, in linea con l’esperienza di accoglienza già avviata e con lo stile di formazione che vogliamo offrire ai nostri seminaristi: una fraternità autentica e missionaria.

Inoltre, l’apertura ai profughi risponde anche all’appello più volte ripetuto da papa Francesco alle comunità cristiane e religiose perché accolgano nelle loro case i migranti che arrivano.

Salim, Ismael e Bright

L’occasione è venuta quando il Jesuit Refugee Service ci ha cercati per sapere se, come alcuni anni prima si era ipotizzato, la Consolata fosse ancora disponibile a cedere la casa di Cacém per l’accoglienza. Con la nuova comunità arrivata da pochi anni, non potevamo accogliere un grande numero di persone, ma subito abbiamo detto che eravamo aperti a fare qualcosa.

Salim e Ismael, quindi, sono i primi due profughi che accogliamo. Per arrivare da noi hanno fatto un lungo viaggio. Sono passati per il Ciad e la Libia, costretti a lavorare nelle miniere d’oro in condizioni disumane per pagare il debito contratto per il passaggio in macchina ricevuto, hanno attraversato il Mare Mediterraneo su un barcone.

Quando sono partiti dalle loro case, nel Darfur in guerra, avevano 15 anni. Si sono conosciuti in viaggio e sono arrivati a Messina, in Sicilia, cinque anni dopo.

Sedersi a tavola insieme

I primi tempi comunichiamo con Salim e Ismael tramite sguardi, gesti, sorrisi e qualche parola di inglese. Sedersi a tavola con loro due ha qualcosa di misterioso e profondo.

I primi mesi sono caratterizzati dai tentativi di comunicare, dall’attenzione a essere il più possibile accoglienti e a far sentire i nostri ospiti a casa loro, dall’emozione di vivere quella pagina di vangelo che dice: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35), che molte volte abbiamo ascoltato e che ora si concretizza in questo piccolo e coraggioso passo fatto come comunità. La parola di Dio «che opera in noi» (1Ts 2, 13) ha orientato una scelta, è diventata gesto, incontro, volto, presenza.

Scambi interreligiosi

Sin dai primi giorni, nonostante i limiti della comunicazione, i ragazzi s’inseriscono in modo sorprendente nella comunità. Osservano come funzionano le cose in casa e contribuiscono in modo attivo alla vita comunitaria: rispettano gli orari, lavano i piatti e fanno le pulizie con noi. Mentre noi celebriamo l’eucaristia alla sera, loro preparano la tavola per la cena. Presto si crea come una simbiosi tra noi, anche sul piano religioso: la differenza è vissuta con rispetto, naturalezza e curiosità da entrambe le parti. Non è infrequente che ci chiedano spiegazioni sulla nostra fede. Il fatto di essere musulmani in una comunità di religiosi non crea nessuna perplessità: Salim e Ismael sono genuinamente sostenuti dalla loro spiritualità e per loro, che pregano quattro volte al giorno, non è strano parlare di preghiera e vedere che noi ci riuniamo per le nostre celebrazioni. A nostra volta, noi possiamo vedere da vicino come i musulmani vivono il Ramadan, condividere le loro feste.

Poco prima dello scoppio della pandemia, a inizio 2020, arriva nella nostra casa un altro ospite. Si chiama Bright, ha 28 anni, è nigeriano, pentecostale, fuggito dalle persecuzioni religiose.

Bright ci racconta di aver viaggiato per tre anni. Giunge da noi molto provato da ciò che deve aver sofferto in Libia. Ci racconta che è un saldatore e che dei mesi trascorsi a Bari ricorderà sempre la pasta che mangiava tutti i giorni.

Il suo primo discorso alla comunità riunita è un’ispirata preghiera di ringraziamento a Gesù.

Il Giovedì Santo, nel mezzo del lockdown, quando celebriamo la messa in casa, laviamo i piedi ai tre giovani. Il servizio che la nostra comunità sta facendo è fatto alla scuola di Gesù.

Toccare la carne

L’arrivo di Salim, Ismael e Bright, con tutto quello che porta con sé, conferma ancora una volta la verità di quel testo per noi molte volte ispiratore, che troviamo nella parte finale dell’Evangelii Gaudium, quando papa Francesco parla di un rinnovato impulso missionario: «A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo» (EG 270).

Prendersi cura di qualcuno significa diminuire le distanze, accogliere qualcuno in casa vuol dire accettare che diventi parte di noi, lasciare che i suoi problemi diventino anche un po’ i nostri: per questo la vita si complica, ma si complica meravigliosamente, perché da questo incontro ne usciamo tutti più ricchi.

Verso un futuro migliore

Certo che la differenza culturale mette alla prova non poche volte la nostra capacità di ascolto e di dialogo. Non è facile nemmeno capire la sofferenza discreta di chi continua a essere perseguitato dalla preoccupazione per i familiari lontani ancora in pericolo. Accompagniamo con un’apprensione, quasi da genitori, i loro primi colloqui di lavoro.

Sperimentiamo poi anche la gioia del chiarimento e del perdono, della fiducia e dell’amicizia che cresce nelle piccole attenzioni quotidiane. Abbiamo accesso a uno spessore umano che non ci lascerà uguali.

Molte volte papa Francesco ci ha esortati a guardare negli occhi il povero e a toccare la sua mano quando facciamo l’elemosina, indicando così un atteggiamento imprescindibile che deve marcare qualsiasi tipo di solidarietà, perché sia anzitutto attenta alla persona. Abbiamo l’esempio di Gesù, che nei Vangeli molto spesso tocca le persone che hanno bisogno di essere curate, che sempre cerca il contatto.

Ricevendo in casa questi giovani non facciamo l’elemosina: li aiutiamo a realizzare il sogno di un futuro migliore che li ha condotti sino ai margini dell’Europa. Quando li guardo negli occhi vedo futuro: un futuro sognato, che ha radici in un passato di sofferenza, che è stato come una stella che li ha guidati in un viaggio lungo e pieno di pericoli, fino a correre il rischio di morire nelle acque del Mediterraneo.

Come una famiglia

Nell’enciclica Fratelli tutti, il papa ci ricorda che ogni gesto di solidarietà per essere autentico deve nascere dall’amore, chiede il coinvolgimento nella relazione: «L’amore implica dunque qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti» (FT 94).

Durante il lockdown della prima fase della pandemia, quando la nostra comunità sembra l’arca di Noè, ci rendiamo conto chiaramente di cosa sia questa «amicizia sociale» di cui parla il papa.

In casa siamo in tredici: oltre a noi sei missionari, ai tre giovani profughi e allo studente guineano, c’erano anche un uomo, padre di due figli, divorziato e ospitato temporaneamente in attesa di trovare altra sistemazione, e una coppia di pensionati sardi, bloccati in Portogallo per un’emergenza di salute e per la chiusura delle frontiere.

Mentre tutto fuori si ferma, dentro, in comunità, la vita continua: i turni di cucina, le lezioni di informatica e di portoghese per sostituire quelle sospese fuori, i lavori di manutenzione e pulizia della casa e del parco, persino alcuni momenti di preghiera interreligiosa per chiedere la fine della pandemia. Tutti ci sentiamo e siamo utili e responsabili gli uni degli altri. Anche chi è accolto.

Facendo un esercizio del corso di portoghese, Bright, descrivendo ai compagni il luogo dove vive, sintetizza: «In casa viviamo tutti insieme, come una famiglia».

Guardando la nostra tavola durante i pasti e le persone così diverse che, attorno a essa, prendono posto, spesso con il gusto di stare insieme e di raccontarsi, penso più volte che, in quest’angolo di periferia urbana, stiamo celebrando nel nostro piccolo una liturgia dell’accoglienza dal respiro universale.

Un passo per volta

Il progetto promosso dall’Alto commissariato per le migrazioni del governo portoghese prevede una permanenza dei giovani di un anno e mezzo presso di noi. Un tempo utile per conseguire l’autonomia linguistica e finanziaria. Vista però la difficile situazione causata dalla pandemia e visto che le istituzioni non offrono molte possibilità, in comunità decidiamo di nostra iniziativa di tenere con noi i giovani ancora per sei mesi, per aiutarli a consolidare la loro autonomia.

Salim e Ismael non hanno una formazione scolastica perché sono partiti presto dal loro paese, ma sono molto intelligenti. Salim vorrebbe diventare meccanico. Dopo aver preso la terza media, farà un corso di formazione. Intanto ha trovato un lavoro. Ismael ha il sogno di diventare ingegnere. Deve completare gli studi di base. Nel frattempo, ha iniziato a lavorare come muratore in un’impresa di un nostro amico.

In questo processo ci accorgiamo di come sia importante fare il primo passo: molte istituzioni a cui bussiamo sono immediatamente disponibili ad aiutare in diversi modi: i nostri Laici missionari della Consolata, ad esempio, si mobilitano da subito per molte necessità, e uno di loro assume Bright nella sua piccola impresa di montaggio di pannelli solari. Bright sarà con noi ancora fino alla primavera del 2022.

Le avventure della carità e della missione iniziano sempre con un primo passo fatto con coraggio e amore da qualcuno, al quale poi si uniscono altri per continuare il cammino che spesso si apre in modo imprevisto.

Vivere il vangelo

La domenica in cui salutiamo Salim e Ismael, che ora hanno la possibilità di affittare una stanza, a maggio 2021, viviamo un momento molto toccante: durante il pranzo chiedo che sia proclamato il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, quello nel quale Gesù parla del giudizio finale identificandosi con i bisognosi: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare… ero straniero e mi avete accolto…». La lettura è fatta in portoghese e in arabo.

È emozionante ascoltare le parole di Gesù pronunciate in arabo da quei giovani musulmani. Non è difficile per loro riconoscersi nello straniero, solo, con i soli vestiti che ha addosso. E per noi è evidente che quelle parole di Gesù le abbiamo vissute: sentiamo lo stupore per la semplicità del Vangelo e la forza con cui esso trasforma la nostra vita quando proviamo a metterlo in pratica.

In questi due anni, nonostante la religione diversa, accogliendoci gli uni gli altri, abbiamo scritto insieme una pagina di Vangelo e di bene. Il Vangelo è semplice, ed è possibile e bello viverlo, basta aprirgli il cuore e la casa.

Amici, fratelli, figli

Nei loro discorsi di ringraziamento, sinceri e visibilmente commossi, ci dicono di aver ritrovato nella nostra comunità la famiglia che hanno lasciato cinque anni fa, quando sono partiti dal loro paese. Uno di loro cita persino le parole di Gesù, «amatevi gli uni gli altri», affermando di avere vissuto proprio questo. Di essere stato accolto non come un bisognoso, ma come un amico, un fratello, un figlio.

Salim e Ismael, che non conoscevano molto della nostra religione, attraverso la nostra accoglienza, hanno capito chi sono i cristiani.

Non abbiamo accolto i profughi per fare un’attività tra le altre, ma per vivere, noi sacerdoti, insieme al fratello missionario e ai nostri seminaristi in formazione, la vocazione di cristiani e di missionari. L’apertura e l’accoglienza fanno parte dello stile di vita di una comunità missionaria. È un modo di vivere il Vangelo, non tanto preoccupati di testimoniare qualcosa, ma anzitutto desiderosi di vivere autenticamente il nostro essere missionari, di dare senso alla nostra presenza qua dove siamo.

Ermanno Savarino,
Comunità apostolica formativa dei Missionari della Consolata a Cacém, Lisbona, Portogallo


 * Reu: Regione Europa IMC




Accoglienza profughi dall’Ucraina /5


Carissimi amici e benefattori
un saluto a tutti voi

Dopo una pausa dall’ultima comunicazione vi aggiorno sulla situazione che ci vede impegnati tutti insieme ad aiutare coloro che sono colpiti dalla guerra in Ucraina.

Qui a Łomianki come del resto in Polonia siamo passati ormai ad una seconda fase dall’inizio del conflitto inziato quasi due mesi fa e purtroppo non ancora interrotto. Dopo l’ondata di profughi improvvisa e gigantesca che si faceva notare ovunque nel paese, direi che ora siamo passati a una gestione delle migliaia di persone giunte qui. Qualcuno (pochi) ha provato a rientare nel paese ricongiungendo la famiglia in Ucraina; invece, la maggior parte di donne e di bambini che vivono ormai da 2 mesi presso le famiglie o nei centri in cui hanno trovato alloggio, sono ancora qui tra noi.

Se per fortuna non si notano piu le folle di arrivi di donne e bambini alle stazioni dei treni, tuttavia nei centri di assitenza le code giornaliere sono sempre ben visibili, come capita nella parrocchia di Łomianki, dove ogni giorno continuiamo coi volontari a distribuire generi di prima necessità. Permettetemi di ringraziare molti di voi per le generose offerte che ci avete fatto avere, grazie alle quali possiamo quotidianamente comprare e nuovamente riempire gli scaffali del centro di aiuto della parrocchia, che rapidamente si svuotano.

Ringraziamo anche i volontari che da diverse parti del mondo hanno scelto di vivere nella nostra casa per aiutare in diversi modi, tra questi ricordiamo Clara un’infermiera di Torino, Kessie una dottoressa del Sud Africa e Adriano un volontario di origine italiana abitante in Canada.

Se la situazione in Polonia si puo definire in questo momento di gestione, lo stesso non si puo dire nella vicina Ucraina, dove purtroppo come ben sapete il conflitto continua con una cruenza e una violenza raccapricciante. Le notizie che ascoltiamo dai media e ancor piu le storie dei testimoni che incontriamo sono molto tristi. Per questo motivo stiamo sempre piu organizzando i nostri sforzi non solo qui sul posto ma anche inviando aiuti di vario genere in Ucraina soprattuto nelle zone occupate, escluse da ogni rifornimento.

Sono gia 4 i trasporti partiti, (e per grazia arrivati!) nell’Est del paese come nella zona di Charkow dove proseguono i combattimenti. In quei luoghi ogno genere di aiuti e visto come una manna dal cielo, perche il prolungare del conflitto ha ridotti ogni scorta nei magazzini. Un frate francescano mi ha detto che in quella regione dove abita, per fare benzina alla propria auto con l’aiuto di un amico, sono andati a fare rifornimento da un treno abbandonato che aveva ancor del carburante nel serbatoio. Queste perché i benzinai o sono esauriti i sono stati distrutti.

In questi giorni stiamo organizzando altre spedizioni nella regione di Zaporoze esattamente a Energodar dove si trova la centrale atomica piu grande di Europa. La città è stata occupata.   Prevedo questa estate, se le condizioni lo permetteranno, di recarmi in Ucraina.

In questo momento è difficile fare delle previsioni. La situazione è ancora molto confusa e purtroppo non si vedono ancora spiragli per un cessate il fuoco. Una delle poche cose di cui si e sicuri che purtroppo si continuerà a lungo. Oltre a questo, una cosa che vediamo bene è il rischio che una volta terminata la guerra questa stessa continui nei cuori di molte persone che hanno subito violenza e sopprusi.

Per questo continuaimo a pregare per la fine della guerra chiedendo a Dio il dono della pace e continuando a costruiore pace attorno a noi.
Un saluto a tutti

padre Luca Bovio


Le foto sono da Charkow, in Ucraina. Sono le persone beneficiate dagli aiuti che abbiamo inviato.