IMC Venezuela 50: con gli afro discendenti

3. Nella terra del cacao

La regione di Barlovento, caratterizzata da un clima tropicale caldo umido, è particolarmente adatta alla coltivazione del cacao. Questo ha determinato la maggiore concentrazione di afrodiscendenti di tutto il Venezuela. I padroni delle piantagioni sono i bianchi, gli stessi di un tempo, mentre i discendenti degli schiavi deportati dall’Africa continuano a raccogliere il cacao come i loro antenati.


Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»

1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela

      1. Popoli indigeni, afro e periferie
      2. La scelta degli indigeni della Guajíra
      3. Tra gli afrodiscendenti di Barlovento
      4. Periferie urbane: nei «barrios» di Caracas
      5. La missione alla foce dell’Orinoco con i Warao
      6. L’animazione missionaria della Chiesa venezuelana


Nella terra del cacao

Tra gli afro di Barlovento

«Barlovento, Barlovento, tierra ardiente y del tambor», canta l’afro quella terra «calda e del tamburo» che lo vide schiavo, costretto a lavorare nelle piantagioni di cacao dei padroni europei, ma libero di danzare al ritmo del tamburo che ricorda quelli lontani dell’Africa, sua terra di origine.

«Barlovento» è il nome di una regione prospicente al Mare dei Caraibi, a un centinaio di chilometri a Est della capitale Caracas, abitata in prevalenza da afrodiscendenti1.

Il clima tropicale, caldo umido, insieme a particolari correnti ventose marine, provoca precipitazioni quasi quotidiane che fanno arrivare l’umidità fino al 70%. La produzione del cacao è in mano a pochi latifondisti originari delle isole Canarie, e la popolazione continua a raccoglierlo come al tempo della colonia.

I popoli afrodiscendenti costituiscono nel 2020 un terzo degli abitanti dell’America Latina. Insieme ai popoli indigeni, sono la fetta di popolazione più svantaggiata, soprattutto per quel che riguarda l’istruzione, il lavoro, la salute, le infrastrutture, l’accesso ai servizi pubblici in generale e la povertà.

Tutto ciò è il prodotto di una situazione di esclusione e discriminazione strutturale, legata a secoli di razzismo.

Eppure, anche se vivono ai margini, loro sono lì, cantano e ballano al ritmo dei tamburi, offrendo i loro valori originari e originali. Chiedono rispetto, dignità e opportunità. La famiglia missionaria della Consolata cammina con loro dal 1986.

Un po’ di storia

A Barlovento, i Missionari della Consolata oggi lavorano nelle parrocchie di Tapipa, Panaquire, Il Clavo e Caucagua, paesi a un centinaio di chilometri a Est da Caracas. Vi sono arrivati nel 1986.

L’antefatto della presenza dell’Imc nella zona sta nell’arrivo dei nostri missionari, nel 1978, alla parrocchia della Sacra Famiglia di Los Castores (piccolo centro urbano a pochi chilometri a Sud di Caracas, lontana 100 km da Tapipa, Panaquire e Il Clavo, ma ai tempi nella stessa diocesi).

Lì, a Los Castores, erano stati chiamati da mons. José Bernal, vescovo di Los Teques. Era una realtà pastorale relativamente giovane che si innestava sul fenomemo dell’urbanizzazione residenziale della media borghesia che lavorava nella capitale. Era una bella parrocchia, con una buona partecipazione della gente alla messa domenicale e alle altre attività, e un elevato spirito missionario che si esprimeva in aiuti concreti e sostanziosi alle missioni della Guajíra. La parrocchia costituiva anche un aiuto finanziario per il gruppo della Consolata in Venezuela che non aveva molte altre entrate.

Dopo qualche anno, il vescovo mons. Pio Bello, successore di mons. Bernal, ha chiesto all’Istituto di assumere la responsabilità pastorale anche delle tre parrocchie di Barlovento (oggi nella diocesi di Guarenas-Guatire). «Avete una parrocchia buona – ha detto – ed è giusto che ne prendiate altre più bisognose, perché povere e senza prete».

Fin dall’inizio dell’Istituto, i missionari della Consolata si erano dedicati all’Africa e, stando in America, il campo più appropriato cui dedicarsi sembrava quello degli indigeni. Inoltre il numero di missionari, piuttosto ridotto, non sembrava poter assicurare una presenza duratura in queste nuove aperture. Ciò nonostante in Venezuela hanno deciso di rispondere positivamente alla proposta del vescovo, anche grazie alle esortazioni del superiore generale di allora, padre Giuseppe Inverardi: «Los Castores e La Puerta sono due parrocchie che hanno permesso il nostro consolidamento e sviluppo in Venezuela, anche attraverso l’aiuto finanziario. Tuttavia, per fedeltà a noi stessi e alle nostre finalità, credo che non possiamo perpetuare la nostra presenza in queste parrocchie. […] Da anni si parla di questa apertura tra gli afroamericani della zona di Barlovento. Non può rimanere, tuttavia, una semplice prospettiva. È un discorso da concludere il prossimo anno […]».

Presa la decisione, è stato necessario valutare quale delle parrocchie nelle quali eravamo presenti avremmo lasciato. La scelta, alla fine, non è caduta su Los Castores o La Puerta, bensì su Zorca, una parrocchia nella regione del Táchira, a 800 km a Sud Ovest, ai confini con la Colombia.

 

Il superiore della delegazione, padre Nelson Lachance, ha scritto ai suoi confratelli per l’occasione: «Il 2 settembre 1985, dopo 10 anni di infaticabile attività pastorale, i padri lasciano Zorca, dopo aver ricevuto da tutta la parrocchia una grande manifestazione di affetto e di gratitudine. Per la gente di Zorca il saluto commovente e grandioso vuole essere non un “addio”, ma solo un “arrivederci a presto”. Così la Delegazione del Venezuela conserva l’incarico di due sole parrocchie: quella di La Puerta (Diocesi di Trujillo) e quella di Los Castores (Diocesi di Los Teques) e si assume il compito di aprire un seminario in Caracas per il corso di filosofia e di iniziare una missione nel territorio di Barlovento tra gli afroamericani».

Nel 1986, tre missionari sono stati destinati a lavorare tra gli afrodiscendenti di Barlovento. Facendo vita comune a Tapipa, la prima delle tre parrocchie, hanno iniziato a servire anche le altre due: Panaquire a 10 km e Il Clavo a 30 km.

A novembre del 2018, dopo 32 anni, la responsabilità pastorale dei missionari della Consolata che lavorano a Barlovento, si è estesa alla vicina parrocchia di Caucagua, il capoluogo della regione, dove si sono trasferiti e da dove continuano a servire le parrocchie precedenti e le altre comunità cristiane (circa una quarantina), sparse sul territorio.

Sergio Frassetto

Nota:

1 – Con il termine afrodiscendenti si intende tutti i popoli e le persone di discendenza africana nel mondo. In America Latina, il concetto si riferisce alle diverse culture «nere» o «afroamericane» emerse dai discendenti degli africani, quelle sopravvissute alla tratta degli schiavi avvenuta nell’Atlantico dal XVI al XIX secolo.


Fino al 1854: la schiavitù

La tratta degli schiavi in Venezuela fu un fenomeno relativamente contenuto rispetto a altre nazioni come Cuba, Brasile, Colombia e Perù. La colonia spagnola del Venezuela era una delle poche che non possedeva metalli preziosi o altri prodotti che avrebbero permesso una prosperità economica immediata, così gli appetiti degli schiavisti furono attirati da altre regioni. I documenti dell’epoca indicano che, alla fine del XVIII secolo, il Venezuela aveva «a malapena» 60mila schiavi, una piccola cifra rispetto ai 450mila neri e mulatti liberi residenti allora nel paese.

Sfumato il mito dell’«El Dorado», i coloni si dedicarono all’agricoltura, e lo fecero sfruttando dapprima la manodopera indigena, e poi quella africana. Quest’ultima fu utilizzata nelle piantagioni costiere di zucchero, cacao, tabacco e caffè.

Il cacao, soprattutto, coltivato nella regione di Barlovento, fu all’origine di un processo relativamente rapido di accumulo di capitale e di ricchezza da parte dei coloni.

Lo schiavo era un investimento economico utile alla produzione di una determinata merce da collocare sul mercato internazionale. I diritti del padrone, codificati, recitavano: «I padroni hanno diritto di frustare i loro schiavi, di incatenarli o metterli ai ceppi, ma non di ferirli o di ucciderli. Se la punizione è stata eccessiva al punto di diventare scandalosa, il padrone può essere obbligato a vendere lo schiavo maltrattato a una persona meno crudele. E deve venderlo al prezzo di acquisto».

Il lavoro forzato e le sofferenze indicibili della schiavitù portarono molti uomini e donne alla ribellione e alla fuga. Nel 1721 le autorità calcolavano che fossero circa 20mila i fuggitivi chiamati «Cimarrones», nella zona di Caracas. I nomi Cumbo, Cumbito, Maroma, Quilombo, Rochelas, Palenque, ricordano ancora oggi quelle ribellioni e i luoghi nei quali avvennero.

Durante tutto il tempo della colonia, la Chiesa battezzò e catechizzò gli schiavi. Secondo molti, questo atteggiamento favorì l’istituzione della schiavitù. Secondo altri fu un’opera di misericordia per alleviare le loro sofferenze e aiutarli attraverso la famigliarità e la solidarietà che nascevano dal professare la stessa fede nell’unico Dio.

Rovesciato il regime coloniale spagnolo, nel 1811 la Giunta suprema di Caracas abolì la tratta degli schiavi, ma non la schiavitù che fu abolita del tutto solo nel 1854. (S.F.)

Religiosità afro

Le celebrazioni comunitarie, il gusto di fare processioni insieme, di rullare i tamburi per dare ritmo al canto, alla danza e alla musica, sono elementi caratteristici della cultura degli afrodiscendenti dell’America Latina.

L’aspetto religioso occupa un posto rilevante nella vita degli afroamericani ed emerge, soprattutto, nei periodi di crisi, negli eventi più importanti della vita, come la nascita e la morte, e nei tempi significativi della comunità, come le feste patronali, la Settimana Santa, il Natale.

Le espressioni della loro religiosità affondano le radici nell’incontro tra i culti e le tradizioni che i neri portarono dall’Africa e la prima evangelizzazione. Ne sono scaturite peculiari espressioni della fede che chiamiamo «religiosità popolare».

La suggestione simbolica delle immagini di Cristo e dei santi, proposte dai primi missionari, è calata nell’anima delle popolazioni afro, ma è vissuta quasi sempre in maniera slegata dalla storia evangelica.

Oltre alle radici religiose degli afrodiscendenti, e ai nuovi modelli sociali nei quali si sono venuti a trovare, ha contribuito a reinterpretare il significato di tali immagini l’esigenza degli schiavi di ritrovarsi, in terra d’esilio, per celebrare i riti dell’Africa e capirsi tramite il linguaggio dei tamburi.

Attraverso il culto dei santi, hanno cercato scampo alla dura condizione imposta loro dagli europei e hanno mantenuto vivo il dialogo con le divinità delle loro origini. (S.F.)


La Settimana Santa e la croce fiorita di maggio

Tra folklore e fede

Tra il venerdì che precede la Settimana Santa, chiamato «Venerdì del concilio», e il Sabato Santo, si susseguono a Barlovento otto processioni, chiamate «Passi», nelle quali si evocano i vari aspetti della passione del Signore. Ogni passo viene «illustrato» da immagini sacre collegate ciascuna a una confraternita che gestisce la processione con tutti i suoi corollari: candele, fiori, banda musicale e mortaretti.

Il sentimento religioso degli afroamericani di Barlovento si manifesta in modo speciale nelle celebrazioni della settimana santa che cominciano il venerdì che precede la domenica delle palme. Viene chiamato «venerdì del concilio», con riferimento al conciliabolo tra il Sinedrio e Giuda che, per 30 denari, vende Gesù.

Il venerdì del concilio è una giornata a carattere penitenziale. Viene esposta alla venerazione dei fedeli l’immagine della Madonna «dolorosa», una statua rivestita di un manto nero, con parrucca e merletti di foggia spagnola cinquecentesca, e con il cuore trafitto da spade.

La domenica delle Palme moltissima gente si accalca per ricevere il ramo d’ulivo benedetto; quindi, si inaugura la prima di una serie impressionante di processioni, che si susseguiranno per tutta la settimana. Le processioni costituiscono un elemento fondamentale della religiosità popolare afroamericana. Esse esprimono la dinamica delle peregrinazioni e simboleggiano il tema della vita: chi è vivo cammina e si accompagna agli altri.

Ogni giorno della settimana santa ha luogo un «passo», cioè la rievocazione di un episodio della passione del Signore per accompagnare Cristo sofferente, con il quale ci si identifica.

La domenica delle palme, alla sera, ha inizio il primo «passo», che ricorda Gesù che suda sangue nel Getsemani: viene portata in processione un’enorme statua di Cristo in ginocchio, sovrastato dall’angelo che gli porge il calice della passione.

Nei giorni seguenti si va in processione con altre statue: il lunedì con quella di «Gesù flagellato alla colonna», il martedì con quella di Cristo «umiltà e pazienza» e il mercoledì santo con quella del Nazareno che si apre la strada verso il Calvario.

Il Nazareno

Il Nazareno rappresenta Gesù, vestito di una tunica viola, che sale la collina del Calvario con la croce sulle spalle. È l’«uomo dei dolori», cantato dal profeta Isaia, che personifica tutto ciò che la gente vive e soffre. Nello stesso tempo riflette il volto di un Dio solidale, che si mette nel cammino della vita condividendone con noi i rischi e le conseguenze.

In questo giorno si «pagano» le promesse e i voti fatti a Dio durante l’anno: alcuni si vestono da «nazareni», altri fanno il «velorio», ossia vegliano accanto alla statua durante tutto il giorno, con una candela accesa in mano. La gente compie sacrifici che non farebbe in nessun’altra occasione.

Alla sera la gente partecipa alla processione: centinaia di mani sorreggono la portantina per tutte le strade del paese mentre si canta e si prega, rivivendo le stazioni della via crucis. Ogni cento metri la banda intona una marcia funebre. La processione si blocca e la statua viene fatta «ballare» avanti e indietro per tutta la durata della musica.

La processione dell’incontro

Il giovedì santo, dopo la messa vespertina, «si fa morire» Cristo prima del tempo, portando in processione il crocifisso.

Il venerdì, le processioni sono due. Al mattino, i fedeli accompagnano il crocifisso, seguito dalla bara di cristallo, alla cappella del Calvario, situata in cima al paese dove viene rievocata la deposizione dalla croce e la sepoltura.

Nel pomeriggio, la gente si riunisce di nuovo in chiesa per la tradizionale «adorazione della croce» e il «sermone» sulle «sette parole» pronunciate da Gesù in croce.

Alla sera, la popolazione si divide in due gruppi: il primo parte dalla chiesa parrocchiale portandosi dietro le statue della Madonna dolorosa, di san Giovanni e Maria Maddalena, ognuna montata sul proprio carroccio. Il secondo gruppo si raccoglie all’altro estremo del paese, nella cappella del Calvario. Da qui discende lentamente verso la chiesa, accompagnando il «santo corpo». È la «processione dell’incontro». A metà strada, infatti, la Dolorosa e le altre due immagini s’incontrano con Cristo morto, e gli fanno «la riverenza».

È il momento culminante della tradizione religiosa degli afroamericani, nessuno è disposto a perderselo. La gente si accalca, la banda fa ricorso alle note più ispirate e commoventi. Il carroccio della Madonna viene sollevato di peso e piegato in avanti: è la madre che fa la riverenza al figlio. Il rito si ripete per tre volte. Seguono le riverenze di san Giovanni e della Maddalena. Il popolo accompagna con esclamazioni di approvazione e applausi.

La Pasqua di Giuda

Per la maggioranza della gente la settimana santa termina il venerdì. Il sabato, dopo una veloce processione mattutina, chiamata «della solitudine», in cui la Madonna va in cerca del figlio morto, la gente dedica il resto della giornata all’allestimento del pupazzo di Giuda, in collaborazione con amici e vicini. Una volta pronto, il pupazzo viene esposto nei crocicchi delle strade.

La domenica di Pasqua, la gente diserta la chiesa e nel pomeriggio si lancia nell’ultima processione. Il «santo di turno» è proprio lui, Giuda Iscariota. I tamburi rullano, i balli sono sfrenati, i lazzi e le battute si sprecano senza pietà. Giunti sul luogo prestabilito, viene letto il «testamento di Giuda», nel quale sono nominate le persone a cui lascia i suoi averi. È l’occasione per prendere in giro le persone del paese che durante l’anno, per diversi motivi, sono state protagoniste della cronaca locale. Alla fine, il povero Giuda, impiccato al ramo di un albero, viene bruciato.

La croce fiorita di maggio

La Pasqua, tuttavia, non è dimenticata, ma viene «rimandata» al 3 di maggio, alla festa della Santa Croce. In questa ricorrenza legata alla fertilità e alla vita che rinasce, viene ricuperato il senso completo del mistero pasquale.

Popolarmente è chiamata «velorio», o veglia della croce. Comincia la sera della vigilia e si protrae fino al giorno seguente, intercalando preghiere e balli culminanti in una grande festa popolare.

Le radici della festa vanno cercate nelle tradizioni cristiane giunte dalla Spagna. Nei tempi più antichi, in Spagna si eleggeva una regina col nome di Maya, la quale evocava l’omonima dea romana e presiedeva le feste contadine di maggio e giugno; il suo trono veniva posto vicino a un albero.

A poco a poco si riempì questa ritualità con un contenuto cristiano: invece dell’albero si iniziò a piantare una croce e, dal primo giorno di maggio, la gente cominciò a collocare, all’entrata delle case, su piccoli altari, croci adornate di fiori. Si facevano offerte, non più a Maya, ma alla croce, che diventò quindi oggetto della festa popolare.

Questa tradizione, combinata con elementi religiosi autoctoni, ha dato origine all’attuale festa della «Croce fiorita di maggio». Oggi si celebra in tutto il paese, ma è soprattutto nella regione di Barlovento, tra gli afroamericani, che assume il carattere di manifestazione tipica della religiosità popolare.

Nel luogo prescelto, l’altare viene abbellito con fiori e teli colorati, quindi viene sistemata la croce vestita a festa: è bianca, sormontata da una ghirlanda di fiori, con ornamenti colorati sulle braccia. Sulla croce non c’è l’immagine di Cristo crocifisso. Egli, infatti, ha vinto la morte ed è risorto. Si tratta dunque di una croce pasquale.

La veglia dura tutta la notte ed è caratterizzata da rosari intervallati da litanie e balli cadenzati dai tamburi.

Il giorno dopo si celebra la messa solenne, alla quale i membri della confraternita partecipano con la loro uniforme rosso sangue. Segue la processione al monte della croce dove il presidente della confraternita offre al bacio della gente un ostensorio con una improbabile reliquia della croce.

Data la stretta relazione con la natura e la fertilità, la celebrazione della croce fiorita di maggio parla di creazione, vita, vittoria sulle forze del male, in altre parole, esprime la dimensione pasquale del mistero di Cristo.

Si stabilisce così una connessione ideale con il venerdì santo, quando le celebrazioni della Pasqua terminavano con la venerazione di Cristo nel sepolcro. Quello che apparentemente era un finale senza relazione con la risurrezione, trova la sua proiezione in questa festa: Cristo viene celebrato come vincitore della croce e della morte.

Sergio Frassetto


Il riscatto dell’identità afroamericana

L’attività pastorale dei Missionari della Consolata a Barlovento è tesa afar emergere i «semi del Verbo» presenti nella cultura degli afrodiscendenti. Essa è motivo di fiducia e speranza nell’attuale difficile situazione socio-economica.

Durante il periodo coloniale, agli schiavi, deportati per lavorare nelle fattorie di cacao della costa venezuelana, fu proibito manifestare la loro cultura e religione. Fu loro imposto il cattolicesimo, dando luogo a un sincretismo nel quale le immagini del culto cristiano vennero assimilate alle divinità delle loro religioni tradizionali.

I Missionari della Consolata, provenienti da altri contesti socioculturali e religiosi, sono andati incontro al popolo afro solidarizzando con la sua cultura e cercando di valorizzarla nelle sue multiformi espressioni.

L’obiettivo era, ed è, quello di riscattarne l’identità e i valori negati lungo i secoli, facendo crescere nel popolo la coscienza che «essere afro» è un valore che può integrarsi nella pratica di una vita cristiana autentica e che può incidere nella società.

Incontrare il popolo nella sua identità

Come dichiara il Documento di Aparecida (il documento conclusivo della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano e dei Caraibi – Celam -, tenutosi nella città brasiliana di Aparecida dall’11 al 31 maggio 2007): «Conoscere i valori culturali, la storia e le tradizioni degli afroamericani, entrare in un dialogo fraterno e rispettoso con loro, è un passo importante nella missione evangelizzatrice della Chiesa […]. La Chiesa con la sua vita di predicazione, sacramentale e pastorale aiuterà affinché le ferite culturali ingiustamente subite nella storia degli afroamericani non assorbano, né paralizzino dall’interno, il dinamismo della loro personalità umana, della loro identità etnica, della loro memoria culturale, del loro sviluppo sociale nei nuovi scenari che si presentano» (Aparecida n. 532).

Per lungo tempo la Chiesa non ha riconosciuto l’identità del popolo afro ed è necessario lavorare ancora molto per superare tante resistenze. Basti ricordare un piccolo esempio, ma dal forte valore simbolico: il rintocco delle campane, nel passato, serviva ad avvisare della fuga di uno schiavo. La chiesa non può usarlo per invitare il popolo nero a partecipare alle celebrazioni liturgiche. Succede infatti oggi che la campana sia lassù, nella torre campanaria, ma che l’invito alle celebrazioni venga fatto con la musica.

È un processo lento, quello dell’incontro della Chiesa con il popolo nero, portato avanti insieme alla gente, per individuare nelle espressioni proprie della sua religiosità «i semi del Verbo» e portarli a maturazione dando origine a una Chiesa dal volto afroamericano.

I missionari della Consolata di nuova generazione, provenienti dall’Africa e da altri paesi del continente americano, accompagnano gli afrodiscendenti di Barlovento nel percorrere questo cammino.

La violenza non ferma i missionari

Essi portano avanti la loro azione pastorale, fatta di incontro e di rispetto, a volte scontrandosi con grandi difficoltà, non ultima quella della sicurezza personale.

L’intero territorio di Barlovento, infatti, è controllato da gruppi criminali che attaccano, rapinano o rapiscono chi viaggia per le strade, come fanno, appunto, i missionari. Questi gruppi di «malandros» sono costituiti da ragazzi molto giovani. In diverse occasioni, i missionari e persino il vescovo locale, si sono ritrovati con le armi puntate alla tempia.

Non è un problema della sola zona di Barlovento. In Venezuela la violenza aumenta un po’ ovunque: secondo le statistiche, il paese ha 30 milioni di abitanti e circa 15 milioni di armi nelle mani dei civili. Nel 2020 sono state uccise circa 25mila persone. In assenza dello stato, le bande armate si organizzano nei loro feudi, come ad esempio nelle miniere d’oro clandestine, dove prevale la legge del più forte.

Nonostante tutto, i missionari continuano il loro servizio al fianco della gente. Non smettono di visitare le comunità per celebrare i sacramenti, organizzare catechesi, formare animatori, fare attività con i giovani e accompagnare le famiglie più bisognose.

A Barlovento la presenza dei Missionari della Consolata è motivo di fiducia per la gente che ha fede in un Dio che dà sempre a chi chiede ciò di cui ha bisogno, che si rende presente per chi lo cerca e che apre la porta a chi bussa.

Essi, oltre a venire incontro ai bisogni materiali delle persone, si preoccupano di mantenere viva la speranza divenendo presenza di consolazione spirituale.

Nella loro azione pastorale non pensano solo ai sacramenti. «Non importa se celebriamo messe o semplicemente visitiamo – dice uno di loro – basta passare per strada ed essere visti perché la gente dica che non è sola».

Di fronte alla drammatica situazione socio-economica vissuta dal Venezuela, molte persone vorrebbero andarsene dal paese, come quei cinque milioni e mezzo che sono emigrati in altre nazioni del continente. Ma vedendo che i missionari rimangono, cambiano di idea e restano a lottare.

Jaime Carlos Patias

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