La piccola donna dal grande destino

testo di Marco Bello |


Qualche mese fa, per caso, mi trovai tra le mani il libro La locanda della sesta felicità, di A. Burgess. È la biografia di una missionaria inglese del secolo scorso in Cina. Una donna modesta che fece cose grandi, e lasciò il segno. Una storia da conoscere.

«Il Dio di Gladys era per lei un’armatura impenetrabile alle frecce e alle pallottole che il mondo mortale poteva lanciarle. La sua fede era incrollabile […]. Nessun problema teologico la turbò mai: le paure e i dilemmi intellettuali soffiavano al di sopra del suo capo, a un livello stratosferico». Così scrive Alan Burgess, scrittore e biografo, a cui si deve la prima biografia della missionaria inglese Gladys Aylward, nel suo «The small woman», pubblicato nel 1957 (e tradotto in italiano un anno dopo con il titolo «La locanda della sesta felicità»).

Gladys era nata nel 1902, a Edmonton, un sobborgo a Nord di Londra, da una famiglia della working class. Non aveva mai viaggiato, «non ero mai stata oltre a poche miglia da casa mia», avrebbe confessato un giorno. Da giovane (erano gli anni ‘20 del XX secolo) amava danzare e andare a teatro, e voleva fare l’attrice. Non era molto alta, poco più di un metro e cinquanta, aveva i capelli neri, occhi vispi e tipico accento londinese. Dall’età di 14 anni iniziò a lavorare come cameriera nelle case dei ricchi e non era mai stata particolarmente religiosa.

Una sera, mentre con alcuni amici stava per andare a ballare, in una via affollata di Londra, fu presa in mezzo a un gruppo di giovani che entravano in una chiesa. Senza volerlo si trovò a seguire la funzione. «Quella sera, per la prima volta nella mia vita, realizzai che Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, era morto per Gladys Aylward. Questa percezione mi scosse e avrebbe alterato la mia intera vita», avrebbe scritto molti anni dopo. «Corsi a casa, mi buttai sul letto e pensai: Dio se sei vero mostrati, e se lo farai, prometto che io farò qualsiasi cosa mi chiederai».

La giovane donna non frequentava una chiesa, aveva poca dimestichezza con la Bibbia e non sapeva pregare. Iniziò a cercare se stessa. Un giorno lesse su un periodico che in Cina c’erano milioni di persone che non avevano mai sentito parlare di Cristo. «Pensai che era terribile passare la propria vita senza Cristo. Qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa». Cominciò allora a parlare con persone istruite, con competenze e posizioni sociali migliori delle sue, pensando che sarebbero dovuti intervenire loro. Ma nessuno la prese sul serio. Propose, infine, a suo fratello di partire lui per la Cina, promettendo che lo avrebbe aiutato. Lui rifiutò e la prese in giro, ma poi le disse: «Se davvero pensi che qualcuno debba andare, perché non vai tu stessa?».

Il fratello l’aveva messa davanti a uno specchio, e Gladys sprofondò nel dubbio: «Non ho mai fatto nulla di importante, non sono istruita, non ho soldi, non so predicare, non conosco nulla della chiesa». Ma arrivò a una conclusione: «Feci al Signore due promesse: se mi avesse mostrato la via, sarei andata io in Cina e non avrei mai più chiesto a nessuno di fare quello che lui avrebbe chiesto a me».

Non idonea

Il primo passo fu un periodo di prova presso il China Inland Mission, un’istituzione inglese che preparava e inviava missionari in Cina dal 1865. Ma dopo tre mesi il direttore le disse che non era idonea a diventare missionaria, perché, per il suo basso livello di istruzione, non avrebbe mai imparato il cinese e la teologia.

Gladys non si perse d’animo, sentiva forte la chiamata, e decise di partire da sola, senza l’appoggio di alcuna organizzazione. Però non aveva soldi né contatti. Riprese a lavorare duro, a servizio, facendo il massimo dell’economia. Per andare in Cina, all’epoca, c’erano due possibilità: per nave o per treno attraverso la Transiberiana. Questa seconda opzione era in quegli anni – fine anni ‘20 – altamente sconsigliata, a causa di una guerra non dichiarata tra Cina e Unione Sovietica ai confini della Manciuria, proprio dove passava il treno. Ma era molto meno cara. Gladys non volle sentire ragioni, e comprò, a rate, il biglietto.

Intanto studiava la Bibbia, e andava anche a tentare prediche pubbliche, che non godevano di grande considerazione, allo speaker’s corner di Hyde Park. Ebbe l’occasione di leggere diversi libri sulla Cina, quando fu a servizio da sir Francis Younghusband, che vi aveva lavorato.

Per le sue origini, Gladys era cresciuta nel mondo protestante anglosassone, anche se, per lei, quello che contava era essere cristiana.

In quel periodo, durante una funzione in una chiesa metodista, sentì dire che una missionaria in Cina, Jeannie Lawson, di 74 anni, cercava una giovane missionaria per portare avanti il suo lavoro. Fu come un colpo di fulmine, e Gladys scrisse subito una lettera alla Lawson, la quale, dopo mesi – i tempi dell’epoca -, rispose che l’avrebbe accettata.

Il viaggio

Il 15 ottobre 1932, Gladys Aylward partì dalla stazione londinese di Liverpool street. Aveva due valigie: una conteneva vestiti e l’altra, cibo in scatola, biscotti, un fornello ad alcool, una padella, una teiera e un po’ di riso. Aveva con sé pochissimi soldi. A salutarla al binario c’erano la madre, il padre e la sorella, che non sapeva quando e se avrebbe rivisto. Non lo fece a cuor leggero, fu un grosso sacrificio lasciare la famiglia e il paese. Non aveva mai viaggiato all’estero, non era mai stata su un traghetto, né su un treno a lunga percorrenza.

«Non ho mai chiesto il permesso ai miei genitori. Ho detto loro che sarei partita. Erano i miei soldi ed era la mia vita. E pensavo che stavo facendo quello che Dio voleva che facessi. Quindi, anche se non capirono, essi accettarono e mi lasciarono andare», avrebbe raccontato.

La sua determinazione, e forse una dose di sana sprovvedutezza, la aiutarono, ma la spinta fondamentale fu la fede in quello che credeva fermamente Dio le avesse chiesto: andare a parlare di Cristo ai cinesi.

In quell’epoca, una giovane donna (aveva 28 anni) non viaggiava da sola. La guerra, sebbene non dichiarata, c’era eccome, e la corsa del treno fu interrotta nella città siberiana di Čita. Gladys rischiò di morire di freddo in Siberia, poi di essere trattenuta in Unione Sovietica. Ma fortunosamente qualcuno la salvò e, pure senza un soldo, da Vladivostok – dove era stata deviata a causa del conflitto – prese una nave che la portò in Giappone. Anche lì, a Kobe, una coppia di missionari la aiutò, e finalmente giunse nella città portuale cinese di Tientsin, dove fu accolta in una missione ben strutturata. Jeannie Lawson era conosciuta, e si sapeva che lavorava nello Shanxi, una provincia montagnosa e selvaggia a Nord Ovest di Pechino. I missionari del Tientsin mission center la affidarono al signor Lu, un uomo d’affari che stava partendo per quella terra. Anche quello sarebbe stato un viaggio lungo e faticoso. Presero il treno per un lungo tratto e poi un autobus.

Arrivarono a Zézhou dopo un mese e Gladys fu accolta da due anziane missionarie che le indicarono dove abitava Jeannie, a Yangcheng, ad alcuni giorni di viaggio. Non c’erano strade, e l’unico mezzo per arrivarci era a dorso di mulo.

Jeannie la missionaria

L’incontro con Jeannie Lawson non fu caloroso. La missionaria scozzese era una donna brusca e, dopo 50 anni di servizio in Cina, non era facile da trattare per una giovane appena arrivata. In città non c’erano altri cristiani, e loro erano chiamate «diavoli stranieri»: i bambini scappavano e gli adulti tiravano loro del fango.

La regione era costantemente percorsa da mulattieri che con i loro muli trasportavano le merci tra le città e i villaggi fortificati sulle colline. Jeannie ebbe un’intuizione: «Se apriamo una locanda per mulattieri, diamo loro alloggio e un pasto caldo, potremo anche intrattenerli con delle storie – cosa che di solito amano – e racconteremo le storie di Cristo. I commercianti, poi, viaggiando porteranno questi racconti nell’intera provincia».

Fu così che nacque la «Locanda delle otto felicità», sembra in riferimento alle otto virtù confuciane, ma anche alle beatitudini del Vangelo di Matteo. Gladys aveva il compito di piazzarsi sul percorso dei muli in arrivo in città, e di tirare nel cortile della casa il primo della fila, in modo che gli altri seguissero. Era questa la maniera di procurarsi i clienti. Jeannie dava la zuppa ai mulattieri e intanto raccontava passi del Vangelo, mentre Gladys badava ai muli.

«Sebbene Jeannie non mi abbia mai insegnato a mangiare il cibo cinese con le bacchette, o qualcosa sui costumi locali, e neppure mi abbia mai dato un consiglio su come imparare la lingua, [da lei] imparai come pregare e guadagnare le anime delle persone per il mio Signore», avrebbe scritto poi Gladys.

Dubbi e segni

Ingrsso della locanda nel 2006

Un anno dopo il suo arrivo, Jeannie morì. Gladys si ritrovò sola, arrivata da poco e, per di più, donna e straniera. La situazione delle donne all’epoca non era molto libera: «Adesso credevo che, in quanto giovane donna da sola, avrei dovuto andarmene. Inoltre, in Cina le donne non uscivano mai da sole, erano sempre accompagnate da un uomo della famiglia o da un servitore. E se non c’era questa possibilità, non uscivano di casa. […] Mi sentivo rinchiusa. Desideravo uscire. Ero giovane, ero contenta, volevo essere libera. E adesso ero chiusa in un piccolo cortile, che ogni sera si riempiva di animali e uomini». Mentre si chiedeva perché Dio l’avesse portata in quella città sperduta, unica cristiana, ed era presa dai dubbi su come procedere, pregava per un segno. Inoltre, Jeannie aveva una piccola rendita come missionaria, che con la sua morte si era estinta. Si presentava anche un problema economico.

In quegli anni Chang Kai-Shek, il capo di stato, divenuto cristiano, aveva messo al bando l’antica, e invalidante, usanza di bendare i piedi delle bimbe, che poi sarebbero rimasti piccoli e rovinati per sempre. Servivano ufficiali del governo che, a dorso di mulo o a piedi, percorressero il paese per sensibilizzare le popolazioni sulle nuove regole.

Il nome della locanda nel 2006: il vecchio cortile di Gesù

Il mandarino (capo politico) di Yangcheng si presentò in pompa magna nel cortile della locanda, e chiese (piuttosto ordinò) a Gladys di essere l’ispettrice dei piedi della sua area. Il motivo: era l’unica donna con «piedi grandi» e sarebbe servita da esempio. «Io rifiutai. Ero andata in Cina per Gesù Cristo e non volevo mischiarmi con questioni di governo, piedi e politica. […] Ma lui non se ne andava». La piccola donna iniziò a pregare nel suo intimo, non sapeva come uscire da quella situazione. Poi sentì come una voce, ebbe un’illuminazione: essere ufficiale del governo le avrebbe permesso di viaggiare in tutta la regione, incontrare e parlare con la gente nei villaggi più remoti, e ricevere pure un compenso economico. «Occorre dare tutti se stessi. Dio in quel momento non aveva bisogno delle mie mani, ma dei miei piedi! E li ebbe». Disse al mandarino che accettava, ma essendo lei una missionaria, avrebbe pure parlato alla gente della vita di Cristo. Il politico – che sarebbe poi diventato un suo caro amico, e si sarebbe convertito al cristianesimo – non vide in ciò nulla di cui preoccuparsi.

Gladys divenne nota e rispettata in Yangcheng e in tutta la zona. Iniziarono a darle il nome di Ài Wĕi Dé, ovvero «la virtuosa». Un giorno venne chiamata per sedare una rivolta nella prigione, e non senza paura, vi riuscì. Suggerì quindi migliorie, che furono adottate, per rendere la vita dei carcerati meno dura, e riuscì a predicare il vangelo anche tra di loro.

Gladys Aylward iniziava a inserirsi nella società delle montagne dello Shanxi, ma rimaneva comunque l’unica straniera. I più vicini erano i missionari di Zézhou con i quali fece amicizia. Sentiva che qualcosa nella sua vita non andava e, inoltre, come donna, molte cose non poteva farle.

«Pregai per avere un compagno […] La gioia di avere qualcuno con cui scalare le montagne, discutere, cantare e pregare. Ma non arrivò». Gladys avrebbe poi detto in un colloquio: «[Dio] lo chiamò, ma lui non arrivò mai». Il tempo passava e Gladys pensò che il Signore non l’avrebbe lasciata sola, e forse sarebbe arrivata una compagna di missione. Ma ancora nulla.

«Nove soldi»

Un giorno Ài Wĕi Dé assistette a una scena raccapricciante. Una megera maltrattava un bambino vestito di stracci. Era in vendita, in quell’epoca succedeva. «Lo vuoi comprare?», disse la megera. Gladys non se l’aspettava, e non aveva quasi denaro con sé. La commerciante di bambini insistette e alla fine la missionaria offrì quello che aveva, nove soldi. Era una bambina, e fu soprannominata Novesoldi: «Comprai la bambina. Fu il primo atto di quella che sarebbe stata la mia completa sottomissione al Signore. Non avevo compreso che stavo comprando la mia prima figlia, una bimba che stava entrando nella mia vita per significare molto. Dopo di lei arrivarono, uno dopo l’altro, gli altri, tutti in maniere differenti, in varie circostanze, ognuno così diverso in carattere e temperamento. Pregai Dio per loro. Egli ci nutrì, ci vestì. La situazione divenne caotica, ma eravamo molto felici. A un certo punto avevo 40 bambini. Chiesi a Dio di non mandarmene altri per favore. Ma il Signore non sempre risponde alle tue preghiere come ti aspetti».

Nel frattempo, Gladys Aylward decise di prendere la cittadinanza cinese, per sentirsi meglio in mezzo alla gente, diventò ufficialmente Ài Wĕi Dé. Anche se, nella pratica, poco cambiò.

La grande traversata

Erano gli anni in cui cominciava la seconda guerra sino-giapponese (1937-45), che faceva parte di una vasta strategia di occupazione dell’Asia da parte del Giappone. In Cina si opponevano all’invasione l’esercito regolare nazionalista, ma anche i guerriglieri comunisti. La guerra arrivava da Est e inizialmente la gente delle montagne a Yangcheng non pensava di esserne coinvolta. Invece iniziarono i bombardamenti della città che crearono morte e distruzione. Gladys si adoperò organizzando i primi soccorsi. Portò i suoi bambini in un villaggio di montagna e faceva la spola con la città per aiutare. Ma poi i militari giapponesi arrivarono e commisero atti efferati. Gladys fu anche picchiata, riportando lesioni interne che le avrebbero poi creato problemi di salute e fu ferita da una pallottola alla schiena. Intanto gli orfani che raccoglieva aumentavano, perché, a causa della guerra, molti bambini restavano soli e vagavano per le campagne.

Quando la situazione stava per precipitare, la piccola donna decise che era il momento di partire per portare i bimbi in salvo da morte certa. Ne aveva circa un centinaio, una ventina dagli 11 ai 15 anni, tra i quali Novesoldi, e un gran numero di piccoli dai quattro anni in su. Si congedò dal mandarino, che non avrebbe mai più rivisto e che l’aiutò con un po’ di cibo per i primi giorni. Poi, il chiassoso gruppo, con lei unica adulta, partì a piedi verso le montagne, direzione Ovest. Era all’incirca il marzo del 1940.

Fu una scelta molto coraggiosa, da un’analisi superficiale si potrebbe dire incosciente. In realtà fu, come sempre per Ài Wĕi Dé, dettata da una grande fede, che le dava forza e una determinazione travolgente.

Dopo quasi due settimane arrivarono sulle sponde del Fiume Giallo che segna il confine Ovest tra lo Shanxi e lo Shaanxi. Tutti i villaggi erano stati abbandonati e la popolazione sfollata aveva attraversato il fiume per fuggire ai giapponesi. Non c’erano più barche. Gladys e i bambini erano allo stremo, affamati e sporchi, ma non si trovava da magiare. Se non avessero attraversato il grande fiume, sarebbero morti.

Dopo tre giorni, comparve un ufficiale dell’esercito nazionalista che pattugliava il fiume. Vedendoli in quello stato, e stupito di quella strana compagine, si adoperò per fare venire delle barche dall’altra riva e i 100 bambini con Gladys poterono proseguire.

Ci vollero ancora giorni, a piedi e poi su un treno merci, ma Ài Wĕi Dé riuscì a portare tutti i suoi bambini al sicuro, nei pressi della città di Xian (Shaanxi), dove erano stati allestiti dei campi profughi per la gente che fuggiva da Est. Avevano percorso oltre 400 km attraversando le montagne.

Gladys Aylward era però in pessime condizioni di salute. Perse conoscenza, fu curata e accudita alla missione di Xingping e all’ospedale della missione battista di Xian. Senza le cure sarebbe morta. Ci vollero mesi, ma si riprese.

In seguito lavorò nelle città Lanzhou (Gansu) e Chengdu (nello Sichuan, più a Sud ).

Cina addio

Gladys Aylward tornò in Inghilterra nel 1949 grazie all’interessamento di un’associazione statunitense, che le pagò il biglietto. Lasciò la Cina a malincuore, dopo tanti ripensamenti. Perché tutto ciò che amava era lì. Aveva bisogno di cure, inoltre con la vittoria dei comunisti iniziarono le persecuzioni delle religioni. Lei non voleva causare problemi a chi stava aiutando.

«Ci incontrammo, io e la famiglia (i ragazzi e bambini, ndr), per l’ultima volta in un campo fuori dalla città di Chengdu. Avevo deciso che era tempo di partire. Mettevo in pericolo chi stava con me perché, sebbene avessi un passaporto cinese, e fossi cinese nei miei pensieri, nel mio amore, nella mia lingua, nei vestiti e in tutto tranne che nel viso, avevo ancora la faccia di una straniera».

In Inghilterra si adoperò per i migranti cinesi, e per promuovere la missione. Voleva tornare in Cina, ma le autorità le rifiutarono l’autorizzazione.

Ài Wĕi Dé andò ad Hong Kong nel 1958, ancora sotto controllo britannico. La città era invasa di profughi arrivati dalla Cina popolare. Qui si prese cura di loro e contribuì a fondare la Hope Mission che li accoglieva.

Si trasferì quindi a Taiwan, dove, sull’isola di Formosa, i nazionalisti cinesi, guidati da Chang Kai-Shek, avevano fondato la Repubblica cinese.

Affittò un hotel chiuso a Beitou, appena fuori Taipei, la capitale, e vi fondò un orfanotrofio, il Gladys Aylward orphanage. Nei primi anni ‘60 arrivò dall’Inghilterra una giovane ad aiutarla, Kathleen Longton: finalmente Gladys ebbe la sua compagna di missione.

Nel 1959 acquistò un terreno a Muzha grazie all’aiuto della Ong statunitense World Vision e vi costruì un orfanotrofio che nel 1963 chiamò Bethany nursey school.

Un’opera che continua

Il 3 gennaio 1970 Gladys Ài Wĕi Dé morì per le complicazioni di una semplice influenza, poche settimane prima di compiere 68 anni. Il suo fisico ormai cronicamente debilitato non andò oltre. Ma la sua opera continua, e si espande. Un gruppo di suoi collaboratori presero in mano la struttura nel 1971.

Una missionaria inglese Linda McFerren vi ha poi lavorato 26 anni con i colleghi cinesi (1992-2018). Nel 2010 la struttura ha cambiato statuto per adattarsi alla mutazione della società, e il nome è diventato Bethany children’s home. Un moderno centro per accoglienza di bambini e adolescenti (0-18 anni) in difficoltà. Il centro sperimenta un metodo innovativo di assistenza famigliare degli orfani. Oltre a continuare con i progetti di reinserimento, realizza servizi di sostegno per bambini svantaggiati e appoggio diretto alle famiglie problematiche.

Marco Bello
(fine prima puntata)

 




Vangelo senza quarantene


Vescovi in mezzo alla pandemia

Cinque missionari della Consolata raccontano la loro lotta contro il Covid-19. Da un punto di osservazione (e partecipazione) particolare: quello del vescovo. Cinque Chiese locali in cinque paesi tra Africa, Asia e America Latina. Cinque esperienze accomunate dallo spirito missionario, quello che va in cerca dei lontani e degli ultimi, anche in tempi di confinamento.

I vescovi missionari della Consolata oggi sono dodici. Tutti al servizio di Chiese presenti in territori poveri e a volte dilaniati dai conflitti, comunità colpite duramente anche dalla pandemia di Covid-19.

Nati in otto paesi diversi tra Europa, Africa e America Latina, hanno dai 47 ai 79 anni e operano in Brasile, Colombia, Eswatini, Kenya, Mongolia e Mozambico.

Dall’Africa alla Mongolia all’America Latina, il Covid-19 non ha risparmiato nessun paese e nessuna classe sociale, ma i primi a rimanere senza ossigeno sono stati, come sempre, i più poveri, gli esclusi, compresi quelli che nemmeno hanno potuto capire di cosa stessero morendo e sono rimasti fuori dalle statistiche per mancanza di tamponi, perché nel loro paese c’è un solo medico ogni 10mila persone.

Cinque di questi vescovi raccontano ai lettori di MC come stanno affrontando l’emergenza sanitaria nelle Chiese che servono. Monsignor Giorgio in Mongolia, mons. Joaquín in Colombia, mons. Diamantino in Mozambico, mons. José Luis in Eswatini e mons. Giovanni in Brasile.

Ciò che accomuna i loro episcopati è lo stile missionario, declinato in modo originale in ciascuna delle Chiese particolari nelle quali hanno operato e operano. L’annuncio a tutti, soprattutto a chi non ha ancora conosciuto Cristo, la scelta degli ultimi, la consolazione, la promozione della pace, il dialogo interreligioso, l’amore per Maria Consolata sono tra i pilastri della loro azione pastorale, anche in mezzo alla pandemia.

Sono volti di una chiesa che partecipa alla sofferenza e alla speranza del suo popolo.

Luca Lorusso

Grafico di Kreativezone


Confinati nelle steppe

Mongolia: Monsignor Giorgio Marengo

È diventato vescovo della giovanissima chiesa mongola nel mezzo della pandemia. Con tutti i luoghi di culto chiusi, dopo più di un anno, monsignor Marengo non ha ancora potuto celebrare l’eucaristia con il suo popolo. Ma la vicinanza ai mongoli, sia cristiani che non, è sempre viva.

La nomina a vescovo di Ulaan Baatar è arrivata a padre Giorgio Marengo il 2 aprile 2020, mentre era parroco della missione di Arvahieer, un piccolo centro rurale della Mongolia.

In quei giorni, le immagini della fila di camion militari che trasportavano le bare delle vittime bergamasche del Covid-19, facevano il giro del mondo. Il 27 marzo in Italia si era registrato il numero più alto di morti nella prima ondata, 919 in 24 ore, superato solo dai 993 del 3 dicembre successivo. La Mongolia sperimentava le chiusure anti-Covid già da febbraio, benché mancassero molti mesi al 29 dicembre, quando si sarebbe registrato il primo morto per Covid anche lì.

A causa delle chiusure, monsignor Giorgio non ha potuto essere ordinato vescovo in Mongolia e ha dovuto aspettare quattro mesi dopo la nomina. L’ordinazione è avvenuta l’8 agosto 2020 nella sua Torino, al santuario della Consolata.

È successore di mons. Wenceslao Selga Padilla, vescovo filippino della congregazione del Cuore immacolato di Maria, morto nel 2018, che, assieme ad alcuni confratelli, aveva rifondato la chiesa in Mongolia dal 1992, dopo 70 anni di comunismo. La Prefettura apostolica comprende l’intero territorio della Mongolia, 1,566 milioni di Km2 (quasi cinque volte l’Italia) nei quali vivono tre milioni di abitanti, e 1.300 cattolici. I sacerdoti sono 24, tutti, tranne uno che è locale, sono missionari stranieri. C’è un diacono che aspetta da due anni, a causa del Covid, di diventare prete, e 35 suore, anch’esse straniere.

A oggi, mons. Marengo non ha potuto ancora celebrare l’eucaristia con il suo popolo.

Monsignor Marengo, lei è diventato vescovo l’8 agosto 2020 nel bel mezzo della pandemia.

«La mia vita è cambiata in un anno strano. Molte delle cose legate al diventare vescovo, io le ho vissute fuori dagli schemi. Ad esempio: quando vieni nominato vescovo, entro 90 giorni devi essere consacrato. Ecco, per me non è stato possibile, perché in Mongolia non poteva venire nessuno, il paese era chiuso. Un altro esempio è la nomina: di solito vi è coinvolta molta gente, compreso il nunzio… per me, invece, eravamo quattro gatti, e tutto è stato fatto in sordina.

L’ho presa come un’indicazione di metodo, che poi è quello allamaniano di non fare rumore.

Oggi la Mongolia è ancora isolata e i luoghi di culto sono tutti chiusi da un anno e mezzo.

All’inizio, ho vissuto la pandemia in campagna, ad Arvahieer, come parroco. Quando è arrivato il momento di dare pubblicamente la notizia della mia nomina, sono andato in corriera a Ulaan Baatar. In quei giorni l’Italia era il paese più colpito dal coronavirus. Quando sono arrivato in capitale, è entrata la polizia nella corriera e, dato che io ero l’unico straniero, mi hanno chiesto di dove fossi. Quando ho risposto che ero italiano si sono spaventati tutti. Allora l’autista, che mi conosce, ha subito detto: “No no, lui vive qua, non era in Italia in queste settimane”».

Torino, consacrazione vescovile di Mons. Giorgio Marengo Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia

La chiusura ha riguardato solo le riunioni religiose, o tutti?

«A ondate è stata ridotta, fino a essere cancellata, anche la vita sociale in generale: le attività, i cinema, i teatri, ecc.

A intermittenza, le altre attività sono riprese, quella religiosa no. Non solo i luoghi di culto cristiani, ma tutti, anche i monasteri buddisti. Per noi cristiani è fondamentale recarci di persona in chiesa, per la celebrazione dei sacramenti, soprattutto l’eucaristia. È dunque un grande sacrificio quello che ci viene chiesto».

Ci fa una cronaca del Covid nel paese?

«Quando in Italia c’era il Festival di Sanremo, nel 2020, in Mongolia eravamo già chiusi.

Appena sono arrivate le prime notizie da Wuhan, il governo ha chiuso il confine con la Cina e ha bloccato tutte le comunicazioni interne.

In Mongolia sono molto bravi perché sono abituati a epidemie periodiche, per esempio alla peste bubbonica trasmessa dalle marmotte e dai roditori. Ogni anno d’estate ci sono dei luoghi in cui scoppia un focolaio, e allora chiudono tutto.

Per il Covid sono stati tempestivi, e sono riusciti a stare tranquilli per diversi mesi.

A marzo 2020 c’è stato il primo caso di un positivo: era un francese, lavoratore di una multinazionale. All’inizio è stato molto male, ma poi è guarito, e questa guarigione è stata vissuta dal paese come una vittoria. Si è diffusa un po’ l’illusione che la Mongolia fosse esente dalla pandemia. In effetti, i casi sono stati molto pochi per diversi mesi, fino all’autunno del 2020.

L’11 novembre è iniziato il primo lockdown serio, fino a Natale. Non si poteva uscire di casa. In quei mesi i mongoli hanno capito che non erano indenni neanche loro.

Con l’anno nuovo è iniziata la campagna vaccinale di massa. Questa primavera è stato un susseguirsi di lockdown e parziali riaperture.

Oggi (ad agosto, ndr) i casi sono molti e ci sono ancora decessi quotidiani, con picchi di 10 persone al giorno*».

Quali nuovi problemi e nuove opportunità ha portato la pandemia al paese?

«Nei momenti di chiusura sono emerse con più forza le grandi tensioni già presenti nella popolazione. Quelle che sfociano in piaghe sociali come l’alcolismo, che infatti ha avuto un boom.

La famiglia si sta sgretolando in Mongolia. Molte famiglie si sono trovate all’improvviso a stare “recluse” insieme nei pochi metri quadri della loro gher o appartamento, e sono venute fuori molte situazioni difficili, soprattutto laddove l’unità familiare era già minacciata dall’assenza di uno dei genitori, solitamente il padre. In generale, è balzata all’occhio di tutti la carenza del sistema sanitario. In un paese che sta crescendo, la sanità pubblica dovrebbe essere una priorità.

Il popolo mongolo, però, si compatta molto bene in caso di emergenza. Il sentimento di unità nazionale è molto forte, e si è visto chiaramente con la pandemia. Ad esempio, nessuno si lamenta della mascherina.

Sono anche emersi casi di eroismo civile: quando scarseggiavano ambulanze e autisti e lo stato ha chiesto aiuto alla popolazione, molta gente, anche con la propria macchina, si è offerta.

Come Chiesa abbiamo innanzitutto cercato di soccorrere le persone più in difficoltà, organizzando distribuzioni di generi di prima necessità. In questo, molti amici italiani sono stati di grande aiuto, rispondendo con generosità ai nostri appelli. Poi, trovandoci chiusi in casa, abbiamo potuto riflettere maggiormente sulle nostre attività, provando a intraprendere un discernimento. Da questo lavoro è nato, ad esempio, un progetto di catechesi in piccoli gruppi che possa andare avanti anche in caso di lockdown, perché le riunioni fino a cinque persone sono concesse. Una catechesi slegata dagli schemi del classico catechismo parrocchiale, quello fatto dall’autunno alla primavera, con la pausa estiva. Ci siamo inventati qualcosa di più adattabile.

E poi c’è tutto il discorso dei media: ancora adesso facciamo la trasmissione online della messa sul canale FB della prefettura apostolica della Mongolia. Anche le parrocchie la fanno. E i catechisti hanno iniziato a far circolare materiale sui social per sostenere i fedeli».

Qual è la peculiarità dell’essere un vescovo missionario della Consolata? Qual è il «valore aggiunto» che lei e i suoi confratelli vescovi offrite alle diocesi che guidate? E cosa offre il vostro essere vescovi all’Istituto?

«Alle chiese particolari i vescovi della Consolata offrono il loro essere missionari, quella spinta che va in ricerca non solo di chi è già cristiano, ma anche di chi è ancora fuori dal gregge cattolico. Penso anche alla nostra impostazione sacerdotale basata sulla spiritualità del beato Allamano, e quindi sui pilastri dell’eucaristia, della vita mariana e del fare bene il bene senza rumore. Sottolineerei soprattutto la dimensione della ricerca dell’annuncio. Cosa che magari in altri contesti, se il vescovo non viene da un’esperienza missionaria, può essere meno presente. Quindi un’attenzione particolare agli ultimi, e a quelli che, semplicemente, non sono cristiani, un atteggiamento di dialogo, una volontà di creare ponti nella società.

Per l’Imc avere dei vescovi tra i suoi missionari penso possa voler dire avere sott’occhio la situazione delle Chiese particolari da una prospettiva un po’ più ampia. Sono un po’ come delle voci che portano dentro l’Istituto tutta la Chiesa».

Il motto del suo episcopato è un versetto del salmo 34: «Guardate a Lui e sarete raggianti». In che modo ha vissuto questa esortazione nel suo primo anno da vescovo?

«Intanto mi sono piacevolmente stupito di come questo salmo ritorni molto spesso nella liturgia feriale. Ogni tanto nella messa quotidiana salta fuori questo “guardate a Lui e sarete raggianti”. Puntare lo sguardo del cuore verso il Signore penso sia la priorità del vescovo missionario.

Cerco, con tutta la mia povertà, di attaccarmi a questa Parola per viverla. La sproporzione fra le esigenze e le sfide della chiesa, e la mia povertà personale, mi mette con le spalle al muro, e mi rende più consapevole che la luce viene da Cristo. Se veramente guardiamo tutti a Lui, questa luce poi si espande nelle nostre realtà.

Poi c’è questa particolarità: “Guardate a lui e sarete raggianti” può essere tradotto anche con “guardate a lui e sarete luminosi”, oppure “illuminati”. Ecco, per noi l’illuminazione viene come pura grazia, non è il raggiungimento di un’intuizione nostra, è la luce di Cristo che ci raggiunge. L’illuminazione è anche il concetto centrale del buddismo. Quindi per me il versetto del salmo 34 ha anche il gusto del dialogo interreligioso.

Ho una grande stima dell’illuminazione come cammino di perfezionamento proposto dal buddismo, e nello stesso tempo sono felice di essere cristiano perché so che la luce viene e, semplicemente, noi la dobbiamo accogliere, e che arriva per chiunque, non è una cosa riservata a pochi intimi, ma è la proposta cristiana per tutti».

Luca Lorusso

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mongolia sono stati 236mila, 780 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 968, uno ogni 3.127 abitanti (in Italia uno ogni 470).


Scuola, sanità e narcos

Colombia: Monsignor Joaquín Humberto Pinzón Güiza

Monsignor Pinzón è il primo vescovo del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano. In un territorio «remoto», dove i confini sono percepiti come idee astratte, il Covid ha portato la durezza del confinamento, e la coscienza di essere uno spazio marginale per lo stato centrale. La pandemia ha evidenziato la carenza di sanità e scuola, ma anche il potere del narcotraffico e dei gruppi di guerriglieri. Nonostante questo, la resilienza e la speranza del popolo rimangono intatte.

Il nostro Vicariato di Puerto Leguizamo-Solano, costituito nel 2013, si trova nel Sud dell’Amazzonia colombiana. Comprende un territorio di 56mila km2 in cui convergono le comunità di tre dipartimenti colombiani: Sud di Putumayo, Sud di Caquetá e Nord dell’Amazzonia. La sua popolazione è di circa 59mila abitanti, di cui 49mila cattolici. Ci sono tredici sacerdoti, di cui 12 religiosi e uno diocesano, e 12 suore per 5 parrocchie. Uno dei suoi tratti peculiari è il suo carattere di confine (tra Colombia, Perù ed Ecuador), che consente lo sviluppo di dinamiche di scambio a tutti i livelli.

Frontiere immaginarie, frontiere reali

Quando papa Francesco dice che «tutto è connesso», ci aiuta a prendere coscienza che le dinamiche vitali che si generano sul pianeta riguardano tutti noi che lo abitiamo.

Essa è una verità ancora più evidente in questo tempo di pandemia da Covid-19. Chi avrebbe immaginato che il coronavirus, avendo avuto origine in terre lontane, avrebbe colpito anche questo angolo di mondo? Questo «luogo remoto», come è considerato da molti.

Possiamo dire che la pandemia non solo ha raggiunto il nostro territorio, ma ci ha anche colpito in modi sorprendenti e inaspettati*.

In questo spazio di vita colombiano dove i confini politici degli stati spesso sono più realtà immaginarie che effettive, dove le frontiere non entrano nella mentalità delle persone e dei popoli, ci è stato imposto un confinamento duro.

Improvvisamente le nostre interazioni e i nostri movimenti sono stati limitati.

Abbiamo capito che nonostante l’Amazzonia sia ampia, possono verificarsi condizioni che impongono limiti al movimento e alle relazioni.

Ora i confini nazionali e internazionali stavano entrando in vigore e in vita. Sì, la sfocatura e la relatività dei confini erano fortemente diluite davanti al nostro sguardo attonito e impotente.

Ora il fiume che ci ha sempre unito, non solo ci separava, ma sollevava nazionalismi che non aiutano nella ricerca di soluzioni ai problemi comuni che affrontiamo come persone, popoli e paesi.

Ora reciprocità e armonia lasciavano il posto all’isolamento e alle tensioni personali e comunitarie, locali, nazionali e internazionali.

Mons Pinzon con suor Gabriella Bono

Territorio trascurato: salute, scuola, fame

Il Covid-19 non solo ha messo in evidenza le differenze tra i paesi, ma ha anche e soprattutto rivelato le differenze all’interno del nostro paese. Abbiamo capito che quando veniamo chiamati «abitanti lontani» c’è qualcosa di vero, poiché in questo tempo di pandemia si è manifestato in modo chiaro lo storico abbandono dei luoghi periferici della Colombia da parte dello stato.

È così che il nostro territorio si rivela, pur con tutto il suo splendore, come territorio marginale, territorio di remota, vera frontiera. I servizi sanitari sono carenti: non esistono né le infrastrutture né il personale sufficiente, tanto meno le attrezzature e le forniture necessarie. Se la pandemia ha aiutato in qualcosa, l’ha fatto nell’evidenziare la precarietà del sistema sanitario.

Anche i servizi educativi sono stati travolti. Si è pensato di poter offrire un’educazione virtuale ai nostri bambini e ragazzi, ma qui, al di là dei cartelloni pubblicitari che affermano: «Leguizamo vive digitale», non c’è un servizio internet all’altezza. Non esistono apparecchiature informatiche che possano consentire ai ragazzi di connettersi. Se queste carenze sono state vissute nei centri urbani, che dire dei villaggi e delle comunità più remote?

È stato un fenomeno che ha esacerbato i problemi già esistenti di un sistema educativo di bassissima qualità, con molti limiti materiali e umani; un sistema che sopravvive grazie agli enormi sforzi degli insegnanti.

Purtroppo, tra i ragazzi c’è una grande diserzione della scuola: molti, demotivati dal fatto di non avere i mezzi per studiare, hanno iniziato a lavorare in fattorie, miniere o coltivazioni illecite.

Il confinamento ha portato anche la fame a coloro che vivono alla giornata (soprattutto nei centri abitati). A riguardo di questo, apprezziamo molto la generosità che è nata per soccorrere tante famiglie in difficoltà. Il valore della solidarietà è stato visibile.

Tarapaca, Colombia. Nov. 12, 2020. Aiuto a una famiglia in necessità. Credit: UE / ECHO / Nadège Mazars

Il traffico di droga non si ferma

Una realtà che non ha subito il confinamento è stata quella del traffico di droga. Anche durante la pandemia hanno continuato a esistere la coltivazione, la lavorazione e la commercializzazione delle droghe. È un fenomeno che rafforza un altro problema drammatico: la violenza.

Senza dubbio, quest’altra pandemia, quella della violenza, ha generato più morti del Covid-19, soprattutto tra i giovani.

Le coltivazioni illecite hanno la capacità di incoraggiare le nuove generazioni a entrare nel mondo del guadagno facile, di difondere quella che viene definita «narco mentalità», quella di chi vuole arricchirsi in fretta e con poco sforzo.

Tutto questo sta generando disgregazione familiare e sociale, sia nelle comunità contadine che in quelle indigene.

La guerriglia

Un’altra realtà, legata a quella della droga, che non ha vissuto il confinamento, è quella bellica. Essa ha continuato a seguire il suo corso «normale», uccidendo e provocando danni.

Gli effetti del processo di pace che si sta portando avanti con i guerriglieri delle Farc, li abbiamo sentiti nella fase di attuazione, quando il gruppo di insorti ha deciso di consegnare le armi. Abbiamo vissuto un periodo di armonia nel territorio e abbiamo potuto sperimentare una certa tranquillità. Ma è stato qualcosa di effimero, come ci ha detto un contadino: «Tanta felicità non può essere così duratura».

Ebbene, purtroppo, il processo di pace non ha previsto come fare per mantenere il controllo e garantire l’ordine nei territori precedentemente in mano alle Farc. Le istituzioni non sono state in grado di arrivare in quei territori. E i territori strategici per la loro collocazione geografica, come il nostro, sono diventati oggetto di contesa da parte di diversi attori, come i dissidenti delle Farc e i gruppi legati al narcotraffico (senza specifica identificazione), tutti motivati dal profitto che le economie illegali portano, e tutti generatori di paura, ansia, caos e morte.

La nostra gente vive consapevole che non c’è alternativa al resistere, e al resistere con saggezza e prudenza, come sa fare da decenni. È la stessa strategia che mette in atto per affrontare il Covid.

Fare del Covid un’opportunità per la vita

Le devastazioni della pandemia da Covid-19 e le altre pandemie che abbiamo descritto, fanno percepire alle persone la fragilità della vita, nonostante sia un dono così prezioso. La malattia, così come la violenza, non hanno remore a colpirci con forza. Ciò che risalta di più in questa lotta è la resilienza delle persone che guardano al futuro con speranza.

Scendendo dal fiume Caquetá sul deslizador, mezzo di trasporto fluviale di questi territori, ho assistito a una conversazione tra alcune persone. Mi ha colpito la frase di una donna: «A che ci è servito tutto questo, se non impariamo niente? Continuiamo come prima».

La verità è che, per molti, tutto quello che hanno vissuto in questo tempo di pandemia, è stato solo una parentesi da chiudere al più presto per tornare alla «vita normale». Ma c’è anche chi crede che questa esperienza ci abbia aiutato in qualcosa, soprattutto a pensare e ripensare il nostro stile di vita politico, economico e sociale.

La pandemia ha messo in luce lo splendore e la fragilità della vita, e la precarietà dei nostri servizi educativi e sanitari. Ecco perché l’imperativo che ne traiamo è quello di valorizzare la vita al di là di ogni altra realtà e di lottare per essa, individualmente e collettivamente.

L’incertezza è ciò che caratterizza il futuro del nostro territorio. Il destino della guerra e del traffico di droga è incerto; incerta la situazione di abbandono da parte dello stato, e la condizione dei servizi educativi e sanitari. Sì, tutto è incerto, e qualsiasi previsione sarà sempre inscritta nell’orizzonte delle probabilità, delle utopie che a volte si trasformano in chimere. Tuttavia noi, come Chiesa, crediamo che la situazione che stiamo vivendo sia uno spazio propizio per sviluppare una spiritualità che ci permetta di affrontare le difficoltà, per rafforzare le spiritualità dei popoli e, al loro interno, proporre la spiritualità della cura, della riconciliazione, della comunione e dell’accompagnamento.

Qui è urgente sognare, progettare e realizzare propositi evangelici che formino e alimentino la vita dei credenti come popolo e come discepoli.

Essere famiglia umana

La coscienza di essere un’unica famiglia umana si rafforza nella fraternità e nell’amicizia sociale.

Nel nostro Vicariato sarà urgente la formazione della coscienza comunitaria, e il rispetto della vita in tutte le sue manifestazioni.

Qui siamo sollecitati a capire che siamo tutti sulla stessa barca e che i problemi di alcuni riguardano tutti, come ha sottolineato papa Francesco. È necessario dare corpo all’utopia della fratellanza, quella tra gli uomini e quella tra l’uomo e la natura. A tal fine, cercheremo di fare delle nostre comunità spazi di vita e di comunione, spazi di trasmissione e coltivazione dei valori di un’umanità solidale.

I motivi per credere sono tanti, tanto da fare della resistenza la nostra forza e da trasformare la paura in speranza.

Joaquín Humberto Pinzón Güiza

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Colombia, su una popolazione di 48,6 milioni di persone, sono stati 4,9 milioni, 1.011 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 125.331, uno ogni 387 abitanti (in Italia uno ogni 470).

Casa distrutta dal ciclone Idai a Tete


Se non bastassero cicloni e terrorismo

Mozambico: Monsignor Diamantino Guapo Antunes

Successore del suo confratello, monsignor Ignazio Saure, divenuto arcivescovo di Nampula, mons. Diamantino è vescovo di Tete dal 12 maggio 2019. È il quinto da quando la diocesi è stata eretta nel 1962. Il Covid, in Mozambico, come in molti altri paesi, ha reso ancora più evidente l’insufficienza della sanità pubblica, e il bisogno di vicinanza e di gesti di consolazione.

La diocesi di Tete conta circa tre milioni di abitanti sparsi in un’area di 100mila Km2 (un terzo dell’Italia). I cattolici sono 750mila. Ci sono 35 parrocchie, 65 sacerdoti, tra cui 17 diocesani e gli altri missionari. I Missionari della Consolata sono sette, incluso il vescovo, responsabili di quattro missioni e un centro di formazione per catechisti.

Il territorio è molto vario, c’è una zona fertile molto popolata (altipiano di Angonia), e una zona secca e arida (lungo il rio Zambesi). Centro propulsore di tutta la regione è la città di Tete.

Le popolazioni appartengono alla stessa etnia bantu, ma sono differenti per lingua e tradizioni. Le principali lingue sono: cinyungwe (40%), cichewa (35%) e cisena (15%) e altre (10%).

La gente vive di agricoltura e, quando può, di commercio informale con bancarelle lungo la strada. Si vive a contatto con le popolazioni dello Zambia, Zimbabwe e Malawi. Il territorio di Tete è ricco di miniere di carbone e ha una delle più grandi centrali idroelettriche dell’Africa, la diga di Cabora Bassa sul fiume Zambezi.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Storia della diocesi

Possiamo dividere la storia dell’evangelizzazione nell’attuale diocesi di Tete in due periodi. Il primo fu iniziato nel 1562 da gesuiti e domenicani che rimasero nella zona fino alla loro espulsione nel 1910. Il secondo iniziò nel 1942, e fu un periodo di penetrazione e consolidamento della Chiesa nel vasto territorio. Esso portò alla creazione della diocesi nel 1962. L’opera di evangelizzazione continua a essere svolta dai gesuiti, dai Missionari d’Africa, dai Padri di Burgos, dai Missionari Comboniani e della Consolata, a diretto contatto con la popolazione, nel lavoro quotidiano e nell’assistenza sanitaria, con notevoli frutti.

La situazione pandemica

Il primo caso di infezione con il nuovo coronavirus in Mozambico è stato confermato il 22 marzo 2020. Si trattava di un uomo di 75 anni tornato dal Regno Unito. Nel 2020 i casi di infezione sono stati pochi, ma con l’allentamento di alcune misure di prevenzione alla fine dell’anno, e l’arrivo dei turisti sudafricani, i casi sono aumentati notevolmente*.

Il Mozambico a inizio agosto era il paese africano con il maggiore tasso di positività, il 16,7%. Le misure del governo si sono fatte più severe. Le scuole sono state chiuse in alcune città, i luoghi di culto pure, c’è il coprifuoco dalle 21 alle 4. Mercati chiusi la domenica. Funerali limitati.

Gli operatori sanitari sono vaccinati, ma la campagna di vaccinazione è lenta. L’intento è di estenderla a tutto il paese entro la fine del 2021.

I nuovi problemi

Il Covid-19 è arrivato in Mozambico in un momento di grande difficoltà. Eravamo nel mezzo della gestione dell’emergenza legata ai cicloni Idai e Kenneth, che avevano distrutto nel 2019 case, centri di salute e ospedali, oltre ad aver causato 600 morti e molti dispersi. Inoltre il terrorismo islamista nella provincia di Cabo Delgado era (ed è) un altro grave problema.

La pandemia ha avuto un grande impatto sull’economia e sulla società, in particolare sul turismo e l’esportazione di materie prime. Il 60% degli stabilimenti turistici ha chiuso. La caduta dei prezzi di materie prime, come carbone e gas, ha pregiudicato gli investimenti esteri, facendo perdere altri posti di lavoro ed entrate statali.

Le piccole imprese hanno immensa difficoltà a mantenere i propri impegni fiscali, divenendo un problema per il paese già abbastanza indebitato.

L’impossibilità dell’insegnamento in presenza ha avuto un profondo impatto sul settore educativo. Lo stesso possiamo dire in campo religioso con la sospensione delle celebrazioni pubbliche e delle altre attività pastorali.

Senza accesso a redditi o sussidi di disoccupazione, con un risparmio piccolo o nullo, e in uno scenario di aumento dei prezzi, la popolazione più povera di Tete, soprattutto urbana, è oggi vulnerabile alla fame. La povertà e l’insicurezza alimentare aumentano l’insicurezza pubblica e urbana, e la piccola criminalità.

Infine, si è ridotta la risposta dei servizi sanitari di trattamento e prevenzione di altre malattie comuni come malaria, tubercolosi, Hiv-Aids.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

La risposta della diocesi di Tete

La provincia di Tete è una delle più colpite dalla pandemia. Essa è, infatti, un corridoio di passaggio per i vicini Malawi, Zambia e Zimbabwe.

La diocesi ha cercato di mantenere viva la speranza tra la gente e di essere una presenza di consolazione e aiuto. Il vescovo ha visitato le missioni ed è stato in contatto con le comunità. Ha chiesto ai missionari di stare ancora più vicini ai fedeli, anche visitando le famiglie.

Siamo a stretto contatto con il ministero della Sanità a livello provinciale, partecipiamo ai tavoli tecnici per organizzare una risposta al coronavirus che metta al primo posto la prevenzione.

Nella Provincia di Tete c’è meno di un medico ogni 10mila abitanti (in Italia ce n’è uno ogni 247, ndr) e le strutture sanitarie sono poche e a volte prive di medicinali. Per questo la prevenzione e la formazione sono la chiave.

Gli agenti di pastorale si sono impegnati anche per diffondere messaggi di sensibilizzazione sul coronavirus, lavorando in piccoli gruppi per rispettare il distanziamento sociale. Abbiamo prodotto spot che sono trasmessi dalla neonata radio diocesana. Gli spot vengono diffusi in dialetti differenti, per arrivare a tutti. Alcuni missionari hanno montato degli amplificatori sulle macchine che girano per barrio e villaggi diffondendo le stesse raccomandazioni.

Diamantino Guapo Antunes

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mozambico, su una popolazione di 28,8 milioni di persone, sono stati 148mila, 51 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.881, uno ogni 15mila abitanti (in Italia uno ogni 470).


Una chiesa piccolo ma pronta

Eswatini: Monsignor José Luís Gerardo Ponce de León

Dal 2014 è vescovo dell’unica diocesi del piccolo Regno di Eswatini. Monsignor Ponce de León descrive una chiesa viva in un paese che, pur pacifico, ha manifestato negli ultimi mesi diverse tensioni, e palesato problemi sanitari, scolastici, economici e sociali rafforzati dal Covid.

Il Regno di Eswatini si trova tra Sudafrica e Mozambico. Il paese, che fino al 2018 si chiamava Swaziland, ha di recente fatto notizia a causa delle violenze dello scorso luglio. Conosciuta come una nazione pacifica, in pochi giorni ha visto la morte di una cinquantina di persone, il ferimento di altre centinaia, e la distruzione di molti negozi.

La diocesi di Manzini è l’unica del paese e, così, io sono l’unico vescovo cattolico. Su una superficie di 17mila km2 (come il Lazio, ndr) vivono 1,4 milioni di abitanti dei quali il 5% cattolici. Arrivato nel 2012 come «amministratore apostolico» dopo la morte di mons. Louis Ncamiso Ndlovu dell’Ordine dei servi di Maria, nel gennaio del 2014 sono diventato il suo quinto vescovo.

La piccola presenza cattolica, in questa nazione a maggioranza cristiana, è ben conosciuta, anche grazie al nostro servizio nel campo della salute (un ospedale, sette cliniche, un ospizio), dell’educazione (sessanta scuole) e della promozione di giustizia e pace (traffico di persone, rifugiati) coordinati dalla Caritas Eswatini.

Proteggere la popolazione

Non appena il presidente del Consiglio ha dichiarato, lo scorso marzo 2020, lo stato di emergenza, la nostra diocesi ha preso due iniziative. La prima è stata quella di interrompere la celebrazione delle funzioni religiose in tutte le parrocchie (17) e le comunità (un centinaio). La rapidità della decisione ha colto di sorpresa molti che hanno così capito la gravità della pandemia. La seconda è stata quella di identificare, insieme alla Caritas, le aree di intervento urgente. Ne abbiamo identificate sei: salute, cibo, acqua, rifugiati, comunicazione, casa.

Salute. Abbiamo fornito l’ospedale, i centri di salute e l’ospizio dei dispositivi di protezione individuale. La Conferenza episcopale italiana ci ha aiutati.

Cibo. La mancanza lavoro e la riduzione degli stipendi hanno inciso sulle famiglie. Le scuole, poi, nel nostro paese, sono una delle principali fonti di nutrimento per i bambini. Con le scuole chiuse, non ne potevano più beneficiare. Per questo, attraverso le nostre parrocchie, stiamo fornendo pacchi alimentari ai poveri della zona.

Acqua. Il messaggio «Lavati le mani» è stato uno dei primi che tutti abbiamo ricevuto e predicato. La domanda qui era: «Come fai quando l’acqua non c’è?». Abbiamo quindi offerto ad alcune famiglie una cisterna e delle grondaie per raccogliere l’acqua piovana. Avere un serbatoio consente anche di acquistare acqua da conservare per i tempi meno piovosi.

Informazione. Come in altri paesi, il governo ha utilizzato radio e Tv per informare sul virus. Con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che c’erano famiglie nelle zone rurali che non avevano nemmeno una radio. Pertanto è stato fatto un elenco di 500 famiglie cui fornirle. Le radio hanno aiutato anche i bambini che hanno potuto ascoltare i programmi radiofonici di insegnamento.

Case con due stanze. Questo programma è iniziato in diocesi molti anni fa grazie al supporto di Home Plan (Olanda). Il Covid-19 lo ha reso più urgente. Il distanziamento è essenziale nella lotta al virus, ma per alcune famiglie che vivono affollate in case di una sola stanza è un lusso.

Rifugiati. Ogni anno visitiamo il Centro per i rifugiati sostenendo le famiglie con pacchi alimentari. La metà dei rifugiati sono bambini. Quest’anno la richiesta del Centro è stata di fornire loro articoli da toeletta e materassi.

Cinquantesimo di padre Massa

Vicinanza social, ma non solo social

Come in altre nazioni, il Covid, oltre a creare dei nuovi problemi, ha portato allo scoperto quelli che già esistevamo ma stavano nascosti, come la mancanza di cibo e di acqua. Ne ha anche accentuati diversi, come la difficoltà delle famiglie di pagare la scuola: quando i giovani hanno potuto tornarci, tanti ci hanno chiesto una mano. La Chiesa cattolica qui è conosciuta come una chiesa al servizio di tutti, e il vescovo, in qualche modo, padre di tutti. Chiunque ne ha bisogno viene a trovarmi e, anche se non possiamo aiutare ogni volta, apprezzano di essere ascoltati.

Da sempre la diocesi ha saputo rispondere alle sfide sociali. Il Covid però ha portato nuove sfide come quella di accompagnare la fede dei cattolici che non potevano più andare in chiesa. La messa qui non è un’abitudine. Celebrare insieme è un elemento forte della nostra spiritualità.

Abbiamo allora preparato dei file audio da inviare via WhatsApp: preghiere e riflessioni sulle letture proposte dai preti della diocesi. Abbiamo anche offerto la messa della domenica su YouTube e, nella settimana santa, «le sette parole».

Con la pagina Facebook della diocesi sappiamo di aver raggiunto tanti.

Le sfide non finiscono

Al momento di scrivere questo articolo Eswatini si trova ad affrontare la terza ondata del Covid*, e soltanto il 10% della popolazione ha ricevuto le due dosi del vaccino. I numeri di coloro che possono entrare in chiesa è limitato. Chi vuole prepararsi per i sacramenti (battesimo degli adulti, comunione, cresima) non può farlo.

Per di più viviamo un tempo di violenza. Sembra che la calma sia tornata, ma è dovuta soltanto alla presenza dei soldati per le strade.

Un’altra sfida che rimane è quella della vicinanza a coloro che sono stati colpiti dal Covid. C’è bisogno di aiuto a livello spirituale e psicologico. Chi è stato contagiato e ha sentito la morte alle porte, chi ha visto i famigliari soffrire o morire a casa (una donna ne ha persi sette in due mesi), è rimasto con delle ferite non guarite.

Le chiese sono sempre il punto di riferimento più importante nei momenti difficili, e, allo stesso tempo, sono le prime a dover chiudere le porte…

Abbiamo bisogno, come diocesi, di ritrovarci (preti, religiose e laici) per riflettere su come essere chiesa in questo momento. La terza ondata probabilmente non sarà l’ultima e rischiamo di mancare di creatività, quella che ci porta lo Spirito, per continuare a testimoniare il Risorto.

José Luís Gerardo Ponce de León

* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi registrati in Eswatini, su una popolazione di 1,5 milioni, erano 44mila, 302 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.158, uno ogni 1.267 abitanti (in Italia uno ogni 470).


È tempo di prendersi cura

Brasile: Monsignor Giovanni Crippa

Fin dall’inizio dell’emergenza Covid, dal marzo 2020, la Chiesa brasiliana si è spesa per soccorrere la popolazione, in particolare i poveri. Anche nella diocesi di Estância, dove monsignor Crippa è stato vescovo dal 2014 fino ad agosto, la pandemia ha colpito duro, ma la risposta della Chiesa è stata, ed è, forte e creativa.

La diocesi di Estância è stata eretta da papa Giovanni XXIII nel 1960. Il suo territorio fu il primo in Sergipe (Nord Est del Brasile, ndr) a essere toccato dall’azione missionaria dei Gesuiti (1575).

Situata nella parte centro meridionale dello stato di Sergipe, la diocesi ha una superficie di 6.650 km2 e una popolazione di 509.675 abitanti, di cui, secondo il censimento del 2010, il 50,56% vive in aree urbane e il 76,85% si dichiara cattolico.

La popolazione è il risultato dell’incrocio di indios, neri (ex schiavi) e bianchi figli dei colonizzatori, particolarmente dal Portogallo.

Abbiamo 28 parrocchie e 617 comunità, 41 sacerdoti, tutti diocesani, 22 seminaristi, 8 istituti religiosi femminili, con 52 religiose in 12 comunità.

Le frequenti situazioni di violenza, disoccupazione, illegalità e aggressione all’ambiente richiamano l’attenzione della diocesi, la quale risponde con progetti di formazione e di promozione umana, giustizia e salvaguardia del creato.

La realtà pandemica in Brasile

Tutti nel mondo stiamo vivendo un momento molto difficile a causa della pandemia. Un tempo che tocca la vita delle comunità nei suoi aspetti pastorali, liturgici, spirituali, sociali ed economici.

Il Brasile è uno dei paesi più colpiti, e fin da subito la Chiesa brasiliana si è mobilitata. Già il 15 marzo 2020, infatti, la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha diffuso un messaggio chiedendo l’osservanza delle indicazioni sanitarie per contrastare la diffusione del virus.

La pandemia, inoltre, ha aggravato la crisi politica già in atto da tempo nel paese. Il 30 aprile 2020, il Consiglio pastorale episcopale della Cnbb ha approvato una nota in cui dichiarava il proprio impegno per un «Patto per la vita e il Brasile», firmato con altre importanti entità brasiliane. Allo stesso modo, ha invitato la società e le autorità pubbliche a unirsi per prevenire e combattere la più grave crisi sanitaria degli ultimi tempi.

Ordinazione episcopale del vescovo Giovanni Crippa

In quello stesso mese di aprile 2020 la Cnbb e la Cáritas brasileira hanno avviato l’iniziativa «É Tempo de cuidar» (È tempo di prendersi cura) con l’obiettivo di promuovere la solidarietà a favore delle famiglie bisognose, prive di cibo, lavoro, casa e accesso alle cure mediche.

Un anno dopo, nella 58ª Assemblea generale della Cnbb dell’aprile 2021, è stata nuovamente discussa la realtà pandemica in Brasile, e si è deciso di proseguire con la campagna. L’iniziativa «É Tempo de cuidar» incoraggia anche il supporto spirituale, psicologico e religioso per chi ha vissuto il lutto a causa della pandemia.

Con il tema «Ogni vita è importante», la Cnbb ha poi organizzato il 19 giugno 2021 una giornata di sensibilizzazione e preghiera in memoria degli oltre 500mila morti per Covid-19. Per entrare in sintonia con la Cnbb e il popolo brasiliano, nello stesso giorno, alle ore 15, tutte le campane delle chiese hanno suonato assieme.

Il 9 luglio 2021, ancora una volta, la Cnbb ha alzato la voce per difendere le vite minacciate, i diritti violati e per sostenere il ripristino della giustizia, cosciente che la società democratica brasiliana sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia.

La tragica perdita di oltre mezzo milione di vite, fra le quali un grande numero di sacerdoti e alcuni vescovi, è purtroppo aggravata dal sospetto di illeciti e corruzione compiuti nella lotta alla pandemia. Il grande numero di contagiati* ha rivelato la precarietà del sistema ospedaliero brasiliano, nonché il rifiuto degli orientamenti della scienza da parte dell’attuale governo, particolarmente del presidente Jair Messias Bolsonaro.

Gli effetti nella diocesi

Anche la diocesi di Estância ha dovuto prendere decisioni che hanno segnato la vita delle comunità. Dal 18 marzo 2020, infatti, si è entrati in una sorta di quarantena generale: rapporti sociali ridotti al minimo, distanza di sicurezza tra le persone, manifestazioni di affetto da evitare, confinamento in casa, rinuncia a tutte le attività che comportano assembramenti, comprese le celebrazioni eucaristiche pubbliche.

La pandemia ci ha chiesto di essere più umili: con una maggiore coscienza dei nostri limiti e di non essere né onnipotenti né autosufficienti.

In questo tempo siamo chiamati a ricostruire la speranza, promuovere la solidarietà e incentivare la preghiera. È un tempo che ci ha chiesto una vita di austerità, sobrietà e semplicità.

Tutte le comunità hanno dato una testimonianza evangelica di solidarietà raccogliendo donazioni per i bisogni dei più poveri che bussano sempre più numerosi alle porte delle nostre chiese.

Se le porte delle nostre chiese sono rimaste «chiuse» per un certo tempo, la Chiesa ha però continuato la sua azione evangelizzatrice.

Le sfide in tempi di Covid

La condizione inedita in cui viviamo suscita molti interrogativi e, soprattutto, richiede un discernimento spirituale su ciò che il Signore vuole comunicarci in questo momento di tribolazione.

La pastorale ha bisogno in questo momento di reinventarsi, di usare la creatività. Le Linee generali per l’azione evangelizzatrice della Chiesa in Brasile (Dgae 2019-2023), sono strutturate sulla Comunità ecclesiale missionaria presentata con l’immagine della «casa». Una casa con le porte aperte per entrare (l’importanza dell’accoglienza) e anche per uscire (in missione).

La situazione che stiamo vivendo ci chiede di essere audaci cercando Gesù fuori dalle nostre case. Gesù non può essere ridotto al tempio. Le chiese dalle «porte ancora semi chiuse» ci provocano e ci sfidano a fare delle nostre case uno spazio per costruire la Chiesa domestica.

La Chiesa, anche attraverso i social media, ha davanti a sé la grande sfida di andare nelle periferie geografiche ed esistenziali e risvegliare tanti fratelli e sorelle alla vita di fede comunitaria.

La pandemia ha colpito tutti, anche se con impatti diversi. In questo momento, la Chiesa deve essere un «ospedale da campo» per sanare le ferite, offrire consolazione e speranza. Le situazioni di miseria, perdita del lavoro, vulnerabilità al contagio, interpellano la Chiesa a collaborare per il bene comune con le autorità pubbliche, a superare l’assistenzialismo e ad aiutare le persone a essere soggetti della propria storia.

Forse l’attuale «stato di emergenza» è un indicatore e anche un acceleratore del nuovo volto della Chiesa che Gesù vuole per questo nuovo tempo, che non può e non deve tornare indietro.

Giovanni Crippa**

* Al 7 settembre, i casi registrati in Brasile, su una popolazione di 207,6 milioni, erano 20,9 milioni, 1.006 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 584mila, uno ogni 355 abitanti (in Italia uno ogni 470).

** Pochi giorni dopo aver scritto queste righe, monsignor Giovanni Crippa, l’11 agosto, è stato nominato dal papa vescovo di Ilhéus, diocesi 600 km più a Sud.


Attuali vescovi IMC:

  1. Luis Augusto Castro Quiroga nato l’8/4/1942 a Santa Fe de Bogotá (Colombia). OE: 29/11/1986 a Santa Fe de Bogotá.
  2. Virgilio Pante nato il 16/3/1946 a Lamon, (Italia). OE: 6/10/2001 a Maralal.
  3. Anthony Ireri Mukobo nato il 23/9/1949 a Mufu – Kyeni (Kenya). OE: 18/3/2000 a Nairobi.
  4. Elio Rama nato il 28/10/1953 a Tucunduva (Brasile). OE: 30/12/2012 a São Paulo.
  5. Peter Kihara Kariuki nato il 6/2/1954 a Thunguri – Othaya (Kenya). OE: 11/9/1999 a Murang’a.
  6. Francisco Javier Múnera Correa nato il 21/10/1956 a Copacabana (Colombia). OE: 11/2/1999 a Santa Fe de Bogotá.
  7. Giovanni Crippa nato il 6/10/1958 a Besana in Brianza (Italia). OE: 13/5/2012 a Feira de Santana.
  8. Inácio Saure nato il 2/3/1960 a Balama (Mozambico). OE: 22/5/2011 a Maputo.
  9. José Luis Gerardo Ponce de León nato l’8/5/1961 a Buenos Aires (Argentina). OE: 18/4/2009 a Mtubatuba.
  10. Diamantino Guapo Antunes nato il 30/11/1966 a Albergaria dos Doze (Portogallo). OE: 12/05/2019 a Tete.
  11. Joaquín Humberto Pinzón Güiza nato il 3/7/1969 a Velez (Colombia). OE: 20/4/2013 a Bogotá.
  12. Giorgio Marengo nato il 07/06/1974 a Cuneo (Italia). OE: 8/8/2020 a Torino.

Hanno contribuito al dossier:

  • Monsignor Giorgio Marengo Vescovo di Ulaan Baatar, Mongolia, dall’8/8/2020.
  • Mons. Joaquín Humberto Pinzón Vescovo di Puerto Leguízamo-Solano, Colombia, dal 20/4/2013.
  • Mons. Diamantino Guapo Antunes Vescovo di Tete, Mozambico, dal 12/5/2019.
  • Mons. José Luís Gerardo Ponce de León Vescovo di Ingwavuma, Sudafrica, dal 18/4/2009; poi vescovo di Manzini, Regno di Eswatini, dal 26/1/2014.
  • Mons. Giovanni Crippa Vescovo ausiliare di São Salvador da Bahia, Brasile, dal 13/5/2012; poi vescovo di Estância, Sergipe, Brasile, dal 9/7/2014; ora vescovo di Ilhéus, Bahia, Brasile, dal 9/10/2021.
  •  Luca Lorusso Giornalista redazione MC che ha curato il dossier

 




Di chi è la colpa?

testo di Antonio Benci |


Il Terzo mondo è una categoria nata negli anni ‘50 che indicava indipendenza e autodeterminazione. Diventata in seguito sinonimo di sottosviluppo e povertà, mentre nasceva nei paesi ricchi un movimento che avrebbe avuto una sua evoluzione.

Terzo mondo è quello che oggi si chiamerebbe un «brand fortunato», coniato nel 1952 da uno studioso francese, Alfred Sauvy, che contrappose al Primo mondo capitalista e al Secondo comunista un ampio gruppo di paesi che stavano uscendo dal giogo coloniale e che potevano auto rappresentarsi come qualcosa che vagamente assomigliasse al Terzo stato del 1789.

Si può solo immaginare il carico di attese che poteva suscitare l’accostamento tra questa eterogenea sommatoria di nazioni con coloro chi avevano dato il via alla Rivoluzione francese, che in mezzo a contraddizioni e anche orrori, aveva contribuito a spingere le istituzioni nell’età moderna. Grazie ai movimenti di liberazione e soprattutto all’immagine di questi presso l’opinione pubblica e l’intellighenzia europea, il Terzo mondo divenne un catalizzatore di speranze e inquietudini. Si evocava l’autodeterminazione dei popoli, si osservava lo sforzo di indipendenza di molti paesi africani e asiatici, e l’uscita dal cono d’ombra della povertà endemica di popoli colonizzati dai «civili» uomini bianchi.

Per una breve finestra temporale – grosso modo i primi anni ‘60 – il miracolo parve compiersi con una sequela di stati che si emanciparono dal giogo europeo. Un ruolo importante l’ebbero intellettuali e leader carismatici di quei paesi che si imposero al mondo con le loro ricette e suggestioni. Parliamo di Franz Fanon, Julius Nyerere, Aimé Césaire, Léopold Sédar Senghor, Camara.

Colombia, una paese dalle grandi disuguaglianze dove, si potrebbe dire, coesistono Primo e Terzo mondo. Foto Marco Bello

Sottosviluppo

Il meccanismo, tuttavia, si inceppò ben presto e spinse l’immaginario a identificare sempre più il Terzo mondo con sottosviluppo, arretratezza, fame. E subito iniziò a imporsi una domanda: a creare questo effetto era la soffocante logica dei blocchi (Usa e Urss) e il neocolonialismo, oppure l’assenza di élites autoctone di quei paesi e una classe dirigente nella migliore delle ipotesi corrotta? In altri termini il sottosviluppo era endogeno o esogeno?

Agli oltranzisti modernizzatori americani che demonizzavano le società tradizionali, arretrate per definizione, si contrapposero le teorie neomarxiste che individuavano nei diseguali rapporti di forza tra i paesi le cause del sottosviluppo, creando un rapporto di causa-effetto tra la povertà dei paesi del Sud e la ricchezza di quelli del Nord.

Era quest’ultima l’impostazione della «scuola della dipendenza» che nacque e si sviluppò per merito di studiosi latinoamericani raggruppati intorno alla figura dell’intellettuale argentino Raúl Prebisch. Da qui trasse origine quella lettura dell’economia mondiale incentrata sulla dicotomia centro-periferia che avrebbe fatto nascere il movimento terzomondista. Il Terzomondismo alla lettera (ci soccorre la Treccani in questo) significa: «Atteggiamento favorevole ai paesi del Terzo mondo, che può manifestarsi sotto forma di solidarietà politica, di sostegno economico, di forte interesse culturale ecc. Negli anni Sessanta e Settanta del 20° secolo, con il termine Terzomondismo si è indicato un orientamento politico che si è sviluppato soprattutto nell’ambito della nuova sinistra, di sostegno alle lotte di liberazione dal dominio coloniale o neocoloniale, ai movimenti rivoluzionari operanti nei paesi del Terzo mondo e ad alcuni stati come Cuba e la Cina».

Tre aspetti

A leggere questa definizione si direbbe che il termine terzomondismo sia relegato in uno scaffale polveroso della storia collettiva. Lotte anticoloniali? Movimenti rivoluzionari? Cosa c’entrano con lo spazio mentale odierno? Eppure ci sono almeno tre aspetti che portano il terzomondismo nella nostra vita contemporanea e sono tre sentiment molto rilevanti per l’uomo: le cause del sottosviluppo, la terapia e il senso di colpa.

Mozambico, in ambito rurale, l’accesso all’acqua pulita è ancora un diritto negato. Foto Marco Bello

Le cause

La lunga rincorsa della scuola della dipendenza portò fin da subito a sinistra. Per dirla con Adriano Sofri, all’idea di «contrapporre la solidarietà alla carità, dunque la dignità degli sfruttati al bisogno dei poveri» (A. Sofri, Chi è il mio prossimo, Sellerio, Palermo, 2007). Abbiamo visto come i problemi del sottosviluppo vennero letti nell’accezione terzomondista in chiave marxista come generati dallo sfruttamento capitalista a cui rimediare non con «l’aiuto», ma con la ricerca di una autentica rivoluzione di respiro internazionale.

Su queste considerazioni, negli anni si innestarono ulteriori e ancora più complesse impostazioni e interpretazioni, strettamente legate alla modernità. Con la vittoria del «blocco capitalista» vennero a crearsi le condizioni per rimettere all’ordine del giorno il Terzo mondo, soprattutto da parte di quei movimenti che videro nella vittoria capitalista un rafforzamento delle politiche liberiste e un impoverimento di quelle di welfare, in un’accezione nazionale come internazionale.

Essere terzomondisti significò pertanto combattere e contestare una sorta di pensiero unico filo occidentale, rimanendo nella trincea di una visione minoritaria che vedeva nell’egoismo dei paesi ricchi la causa principale se non unica del malessere di quelli poveri. Le battaglie contro il debito dei paesi in via di sviluppo, contro il conformismo culturale, contro la globalizzazione, in definitiva erano un guardare al Terzo mondo «pensando a noi stessi». Il terzomondismo negli anni ‘90 fu un vettore di un malessere diffuso che portava con sé un rifiuto radicale della stessa globalizzazione. Era il rifiuto di quell’etnocentrismo che, nelle parole di Samir Amin, costituiva «una dimensione fondamentale dell’ideologia del mondo moderno» (S. Amin, Le conseguenze dell’eurocentrismo in Terzo Mondo. Specchio e memoria dell’Occidente, a cura di F. Slegato ed E. Zarelli, Macro Edizioni, Forlì, 1993). E in effetti l’occidente non esitava a supportare e aiutare regimi antidemocratici al servizio di questa impostazione culturale centrata sul «noi», basti pensare al triste e repentino declino delle cosiddette «primavere arabe».

Borneo malese. Danza di un’etnia dell’isola. L’etnocentrismo occidentale sminuisce le altre culture. Foto Marco Bello

Le terapie

Se dalla diagnosi si passa alle terapie, si torna una volta di più a Sofri e alla dicotomia carità/solidarietà. Il Terzo mondo rimane povero perché l’aiuto è insufficiente oppure perché le società del Sud sono inefficienti? Di nuovo la domanda centrale è «di chi la colpa?». In questi decenni una risposta parziale; eppure, convincente è la carenza di giustizia e diritti. Questa carenza, infatti, allarga la distanza economica, sociale e culturale tra mondi diversi. Come mi disse Graziano Zoni, attivista di Emmaus e Mani Tese fino dagli anni ’60: «Il dare ha tollerato un sacco di ingiustizie e ne tollera ancora. Il dare degli aiuti non si pone il problema della giustizia» (A. Benci, Il prossimo lontano, Unicopli, Milano, 2016).

E quindi le stesse terapie pensate nell’alveo della cooperazione con programmi di sviluppo, accordi bilaterali, l’ingresso delle agenzie delle Nazioni Unite, il ruolo delle Ong, hanno mostrato e mostrano la corda. E questo perché un sentimento terzomondista ancora presente e diffuso all’interno delle opinioni pubbliche suscita diffidenza nei confronti dei programmi finanziati dai paesi ricchi per far «sviluppare» quelli poveri. Non è forse un’altra forma, sia pure sottile e raffinata, di etnocentrismo? La contraddizione rimane: senza giustizia e quindi diritti, non vi può essere uno spirito di cooperazione vera tra le genti, e i fenomeni migratori degli ultimi anni sembrerebbero ribadire questo concetto, come annotano gli studiosi che parlano di sviluppo diseguale come padre non solo di questo spostamento di massa epocale, ma anche dell’inserimento di un’intera generazione di africani e asiatici «nell’economia mondiale come fornitori di manodopera migrante e nello stesso tempo come base per industrie occidentali itineranti» (C. Meillasoux, Per chi nascono gli africani in Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, a cura di P. Basso e F. Perocco, Franco Angeli, Milano, 2003).

Burkina Faso – foto Marco Bello

La colpa

E veniamo ora all’ultimo aspetto: il senso di colpa.

Le responsabilità occidentali sulle condizioni attuali di buona parte del mondo sono solo storiche oppure ancora attuali, come il terzomondismo sostiene? Pascal Bruckner sostenne negli anni ‘80 che l’Occidente, pur avendo colpe storiche inoppugnabili, non doveva sentirsi «in colpa» per il ritardo di sviluppo del Terzo mondo, in gran parte espressione dell’incapacità delle «proprie» classi dirigenti. Per lui non era vero quindi che il mancato sviluppo del Sud, con annesse tensioni, guerre, instabilità, insicurezza, carenza di diritti e servizi fosse direttamente connesso ai voleri inconfessabili dei paesi del Nord, del loro tessuto industriale, della loro rete di interessi (P. Bruckner, Il singhiozzo dell’uomo bianco, Longanesi, Milano, 1984).

Il dibattito suscitato da Bruckner continua da quattro decenni ed è tutt’ora apertissimo con una visione terzomondista che vede tra i suoi epigoni spezzoni del mondo missionario, gruppi scomposti del movimento altermondialista, buona parte delle Ong che lavorano «a Sud», e ottengono per questo, senza porsi troppi problemi o domande, finanziamenti da parte di governi, agenzie ed enti del Nord; altro argomento su cui tornare.

Pensiamo, per rimanere all’oggi, ai numerosi commenti a caldo – in cui si distinse padre Giulio Albanese – seguenti l’assassinio dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, che inscrivono l’accaduto nell’instabilità dell’area determinata dalla presenza di bande armate manovrate da multinazionali e affaristi interessati alle materie prime del paese. Un’interpretazione bollata come terzomondista e quindi per definizione datata, polverosa, ideologica da parte dei salotti buoni dell’atlantismo e della diplomazia italiana e non. In questo senso per una fetta importante di opinione pubblica fa gioco mantenere in vita il termine terzomondista come sinonimo di antiquato.

Borneo – foto Marco Bello

Dove sta la verità?

In questo articolo si è tentata una difficile «sistemazione» del termine terzomondismo che è naturalmente un «mondo» troppo vasto per essere spiegato in poche righe. Tuttavia, alcuni punti appaiono chiari.

C’è ancora oggi, a decenni di distanza, una parte dell’immaginario occidentale che vede il terzomondismo come un incrocio tra senso di colpa e ansia di riforma del proprio stile di vita e convivenza. Il variegato fronte altermondialista in questo senso appare come debitore dell’esperienza del terzomondismo.

Finché continuerà a esistere lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il vilipendio della dignità degli ultimi e quella straripante diseguaglianza che, in questi sessant’anni, non solo non si è attenuata, ma anzi si è ampliata a dismisura, continueranno a esserci scuole di pensiero e interpretazioni che vedono questi mali come connessi all’arroganza del forte nei confronti del debole, eterno disvalore che ha avuto – e ha tuttora – lo stesso terzomondismo tra le sue interpretazioni.

Tuttavia, se sono indubbi i guasti determinati dall’accaparramento di risorse, materie prime, cervelli da parte di nazioni, aziende e comunità ricche a scapito di quelle povere, è altrettanto vero che il terzomondismo ha anche stimolato e rafforzato quella sorta di auto assoluzione per chi vive nel Terzo mondo che vede come il male venire sempre «da fuori».

È ancora lungo e tortuoso il viaggio del terzomondismo all’interno delle nostre società e delle loro, dei nostri stati d’animo e dei loro, delle nostre percezioni di loro e delle loro su di noi.

Antonio Benci




Clima, cibo, economia: dalla Cop26 al G20

testo di Chiara Giovetti |


La conferenza sul clima Cop26, il vertice Onu sui sistemi alimentari e il G20 si sono svolti o stanno per svolgersi in questo autunno 2021. Le decisioni e gli indirizzi che forse emergeranno da questi eventi potrebbero rivelarsi decisivi per il futuro del pianeta e del modo in cui affronteremo le crisi sanitarie, alimentari e ambientali che verranno.

Il 23 settembre si è tenuto a New York il vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, uno degli eventi previsti nell’ambito del cosiddetto Decennio di azione sulla nutrizione@ che è iniziato nel 2016 e si concluderà nel 2025. Lo scorso luglio a Roma, presso la Fao, agenzia Onu per il cibo e l’agricoltura, si è svolto il prevertice, ospitato dal governo italiano.

Il 30 e 31 ottobre sarà la volta del G20@, il forum internazionale che riunisce i 19 paesi del mondo più industrializzati (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti) più l’Unione europea, che si svolgerà a Roma.

Infine, dal 31 ottobre al 12 novembre avrà luogo a Glasgow, in Scozia, la 26° Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, o Cop26@. L’Italia organizza la Conferenza insieme al Regno Unito e ha ospitato a settembre gli eventi preparatori come il vertice pre-Cop@, l’ultimo incontro ministeriale prima dell’inizio dei lavori a Glasgow, con l’obiettivo di «fornire a un gruppo selezionato di paesi un ambiente informale per discutere e scambiare opinioni su alcuni aspetti politici chiave dei negoziati e offrire per questi ultimi una guida politica».

I tre eventi affrontano temi fra loro profondamente legati: clima, cibo, economia. Due degli incontri, la Cop26 e il G20, hanno anche il potenziale di definire accordi che determineranno davvero le successive azioni dei paesi partecipanti. Lo ha sottolineato lo scorso luglio il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, in occasione del prevertice sui sistemi alimentari alla Fao: «La presidenza italiana del G20 ha individuato le priorità per migliorare la sicurezza alimentare globale. Tra queste, l’impatto negativo dei cambiamenti climatici sarà al centro della Cop26 che l’Italia presiede con il Regno Unito. […] Alla Cop26, a Glasgow, vogliamo raggiungere un accordo ambizioso sul clima»@.

Disinfezione prima della messa a Tura Mission contro il Covid-19

Premesse: il fallimento della Cop25

L’ultima Conferenza sul clima, svolta a Madrid nel 2019, era stata un insuccesso. Marlowe Hood, corrispondente dell’agenzia Afp, ha individuato cinque possibili motivi del fallimento@: il primo era, a suo dire, la gestione amatoriale dei negoziati, dovuta alla non impeccabile leadership del paese organizzatore, il Cile, che non avrebbe svolto in modo efficace il ruolo di mediatore che è fondamentale in incontri diplomatici di questo tipo.

Il secondo motivo era la presenza ingombrante di lobbisti delle aziende che producono combustibili fossili (la volpe nel pollaio, rimarcava Marlowe), con le conseguenti interferenze in negoziazioni il cui scopo è in larga parte quello di ridurre la dipendenza del pianeta proprio da quei prodotti. Vi era stato poi il «corrosivo effetto-Trump», cioè il disimpegno – per non dire il boicottaggio – sulle questioni climatiche manifestato dagli Usa nel quadriennio della presidenza di Donald Trump. Infine, l’atteggiamento tiepido della Cina che, con il 29% di emissioni di CO2, «ha in mano il destino del pianeta»: alla Cop25 Pechino «ha puntato i piedi e, sostenuta dall’India, ha invocato il principio secondo cui i paesi ricchi devono assumere un ruolo guida nell’affrontare il cambiamento climatico, denunciando il loro fallimento nel mantenere le promesse fatte», vincolando poi al rispetto di queste ultime la propria disponibilità a prendere impegni. Secondo diversi esperti, infatti, la Cina adotterà delle misure significative solo se l’Unione europea confermerà il suo obiettivo di impatto zero entro metà secolo e si impegnerà a ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.

Infine, concludeva Hood, il fallimento della Cop25 è stato probabilmente il sintomo di una più ampia crisi della cooperazione e del multilateralismo legata all’ascesa di nazionalismi e populismi e alla tendenza dei governi a contrarre la spesa pubblica.

Che cosa dovrà decidere la Cop26

La conferenza di Glasgow dovrà, dunque, riprendere le fila di un dialogo interrotto nel 2019 e puntare a decisioni più ambiziose possibile. A cominciare dall’impegno per mantenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo, che a sua volta richiede il raggiungimento dell’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050 e maggior decisione e incisività nel promuovere le alternative ai combustibili fossili.

Se il rientro degli Usa nell’accordo di Parigi sul clima, deciso dal presidente Joe Biden, e le alluvioni dello scorso agosto in Germania e Belgio@ sono elementi che suggeriscono un’aumentata sensibilità dei governi all’urgenza di reagire al cambiamento climatico, permangono comunque forti resistenze. Durante l’incontro del G20 a Napoli dello scorso luglio, il presidente della Cop26, Alok Sharma, ha riferito alla Bbc@ che il tema del cambiamento climatico è stato in effetti affrontato dalle venti principali economie del mondo – responsabili dell’80% delle emissioni – e si è visto un generale consenso circa la necessità di eliminare il carbone dalla produzione di energia. Purtroppo, Cina e India, due attori di primaria importanza nell’eventuale processo di decarbonizzazione, si sono opposte con decisione.

Altro elemento che rappresenta un’incognita è il ruolo della pandemia sui negoziati della Cop26. Se, da un lato, molte persone nel mondo sembrano aver recepito la pandemia come un motivo di riflessione sulla sostenibilità della presenza umana sul pianeta, dall’altro, opinioni pubbliche le cui economie sono provate da lockdown e restrizioni potrebbero mostrarsi restie ad accettare i costi degli investimenti richiesti per un’efficace transizione verso fonti di energia e stili di vita più sostenibili.

I negoziatori dovranno tenere conto di tutti questi aspetti e anche delle proposte e richieste emerse dal 28 al 30 settembre dallo Youth Summit@ il vertice che ha riunito a Milano 400 giovani, di età compresa fra i 18 e i 29 anni, da 197 paesi – in modo da includere il punto di vista delle generazioni che saranno più esposte alle conseguenze del cambiamento climatico.

Il G20 e la cooperazione

Il G20, o Gruppo dei 20, e gli incontri fra i leader e i ministri dei paesi che lo compongono, ha le sue origini nella necessità di coordinare gli sforzi delle principali economie del mondo per reagire alle crisi finanziarie della fine dello scorso millennio, a cominciare da quella del 1999 che interessò diversi paesi asiatici – Thailandia, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia – e si estese poi a Brasile e Russia@.

In quell’anno e per i successivi nove, alle riunioni del G20 parteciparono i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi membri. Con la crisi finanziaria del 2008, su iniziativa del presidente Usa George W. Bush cominciarono i vertici del G20 che coinvolgevano i capi di Stato e di governo. Dal 2010 questi incontri hanno cadenza annuale con il paese ospitante che cambia ogni anno@.

Le decisioni prese ai summit non sono vincolanti da un punto di vista giuridico, ma il loro peso politico e di indirizzo può essere molto elevato. Fra i temi connessi alla cooperazione e allo sviluppo che il vertice di Roma dovrà affrontare, vi è la ristrutturazione del debito per i paesi a basso e medio reddito. Nelle economie fragili, l’espansione della spesa pubblica e il maggior indebitamento imposti dalla pandemia rischiano di risultare insostenibili e così, già a novembre dell’anno scorso, i paesi del G20 avevano deciso di congelare il debito. Un provvedimento temporaneo e di emergenza che il summit di Roma dovrebbe tentare di sostituire con un accordo più articolato di riduzione o rinegoziazione@.

Altro tema che dovrebbe ricevere attenzione da parte dei leader del G20 è quello dell’accesso al cibo, dal momento che le persone in condizione di grave insicurezza alimentare sono aumentate dai 690 milioni del 2019 agli 820 milioni attuali, in larga parte a causa della pandemia@.

Il vertice Onu sui sistemi alimentari

Proprio del cruciale tema del cibo si è occupato il vertice Onu sui sistemi alimentari che si è svolto a New York il 23 settembre scorso. Il suo obiettivo, si legge sul sito istituzionale, era di suscitare la consapevolezza che occorre «lavorare insieme per trasformare il modo in cui il mondo produce, consuma e concepisce il cibo»@.

Per sistemi alimentari si intende tutta la «costellazione di attività coinvolte nella produzione, lavorazione, trasporto e consumo di alimenti». Uno dei principali problemi che il vertice intendeva affrontare era quello dei sistemi alimentari fragili e a rischio di collasso, «come milioni di persone in tutto il mondo hanno sperimentato in prima persona durante la crisi del Covid-19».

L’obiettivo era quello di individuare soluzioni e stabilire principi di riferimento che possano guidare il cambiamento di questi sistemi nella direzione di una maggior sostenibilità e garantire a tutti l’accesso al cibo. Alla chiusura di questo articolo (fine agosto 2021, nda) non è possibile dare conto dei risultati del vertice; certamente però le critiche che hanno preceduto il suo svolgimento sono state numerose e aspre.

Il prevertice di luglio e le critiche

Queste critiche sono emerse già in occasione del prevertice che si è svolto alla Fao nel luglio scorso, attraverso prese di posizione come quelle della piattaforma Csm (Civil society and indigenous peoples’ mechanism)@ che riunisce organizzazioni della società civile attive nella lotta all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione: nonostante affermi di essere un «vertice del popolo» e un «vertice delle soluzioni», è l’accusa del Csm, questo summit favorisce piuttosto una maggiore concentrazione nelle mani delle multinazionali, promuove catene del valore globalizzate insostenibili e rafforza l’influenza dell’agroindustria sulle istituzioni pubbliche. E lo fa proponendo «false soluzioni, come i modelli falliti degli schemi volontari per la sostenibilità aziendale, soluzioni “naturali” che includono tecnologie rischiose come gli organismi geneticamente modificati e la biotecnologia e l’intensificazione sostenibile dell’agricoltura». Queste soluzioni, continua il Csm, non sono né sostenibili, né abbordabili per i produttori alimentari su piccola scala e non affrontano le ingiustizie strutturali come l’accaparramento di terre e risorse, l’abuso di potere da parte delle grandi aziende e la disuguaglianza economica.

Anche il Vaticano ha preso posizione nel dibattito. Nel suo intervento al prevertice, il cardinale Peter Kodwo Turkson, prefetto del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, ha ricordato che per individuare soluzioni davvero sostenibili è opportuno guardare ai popoli indigeni e alla loro capacità di adattare i metodi di coltivazione alle condizioni che via via si presentano, mentre occorre porre un freno all’opposto tentativo di spazzare via queste conoscenze: «L’utilizzo delle tecniche tradizionali si è dimostrato fondamentale per la vitalità e la resilienza delle colture e delle specie alimentari indigene, mentre l’introduzione di specie straniere, accompagnate da fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, “compromette gravemente questa vitalità, e l’agricoltura tradizionale locale in Africa lo dimostra”»@.

Chiara Giovetti




Zizoti di Zechi, martire per amore

testo di Gigi Anataloni |


Il 1° ottobre 1921, padre Luigi Graiff (detto Zizoti [Gigiotti] in famiglia) nasce a Romeno, in Trentino, da Fiorenzo (detto Zechi) e Giuseppina Deromedis. Dal 1927 al 1934 frequenta le scuole elementari al paese. Conosce i Missionari della Consolata e, nell’ottobre del 1934, entra nel seminario minore di Favria Canavese, vicino a Torino, per gli studi ginnasiali (medie più 1ª e 2ª liceo di oggi, ndr). Qui frequenta i primi tre anni di ginnasio e poi la quarta e la quinta a Varallo Sesia (Vc). Il 15 agosto del 1939 veste l’abito chiericale per mano di monsignor Carlo Re e nell’ottobre comincia i tre anni di liceo.

Sono anni duri, gli anni del secondo conflitto mondiale. Il cibo è scarso anche nell’Istituto e i giovani chierici liceali ne soffrono. Nel giugno del 1941 Luigi completa a fatica la seconda liceo perché sempre malaticcio. Le vacanze estive lo rimettono un po’ in sesto, ma alla fine della terza il suo fisico è minato: ha contratto la tubercolosi. Passa quindi lunghi mesi, che diventateranno anni, nel sanatorio di Arco (Tn).

Come hai vissuto quel lungo periodo di malattia?

A luglio del 1943 erano già cinque mesi che mi trovavo in sanatorio e scrissi una lettera ai superiori a Torino. «Qui mi hanno voluto il Signore e la Madonna, e qui sono venuto compiendo con amore e volentieri questo sacrificio che mi costò assai. Finora nella mia vita non m’era successo mai niente, e appunto per questo m’attendevo qualche prova dal Signore. È venuta e l’ho benedetta. Sono pienamente rassegnato alla santa Volontà di Dio. Le sue vie sono mirabili se saprò uniformare la mia alla Sua santa Volontà. Il mio morale è molto alto e forte, e quando mi sopraggiungono le ore tristi, melanconiche cerco di scacciarle come tentazioni, perché potrebbero nuocermi. Finora tutto bene. Sono sempre contento e allegro. La ricordo giornalmente nelle mie preghiere. Le chiedo un memento nella santa Messa».

Una volta guarito, sei tornato in seminario?

È stata lunga guarire, ma nell’ottobre del ‘46 ho iniziato gli studi teologici alla Certosa di Pesio dove gli studenti erano stati trasferiti dopo che la Casa Madre e il seminario a Torino erano stati bombardati e non erano ancora agibili. Nel 1948, sempre in Certosa, ho fatto l’anno di noviziato e poi i primi voti religiosi il 1° ottobre 1949, giorno del mio 28° compleanno. In seguito, c’è stata un’accelerazione, e in pochi mesi ho completato tutti i passi necessari, ricevuto gli ordini minori e il diaconato, e il 18 dicembre di quell’anno sono stato ordinato sacerdote. Ricordo che, poco prima dell’ordinazione, scrissi una lettera al padre Gaudenzio Barlassina, superiore generale, ringraziandolo per la sua vicinanza e chiedendogli preghiere affinché «il profumo della mia vita fosse motivo di gioia per la Chiesa di Cristo».

Sei partito subito per le missioni?

Praticamente sì. Ho dovuto passare ancora un annetto a completare i miei studi teologici e nel marzo del 1951 sono partito da Venezia in nave per il Kenya, destinato alla diocesi di Nyeri. Prima nella missione di Gatanga e poi, dal 1954 al 1960, a Mugoiri. Sono stati anni bellissimi, di piena immersione nella realtà del popolo kikuyu.

Mentre costruivo la chiesa di Mugoiri si rinsaldava nella fede una comunità cristiana molto vivace, nonostante le tante difficoltà di quegli anni di rivolta anticoloniale (e a volte anche anticristiana) dei Mau Mau, di cui i Kikuyu erano i principali protagonisti.

Sei rimasto dieci anni di fila in Kenya, ma non facevate mai le vacanze in Italia?

Un tempo, quando si partiva, lo si faceva per la vita, anche perché i viaggi non erano facili. Invece noi potevamo già tornare per tre mesi ogni cinque anni. Quando sono tornato in Italia nel 1961, però, mi sono dovuto fermare per circa due anni, perché la mia salute non era delle migliori. Sono stato a Rovereto, nel seminario, sia per dare una mano, che, soprattutto per rimettermi in sesto. Però la nostalgia dell’Africa era troppo forte, tanto più che ero ben cosciente che il mio vescovo a Nyeri, monsignor Carlo Cavallera, era impaziente di aprire nuove missioni nel Nord della sua enorme diocesi, dove ai missionari era stato impedito di entrare fino ad allora.

Chiesa di Mugoiri

Ci vuoi spiegare meglio?

Certo. La diocesi di Nyeri è stata la prima a essere fondata dai Missionari della Consolata, già nel 1905. Aveva un’estensione enorme. Con la diocesi di Meru, che sarebbe stata separata da essa nel 1926, copriva un’area che andava dal Lago Rodolfo (oggi Turkana) fino ai confini con la Somalia e da un centinaio di chilometri a Nord di Nairobi fino all’Etiopia, un territorio più grande dell’Italia. Ma fino a dopo la Seconda guerra mondiale, tutta la zona poco più a Nord dell’equatore e a Est verso la Somalia era stata off limits per i missionari cattolici. Gli inglesi, allora colonizzatori, non la consideravano sicura e, tenendo conto che gli abitanti erano solo poche decine di migliaia, e tutti pastori nomadi, ritenevano che non fosse il caso di disturbare i musulmani e i pochi protestanti che erano già là (dove gli inglesi avevano aperto degli uffici governativi) ed erano considerati più che sufficienti per i bisogni religiosi di quella gente.

Ma monsignor Cavallera non era dello stesso parere. Sapeva che in quelle zone c’erano anche delle piccolissime comunità cattoliche e poi non poteva ignorare un così vasto territorio affidato alle sue cure pastorali. Per questo, fin dai primi anni Cinquanta, aveva fatto avventurosi viaggi per visitare tutti i centri dove gli inglesi avevano uffici governativi, da Wajir a Moyale, da Laisamis a Loyangallani, da Baragoi a Marsabit. Si era reso conto che sì, protestanti e musulmani si occupavano di religione, ma niente di più. Poi la gente non era affatto musulmana o protestante, ma la maggior parte era di religione tradizionale. In più non desiderava predicatori o imam ma molto di più scuole per i propri figli, centri di salute, progetti di sviluppo, acqua, cibo sicuro e pace. Così il vescovo aveva mosso mari e monti, con la tenacia di cui era capace, fino a ottenere dall’autorità coloniale il permesso di aprire missioni nel Nord, nel Marsabit e nel Samburu.

E qui vieni tu

Già. Monsignore era uno che non si risparmiava, ma era anche molto esigente con gli altri. Se mandava un missionario a iniziare una nuova missione (ed entro il 1964, anno in cui Marsabit è diventata diocesi, ne aveva iniziate ben 14), voleva che le cose fossero fatte «bene e subito», non dopo anni. Non importava se quella era una mission impossible dato che sul posto non c’era nulla e si doveva far venire il cemento da centinaia di chilometri, scavare pozzi per avere l’acqua, raccogliere le pietre per le fondamenta, trovare la sabbia per fare i blocchi, tagliare la legna per avere assi e travi, dormire con un occhio aperto per via degli animali (iene, leoni, elefanti e serpenti) che di notte entravano nel campo, creare piste e strade, attraversare pericolosi fiumi stagionali. Così lui mi ha chiamato, perché mi aveva visto costruire la chiesa di Mugoiri e aveva capito che ero di poche parole ma mi sapevo arrangiare.

La missuione di Laisamis

Da dove hai cominciato?

Nell’agosto del 1963 mi ha mandato a fondare la missione di Laisamis, tra i pastori rendille, più o meno a metà strada tra Isiolo e Marsabit. L’anno dopo, ho aiutato anche per le prime costruzioni della nuova missione di Archer’s Post tra i Samburu, circa 125 km più a Sud. A Laisamis sono rimasto dieci anni. L’inizio è stato davvero duro. Quando sono arrivato non c’era nulla. I serpenti erano i padroni assoluti. Mi attendeva un lavoro immane. Ho misurato allora a lunghi passi l’area della futura missione, mi sono rimboccato le maniche e, con l’aiuto di alcuni volenterosi del luogo, ho cominciato a rimuovere le pietre. E poi è venuto tutto il resto del lavoro. Scuola (che serviva anche da chiesa), dormitori per gli studenti e dispensario (che sarebbe diventato poi un vero ospedale) sono state le prime costruzioni che ho fatto. Entro il 1965 sono riuscito a costruire anche una casetta per me.

Cos’è che ti ha provato di più?

La solitudine. È vero che il lavoro non mancava e attorno c’era la gente del villaggio, i bambini della scuola, i maestri e gli infermieri, ma, come missionario, ero solo. E alcune volte la solitudine diventava intollerabile, come è successo nel luglio 1964 dopo che il villaggio e la missione erano stati fatti bersaglio di un attacco notturno degli Shifta, quando ho mandato questo messaggio via radio a Nyeri: «Io sto male, ho bisogno che venga subito qualcuno». Un mio confratello, mio grande amico, ha subito accolto l’appello e quando, dopo un viaggio avventuroso, ha raggiunto Laisamis sull’imbrunire, dal poggio della missione gli ho gridato: «Te l’ho fatta». Non ero ammalato, avevo solo bisogno di compagnia.

Ovvio che poi c’erano altre difficoltà. Una delle più grandi era quella degli Shifta, banditi di origine somala che terrorizzavano la popolazione razziando il bestiame e uccidendo indiscriminatamente. Quando hanno attaccato Laisamis, hanno fatto scappare tutta la gente, terrorizzata dalla loro violenza. Sono stato l’unico a rimanere, anche se da solo. Vani sono poi stati i miei appelli affinché la gente tornasse. È stata solo la fame e la mancanza di pascoli che li ha convinti a ristabilirsi attorno alla missione, dove, grazie al fiume stagionale, avevano cibo e acqua per il loro bestiame.

Monsignor Carlo Cavallera e padre Luigi Graiff

Intanto nel 1964 Marsabit era diventata diocesi, staccandosi da Nyeri, anche se le strutture erano minime e il vescovo viveva sotto una tenda.

Il vescovo, sostenuto dall’arrivo di nuovi missionari – nel 1968 sarebbe arrivato anche un mio compaesano, padre Aldo Giuliani, che era entrato in seminario dopo avere partecipato alla mia ordinazione sacerdotale – continuava nel suo impegno per aprire e rafforzare nuove missioni. Nel 1965 ha iniziato la missione di Loyangallani, al Lago Rodolfo, e lo ha fatto con un maestro e un catechista, dopo che lì, il 19 novembre 1965, era stato brutalmente ucciso dagli Shifta il padre Michele Stallone. Così nel 1973 ha mandato me in quell’oasi verde sulle sponde pietrose del lago, dove a pochi chilometri di distanza, a Komote, viveva la piccola comunità dei pescatori Ol Molo che avrebbe subito rubato il mio cuore. Avviata Loyangallani, nel 1979 il vescovo mi ha spostato a South Horr con il compito particolare di curare le due comunità di Tuum e Parkàti che erano state iniziate pochi anni prima da padre Giuseppe Polet.

Ma non era troppo pericoloso spingersi in quelle aree così remote?

Tuum e Parkàti sono, ancora oggi, due punti che trovi a fatica sulle carte geografiche. Tuum è in una valle sul versante Ovest del monte Nyiro, il monte sacro dei Samburu, all’opposto di South Horr, mentre Parkàti si trova a una ventina di chilometri più a Nord verso il lago, in un territorio caldissimo, la Suguta Valley. Grazie alla presenza di sorgenti d’acqua, erano quasi delle oasi adatte per costruire una scuola e un centro di salute per i nomadi che là vivevano.

Lì, ancora tren’anni prima, sospinti dalla fame, abusivamente, i Turkana erano entrati nella terra dei Samburu. Erano file di donne, uomini, vecchi e bambini che, per le piste sassose e polverose, preceduti dai loro armenti e da qualche asinello carico di pentolini, pelli e stracci, curvi e tristi, fuggivano dalla fame.

Inizialmente erano poche migliaia, ma quando sono arrivato a South Horr, la loro presenza contava ormai più di 30mila persone. Poco a poco, i Turkana si erano impadroniti della lunga striscia di territorio situata a Ovest dell’orrida e scoscesa valle di Suguta, una terra tristemente nota per le frequenti scorrerie dei banditi Ngorokos, e quindi poco frequentata dai Samburu.

Chiesetta di Parkati

Chi sono gli Ngorokos?

Erano una banda di predoni, composta prevalentemente da Turkana, ma anche da altri gruppi etnici. Si ritiene che a loro si fossero uniti anche degli ex militari ugandesi di Idi Amin, defenestrato nel 1979. Avevano armi sofisticate e si sospettava che qualcuno dall’esterno li manovrasse e comunque comprasse il bestiame da loro rubato, che andava poi a finire nei macelli di Nairobi. Attivi fin dagli anni Sessanta, hanno fatto pesanti incursioni nei villaggi dei Samburu e dei Rendille, che hanno poi cercato vendetta attaccando i Turkana, aumentando così i conflitti intertribali.

Fino a che punto i Turkana erano responsabili delle scorrerie operate dagli Ngorokos?

La risposta non è facile. Se da una parte è vero che nella banda erano attivi molti elementi della loro tribù, dall’altra è anche vero che i Turkana detestavano cordialmente quegli assassini, chiedendo al governo e persino a noi missionari le armi necessarie per combatterli. E avevano le loro buone ragioni. Quando gli Ngorokos preparavano una razzia contro i Samburu, non trovavano di meglio che allenarsi assaltando le manyatte dei Turkana, violentando donne e ragazze e uccidendo quanti opponevano resistenza. Quando poi compivano le loro razzie nei territori dei Samburu o dei Rendille, chi ne andava di mezzo erano ancora i Turkana perché ritenuti responsabili dell’accaduto. Nel 1975, la conca di Parkàti è stata spettatrice di una di queste feroci rappresaglie: quattordici fra vecchi, donne e bambini, sono stati trucidati dai Rendille, e 7mila i capi di bestiame (capre, asini e cammelli) razziati.

E voi siete andati di proposito a costruire una missione proprio là?

Proprio così. Abbiamo voluto impiantare a Parkàti una piccola stazione di missione perché il sorgere di un abitato stabile avrebbe garantito protezione e tranquillità alla gente, e la presenza di missionari, disposti a servire indistintamente i due gruppi, avrebbe contribuito a placarli e conciliarli. Con la missione, poi, si sarebbe dovuta aprire anche una strada che avrebbe apportato non pochi benefici: dall’intervento tempestivo delle forze dell’ordine in caso di necessità; al trasporto di acqua e generi alimentari, soprattutto nei periodi di siccità; alla rapidità di spostamento anche per la popolazione e il bestiame.

È stato padre Polet che ha convinto il governo ad aprire una strada tra le rocce, guadagnandosi così la totale fiducia della gente, e poi ha costruito un dispensario, aule scolastiche, dormitorio e casette per i maestri. Nel 1977 era spuntata anche la cappella, umile ma funzionale, e, infine la casetta per il missionario. Nella valle dell’inferno era nata la missione di Parkàti. Ogni fine settimana, da South Horr, andavo là e a Tuum.

Cos’è successo all’inizio del 1981?

La situazione era molto tesa. Le razzie degli Ngorokos erano continue e stavano diventando sempre più forti e più crudeli. Prima di Natale, gli altri missionari mi avevano sconsigliato di andare troppo spesso a Parkàti, ma avevo risposto che, se veramente avessero voluto uccidermi, avrebbero potuto farlo già tante altre volte. Solo poche settimane prima, ad esempio, avevano assalito la bottega di Parkàti mentre io ero lì a vedere tutto a circa cento metri di distanza. Scherzando, i miei confratelli mi dicevano che ero il cappellano degli Ngorokos  e, prima o dopo, li avrei convertiti tutti. Anche alcuni dei miei cristiani mi avevano sconsigliato di andare, ma un po’ celiando, un po’ sul serio, avevo risposto loro: «Cosa debbo farci dal momento che la mia tomba è là?».

E così ti sei preparato al safari.

Il 9 gennaio, era venerdì, al mattino presto sono andato alla missione di Baragoi per acquistare farina e zucchero da portare a Parkàti. A padre Pietro Davoli e suor Cristiana Sestero, che mi pregavano di non andare laggiù perché ormai erano scappati quasi tutti a causa degli Ngorokos, ho risposto: «Anzitutto, faccio solo il mio dovere; in secondo luogo, vi sono ancora i bambini della scuola e i pochi vecchi che non sono riusciti a fuggire; se non porto loro un po’ di farina, che cosa mangeranno? Non posso lasciarli morire di fame. D’altronde, se il Signore mi chiama, sono pronto».

Lo stesso giorno, passato a South Horr e caricato tutto il necessario, sono partito per Parkàti e, passando per Tuum, mi sono fermato a visitare la famiglia di Veronica che aveva cura della chiesetta quando io ero assente. Vedendo un calendario sulla parete della capanna, mi è venuto di dire: «Sapete? Morirò il giorno 10 gennaio». Poi ho consegnato a Veronica una busta: «Qui c’è qualche shellino, dopo la mia morte fatemi dire delle messe». Prima di partire le ho anche dato quaranta metri di cotonata blu per fare dieci divise per i bambini della scuola, chiedendole di tenerne da parte una misura grande per avvolgervi il mio cadavere. Perplessa e un po’ spaventata, mi ha domandato: «Padre, perché parli così oggi?». Sono rimasto zitto per un po’, poi, ridendo, le ho detto: «Veronica, tieni d’occhio il sacchetto del denaro, non voglio morire con quello come Giuda». Li ho salutati e sono poi arrivato a Parkàti, dove mi sono fermato tutto il sabato.

E sei partito per tornare a Tuum.

Domenica mattina, l’11 gennaio verso le 6 e mezza, sono partito per Tuum dove, come al solito, mi aspettavano per la santa Messa. Mi accompagnava il catechista Patrick, Peter Areman (un giovane diciottenne) e quattro ragazzi che dovevano andare a scuola a South Horr. Il viaggio è stato senza intoppi fin quasi a metà del percorso. A una dozzina di chilometri da Tuum, improvvisamente si è parata davanti a noi una ciurma urlante di uomini armati. Erano più di duecento. Avevano panghe (coltellacci), lance, fucili e anche mitra. Ho capito immediatamente il pericolo e ho tentato di invertire la marcia, ma una raffica ha bloccato la Land Rover. Non c’era più scampo. Eravamo accerchiati. Sceso di corsa, sono andato dietro per aprire il portellone della Land Rover e far uscire i ragazzi. «Non ci resta che inginocchiarci, pregare e morire», ho detto loro. Speravo proprio che si limitassero a derubarci.

Croce posta sul luogo uccisione padre Graiff a Parkati, con padre Pietro Davoli e padre Cornelio Dalzocchio

È l’11 gennaio, solennità del Battesimo del Signore. Padre Zizoti, riceve il battesimo per la Vita.

Funerali di p Graiff .

Una fucilata alla testa lo fa cadere nelle braccia del catechista. Anche Peter e Lothuru Lomakar, uno degli studenti, sono brutalmente ammazzati. Il catechista Patrick, tra le botte, riesce a parlare con gli assalitori, riconoscendone alcuni. Supplica e ottiene di avere salva la vita, per sé e i ragazzi superstiti. È percosso e spogliato. Gli dicono di avvertire la missione. Riesce a spostare il corpo di padre Graiff a circa due metri dalla macchina che è stata incendiata. Il corpo però subisce gravi lesioni perché i banditi infieriscono su di lui, denudandolo e strappandogli il cuore e le viscere, quasi applicando antichi e brutali rituali per rubargli lo spirito di uomo coraggioso. Patrick risale con grande difficoltà fino a Tuum ad avvisare. Di qui due giovani partono immediatamente con una lettera per padre Cornelio Dalzocchio a South Horr e, attraversando la montagna del Nyiro, giungono alla missione verso le cinque del pomeriggio. Dolore e sbigottimento. Partono subito in quattro, con la Land Rover: padre Dalzocchio, don Tibaldi, suor Floremilia e suor Assunta. Quando, in piena notte, giungono sul luogo dell’eccidio, una scena raccapricciante si presenta ai loro occhi: tre corpi nudi, orrendamente feriti e crivellati di proiettili, bruciati e tumefatti, giacciono sul terreno accanto alla carcassa della Land Rover.

Raccolgono i resti, li trasportano al centro di Maralal, a oltre 200 chilometri di distanza, dove, oltre alla missione, c’è anche il posto di polizia. Espletate le formalità burocratiche e ottenuto il permesso di sepoltura, il giorno dopo hanno luogo i funerali, celebrati da mons. Carlo Cavallera e da tutti i missionari della diocesi. Il pianto dei missionari, degli africani e in particolare dei nomadi è immenso.

Padre Luigi è ora sepolto nel cimitero della missione di Maralal, accanto alle spoglie di padre Michele Stallone, ucciso a Loyangallani il 18 novembre 1965 e di padre Luigi Andeni, ucciso ad Archer’s Post il 15 settembre 1998.

Gigi Anataloni

Maralal Mission cemetery




Seminare nel mare, pescare sulla terra

Si può seminare nel mare e pescare sulla terra? Gettare i semi negli abissi, e le reti al suolo, aspettandosi frutti?
Ho sentito di un uomo che spargeva semi seduto sull’acqua. Spinto in una barca dalla folla che lo cercava in riva al mare (cfr. Mc 4,1-9), si è messo a seminare. E la folla che bramava quel seme lo dava per matto: perché tanto spreco? Cosa può nascere dal fondale sabbioso del nostro mare?

Non avevano capito che il seme era la sua parola e l’abisso il cuore dell’uomo. Molti si sarebbero spaventati al sentir parlare delle profondità delle loro vite, abitate com’erano da mostri marini che agitavano le acque e li atterrivano.

Ho sentito anche di pescatori che gettavano reti sulle strade, tra le case. Erano quelli dai fondali fertili, quelli che si erano fidati del seminatore e lo avevano seguito in cerca di altri, in attesa come loro (cfr. Mt 4,18-22). Gettavano le reti nella polvere, seguendo le orme confuse del cammino degli uomini, facendo attenzione a non calpestarle, a non cancellarle per non perderne la traccia.

Credo di averne pure incontrati. Appaiono come cercatori zoppi che camminano con cautela. Un tempo sono stati colti dalla rete di altri. Oggi pescano per i mari e per le terre del mondo perché tutti possano scoprirsi seminati e fecondi.

In attesa, in ascolto, in uscita,
buon mese missionario da amico.

Luca Lorusso

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Storie di civismo e di mal d’Africa

testo di Sante Altizio |


I giornalisti, quelli bravi, raccontano la realtà. Chi andando in giro per l’Italia a scovare (anche nei tempi avversi del Covid) esperienze di r-esistenza civica, chi andando in giro per l’Africa a scovare i meccanismi del neocolonialismo.

Coscienza civica e dove trovarla

Ormai abbiamo capito che la pandemia non ci ha resi migliori e forse è stato un po’ naïf augurarselo. Certo, quando tutto sembra andare male, ha senso sperare che il futuro possa essere radioso dopo una notte buia e tempestosa.

C’è, però, un libro, uscito in giugno con Neos Edizioni e firmato da Gloria Schiavi e Luca Rolandi, che ha il merito di mostrare come la speranza abbia i suoi fondamenti, anche molto concreti. Il libro si intitola Coscienza civica e dove trovarla. Storie da un’Italia che r-esiste, e accende i riflettori su un mondo che, durante i vari lockdown più o meno rigidi di questo ultimo anno e mezzo, sarebbe potuto scomparire e che, invece, ha trovato la forza di resistere. E non solo di resistere, ma addirittura di crescere.

È il mondo delle associazioni, dei movimenti di base, di quei gruppi espressione di «coscienza civica», di attenzione al territorio, alle persone che lo abitano, all’ambiente, ai fenomeni globali.

L’editore racconta così la sua pubblicazione: «Si tratta di un libro inchiesta che racconta trenta storie di cittadinanza attiva e di partecipazione “dal basso”, trenta casi esemplari di coscienza civica, trenta iniziative sparse su tutto il territorio nazionale, da Torino a Roma a Lecce, da Milano a Rimini ad
Accumoli, messe in campo da comuni cittadini che hanno avviato cambiamenti all’interno delle loro realtà e che si battono per il bene comune nelle forme più diverse».

Il sociologo Franco Garelli, al quale è stata affidata la prefazione, le ha definite «storie di ordinario civismo», e di questo infatti si tratta.

Gloria Schiavi e Luca Rolandi sono giornalisti capaci, e hanno costruito un giro d’Italia che apre il cuore alla speranza.

Le trenta storie raccontate sono poco note, ma potenti. Parlano di obiettivi importanti raggiunti nonostante da febbraio 2020 mezzo mondo tenga il fiato sospeso e le porte più o meno serrate. Parlano di «piccole rivoluzioni nate dal basso, magari per rispondere alle difficoltà – dice Neos -. Buone pratiche operose e silenziose, che spesso cadono nell’indifferenza dei media. Questa raccolta di casi e testimonianze vuole portare in primo piano e dare dignità documentaria a quegli alveari innovativi che crescono in Italia: una risorsa di energia costruttiva che mette in moto cambiamenti concreti ed innesca altre azioni positive».

Mal d’Africa

Sollevando lo sguardo al mondo, vale la pena segnalare l’ultima uscita nella collana Orizzonti Geopolitici di Rosenberg & Sellier. Si tratta di Mal d’Africa, volume scritto da Angelo Ferrari e dal compianto Raffaele Masto.

Chiunque abbia l’intenzione di capire lo stato dell’arte del «continente nero» non può fare a meno di misurarsi con questo testo che è a metà strada tra un saggio e un reportage.

Ferrari e Masto sono due firme di gran livello. Il primo è responsabile del desk esteri dell’agenzia Agi, il secondo, che, purtroppo, ci ha lasciati nel maggio del 2020, è stato, per «Radio Popolare», uno dei più attenti osservatori sul campo delle «cose africane»
(cfr Librarsi di giugno).

La forza di Mal d’Africa è l’assenza di retorica e di parole d’ordine. C’è in esso, piuttosto, una lettura attenta della realtà, complessa, ricca di distinguo, che il continente sta vivendo.

La tesi che sottende al lavoro di Ferrari e Masto è questa: sebbene il Pil africano sia quasi ovunque in crescita, la percentuale di abitanti che sopravvivono con meno di 2 dollari al giorno continua a essere enorme. E questo perché l’Africa continua a essere vista (e usata) dai potenti di turno come un serbatoio dal quale attingere materie prime a basso costo e al quale vendere prodotti finiti a costi molto più alti.

L’Africa esporta materie prime e importa prodotti finiti pagando il dazio due volte.

La trasformazione avviene altrove, il lavoro è eseguito altrove. Nessuna ricaduta economica sul territorio. E senza ricadute, nessuna speranza di creare un’economia capace di formare una borghesia con potere d’acquisto, una classe dirigente non corrotta, uno sbocco reale di progresso diffuso.

Con modalità profondamente diverse rispetto al passato, il colonialismo è tornato di gran moda (ammesso che sia mai finito per davvero). La Cina, prima di tutto, poi Russia, Turchia e i paesi del Golfo Persico sono i nuovi attori che hanno scelto l’Africa come terra di conquista economica.

A loro si sommano quelli «storici»: Francia, Stati Uniti, Germania, Italia.

L’Africa è un forziere straordinario, in grado di sostenere a basso costo le nostre catene produttive e agroalimentari. Prendiamo il fenomeno del land grabbing: faccio un accordo (farlocco, che dura un’eternità) con un governo (che corrompo), nel quale si stabilisce che un pezzo di terra (tendenzialmente enorme) diventa mio e ci coltivo ciò che voglio o vi estraggo qualche minerale prezioso. Il frutto di quel raccolto, ovviamente, prende la strada del mio paese.

I cinesi, sovente, fanno arrivare in Africa dalla madre patria anche la manodopera, per tenere i costi vicini allo zero.

C’è questo, ma anche molto altro, in Mal d’Africa: dalle ipocrisie occidentali, alle responsabilità di una classe dirigente africana senza scrupoli. E un occhio attendo alle persone, al miliardo di cittadini africani che subiscono questo meccanismo disumano e che spesso, se possono, tentano la via dell’emigrazione verso quei luoghi che sono all’origine della loro fuga. E lo fanno sapendo che sarà un viaggio illegale e molto pericoloso, nel quale perdere la vita è una possibilità concreta, da mettere in conto.


Adotta un libro

Per chiudere, una nota leggera: Effatà Editrice ha varato l’iniziativa «Adotta un libro! Un libro in omaggio per salvarlo dal macero». Chi acquista un libro dal catalogo dell’editore cattolico di Cantalupa (To), potrà scegliere uno dei volumi pubblicati negli ultimi anni che non hanno trovato «casa» e sono destinati alla distruzione.

Per info: www.editrice.effata.it

Sante Altizio




Ven, 1 ottobre 2021

Bar 1,15-22; Sal 78; Lc 10,13-16

Salvaci, Signore, per la gloria del tuo nome

Da Punti Luminosi, un pensiero al giorno del Beato Giuseppe Allamano

Ogni sacerdote è per sua natura missionario. Non tutti potranno andare in missione, ma tutti dovrebbero desiderarlo. L’apostolato missionario è un grado superlativo del sacerdozio.

La vocazione missionaria è sublime, perché è la continuazione della missione stessa di Gesù Cristo, degli apostoli e dei grandi missionari.