Viene la primavera

testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


Duemilaventuno. «Anno nuovo, vita nuova». Quattro parole: un augurio, una speranza, una preghiera. Una preghiera che, di questi tempi, diventa un grido. Ci stiamo dicendo in tutte le maniere: pazienza, resilienza, speranza! Non perdiamo la speranza. Camminiamo nella speranza. Restiamo umani. Sui giornali e sui social troviamo tutti i tipi di analisi di questa situazione. Articoli e libri si stanno moltiplicando. Papa Francesco ritorna continuamente sullo spirito necessario per navigare in questo mare in tempesta senza perdere la rotta e cogliere il tempo di grazia. Un suggerimento arrivato il giorno dell’Immacolata è quello di imparare da san Giuseppe e diventare suoi compagni di viaggio.

Anche i superiori dei missionari della Consolata tengono gli occhi puntati sulla nostra tenuta per i rischi di scoraggiamento e chiusura, perché «viviamo tempi difficili, d’incertezza, preoccupazione e anche di ansia per un futuro carico di tanti problemi».

L’invito che viene da coloro che hanno a cuore il bene comune e dei singoli, è quello di prepararsi a vivere il «dopo Covid-19» evitando la rimozione di questi mesi, assumendo invece la pandemia come opportunità per il cambiamento, senza l’ansia di tornare a essere e a vivere come prima.

Durante l’Avvento, san Pietro ci ha ricordato che i tempi duri sono i tempi della pazienza di Dio, che ci dà tempo per capire e cambiare, senza fretta. «Un giorno come mille anni, mille anni come un giorno». Questo mi ha fatto pensare al lungo e durissimo esilio di Israele in Babilonia. Cinquant’anni di lacrime e di dolore, tempo di impotenza e frustrazione. Eppure anche il tempo più fecondo della vita di Israele. È proprio in quegli anni che alcune delle parti più importanti dell’Antico Testamento prendono la forma che ora conosciamo, e che Israele approfondisce la sua spiritualità e capisce a fondo la sua identità. Cinquanta lunghi anni, dieci in più dei famosi quaranta nel deserto, per rigenerare un popolo che aveva perso le sue radici nell’ansia di essere come tutti gli altri. Cinquant’anni per dare tempo al «letame» del dolore, dell’impotenza, dell’esilio, dell’umiliazione e schiavitù, di fertilizzare la rinascita dei campi fertili di un popolo nuovo, un rinato e rinnovato popolo di Dio.

Sono sempre vivi in quelli della mia generazione i ricordi di un tempo a misura del guareschiano «Mondo piccolo», quando non c’erano ancora i bagni in casa e i bisogni si facevano sulla concimaia – e non si parlava ancora di progresso, ma di civiltà -. Il letame poi, che di plastica non aveva tracce, era sparso sui campi d’inverno per poter fertilizzare la terra, garantendo una rigogliosa e profumatissima primavera. Il problema oggi è che non produciamo più letame, ma rifiuti, troppi rifiuti.

Guardando al travaglio planetario che stiamo vivendo e alla durezza di cuore e di testa di tanti dei grandi della terra che continuano a ragionare solo in termini di potere e avere, viene da domandarsi: fino a quando? Di quanto tempo avremo bisogno per far rinascere un mondo secondo il progetto di Dio, dove gli uomini vivano da fratelli e sorelle e siano davvero giardinieri della terra, non predatori?

C’è di che rimanere scoraggiati. Questo, però, non è tempo di scoraggiamento e passività, tempo per restare incollati ai social a vedere come va a finire senza fare niente e sperare che le cose diventino migliori. Non è questo il tempo di lasciare che siano i potenti, gli influencer, i mafiosi, i guru, i santoni e i divi di turno a guidare la nostra vita. È invece il tempo dei santi, cioè delle persone normali che sanno di essere amate da Dio e si amano, e credono in se stesse. È il tempo di coloro che sanno di non essere più grandi di un seme, ma che come un seme, si consumano per tirar fuori le radici, dialogare con la terra, bucare la superficie, uscire verso il sole e crescere come un albero o uno stelo d’erba, un fungo o un fiore,  un cedro del Libano, e diventare una foresta, un prato verdeggiante, un raccolto di grano, un frutteto generoso. Non domani, ma oggi, preparandosi in questo inverno, assorbendo il fertilizzante dal letame (il dolore dell’umanità), per cambiare il mondo quando inizierà la primavera.

Ora. Questo è il tempo della più vera umanità. L’umanità dei poveri, dei miti, degli operatori di pace, degli innamorati della giustizia, dei puri di cuore. Uomini e donne vere che non si misurano con i like, gli applausi o gli zeri del conto in banca, ma con l’Amore di Dio che li riempie.

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