Niger: Sulle tracce di Boko Haram

Reportage da Diffa, dalla guerra al confine Est

testo e foto di Luca Salvatore Pistone |


L’estremo Est del paese, vicino al lago Ciad, vive da anni un’emergenza umanitaria. Qui i jihadisti di Boko Haram fanno incursioni dalla vicina Nigeria. Molti villaggi sono stati distrutti e la gente vive nei campi di sfollati.

Mussa si asciuga il sudore con uno straccio. «Mia cugina Jamilah è uscita di notte dalla tenda e non è più tornata. Sono passati tre giorni, è finita nelle mani dei Bons hommes». Al suono delle parole Bons hommes, la platea di bambini che si è radunata alle nostre spalle comincia a urlare a squarciagola una canzone il cui ritornello fa: «Bons hommes non osate venire qui, i piccoli di Assaga Niger e Assaga Nigeria vi prenderanno a pugni». C’è chi la canta in lingua haussa, chi in kanourì e chi in peul.

«Bravi uomini»: è così che i bambini del campo per profughi e sfollati di Assaga chiamano i membri di Boko Haram (locuzione haussa il cui significato è «l’istruzione occidentale è proibita», cfr. MC ottobre 2016), il gruppo terroristico nigeriano che si fa chiamare anche Stato islamico dell’Africa Occidentale, confermando l’affiliazione ai ben più potenti e mediatizzati cugini dello Stato islamico.

Per fare esorcizzare loro il mostro, le Ong attive nel campo li hanno muniti di fogli e pennarelli sui quali sono ritratti omoni grandi e grossi con fucili e machete, donne kamikaze con lunghe vesti che coprono l’esplosivo, taniche di benzina per dare fuoco a chiese, scuole e mercati e una marea di cadaveri.

Terra di confine

Il campo profughi di Assaga si trova a una ventina di chilometri da Diffa, una poverissima città del Sud Est del Niger, al confine con la Nigeria. Ho scelto Diffa come base per muovermi nella regione martoriata dai Bons hommes. È il terzo giorno consecutivo che vengo al campo, che tra sfollati nigerini e profughi nigeriani ospita un numero imprecisato di persone. Sicuramente diverse migliaia.

La tendopoli prende il suo nome da un piccolo villaggio di frontiera raso al suolo dai jihadisti. Si estende per quasi un chilometro ai lati dello stradone asfaltato che conduce all’aeroporto di Diffa. Da una parte c’è Assaga Niger, terra di sfollati nigerini, e dell’altra Assaga Nigeria, dei profughi nigeriani. Una divisione ormai interiorizzata dai locali. Così, quando qualcuno attraversa la strada, magari per acquistare del latte in polvere in una delle bancarelle sorte come funghi, esclama: «Vado all’altra Assaga, torno presto».

Abbandonando il loro villaggio natale, le vittime di Boko Haram speravano di trovare nel campo di Assaga un posto sicuro dove sopravvivere. Ma la realtà è un’altra: l’accampamento viene preso di mira dai miliziani, perché a difesa diretta della struttura non c’è nessuno. Le infiltrazioni, al fine di reclutare nuove forze, sono prassi comune. Spesso all’appello manca qualcuno o perché misteriosamente ucciso o perché rapito. Nel secondo caso le vittime sono soprattutto donne. Mancano servizi igienici e corrente elettrica, e così, di notte, per fare i propri bisogni, occorre allontanarsi ed esporsi a pericoli. Proprio come accaduto a Jamilah, la cugina di Mussa.

«Se non l’hanno sgozzata – è certo Mussa – l’hanno fatta loro schiava». Sul versante nigeriano di Assaga, Mussa ha visto la morte in faccia. «Ci avevano radunati tutti davanti al pozzo. Ci accusavano di essere dei traditori, di avere denunciato la loro presenza alle autorità. Ma non era vero. Hanno imbracciato i fucili e hanno iniziato a spararci contro, all’altezza della testa. Quel giorno sono morte almeno venti persone. Quei Bons hommes erano ragazzi dai quattordici ai vent’anni». Mussa è riuscito a scappare riportando però una profonda ferita sul fianco, frutto di un rapido incontro con la lama del machete di un jihadista.

Nigeriano o terrorista?

Una giovane donna si fa avanti. Si chiama Atikah, è anche lei nigeriana e vuole parlare. «La prima volta che vennero a casa nostra mi chiesero perché mio marito non fosse in moschea. Io risposi loro che non lo sapevo e se ne andarono via. Vennero una seconda volta. Risposi la stessa cosa. Alla terza risero, con un’espressione crudele in volto. Mi presero di forza e mi condussero in moschea. Lì mi fecero trovare mio marito, morto, con la gola tagliata».

Il terrore che la gente prova per Boko Haram si sta mutando in fobia. I rifugiati nigeriani, specialmente i più giovani, sono sospettati di essere terroristi perché provengono dalla loro stessa terra. Zainab, vent’anni, teme di essere diventata vedova: «Mio marito andava al mercato di Diffa per acquistare della frutta da rivendere qui al campo. Alcuni venditori ambulanti avevano iniziato a stuzzicarlo, a dirgli che, in quanto nigeriano, era certamente un terrorista. Poi due settimane fa uno di loro ha chiamato un poliziotto e questo lo ha arrestato e portato via. Da quel giorno non ho più sue notizie».

Diffa ha un solo alleato che tutti chiamano rivière Komadugu Yobé, un fiumiciattolo che nasce dal lago Ciad, si dirama fra piccoli arbusti e sabbia e aumenta sensibilmente la propria portata nella stagione delle piogge. Per circa 150 chilometri costituisce la frontiera fra Nigeria e Niger. Quando cominciano le piogge e il Komadugu Yobé sale, gli attacchi di Boko Haram diminuiscono.

Ma in queste settimane, di pioggia non se ne parla, e i jihadisti sono sempre in agguato, pronti ad attraversare il Komadugu Yobé a piedi e a lanciare rappresaglie di ogni sorta. L’intera regione è tenuta d’occhio dalle spie di Boko Haram che, oltre che per l’efficienza del proprio sistema d’intelligence, spicca per una notevole capacità persuasiva, basata sulla repressione di chi osa tradire la setta.

Lo stato ci prova

L’esercito nigerino di stanza a Diffa è costituito in maggioranza da giovani soldati male equipaggiati, spediti al fronte senza un buon addestramento. La paga mensile di un soldato non arriva ai 100 euro. Poco se si pensa che Boko Haram promette uno stipendio cinque volte maggiore.

Prima dell’arrivo di Boko Haram, il motore dell’economia regionale erano le coltivazioni di pepe. Poi sono cominciati a spuntare fucili e munizioni nascosti nel retro dei camion carichi della spezia, difficili da controllare senza metal detector di cui gli apparati di sicurezza nigerini sono sprovvisti.

Boko Haram riscuote delle tangenti sul passaggio di coloro che transitano nei territori da esso controllati. Per questo il governo di Niamey ha dichiarato a Diffa lo stato d’emergenza, con il divieto di alcune coltivazioni che avvantaggiano Boko Haram (il pepe) o che, impiegando piante a stelo alto, consentono ai terroristi di nascondersi (il mais). Altra misura preventiva è il divieto assoluto dell’utilizzo di motocicli, mezzi prediletti di Boko Haram per gli attacchi rapidi e kamikaze, oltre che diffusissimi a Diffa. Un provvedimento che ha messo definitivamente in ginocchio la già misera economia locale dal momento che quello del mototassista è uno dei lavori più diffusi.

Gocce di cristianesimo

È domenica e mi dirigo alla chiesa evangelica della «Vita abbondante». Insieme a quella cattolica è una delle due uniche comunità cristiane di Diffa: in tutto un centinaio di credenti. A indicarmi Godiya, la cui storia mi è stata raccontata da un suo conoscente, è il guardiano della parrocchia. È bellissima nel suo sfarzoso abito viola. Canta nel coro e in alcuni passaggi fa la prima voce sfoggiando le sue doti canore.

Per poterla avvicinare attendo che la funzione finisca. Trascorrono almeno due ore tra sermoni, musiche e balli che tengono alto il morale dei partecipanti, tutti elegantissimi.

Godiya ha vent’anni, è nigeriana e la sua città natale è Maiduguri, proprio dove nel 2002 nacque Boko Haram. Si è trasferita coi suoi cari a Diffa per fuggire all’assedio jihadista. «La tragedia della mia famiglia avvenne cinque anni fa. Uscii in cortile e vidi mio padre per terra, picchiato da due ragazzi più giovani di me. Cercava di difendersi dai loro pugni e calci. Gli rubarono i soldi e il cellulare. Corsi da mia madre gridando a squarciagola. “Aiuto! Aiuto! Stanno uccidendo papà!”. Mamma si mise a strillare insieme a me, ma quei due ci puntarono contro una pistola. Poi spararono tre colpi a mio padre. Nessuno venne in nostro soccorso». Godiya ha saputo in seguito che quei due giovani erano di Boko Haram. Tuttavia, non ha mai capito se avessero ucciso suo padre in quanto cristiano o perché aveva opposto resistenza durante il furto.

Vittime «collaterali»

È ancora mattino presto quando atterro a Niamey, la capitale. Prendo un taxi e mi faccio lasciare al carcere minorile maschile, in pieno centro. Al suo interno, tra spesse e alte mura di terra battuta, si trovano una cinquantina di ragazzi accusati di far parte di Boko Haram, e da mesi in attesa di giudizio. Il direttore della prigione non vuole correre il rischio di un «contagio» tra i comuni detenuti e così i presunti terroristi, identificati con la sigla Eafga (Bambini associati a forze e gruppi armati), hanno un’ala tutta per loro.

Durante il giorno, complice il caldo asfissiante, i ragazzi se ne stanno tranquilli sdraiati all’ombra. Sporadicamente scatta una rissa, subito soffocata dall’intervento dei secondini. La posta in gioco è troppo alta: chi sgarra non ha diritto all’ora di attività sportiva, ovvero alla partitella di calcio. Quando alle cinque di pomeriggio lo psicologo del penitenziario tira fuori dalla tasca il foglio con la lista dei più meritevoli, nel braccio dei sospetti Boko Haram cala un silenzio di tomba. Tutti si mettono sull’attenti nella speranza di sentire pronunciare il proprio nome.

«A tutti i nostri giovani piace il calcio – dice lo psicologo -. Qui è l’unico sfogo che hanno. Durante la partita abbiamo modo di renderci conto di chi sono i ragazzi con i caratteri più violenti. Una volta individuati, spiego loro che devono cambiare atteggiamento. Non dispongo di prove certe del fatto che ci siano membri di Boko Haram. Sono mesi che attendono il processo e solo Allah sa quando avverrà. La mia opinione? Solo pochi di loro, volenti o nolenti, hanno avuto contatti con i terroristi».

I detenuti selezionati dallo psicologo si mettono in fila indiana per uscire dal recinto in cui mangiano, si lavano e dormono. Appena fuori, un secondino li fa sedere per terra per la conta. A fatica i ragazzi riescono a contenere l’entusiasmo che solo un pallone può dare. E non fa niente che le linee del campo siano fatte con delle pietre e che le porte siano arrugginite e senza reti. Giocare a piedi scalzi non è un problema.

La situazione di questi detenuti, quasi tutti originari di Diffa, è molto delicata. Spesso non sanno neanche perché si trovino qui. La politica della «tolleranza zero» adottata dall’esercito e dalla polizia nigerini si è tramutata in continui arresti arbitrari. «Sono nato e cresciuto in un villaggio vicino a Diffa. I miei genitori sono morti quando ero piccolo, non li ricordo. Facevo l’apprendista saldatore, ma di lavoro non ce n’era, così mi sono messo a vendere biscotti per strada». Hamidou ha quindici anni ed è rinchiuso a Niamey da un paio di mesi. «Una sera al villaggio sono arrivati dei soldati che si sono messi a perquisire tutto e tutti. Indossavo una maglietta di colore verde militare che avevo trovato per strada. Mi hanno picchiato, bendato gli occhi e caricato su un furgone. Dopo alcune ore mi sono ritrovato nella prigione di Diffa. Poi mi hanno portato qua».

Mamadou ha diciassette anni ed è nato nella regione di Borno, nel Nord Est della Nigeria. «Sono stato avvicinato diverse volte dai terroristi, volevano diventassi uno di loro. Un giorno mi dissero che per me avevano in mente una “missione sacra”. Volevano farmi esplodere all’aeroporto di Diffa. Raccontai tutto alla mia famiglia e il giorno dopo scappammo in Niger». In «salvo» a Diffa, però, Mamadou ha commesso un grave errore: rivelare la sua storia ai nuovi vicini di casa. «Hanno spifferato tutto ai poliziotti e quelli mi hanno creduto uno di Boko Haram. Mi hanno arrestato e condotto qui. Nessuno vuole dirmi che fine farò, non ho notizie dei miei genitori. Lo giuro, sono innocente».

Si sta facendo buio e l’orario di visita è terminato. Alcuni ragazzini mi pregano di tornare con notizie fresche su Cristiano Ronaldo e Messi. Rispondo loro che l’indomani dovrò fare ritorno in Italia. Nessuno è sicuro di dove si trovi il nostro paese. «Ma lì si gioca a calcio?», ci chiede uno che indossa la maglia del Milan col numero 8 di Gattuso.

Luca Salvatore Pistone

ARCHIVIOMC
• Marco Bello, Califfato made in Africa, MC 10/2016.
• Marco Bello, Occidente proibito, nell’ambito del dossier Jihad Africana, MC 11/2012.

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