Angola: Luacano vive

Padre Mark Simbeye ci manda due brevi flash di vita missionaria da Luacano, nel cuore dell’Angola.

La nostra parrocchia (di Luacano) è in festa.

Dopo due anni dalla nascita, tempo dedicato alla formazione e all’iniziazione ai sacramenti, nel giorno 11 di ottobre 2020 la parrocchia santa Maria Mãe de Deus in Luacano in Angola si è rallegrata con i suoi 13 nuovi figli e figlie, le primizie deliziose del Battesimo e Prima Comunione.

11 ottobre 2020, battesimi a Luacano

Lituta

Il 15 ottobre abbiamo fatto una visita pastorale alla cappella di san Paolo in Lituta alla distanza di 67km da Luacano.

In viaggio verso Lituta

La cappella ha cinque anni di vita.  La strada per arrivarci non è facile perché prima di tutto non esiste, bisogna crearsela. Poi, la cappella e ricca di bambini ma pochi adulti. Inoltre è molto triste constatare che in questo villaggio non esistono né scuola, né centro medico né asilo per i bambini.

Mark Simbeye,
missionario della Consolata a Luacano, Angola




Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo


Un documentatissimo libro-inchiesta sul perché Bill Gates, Warren Buffett, Bill Clinton e Mark Zuckerberg sono i protagonisti della nuova mega filantropia. Il ruolo ambiguo di Bill Gates sul vaccino anti-Covid19

Perché l’élite dell’1% del pianeta, la classe più predatoria della storia umana, è anche la più socialmente impegnata a sostenere cause nobili come salute, educazione, lotta alla fame, con la scusa di cambiare il mondo? Che cosa si nasconde dietro la rinascita della filantropia a vocazione globale? L’impegno sempre più pervasivo dei filantropi è davvero la soluzione alle sfide della contemporaneità o non è piuttosto un ambiguo e problematico effetto delle disuguaglianze strutturali che rendono la nostra epoca la più ingiusta di tutti i tempi? E che cosa è il «filantrocapitalismo», la versione più sofisticata della filantropia che da due decenni domina la scena internazionale e che si consolida oggi nel tempo di Covid19?

Sono queste, e molte altre, le domande che la giornalista Nicoletta Dentico, esperta di salute globale e cooperazione internazionale, affronta nel suo formidabile saggio-inchiesta Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo (Editrice missionaria italiana, pp. 288, euro 20, già in libreria). Si tratta del primo libro in Italia dedicato al tema del filantrocapitalismo, un’abile strategia inaugurata all’inizio del nuovo millennio da una ristretta classe di vincitori sulla scena della globalizzazione economica e finanziaria. Grazie alle donazioni erogate tramite le loro fondazioni in nome della lotta alla povertà questi imprenditori, nuovi salvatori bianchi, hanno cominciato a esercitare un’influenza sempre più incontrollata sui meccanismi di governo del mondo e sulle loro istituzioni, modificandole profondamente. Il tutto, in un intreccio di soldi, potere e alleanze con il settore del business che i governi non sanno più arginare né possono più controllare. Anzi, sono i leader del mondo politico ad accogliere i ricchi filantropi a braccia aperte, ormai, senza più fare domande.

Come è avvenuto in passato con John Rockefeller e Andrew Carnegie, la generosità di chi ha accumulato mastodontiche ricchezze rischia di non essere del tutto disinteressata. «Il Wealth-X and Arton Capital Philantrophy Report 2016 evidenzia come le donazioni dei super-ricchi siano incrementate del 3% nel 2015», scrive Dentico. «Numeri alla mano, il rapporto racconta gli effetti benefici di questa arte della generosità: gli imprenditori che hanno versato almeno un milione di dollari hanno finito per ammassare più profitti dei loro pari di classe».

Di questa realtà di costante accumulazione si nutre l’ottimismo win-win che alimenta il fenomeno filantropico, i cui valori, strumenti e metodi sono inequivocabilmente quelli della cultura di impresa, applicata al mondo dei bisogni umani disattesi. I filantropi, per loro stessa ammissione, puntano a creare nuovi mercati per i poveri. «Funziona così: se i poveri diventano consumatori non saranno più emarginati. E da clienti possono riguadagnarsi la loro dignità». Rispetto alla filantropia classica, il filantrocapitalismo ha assunto dimensioni così pervasive e sistemiche da condizionare la stessa azione degli stati: «Libere da ogni costrizione territoriale, le fondazioni filantrocapitaliste sono riuscite a occupare un campo d’azione sconfinato» si legge nel libro. «Esercitano un ruolo ingombrante nella produzione di conoscenza, nell’affermazione di modelli, nella definizione di nuove strutture della governance globale».

«Il liquido amniotico della filantropia è la disuguaglianza» sostiene Nicoletta Dentico, che nella sua poderosa inchiesta motiva accuratamente le ragioni per cui questa élite si è messa alla testa della battaglia per cambiare il mondo. Invece, «se nel mondo vigesse un’equa distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia», perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati che detengono più della metà delle risorse del pianeta. Dentico mette in luce uno degli aspetti più controversi e paradossali del fenomeno: le enormi agevolazioni fiscali di cui godono nel mondo filantropi e fondazioni, anche le più opulente: «Che cosa legittima politicamente l’idea di un incentivo sulle tasse a questi miliardari e alle loro fondazioni? Quali vantaggi ne avrebbe una società, se si utilizzasse invece la tesoreria pubblica, perduta a causa degli incentivi, per produrre il bene comune?».

Il filantrocapitalismo diventa così una strana forma di legittimazione morale, «una valvola di sfogo» tramite cui investire, detassati, i profitti spesso accumulati con flagranti operazioni di elusione o evasione fiscale. Un esempio per tutti: «Nel 2012, un rapporto del Senato americano calcolava in quasi 21 miliardi di dollari la quantità di denaro che Microsoft era riuscita a trafugare nei paradisi fiscali in un periodo di tre anni, grosso modo l’equivalente della metà dell’incasso netto delle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, con un guadagno fiscale di 4,5 miliardi dollari annui». Oggi il fondatore di Microsoft, Bill Gates, è la figura preminente e più iconica del filantrocapitalismo, con una fondazione intitolata a lui e alla moglie Melinda che al momento della nascita (2000) disponeva di 15,5 miliardi di dollari per esercitare la propria azione, focalizzata su salute e vaccinazioni, biotecnologie, incremento della produttività agricoltura in Africa (ciò che significa far largo agli Ogm), educazione, finanza. La Fondazione Gates mantiene un forte legame finanziario con aziende assai poco virtuose sul piano dei consumi e della salute, che però garantiscono sicure remunerazioni sull’investimento: ad esempio, investe 466 milioni di dollari negli stabilimenti della Coca-Cola e 837 milioni di dollari in Walmart, la più grande catena di cibo, farmaceutici e alcolici degli Usa.

La Fondazione Gates spicca oggi per l’incontenibile attivismo con cui dirige le attività internazionali nella ricerca di un vaccino anti-coronavirus, con implicazioni non banali data la rilevanza pubblica di un’emergenza mondiale come quella di Covid-19: «Nel 2015, Gates aveva capito che un virus molto contagioso sarebbe arrivato a sconquassare il mondo iperglobalizzato. Sars-CoV-2 è arrivato, alla fine, e il mondo si è fatto trovare del tutto impreparato. L’unico pronto a un simile scenario è stato il monopolista filantropo di Seattle», spiega Dentico: 300 milioni di dollari subito sul piatto da parte della Fondazione Gates (poi saliti addirittura a 530 milioni di dollari), ormai accreditatasi sulla scena della lotta alla pandemia alla pari di istituzioni internazionali come Oms, Banca Mondiale e Commissione europea, un pericoloso precedente nella governance di fenomeni globali – come in questo caso la lotta a una pandemia. Tanto più che «in tutti questi anni, Bill Gates ha molto contribuito al rafforzamento geopolitico di Big Pharma [il cartello composto dalle principali case farmaceutiche mondiali, ndr], erodendo e sottraendo terreno alla società civile in questo duro conflitto politico».

L’implacabile inchiesta di Nicoletta Dentico scruta anche l’azione filantropica di altre figure di imprenditori plutocrati o politici potentissimi diventati improvvisamente «benefattori» globali: Ted Turner, Bill e Hillary Clinton, e i nuovi arrivati sulla scena della filantropia come Mark Zuckerberg. Unico nella sua genesi è il caso della famiglia Clinton, che ha fatto della filantropia globale – tramite la Fondazione Clinton – la via maestra per continuare a esercitare il potere dopo due mandati presidenziali, anche a costo di contraddire l’agenda diplomatica statunitense, nel momento in cui Hillary Clinton è segretaria di stato dell’amministrazione Obama. Molto eloquente a questo riguardo il caso del potentissimo uomo d’affari Frank Giustra che entra nel giro delle estrazioni minerarie in Kazakhstan grazie ai buoni uffici della Fondazione Clinton nel paese centro-asiatico, che gli Stati Uniti hanno stigmatizzato per le sistematiche violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali della persona.

Come scrive Bandana Shiva nella prefazione, «il libro di Nicoletta Dentico arriva al momento giusto, ed è necessario. Sarà una bussola importante per difendere le nostre esistenze e libertà dalle forme della ricolonizzazione variamente avallate dal filantrocapitalismo».

 


I NUMERI E LE CIFRE DA RICCHI E BUONI?

Lotta alla povertà? Basta l’1% del Pil (e meno armi)

«Ho imparato a diffidare dalla narrazione legnosa sulla “lotta alla povertà”. Basterebbe una frazione di quanto si spende in armi, poco più dell’1% del prodotto interno lordo mondiale, per invertire la rotta. (p. 21)

 L’età dell’oro delle Fondazioni filantropiche: una rinascita sospetta nei tempi della disuguaglianza

«Si contano oltre 200.000 fondazioni nel mondo. Sono 87.142 le entità registrate negli Usa. Circa 85.000 in Europa occidentale, e circa 35.000 nell’Europa dell’Est. Si contano circa 10.000 fondazioni in Messico, almeno 1000 in Brasile e 2000 in Cina». (p. 57)

 Bill Gates conta più dell’Onu (in fatto di quattrini)

«Dall’inizio delle attività la Fondazione Bill & Melinda Gates ha mobilitato una massa totale di finanziamenti di 50,1 miliardi di dollari e una capacità di erogazione nel 2018 di 5 miliardi di dollari. Tra il 2013 e il 2015, la Fondazione Gates ha potuto destinare 11,6 miliardi di dollari allo sviluppo globale, più di quanto non riescano a fare le agenzie delle Nazioni Unite». (p. 59)

Gates finanzia l’Oms 24 volte quel che danno i Brics!

«Nel biennio 2010-11 la Fondazione Gates ha versato oltre 446 milioni di dollari all’Oms, più di ogni altro contribuente statale dopo gli Stati Uniti: una cifra 24 volte superiore ai contributo erogati da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica messi insieme». (p. 156)

Se i ricchi pagano meno tasse delle fasce sociali più emarginate

«La ricerca degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman evidenzia che le 400 famiglie più ricche d’America hanno pagato nel 2018 un’aliquota effettiva del 23%, cioè un punto percentuale in meno di quello versato dalle famiglie delle fasce sociali meno abbienti (24,2%)». (p. 98)

Pagare le tasse? Anche no (per i super-ricchi)

«In un anno è semplicemente raddoppiato il numero delle mega-imprese che non hanno pagato tasse grazie alle radicali politiche fiscali dell’amministrazione Trump a beneficio dei ricchi e delle aziende private. Sono 60, alla fine del 2019. Tra i titani esentasse si contano Amazon, Netflix, Ibm, Chevron, Ely Lilly, Delta Airlines, General Motors e Goodyear». (p. 99)

La «podium economy» di Bill Clinton

«La professione di conferenziere segna la fortuna dell’abilissimo oratore che, liberatosi dalla Casa Bianca, cominciò a battere il circuito dei più prestigiosi eventi internazionali con esiti finanziari sbalorditivi: 105,5 milioni di dollari raccolti per sé in dieci anni, dal 2002 al 2012». (p. 230)

Zuckerberg, il generosissimo che non paga le tasse

«Ispirata dalla nascita della prima figlia, la coppia Mark e Priscilla Zuckeberg ebbe a comunicare la costituzione della Chan Zuckerberg Initiative, una fondazione nuova di zecca con cui s’impegnavano a destinare nientemeno che il 99% della ricchezza accumulata nel corso della vita a finalità benefiche – circa 45 miliardi di dollari, al valore corrente di Facebook. […] Il gruppo di Zuckerberg ha avuto un’aliquota fiscale media dell’1% nei paesi extra Ue in cui ha operato». (p. 265)


L’AUTRICE

 Nicoletta Dentico, giornalista, è esperta di cooperazione internazionale e salute globale. Dopo una lunga esperienza con Mani Tese, ha coordinato in Italia la Campagna per la messa al bando delle mine vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 1997, e diretto in Italia Medici Senza Frontiere (MSF) – premio Nobel per la Pace nel 1999 – con un ruolo di primo piano nel lancio e promozione della Campagna internazionale per l’Accesso ai Farmaci Essenziali. Co-fondatrice dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (Oisg), ha lavorato a Ginevra per Drugs for Neglected Diseases Initiative (DNDi) e poi per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Più di recente è stata per alcuni anni responsabile della sezione internazionale della Fondazione Lelio Basso. Dal 2013 al 2019 è stata consigliera di amministrazione di Banca Popolare Etica e vicepresidente della Fondazione Finanza Etica. Dalla fine del 2019 dirige il programma di salute globale di Society for International Development (SID).

Lorenzo Fazzini – Ufficio stampa EMI
Verona, 16 ottobre 2020




Eccoci! Ora spetta a noi…

testo della Fesmi, Federazione della Stampa missionaria italiana |


«In questo anno, segnato dalle sofferenze e dalle sfide procurate dalla pandemia da Covid-19, il cammino missionario di tutta la Chiesa prosegue alla luce della parola che troviamo nel racconto della vocazione del profeta Isaia: “Eccomi, manda me” (Is 6,8). È la risposta sempre nuova alla domanda del Signore: “Chi manderò?”. Questa chiamata proviene dal cuore di Dio, dalla sua misericordia che interpella sia la Chiesa sia l’umanità nell’attuale crisi mondiale».

Noi riviste, siti e realtà editoriali impegnate nell’informazione e nell’animazione missionaria ci sentiamo interpellati dalle parole che Papa Francesco scrive nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2020. «Eccomi, manda me» è un invito che sentiamo rivolto in maniera particolare al nostro compito di comunicatori in questo momento in cui tanti fratelli e sorelle sono alla ricerca di una parola vera di speranza per alleviare tante paure e chiusure rese ancor più evidenti dalla pandemia.

«Eccoci, manda noi». A raccontare che davvero «siamo tutti sulla stessa barca». Il Papa lo ripete oggi a noi, riproponendo le parole da lui pronunciate la sera del 27 marzo in una piazza San Pietro deserta. Perché l’esperienza del Coronavirus ha reso evidente quanto una malattia possa renderci ugualmente fragili, da una parte all’altra del mondo. Ora spetta a noi il compito di far vedere che anche in questa grande tragedia che ha già portato via più di un milione di vite sono sempre i poveri a pagare il prezzo più alto. Come tocca a noi mostrare che anche per tanti altri mali che affliggono il mondo di oggi è così. Che anche le guerre alimentate dai profitti dell’industria delle armi, la povertà prodotta da uno sfruttamento iniquo delle risorse e del lavoro di fratelli e sorelle, il dramma della fame già da alcuni anni tornata a crescere in troppe aree del mondo, la distruzione del creato che, in nome del profitto di pochi, spoglia la vita di intere comunità, sono virus davanti ai quali nessuno può sentirsi davvero immune.

«Eccoci, manda noi». Ad accompagnare chi anche in questo tempo difficile sceglie di lasciare tutto e parte per annunciare il Vangelo di Gesù. Perché anche là dove tutto sembrerebbe suggerire un prudente ripiegamento, noi sappiamo che «nessuno è escluso dall’amore di Dio». E allora tocca a noi mantenere aperto lo sguardo sulle strade nuove che lo Spirito continua ad aprire nelle periferie. Narrare la fede testimoniata a prezzo della vita sulle frontiere più sofferte, la speranza seminata sui banchi delle scuole di ogni latitudine, la carità che trasfigura ciò che agli occhi del mondo sembrava piccolo e inutile. Tocca a noi far sì che la testimonianza che ci arriva dalle Chiese dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina scuota ancora le nostre comunità uscite quanto mai spaesate da un’esperienza che ci costringe ad uscire dalla comodità rassicurante del «si è sempre fatto così».

«Eccoci, manda noi». A scoprirci «tessitori di fraternità». Nel tempo dell’isolamento forzato, durante la pandemia, abbiamo sperimentato la nostalgia delle nostre relazioni di familiarità e di amicizia. Ora tocca a noi far sì che non resti solo un sentimento vago, ma questa consapevolezza diventi la primizia di un’umanità nuova. Tocca a noi far scoprire che in missione persone di culture e religioni diverse si incontrano per riconoscersi insieme figli e figlie dell’unico Dio. Che gli ostelli o gli ospedali realizzati grazie alla generosità di tanti hanno la loro porta aperta per accogliere tutti. E che guardare negli occhi ogni persona è sempre il primo passo per costruire percorsi di riconciliazione anche là dove le ferite lasciate dai conflitti sono più profonde.

«Eccoci, manda noi». In un mondo dell’informazione dove le notizie parrebbero avere orizzonti ogni giorno più ristretti, vogliamo essere coloro che aiutano a tenere aperta la mente e il cuore. Per partecipare anche noi alla missione della Chiesa, oltre la paura del mare in tempesta.

1° ottobre 2020
riviste e siti degli Istituti missionari italiani,
associati nella Federazione della stampa missionaria italiana (Fesmi)


Da guardare: Tessitori di Fraternità

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Tre libri sul futuro prossimo e su quello possibile

Globali e monastici


a cura di Sante Altizio |


Dalla Cina delle nanotecnologie alla vicenda di Silvia Romano, passando per le regole (economiche, oltre che spirituali) dei santi Francesco e Benedetto. Tre libri che raccontano quanto la storia a volte corre più veloce del calendario.


Red mirror

Le cose accadono, ma, a volte, corrono a velocità doppia. «Red Mirror» di Simone Pieranni (La Terza, 2020), è il nostro punto di partenza.

Pieranni (autore di diversi articoli per MC, ndr) è un giornalista che ha vissuto in Cina, la visita e continua a studiarla. Ha fondato un’agenzia di comunicazione con gli occhi puntati su Pechino, «China files», che da anni informa in modo puntuale e originale su quell’importante area del mondo.

Con Red Mirror, 224 pagine dense come marmellata di fichi, Pieranni apre la finestra su una realtà che fatichiamo ancora a mettere a fuoco: lo sviluppo cinese della nano tecnologia, della realtà aumentata, dell’intelligenza artificiale. Ciò che qui pensiamo sia futuro, lì è presente. Il nostro futuro esiste già e lo stanno vivendo, in anteprima, centinaia di milioni di persone a otto ore di aereo da noi.

È tutto talmente già avviato, consolidato e acquisito, che la Cina non è più il luogo dove si copia la tecnologia occidentale, ma il mercato dove gli occidentali scoprono (e comprano) le ultime novità hi tech.

Il riferimento alla quasi omonima serie tv, Black Mirror, è tutto meno che casuale, perché il saggio di Pieranni parte proprio dall’oggetto che è diventato la nostra protesi naturale: lo smartphone.

In Cina, se vuoi condurre un’esistenza quotidiana normale, devi scaricare sullo smartphone (Huawei, ma non solo, i colossi da quelle parti sono tanti) WeChat, un’app che si è trasformata in browser e con la quale puoi fare tutto. «Tutto» in senso stretto, non in senso lato. Anche l’elemosina.

Ovviamente con tutto il corollario di controllo sociale, che in Cina è vissuto con meno ansia rispetto a noi.

Strano? Folle? No. È il nostro futuro prossimo.


Meno è di più

L’Europa non è più il centro del mondo e, in attesa che il futuro prossimo cinese arrivi, è importante fare i conti con il presente di casa nostra, con la crisi strutturale che ci perseguita dal crollo della Lemann Brothers, e capire se e come possiamo costruirci un domani migliore.

Un’analisi molto intrigante arriva dal giornalista economico Francesco Antonioli. Per la rinnovata Edizioni Terra Santa, guidata ora dalla brava Roberta Russo, ha scritto Meno è di più (2020), con un sottotitolo che la dice lunga: Le Regole monastiche di Francesco e Benedetto per ridare anima all’economia, alla finanza, all’impresa e al lavoro.

La premessa di Antonioli è semplice: o ripensiamo l’economia, o implodiamo.

L’idea nasce dalle parole e dai documenti di papa Francesco, che hanno, va da sé, una matrice religiosa, ma indicazioni profondamente laiche.

Dobbiamo costruire un’economia di socialità che, con meno impatto, crei più ricchezza. Intendiamoci: nulla a che vedere con la «decrescita felice» che qui viene smontata grazie alle parole di Stefano Zamagni, economista da sempre attento alle dinamiche dell’economia globale e alla difesa di chi ne subisce gli effetti deleteri.

Ma come costruire questo diverso cammino? Riprendendo in mano le regole di San Francesco e San Benedetto.

Il terzo capitolo, solo per fare un esempio, s’intitola «San Francesco precursore di Steve Jobs?». Il secondo, invece, individua nella regola benedettina la guida perfetta per formare il management, costruire un’efficace policy aziendale, migliorare la qualità del prodotto, coinvolgere i dipendenti nelle scelte imprenditoriali.

Può sembrare un gioco provocatorio, ma non lo è: i monasteri dei secoli intorno all’anno Mille erano fabbriche, aggregazione, centri di pensiero e cuore dell’economia.

In quelle regole c’è il segreto per ripartire, per ri-animare l’economia mettendo al centro l’uomo.

Antonioli ha lavorato per lungo tempo al Sole 24 ore, è stato tra i fondatori dell’inserto Nord Ovest, ma ha anche al suo attivo libri su papa Francesco e Piergiorgio Frassati, sulle innovative scelte imprenditoriali di Andrea Illy e, tra non molto, sulla storia della Fondazione Agnelli. Di lui ci si può fidare.


Silvia, Diario di un rapimento

Chiudiamo il cerchio con un instant book che mostra quanto sia aggrovigliato il gomitolo della globalizzazione: Silvia Romano. Diario di un rapimento (2019), di Angelo Ferrari, pubblicato da People, una piccola casa editrice fondata due anni fa da Pippo Civati, Francesco Foti e Stefano Catone, che sta costruendo un catalogo di tutto rispetto.

Angelo Ferrari è stato il giornalista che più da vicino e con maggiore attenzione ha seguito, per il Desk Africa dell’Agenzia Italia, il rapimento in Kenya di Silvia Romano. Il libro, uscito poche settimane prima della liberazione della giovane milanese, è una raccolta dei tanti articoli scritti da Ferrari durante la prigionia della ragazza. Una piccola antologia di articoli che porta in sé, nello scoramento che a volte li pervade sotto traccia, un’ammissione dolorosa: di ciò che capita lontano dal cortile di casa, a noi non importa nulla. Silvia è stata rapita, separata dai suoi affetti per un tempo che le sarà sembrato eterno; è tornata (per fortuna) cambiata (poteva essere altrimenti?), e tutti ne hanno parlato, ma le ragioni che stanno a monte dell’esperienza di Silvia pochi le hanno indagate.

Angelo Ferrari fa parte di un piccolo collettivo di giornalisti italiani che si chiama Hic sunt leones, l’Africa che non ti immagini (www.dallapartedinice.org) che prova a far breccia nel nostro muro d’indifferenza. Per fortuna non demordono.

Tra il miracolo tecnologico cinese, la crisi d’identità dell’economia occidentale e il rapimento di una ragazza italiana in Kenya, un filo sottile che percorre le tre storie c’è: il mondo è globale, ma il centro della globalizzazione non è più qui.

Assistere da spettatori passivi è una pessima idea.

Sante Altizio




Mentre vedevi Satana cadere

Ci hai chiesto di andare davanti a te, a due a due (Lc 10,1-20), come nomadi che hanno la propria casa sempre con sé. Ci hai chiesto di non portare nulla, solo la nostra piccolezza e il tuo nome, per essere noi casa per altri.
Ci hai mandati privi di ogni bene, affamati e indifesi, come agnelli in mezzo ai lupi, armati solo della nostra pace, poiché la nostra pace è leva di altra pace.

Ci hai inviati come operai della cura nelle dimore di chi ci avrebbe accolti. Ci hai assicurato che il loro stesso cibo e le loro bevande, la loro vita e storia, offerti a noi, ci avrebbero fornito gli ingredienti per i farmaci da offrire loro a nostra volta.

Ci hai esortati ad andare per annunciare la prossimità del Regno, e per annunciarlo a tutti. A chi ci avrebbe aperto la porta, a chi ci avrebbe respinti. Per questi ultimi sarà più facile distrarsi dalla salvezza che lambisce la loro esistenza.

Quando siamo tornati a te, eravamo pieni di stupore e di gioia: anche i demoni si erano sottomessi a noi nel tuo nome. E tu hai gioito con noi, e ci hai narrato una visione avuta durante il nostro peregrinare. Mentre noi spingevamo i confini del Regno, tu vedevi Satana cadere dal cielo come una folgore.

Tu ci hai dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni, di tramutare il veleno delle nostre vite e di quelle degli altri in antidoti contro la morte. Tu ci hai resi capaci di vincere ogni potenza del nemico riempiendo di te il nostro nulla.

Non però per i demoni che si sottomettono a noi ci rallegriamo – ci saranno momenti nei quali, infatti, non saremo poveri abbastanza per sconfiggerli -, ma piuttosto perché, a prescindere da ogni cosa, abbiamo intravisto i nostri nomi scritti nei cieli.

Al di là delle opere che compirete,
da
amico, buon mese missionario,
trascorso scrutando nei cieli i vostri nomi.

Luca Lorusso


Leggi tutto: Mangiare la Parola – Eccomi manda me – Progetto Dispensario di Manda – Quesrida Amazonia: Un sogno ecologico




I Perdenti 56. Suor Leonella, amore come medicina

testo di don Mario Bandera |


Il 26 maggio 2018 è stata beatificata a Piacenza – sua città natale – suor Leonella Sgorbati delle missionarie della Consolata, uccisa nel 2006 in Somalia. Era una consacrata dagli ideali cristallini, aveva dedicato completamente la sua vita missionaria a formare personale locale per gli ospedali in Africa. Nel 2000 aveva accettato di lasciare il Kenya, dove era arrivata nel 1970, per andare ad aprire una scuola per infermieri a Mogadiscio pur consapevole dei rischi che correva in un territorio sconvolto dalla violenza della guerra e dall’estremismo della jihad islamica. Ogni giorno si affidava serenamente e con estrema fiducia a Dio.

Suor Leonella, il cui nome di battesimo era Rosa, era nata nel 1940 a Rezzanello di Gazzola (Piacenza). La sua vocazione l’aveva portata a entrare nell’Istituto delle missionarie della Consolata. Nell’anno in cui è stata uccisa era fra le ultime quattro religiose presenti in Somalia. Tutti gli altri missionari avevano dovuto abbandonare il paese negli anni Novanta, a causa dell’affermazione di gruppi islamisti integralisti e dell’assenza totale delle istituzioni statali, nel contesto di una guerra civile scoppiata nel 1986, e ancora in corso anche se con minore intensità.

La sua testimonianza, il suo sacrificio, restano una delle pagine più luminose e intense della storia dell’Istituto delle missionarie della Consolata.

Suor Leonella, come nasce la tua vocazione?

Il desiderio di donare tutta la vita a Dio è nato in me a 16 anni: in quel lontano giorno – aprile 1956 – leggendo la sua Parola, mi sono sentita «abitata» come se il Signore mi volesse tutta per Sé. Ho provato una tale emozione che in seguito avrei scritto nel mio diario: «Da quel momento capii che non mi sarei sentita mai più sola, ma abitata da Lui».

Un vero scossone per la tua giovane vita, non è così?

Che ha avuto una conseguenza decisiva per la mia esistenza in quanto, riflettendo su quello che stavo vivendo, ho deciso che mi sarei fatta suora… che avrei cercato di vivere per Cristo, e di parlare a tutti del suo amore.

Questi ardori giovanili, sono diventati scelte concrete con il passare degli anni.

Difatti, undici anni dopo sono entrata nell’Istituto delle suore missionarie della Consolata e nel momento della mia professione religiosa mi è stato dato il nome di Leonella.

E poi come si sono sviluppati gli avvenimenti della tua vita consacrata?

Dopo aver compiuto il noviziato e gli studi in infermeria e ostetricia, nel 1970 ho realizzato il sogno di partire come missionaria per il Kenya, dove sono restata 30 anni, interrotti solo da tre rientri in Italia. Agli amici e familiari, che mi chiedevano perché non facessi ritorno più spesso in patria, rispondevo: «Un po’ per gli impegni, un po’ per scelta», ma rassicuravo tutti che non ero diventata selvatica, anche se mi sentivo sempre più africana.

Il tuo lavoro in Kenya in che consisteva?

Dopo i primi anni, appena ho avuto la qualificazione per l’insegnamento, mi è stata affidata la formazione delle infermiere e ostetriche locali. Ho svolto questo servizio soprattutto all’ospedale di Nkubu, vicino alla città di Meru. Con le ragazze aspiranti infermiere ci volevamo un bene dell’anima, tant’è che pur essendo le allieve numerose, riuscivo a stabilire un rapporto profondo e personale con ciascuna di loro.

Ma viste le tue capacità, a questi primi impegni se ne sono aggiunti ben presto altri, non è vero?

Negli anni successivi, sono stata nominata caposala di pediatria al Nazareth Hospital vicino Nairobi, ho conseguito un diploma universitario per dirigere la scuola per infermieri, e, dulcis in fundo, nel ’93 sono stata scelta come superiora delle missionarie della Consolata in Kenya.

La tua competenza nel vasto campo sanitario del Kenya era ampiamente riconosciuta da tutti.

A tal punto, che sono stata chiamata a far parte del Consiglio nazionale degli infermieri, con sede a Nairobi. Ho avuto così modo di partecipare alla stesura del progetto dell’anno 2000 del ministero della Sanità del Kenya «Salute per tutti», che aveva l’obiettivo di creare nelle zone rurali, dove è concentrata l’80% della popolazione, centri sanitari autogestiti.

Proprio allora, però, ti è arrivato un invito al quale non ti sei sentita di dire di no.

Infatti, sempre nel 2000, ho ricevuto una proposta dalla Somalia, dove era rimasto solo un piccolo gruppo di mie consorelle che lavoravano come volontarie nell’Ospedale Sos, Kinderdorf International, l’unica struttura sanitaria presente a Mogadiscio che offriva cure gratuite in ambito pediatrico.

Naturalmente hai accettato.

Sapevamo che c’era urgente bisogno di una scuola per infermieri e infermiere, per questo ho detto di sì. Una volta giunta in Somalia, con molti sacrifici, siamo riuscite ad aprire una modesta struttura.

Nel 2006, si sono diplomate le prime 34 infermiere. Per l’occasione ho voluto che la cerimonia fosse davvero molto solenne e formale. I diplomandi erano tutti con la toga universitaria e in alta tenuta. L’avvenimento senza precedenti in Somalia, è stato trasmesso dalla tv locale, e anche in Kenya.

Qualcuno però ha cominciato a far circolare la voce che tu stavi trasformando questi giovani convertendoli al cristianesimo.

I più fanatici, vedendo i ragazzi con le toghe, dicevano che li avevo già vestiti da «padri», cioè come i missionari. Io non ho fatto caso a queste illazioni piene di acredine nei nostri confronti, ma bisogna pur dire che nel 2006 la Somalia era pervasa da fortissime tensioni, e pur muovendoci nella realtà di Mogadiscio con molta prudenza e nel rispetto di tutti, eravamo ben consapevoli di essere «in trincea», senza difesa alcuna. Per questo le nostre giornate avevano un tempo cospicuo dedicato alla preghiera e alla contemplazione.

Funerale e sepoltura di sr Leonella Sgorbati


Dopo il 12 settembre 2006, giorno del discorso di papa Benedetto XVI a Ratisbona, scoppiano proteste in tutto il mondo islamico alimentate dai gruppi più radicali. Le consorelle, più avanti, racconteranno di una mattina in cui suor Leonella, che si alzava molto presto per pregare, aveva detto loro con aria sconvolta che «si doveva pregare e offrire molto per il papa e per la Chiesa perché aveva sentito dalla radio che il mondo musulmano era in grande agitazione a causa di un discorso del papa a Ratisbona».

Il 17 settembre è domenica, suor Leonella ha terminato la lezione alla scuola infermieri dell’ospedale e sta rientrando al Villaggio Sos dove abita, situato dall’altra parte della strada, quando viene colpita a morte. Sette pallottole per lei e la sua guardia del corpo, Mohamed Mahamud Osman, musulmano e papà di quattro figli, che muore nel tentativo di difenderla. Lei viene portata ancora viva in ospedale, dove tanti somali si offrono per le trasfusioni di sangue. Una consorella, Marzia Ferra, racconterà così i suoi ultimi istanti: «Era ancora viva, sudava freddo, ci siamo prese per mano, ci siamo guardate e prima di spegnersi come una candelina, per tre volte mi ha detto: “Perdono, perdono, perdono”». Una parola, ripetuta tre volte, che sgorga dal cuore pieno di amore di un’autentica testimone cristiana dei nostri tempi.

Suor Leonella resta nella memoria della grande famiglia missionaria come una donna dalla mente brillante e dal carattere solare e allegro, sempre pronta alla battuta di spirito. «Il suo sorriso aperto e schietto, la generosità nel servire, l’allegria e l’affabilità che faceva stare bene coloro che le erano vicino, sono qualcosa di indelebile e un caro ricordo per una luminosa missionaria della Consolata come suor Leonella».

Don Mario Bandera

*Al martirio di suor Leonella è stato dedicato il dossier su MC maggio 2018.

Quadro della beatificazione di suor Leonella Sgorbati




Le nuove rotte della droga

testo di Chiara Giovetti |


Le rotte del traffico di eroina passano oggi attraverso il Kenya, in particolare nella seconda città del paese che ospita un grande porto: Mombasa. Buenaventura, in Colombia, è invece da anni uno snodo importante per il traffico di cocaina.
Le conseguenze per il tessuto sociale e l’economia sono, sia in Kenya che in Colombia, devastanti.

Nel 2018, circa 270 milioni (stima media tra i 166 e i 373 milioni) di persone nel mondo ha fatto uso di droga almeno una volta. La maggior parte (192 milioni) ha consumato cannabis, mentre in 58 milioni hanno assunto oppioidi, categoria che riunisce gli oppiacei, cioè i prodotti derivati dal papavero da oppio – utilizzati da 30 dei 58 milioni di persone – e i loro analoghi sintetici, semisintetici o alcune sostanze prodotte naturalmente dal corpo. Seguono 27 milioni di utilizzatori di anfetamine e altri stimolanti, 21 milioni che usano Mdma (comunemente detta ecstasy) e 19 milioni di persone che fanno uso di cocaina@.

Recentemente Netflix ha proposto un documentario in sei puntate che ha riscosso molto successo, The Business of Drugs@. Il documentario, condotto dall’ex agente della Cia, Amaryllis Fox, raccoglie le testimonianze dirette non solo di esperti e studiosi, ma anche di vittime delle dipendenze, di spacciatori, di coltivatori e di altre persone che a vario titolo lavorano nel traffico di stupefacenti. Mostra anche come sono cambiate alcune rotte del traffico di droga in relazione a nuovi conflitti che hanno interrotto i percorsi precedenti.

Due delle puntate parlano di eroina e cocaina e dei centri nevralgici dei rispettivi traffici: il Kenya, e in particolare la città e il porto di Mombasa, e la Colombia, con il grande porto di Buenaventura.

Fort Jesus a Mombasa

Kenya il nuovo crocevia mondiale dell’eroina

L’eroina non viene prodotta in Kenya ma principalmente in Asia centromeridionale, specialmente in Afghanistan, dove il trenta per cento del Pil è legato alla produzione del papavero da oppio che dà lavoro a circa 600mila afghani.

Si tratta di un mercato in espansione, segnala il responsabile per l’Africa orientale dell’Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, Amado de Andres. La produzione di eroina è pari a 10mila tonnellate – la più grande negli ultimi 20 anni – e l’utenza si sta spostando dai ceti medio bassi a quelli medio alti. Il percorso che la droga seguiva per andare dalla zona di produzione all’Europa e al Nordamerica era la cosiddetta rotta balcanica; ma negli ultimi anni, a causa dei conflitti come quello siriano e dei maggiori controlli di frontiera legati all’arrivo dei migranti, quella rotta non è più sicura per i trafficanti che per questo si sono rivolti all’Africa orientale, specialmente al Kenya, con il suo porto di Mombasa, e alla Tanzania.

La posizione geografica di questi paesi africani ne fa una sorta di crocevia planetario da dove – approfittando dello scarso controllo del territorio da parte delle forze di polizia – la droga può essere poi facilmente distribuita nel resto del Continentea e negli altri.

Il Kenya, continua Amado de Andres, è il paese ideale anche perché è stabile dal punto di vista politico, finanziario e commerciale, e ha una buona infrastruttura informatica che permette ai trafficanti di comunicare in modo efficace da un continente all’altro per coordinare il trasporto e anche il pagamento della merce, per il quale utilizzano la hawala, un sistema informale di scambio di denaro – riconosciuto dall’Islam – basato sulla fiducia delle persone, che permette di effettuare pagamenti senza effettivamente muovere denaro, rendendolo così praticamente impossibile da tracciare@.

Il trasporto della droga, spiega de Andres, avviene su barche che si chiamano dhow, normalmente utilizzate per pescare e dotate di un frigo a una estremità. Nel vano che ospita il frigo si può introdurre e trasportare fino a una tonnellata di eroina.

Ma queste barche non possono avvicinarsi troppo alla costa per non rischiare di essere intercettate dalla polizia, perciò si avvalgono della collaborazione di imbarcazioni più piccole, che prelevano il carico e lo trasportano in punti meno sorvegliati della costa. Spesso si tratta di persone locali, pescatori keniani che spinti dalle grosse somme di denaro offerte loro dai trafficanti, accettano di aiutarli a scaricare e trasbordare la droga.

Uno dei metodi usati per il trasporto dell’eroina verso destinazioni esterne all’Africa, prosegue il racconto di Fox, è quello dei «container umani»: persone che inghiottono ovuli e prendono un volo per la destinazione dove la droga sarà venduta. Salim, uno degli intervistati, riporta che il trasporto di cento grammi permette di guadagnare mille dollari.

L’impatto sui giovani e sull’economia

Nella terza puntata del documentario, Fox incontra e intervista uno spacciatore – che ha il viso coperto e usa il soprannome di Mr. K – nella zona dove è nato e vive, cioè Kibera, il più grande degli slum di Nairobi.

Mr. K confeziona dosi di eroina raccogliendo da un mucchio di polvere bianca una quantità sufficiente a coprire mezza lametta da barba e facendo poi scivolare la sostanza in una cartina argentata che provvede a chiudere ripiegandone i lati. Una dose così si vende per tremila scellini, circa trenta dollari, e per acquistarla questo ragazzo kenyano paga fra i mille e i 1.500 scellini. In una baraccopoli dove lo stipendio medio è tra i 25 e i 40 dollari al mese, considera Amaryllis Fox, vendere eroina permette davvero di «svoltare».

Mr. K racconta che la prima volta che ha venduto eroina ha preso 50mila scellini (500 dollari). Non aveva mai guadagnato così tanti soldi. I clienti, continua, sono «nigeriani che stanno in prigione, cinesi, bianchi, ragazzini ricchi».

A cercare di contrastare un fenomeno che sta dilaniando la gioventù kenyana, dice Fox, si stanno impegnando politici come Mohamed Ali, un ex giornalista che nei suoi articoli si occupava della diffusione dell’eroina, che è stato fra i primi a definirla un’emergenza e che, per questo suo lavoro di informazione e denuncia, è stato eletto come parlamentare@.

Lui e il giornalista John-Allan Namu, definiscono la città di Mombasa uno stato mafioso e non esitano a segnalare infiltrazioni nella polizia e il coinvolgimento di alcuni politici che «aiutano i signori della droga a venderla o trasportarla nel paese».

Le organizzazioni attive sul campo

L’arrivo dell’eroina in Kenya lo ha reso un paese non solo di transito, ma anche di consumo. Giorno per giorno, questa trasformazione è resa evidente «dall’aumento delle le zone dove i giovani vanno per comprare droghe e farne uso e anche dalla maggior propensione dei ragazzi a farsi coinvolgere in attività criminali», conferma Agnes Mailu, programme coordinator di Solidarity with girls with distress (Solgidi), un’organizzazione legata all’arcidiocesi di Mombasa che assiste ragazze in difficoltà@.

Il documentario mostra la visita della conduttrice a una delle zone di Mombasa, un cimitero, dove i tossicodipendenti vanno per iniettarsi eroina. Qui, i volontari di un’organizzazione chiamata Muslim education and welfare association (Mewa) vanno a incontrare i tossicodipendenti cercando di dare loro assistenza, ad esempio fornendo loro siringhe nuove in cambio di quelle usate, e di coinvolgerli in un percorso per disintossicarsi.

«Oltre a Mewa», scrive padre Zachariah Kariuki, vice superiore dei missionari della Consolata in Kenya, «ci sono altri centri di recupero, anche pubblici, come il Centro di Miritini, controllato dal governo della contea» o il Reach out center, Teens watch, Coast general referral hospital, aggiunge Anges, e collaborano tutti con Nacada, l’Autorità nazionale per la campagna contro l’abuso di alcool e droghe@.

«Le autorità», continua padre Kariuki, «stanno tentando di affrontare la situazione creando i centri di recupero o dotando i centri di salute di punti nei quali coloro che cercando di disintossicarsi possano trovare metadone. Anche i tribunali fanno del loro meglio e i servizi di intelligence sono impegnati a dare la caccia e perseguire i narcotrafficanti. Ma quello della droga è sempre un ambito rischioso e corrotto». «Le persone che vendono droga sono note», conferma Anges, «ma attraverso la corruzione il problema è stato normalizzato». E normalizzato, in questo caso, non significa eliminato, ma piuttosto incluso nella normalità.

La parrocchia dei missionari della Consolata a Likoni, Mombasa, segnala padre Zachariah, sta tentando di dare il proprio contributo realizzando un programma di formazione e sensibilizzazione con i giovani in modo da ridurre il loro rischio di esposizione alle droghe, che stanno penetrando anche nella scuola. «È chiaro», continua il missionario, «che i signori della droga usano i giovani della zona di Likoni per spacciare ai loro coetanei e li pagano per farlo. Succede di sentire di ragazzi prelevati a scuola dalla polizia perché coinvolti nello spaccio».

Coca in fiore

Colombia narcotraffico, un’idra a tante teste

Lavorazione delle foglie di coca per ottenere la pasta basica per fare la cocaina (foto Giacinto Franzoi)

Nel 2017, racconta Fox nella prima puntata del documentario, la produzione di cocaina è aumentata del 25% rispetto all’anno precedente, raggiungendo le duemila tonnellate. I consumatori, lo ricordiamo, sono stimati in circa 19 milioni nel mondo; negli Stati Uniti sono raddoppiati negli ultimi sette anni.

Rodrigo Canales, professore associato di comportamento organizzativo presso l’università di Yale, spiega che il prezzo della cocaina è rimasto piuttosto stabile (intorno ai cento dollari al grammo) negli ultimi venticinque anni perché la competizione fra gli operatori del mercato di questa sostanza non si gioca sul prezzo della merce ma piuttosto sulla capacità di garantire una produzione stabile e affidabile.

Dopo la distruzione del cartello di Pablo Escobar all’inizio degli anni Novanta, ricorda il generale di brigata dell’esercito colombiano, Hernando Flores, «non c’è più un unico cartello padrone di tutto». Ma questo ha creato un problema nuovo, cioè il fatto che il narcotraffico in Colombia ora assomiglia a un’idra: tagliata una testa, cioè un cartello, ne sorgono subito tante altre.

Ci sono 82mila famiglie colombiane che dipendono dalla coltivazione della coca per sopravvivere; coltivano illegalmente 400mila ettari di suolo pubblico perché non possono permettersi di comprare terreni. La raccolta della coca – così racconta un lavoratore di una piantagione a due ore e mezza di auto dalla città portuale di Buenaventura, sulla costa centro meridionale della Colombia – frutta fino a 300mila pesos al giorno, circa 90 dollari, per chi riesce a raccogliere sei sacchi di foglie.

Porto di Buenaventura, ricchezza per pochi

Quello di Buenaventura è il principale porto colombiano: invia merci verso 300 destinazioni, gestisce intorno al 60 per cento dell’import export colombiano, movimenta fra i 300 e i 500 container al giorno e genera un gettito fiscale pari a 1.8 miliardi all’anno.

Ma il grosso della popolazione della città non beneficia per nulla della ricchezza generata dal porto: povertà e diseguaglianze sono chiaramente visibili nelle strade e nei quartieri di tutta Buenaventura. Due persone su tre sono disoccupate, oltre la metà non dispongono di acqua potabile e l’ottanta per cento vive sotto la soglia di povertà.

La giornalista Natalia Herrera, che accompagna Fox in un giro della città, spiega che i bambini a cinque anni sono già in strada, esposti alle gang criminali e al narcotraffico. A dieci anni sono spesso già attivi come «sentinelle» che aiutano le gang a evitare la polizia, guadagnando per questo «servizio» 100mila pesos, circa 32 dollari americani.

A prelevare la cocaina nei punti che i trafficanti indicano loro, a nasconderla – ad esempio all’interno di pupazzi di peluche – e a trasportarla al porto, sono invece spesso giovani disoccupati. «Guadagno due milioni di pesos», spiega un ragazzo con il volto coperto che parla con Fox mentre ricuce il peluche dove ha inserito i pacchetti di coca. Sono circa 650 dollari, una cifra che quest’uomo guadagnerebbe in due mesi se facesse un altro lavoro. «Ho più paura dei narcotrafficanti che della legge», ribatte il giovane al commento dell’intervistatrice su quanto sia pericoloso fare quello che fa. «La polizia ti mette in galera, ma se commetti un errore per strada muori».

Il duro lavoro di chi si oppone

La violenza che accompagna il narcotraffico lascia bambini senza genitori, uomini e donne senza i loro compagni e, oltre che sul piano umano, nelle famiglie, gli effetti si avvertono su quello economico.

«Ci sono fondazioni che lavorano per combattere la violenza causata dal traffico di droga», scrive padre Lawrence Ssimbwa, missionario della Consolata di origine ugandese che da anni lavora a Buenaventura. «La più conosciuta è FudescodesFundación espacios de convivencia y desarrollo social@, creata da un sacerdote redentorista» e impegnata in programmi come Mujeres rompiendo silencio (Donne che rompono il silenzio) che danno sostegno e formazione alle donne che hanno perso il compagno e che devono ora provvedere da sole ai bisogni della famiglia.

«Anche la Chiesa cattolica è molto impegnata nel denunciare il traffico di droga e la violenza», continua padre Lawrence, «e per questo sia il precedente vescovo, monsignor Hector Epalza Quintero, sia l’attuale, monsignor Rubén Darío Jaramillo Montoya, hanno ricevuto minacce di morte da parte dei trafficanti di droga».

Il paro civico, cioè lo sciopero organizzato nel maggio 2017 dalla società civile di Buenaventura e durato 22 giorni, ha portato a una serie di accordi con il governo che prevedono un milione e mezzo di pesos in investimenti per migliorare la sanità, l’educazione e l’accesso all’acqua per la popolazione della città. Un ulteriore effetto delle proteste, ricorda ancora padre Lawrence, è stato l’elezione a sindaco di Víctor Piedrahita Vidal, che è uno dei fondatori del movimento che ha organizzato il paro civico.

Tuttavia, chiarisce il missionario, nonostante una maggior presenza delle forze militari nei quartieri, la violenza non è diminuita così tanto come si sperava. «Ogni settimana, nei quartieri, si sente di qualcuno che è stato ucciso o è sparito e ci sono ancora estorsioni e rapine sostenute da trafficanti di droga».

«La guerra alla droga è costata dieci miliardi e mezzo di dollari solo in Colombia», segnala Amaryllis Fox. «Mezzo milione di colombiani sono morti e lo scorso anno la quantità di cocaina trasportata è stata la più grande di sempre».

Chiara Giovetti




Cassa integrazione, un’àncora di salvezza

testo di Francesco Gesualdi |

Il coronavirus ha travolto l’economia. Mai come in questo caso l’intervento della Cassa integrazione è stato ed è essenziale. Vediamo come funziona e cosa andrebbe fatto per migliorare lo strumento.

Riavvolgiamo il nastro della memoria. L’Italia scopre di essere stata raggiunta dal coronavirus lo scorso 21 febbraio. Quel giorno, un trentottenne di nome Mattia si presenta al pronto soccorso dell’ospedale di Codogno con febbre e sintomi respiratori. Di professione ricercatore, fino a pochi giorni prima valido maratoneta, ha cominciato con i classici disturbi influenzali che però si sono complicati con difficoltà respiratorie costringendolo al ricovero ospedaliero. Mattia è definito il paziente coronavirus numero uno, ma ulteriori ricerche appureranno poi che, in Lombardia, il virus circolava già dal dicembre 2019. Da uno, i casi diventano quattro, dieci, cento. Soltanto un mese dopo se ne contano già sessantamila, ma a rimarcare la gravità dell’epidemia sono i tremila ricoverati in terapia intensiva e i cinquemila morti che non hanno resistito all’infezione. Intanto l’11 marzo, l’Organizzazione mondiale della sanità dichiara lo stato di pandemia a livello mondiale e il governo italiano si convince che la priorità del paese è fermare il contagio con una chiusura totale. Con un decreto del 22 marzo, il presidente del Consiglio proibisce gli spostamenti fuori dal proprio comune, decreta la chiusura di tutte le scuole, ordina la sospensione di tutte le attività produttive industriali e commerciali non essenziali. Provvedimenti validi per tutto il territorio nazionale. È l’inizio del cosiddetto lockdown.

Le misure si dimostrano appropriate: pur con grande lentezza e dopo migliaia di morti, il contagio frena, ma i contraccolpi per le famiglie sono gravissimi. Su tutti i piani: relazionale, scolastico, economico.

In altri tempi, probabilmente, sarebbe stata la catastrofe sociale, ma dopo l’insoddisfazione popolare per l’austerità, questa volta la classe politica non pare avere dubbi sul da farsi. In particolare, pare aver chiaro che non può assumere come criterio guida il rigore finanziario: davanti a una simile emergenza fare nuovo debito è indispensabile. Tra il marzo e il luglio 2020, il governo Conte stanzia una cinquantina di miliardi di euro per misure d’emergenza a favore di famiglie ed imprese. Fra essi, 20 miliardi per potenziare il sistema della cassa integrazione. Con tale termine si intende l’insieme dei fondi attraverso i quali l’Inps, l’Istituto nazionale della previdenza sociale, garantisce la copertura salariale a tutti quei lavoratori occupati in imprese che navigano in cattive acque.

Nascita della cassa

La prima pietra della cassa integrazione venne posta in epoca fascista e non per iniziativa del legislatore, ma delle corporazioni sindacali. Del resto al tempo del fascismo potevano esistere solo i sindacati ammessi dal regime e a conferma di come essi operassero in nome e per conto del governo, era stato stabilito che i contratti stipulati con le controparti padronali avessero valore erga omnes, ossia nei confronti di tutti, come se fossero leggi. Nel 1940 l’Italia entrò in guerra e molti stabilimenti industriali si trovarono in grave difficoltà a causa del crollo del mercato e della scarsa reperibilità delle materie prime. Molti di loro funzionavano a singhiozzo riducendo drasticamente gli orari e quindi le paghe dei lavoratori. Per porvi rimedio, nel 1941 venne inserita una nuova tutela previdenziale nei contratti di lavoro dell’industria: la cassa integrazione guadagni finalizzata a compensare la paga dei lavoratori occupati nelle aziende incapaci di lavorare a pieno regime. E anche se lo scopo principale del nuovo istituto era quello di attenuare gli effetti negativi degli eventi bellici sui lavoratori, l’associazione degli industriali aveva accettato di buon grado la proposta per evitare l’esodo delle maestranze dalle industrie civili in crisi, verso quelle belliche ben più prospere. Con la caduta del fascismo, crollò anche l’impalcatura corporativa e, assieme a essa, i contratti di lavoro aventi valore di legge. Perciò nell’immediato dopoguerra vennero emanati vari provvedimenti legislativi tesi a non disperdere le più importanti tutele  dei lavoratori incluse nei contratti di lavoro. Fra esse, anche la Cassa integrazione guadagni che venne recepita dalla legislazione con un decreto luogotenenziale del 9 novembre 1945.

Quanto dura

Inizialmente la tutela era accordata solo agli operai dipendenti da imprese industriali e prevedeva un’integrazione fino al 75% della retribuzione. A finanziarla sarebbero state le imprese con un contributo pari al 5% delle retribuzioni lorde corrisposte agli operai. Lo stato sarebbe intervenuto con un contributo di pari importo a quello versato dai datori di lavoro. Il fondo sarebbe stato istituito presso l’Inps e si sarebbe chiamato «Cassa per l’integrazione dei guadagni degli operai dell’industria». Inoltre era previsto che il pagamento dell’integrazione fosse effettuato dal datore di lavoro che in seguito sarebbe stato rimborsato dall’Inps tramite conguaglio fra prestazioni corrisposte e contributi complessivi dovuti.

Nel corso degli anni, la legge è tornata varie volte sull’argomento, ma sostanzialmente l’impostazione è rimasta la stessa. Di diverso oggi c’è che i settori coperti non sono solo quelli dell’industria, ma anche dell’edilizia e delle attività estrattive. Inoltre, è stata estesa anche agli impiegati. Quanto all’ammontare, copre fino all’80% del salario ed è fruibile per un massimo di 13 settimane continuative e in ogni caso non più di 52 settimane nello stesso biennio. Il tutto è finanziato con contributi delle aziende che, a seconda del settore, versano dall’1,7 al 4,7% delle retribuzioni lorde. Lo stato interviene con una sua parte.

Chi dentro, chi fuori

Uno dei limiti più seri della cassa integrazione, imbastita in epoca fascista e tramandata ai nostri giorni, è che copre una platea di lavoratori piuttosto ristretta: circa 4 milioni di salariati su un totale di 17 milioni. Ad esempio, esclude tutti gli addetti ai servizi e al commercio che oggi rappresentano la parte più ampia degli occupati.

La cosa più saggia per porre fine a questa anomalia sarebbe la creazione di una nuova cassa integrazione estesa a tutti i lavoratori. Ma invece di imboccare la strada della riforma, si è preferito procedere per aggiunte, e oggi il sistema della cassa integrazione è diventata una giungla di sigle e casse, nella quale è difficile districarsi.

Ad esempio, nel 1972 venne istituita la cassa integrazione per i dipendenti agricoli, ma solo quelli a tempo indeterminato. Inoltre, a partire dal 1996, la legge ha come riesumato l’esperienza fascista del 1941 consentendo a sindacati e associazioni padronali di creare, tramite contrattazione collettiva, dei fondi specifici con funzione di integrazione salariale.

Oggi di tali fondi ne esistono una decina. Fra i più importanti quello a favore dei lavoratori postali, del credito, del trasporto aereo. Sono denominati Fondi di solidarietà, sono costituiti presso l’Inps, hanno gestione autonoma e sono finanziati con contributi aziendali.

Ma esiste un altro fondo ancora, denominato Fis (Fondo di integrazione salariale), istituito dalla legge stessa nel 2015, a cui debbono partecipare, in forma praticamente obbligatoria, tutti i datori di lavoro che occupano mediamente più di cinque dipendenti, che non partecipano ad alcun fondo di solidarietà e che non rientrano nel campo di applicazione della cassa integrazione guadagni. Il Fondo è finanziato con contributi aziendali pari allo 0,65% delle retribuzioni lorde, ha obbligo di bilancio in pareggio e non può erogare prestazioni in carenza di disponibilità.

Purtroppo, le complicazioni non finiscono qui. Ne vanno citate almeno altre due.

Tipologie di cassa

La prima è collegata alle crisi e alle ristrutturazioni aziendali che negli ultimi decenni si sono fatte sempre più numerose a causa della tecnologia e della globalizzazione. Basti dire che solo negli anni della crisi, 2008 e 2009, il numero di imprese cessate ha sfiorato le 630 mila unità. Al novembre 2019, presso il ministero dello Sviluppo, erano ancora aperti 150 tavoli di trattative per trovare la soluzione alla crisi di altrettante aziende che avevano annunciato di voler chiudere.

Fin dai primi anni successivi alla Seconda guerra mondiale si è cominciato ad avvertire il problema di imprese costrette a ridimensionare il proprio personale a causa delle innovazioni tecnologiche e, già nel 1968, venne emanata una legge per garantire la continuità del salario, almeno per qualche tempo, ai lavoratori colpiti dalle ristrutturazioni. A tale scopo venne introdotta una nuova erogazione da parte dell’Inps, denominata Cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs). Erogazione che purtroppo nasceva con le stesse anomalie della sorella maggiore che, nel frattempo, era stata battezzata Cassa integrazione guadagni ordinaria (Cigo), tanto per tenerla distinta.

Ancora una volta l’anomalia principale era la copertura di un numero limitato di settori. Per cui tutte le casse istituite successivamente per garantire l’integrazione salariale anche ai lavoratori dei settori non industriali, sono nate con un doppio incarico. Da una parte, quello così detto ordinario, teso ad integrare il salario nei casi di riduzione di orario di lavoro dovuto a momentanee difficoltà di mercato. Dall’altra, quello così detto straordinario, finalizzato a garantire il salario nei casi di sospensione del lavoro per ristrutturazioni, ridimensionamenti o addirittura chiusure aziendali indotte da calcoli di mercato.

Per una cassa universale

La legge stabilisce limiti ben precisi ai tempi di assistenza, sia quelli forniti dalla Cassa integrazione ordinaria che da quella straordinaria. Ma talvolta tali tempi non sono sufficienti a risolvere le crisi. Perciò è data la possibilità alle regioni o al ministero del Lavoro, a seconda delle dimensioni dell’azienda in questione, di decretare un prolungamento del sostegno, in deroga a ciò che prevede la legge. La stessa procedura può essere utilizzata anche per permettere ad aziende normalmente escluse da qualsiasi tipo di sostegno, di richiedere assistenza. Tali trattamenti eccezionali assumono il nome di cassa integrazione guadagni in deroga e rappresentano il secondo elemento di complicazione.

Sotto questo titolo è andato anche il decreto legge del 17 marzo 2020 che ha stanziato cinque miliardi di euro per garantire nove settimane di cassa integrazione a tutti i lavoratori occupati in aziende che hanno dovuto chiudere a causa del coronavirus. E non è stato che il primo dei provvedimenti assunti. Il decreto legge di agosto 2020 è intervenuto ancora per prorogare la cassa.

Nei primi sette mesi del 2020, le ore autorizzate di cassa sono state 2,7 miliardi con un aumento dell’881% sull’intero anno precedente (dati Inps).

Ora che abbiamo capito quanto sia importante dare sicurezza a tutti i lavoratori, sarebbe bene approfittare dell’occasione per varare una riforma radicale del sistema, in modo da rendere la cassa più lineare, più razionale e soprattutto universale.

Francesco Gesualdi

Assunzioni-licenziamenti. Foto di Gerd Altmann-Pixabay.




Eccomi, manda me

testo di Gigi Anataloni – direttore MC |


«Eccomi, manda me»(*)

Questa è la risposta, forse perfino troppo confidente, del profeta Isaia quando Dio ha bisogno di qualcuno da mandare a dire cose scomode e impopolari, tipo «fidatevi di Dio» e non degli intrighi politici, praticate la giustizia e la misericordia e non l’accumulo di denaro e il risentimento. Sembra una risposta da pazzi, quella di Isaia, perché solo uno pazzo d’amore può accettare di giocare la sua vita per l’amante/amato.

Isaia accetta di essere «voce di Dio» in tempi disastrati molto simili al nostro, tempi nei quali ciascuno dava una sua risposta individuale ai problemi, riferendosi al proprio idolo casalingo, fatto a propria immagine e somiglianza, utile solo per i propri bisogni. Un idolo che se anche chiedeva prezzi alti in offerte e sacrifici (anche umani), non disturbava certo la coscienza e garantiva sicurezza e prosperità.

Allo stesso modo, anche gli idoli di oggi anestetizzano la coscienza e si nascondono dietro le fake news, gli estremismi, gli uomini forti, i muri e i porti chiusi, i like e gli influencer. L’idolatria dei nostri tempi, come quella dei tempi di Isaia, stordisce, appesantisce, disumanizza, e impedisce di prestare attenzione e ascoltare l’unica Parola che dona libertà e restituisce la bellezza dell’umanità, quella incarnata nel Cristo crocefisso e risorto.

E anche i nostri idoli, come quelli di un tempo, sono appagati dai sacrifici umani.

Il mare nostrum, il Mediterraneo, dal 2013 al 2019, ha ingoiato oltre 19mila migranti, cifra che continua a crescere in questo 2020, senza contare i migranti morti ai confini dell’Europa dell’Est, e nel Medio Oriente, o nel Myanmar e nelle savane, fiumi e deserti dell’Africa o sulle piste che dal Centro America vanno a sbattere contro il muro di Trump.

Aggiungiamo al numero delle vittime sacrificali, i 30 milioni di bambini abortiti nel mondo; i quasi 750mila suicidi; i 940mila morti per incidenti d’auto; 1,2 milione di vittime dell’Aids; i 3,5 milioni falciati dal fumo; quasi 8 milioni di morti per fame; 1,8 milioni quelli uccisi dall’alcol, senza contare gli oltre 900mila portati via dal Covid-19 (**).

Quanto alle grasse offerte richieste dai nostri idoli odierni, basti ricordare, come esempio, i 280 miliardi (cifre in dollari) spesi per la droga; i 4 trilioni di sigarette fumate; i 200 miliardi per curare obesità e sovrappeso solo negli Usa; i 120 e più miliardi per fruire di prostituzione e pornografia; gli otto milioni di ettari di desertificazione e i quasi quattro di deforestazione, senza dimenticare l’oblazione più oscena: i due trilioni spesi dagli stati per gli armamenti.

Purtroppo spesso noi viviamo in questa realtà accettandola acriticamente, reagendo solo quando il nostro interesse personale è toccato. Per questo forse la pandemia che sta scombussolando il mondo può diventare un’occasione: può svegliarci dal nostro torpore e farci tornare a vivere la nostra vita con più coinvolgimento e responsabilità.

È triste vedere come tanti, invece di reagire positivamente, si lascino manipolare da politici senza scrupoli e da potentati economici e malavitosi che stanno approfittando della pandemia per arricchirsi e rafforzare il loro potere.

Come sempre, in tutto questo, il prezzo più alto viene fatto pagare ai poveri.

Rispondere «eccomi, manda me» è, oggi come ai tempi di Isaia, un atto di coraggio e di indipendenza. È smettere di stare a guardare. È avere come punto di riferimento Dio che sveglia la nostra coscienza con la sua Parola, ascoltata e mangiata nella preghiera, confrontata e verificata con coraggio e umiltà con i fratelli e le sorelle nella fede.

Per «essere misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso» e mettere in pratica il «come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro» (Lc 6, 36 e 31), parole che il Vangelo non si stanca mai di ripeterci.

 

(*) Questo è il titolo del messaggio di papa Francesco per la Giornata missionaria mondiale di
quest’anno (testo a pag. 74, in Amico).

(**) Dati da gennaio a settembre 2020, vedi www.worldometers.




Noi e Voi

Dialogo lettori e missionari |


In ricordo di mia sorella missionaria

Carissimi missionari della Consolata,
sono la sorella di suor Corrada (al secolo Elvira), nata a Sogliano al Rubicone (FC) il 18/06/1916, e deceduta a Venaria Reale il 28/04/1952 (nella foto).

Era entrata nell’Istituto delle suore missionarie della Consolata di Torino il 14/12/1936 con tutto il suo entusiasmo di giovane ragazza, rispondendo generosamente alla chiamata per uscire dalla propria casa e famiglia per essere missionaria delle genti e far conoscere il Vangelo nel mondo.

Purtroppo, non ha potuto realizzare il suo ideale perché una grave malattia, anche se diagnosticata e con tentavi di cure, non ebbe esito positivo.

A Venaria Reale, assistita amorevolmente dalle sue consorelle, a soli 35 anni volò in cielo lasciando in un dolore incolmabile la nostra famiglia.

Ora io ho 90 anni e siccome non riesco più a leggere la vostra bella rivista, ho deciso di disdettare l’abbonamento piuttosto che continuare a riceverla e nessuno la leggerà.

Un caro ricordo unitamente alle mie umili preghiere.
Con affetto,

Angiolina Canducci
Riccione, 15/07/2020

Carissima signora Angiolina,
la ringraziamo di cuore per aver camminato con noi tutti questi anni e per aver mantenuto viva la passione missionaria di sua sorella, suor Corrada. Che la nostra amata Madre, la Consolata, la benedica e l’accompagni nel cammino verso il Paradiso, da dove sua sorella sta facendo il tifo per lei.

 

Ricordando un amico

Cari missionari,
vi comunico che è deceduto Assuero Rossetti, di Follonica, dove vivo anch’io. Assuero è stato a lungo un forte sostenitore delle missioni in Tanzania, zona Iringa, dove tra l’altro ha seguito con aiuti di varia natura, il locale villaggio «Città di Follonica» in cui ha operato padre Pancotti (nella foto qui accanto).

Assuero si dava da fare in ogni modo, finché la salute gliel’ha consentito coinvolgendo più persone che poteva in questa opera di aiuto e sostegno al Villaggio in Tanzania. Vi chiedo una preghiera per lui.

Bruno Cellini
Follonica, 09/08/2020

Grazie dell’informazione. Il notro fratello Assuero avrà certo trovato una buona accoglienza in cielo, visto che il suo amico, padre Pancotti Mario Luigi, lo ha preceduto l’11 novembre 2019. Sono sicuro che ora fanno festa insieme. Ringraziamo il Signore per il dono di persone generose come lui.

 

Un missionario dal cuore grande

Il Signore mi ha dato il grande dono di aver conosciuto padre Giovanni Giorda più di 35 anni fa in uno dei miei primi viaggi in Tanzania. In questi lunghi anni, tra un viaggio e l’altro (50 complessivi), ho avuto il piacere di passare anche diversi giorni con lui.

Abbiamo dialogato, pregato, scambiato opinioni e consigli sulle varie opere in aiuto a chi ha sempre più bisogno, lavori da noi portati alla realizzazione per padre Giorda e per altre opere con i missionari della Consolata o per alcune diocesi locali.

Quanti esempi di vita, quanti insegnamenti cristiani mi ha trasmesso con il suo fare semplice, il parlare pacato, umile, la sua condotta di vita povera ma ricca di fede viva, sempre presente e feconda con immensa speranza verso un futuro migliore per i più poveri con una carità donata a mani piene.

Nel suo agire vedevi materializzarsi con grande semplicità cristiana la Parola della prima lettera ai Corinzi 13,1-13: «La fede, la speranza, la carità, ma di tutte la più grande è la carità».

Carità portata avanti sempre con grande fede nel Signore e in Maria Consolata e con speranza nel beato Allamano che illuminasse sempre il suo cammino missionario.

Nei suoi 68 anni di missione ha assistito centinaia di bambini, orfani, malati nei vari orfanotrofi, asili, dispensari che ha realizzato. Quanti battesimi, matrimoni ha celebrato. Quante persone ha portato al Signore con il suo parlare umano, dolce, persuasivo per la conversione al cristianesimo.

Quanti giovani, meno giovani, anziani ha accompagnato, aiutato nei loro problemi umani, fisici, morali, cristiani.

Camminare, viaggiare in macchina con lui era una catechesi continua per le sue innumerevoli fermate per dare un aiuto, un consiglio, una buona parola o semplicemente un saluto e informarsi come la persona stava di salute assieme alla sua famiglia.

Come dimenticare la realizzazione di 4 ponti per accorciare di 120 Km la strada che portava i malati all’ospedale di Tosamaganga? Un grande esempio di fede l’ho ricevuto a Kidamali dove mi sono trovato con 20 giovani, tutti provenienti dall’Italia, per la realizzazione in un mese degli impianti elettrici in un nuovo orfanotrofio, nel dispensario e nella chiesa. Al nostro arrivo abbiamo trovato la totale mancanza d’acqua. Vedendomi demoralizzato perché consapevole dell’impossibilità a lavorare, si è avvicinato a me dicendomi: «caro Pino, abbi fede. Il Signore non vi ha fatti arrivare fin qui per abbandonarvi». Due giorni dopo l’acqua è arrivata.

Per la sua grande bontà, vissuta sempre in semplicità e povertà, era definito dalla gente del posto «Moyo wa Jesu» (cuore di Gesù). La realizzazione di opere umanitarie (asili, orfanotrofi, dispensari, chiese) era il suo modo di rendere concreta l’opera di evangelizzazione che era la ragione primaria del suo vivere.

«Pino ricordati che la povertà rende ricca l’anima davanti a Dio e aiuta con la fede e la preghiera ogni uomo a donare se stesso per il bene del prossimo. La Chiesa deve essere povera per arrivare alla ricchezza del Signore».

Credo che in questo tuo ultimo pensiero, ognuno di noi abbia tanto da riflettere e meditare.

Grazie Giovanni! Hai consumato la tua vita donata al volere del Signore, con gli insegnamenti del beato Allamano, seguendo la Consolata in tutto il tuo cammino missionario e facendo il «bene fatto bene, in silenzio» verso il prossimo, per chiunque hai incontrato lungo le rosse strade del Tanzania. Grazie per quanto mi hai insegnato. Il ricordo di te rimarrà sempre indelebile nel mio cuore assieme a quello di padre Franco Cellana e suor Gian Paola Mina.

Le porte del Paradiso di sicuro si sono spalancate al tuo arrivo. Riposa in pace con il Signore, la Consolata, il beato Allamano e tutti i tuoi confratelli che ti hanno preceduto.

Con grande, fraterna riconoscenza.

Pino Lupo e gli amici del
 Gruppo operativo missionario Nyaatha Irene (Gomni), Torino, 14/08/2020


Insegnanti ringraziano

Carissimi fratelli della Consolata
sono un presbitero della Congregazione s. Giovanni Battista Precursore, ho 81 anni e sono stato molti anni missionario in Brasile, da alcuni anni mi hanno richiamato in Italia e mi trovo a Roma in una parrocchia. Qui arriva tutti i mesi la vostra rivista […] ed io la leggo molto volentieri perché è molto interessante, mi fa ricordare molte cose della mia missione, molte altre cose che non si trovano in nessun’altra parte. […] Sempre uniti nella preghiera. Vi auguro buon lavoro-servizio. Un abbraccio fraterno,

padre Ennio Verdenelli
03/08/2020

Gentile Direttore,
saranno ormai 5 anni da quando – di passaggio a Torino con una mia classe – avevo espresso il desiderio (da lei cortesemente accolto) di fare una breve visita alla vostra redazione. Allora non se ne era potuto fare nulla, ma a distanza di anni desiderio aumentare i complimenti per «Missioni Consolata», rara rivista di seria informazione a 360° con in più una impostazione grafica gradevole. Quando a scuola sono con studenti di V superiore, è frequente mostrare e scorrere articoli vostri, e non pochi allievi ne hanno tratto spunti critici anche per il dialogo di maturità.  Non ultima, mia moglie (per formazione assolutamente lontana dall’orizzonte culturale della rivista) segue assiduamente la rubrica economica di Francesco Gesualdi, e io ho anche comprato il volume «Nohimayu, l’incontro» su di un popolo dell’Amazzonia. Insomma, si vorrebbe trovare più calma per leggere (imparare!) questa rivista, fonte di informazioni ma anche di «fiammelle di speranza» (un esempio dall’ultimo numero di MC, «Benessere fatto in casa») in un mondo che per troppi versi farebbe altrimenti soltanto e sempre più paura.

Dunque: complimenti, un caro saluto ed un augurio … a me innanzitutto: dedicare più tempo alla lettura della rivista. Estenda i miei complimenti all’intera Redazione.

Marco Bertorelle,
Bolzano, 07/08/2020

Gentilissimi,
ricevo dal mio parroco, don Augusto Pagan, la segnalazione dell’articolo del direttore della rivista MC, «Vedo, non vedo». In parrocchia abbiamo un nostro periodico, Mori e la sua gente, aperto a tematiche quali la dimensione spirituale, sociale, economica, in prospettiva dei più deboli e degli ultimi.

Il parroco vorrebbe pubblicare su questo nostro periodico, il vostro articolo in questione. Vi chiediamo se questo fosse possibile e a quali condizioni. Approfitto per ringraziarvi per la vostra preziosa rivista ricca e attuale, tanto che conservo i dossier di politica internazionale, per proporli nelle classi del liceo in cui insegno.

Per ora grazie per l’attenzione e volentieri aspettiamo una vostra risposta. Cordiali saluti.

Chiara Ballarini
Mori, (Tn) 18/08/2020

Ovviamente abbiamo già risposto da tempo agli amici di Mori, dicendo loro che siamo ben felici se i nostri testi sono diffusi e fatti conoscere per scopi non commerciali.

Spett.le redazione rivista Missioni Consolata,
premesso che in casa mia ho sempre visto la vostra rivista perché mia mamma, deceduta l’anno scorso a quasi novantanove anni, è stata vostra abbonata per decenni, vi scrivo per ringraziarvi.

In primo luogo, perché i vostri articoli sono molto interessanti e sono spesso fonte preziosa per il mio lavoro. Insegno Lettere nella scuola media e mi capita di fare riferimento ai vostri inserti e approfondimenti facendo lezione di geografia.

In secondo luogo, perché nello scorso mese di marzo, durante il lockdown, mio papà, deceduto poi alla fine di aprile anche lui quasi novantanovenne, amava guardare l’immagine del vostro calendario (Colombia, Caquetá, Un sorriso contagioso) perché diceva che il sorriso di quelle due bimbe era stupendo e gli dava gioia. Quando è iniziato aprile, papà ha voluto che ritagliassi l’immagine e la applicassi su quella di aprile. Per questo vi ringrazio dal profondo del mio cuore perché quell’immagine è stato un dono prezioso. Grazie.

Elena Maragliano
Genova, 19/08/2020

Riproponiamo qui la bella foto delle due bimbe della Colombia, in realtà del paese di Toribio, non del Caquetá, mi ha ricordato il fotografo, padre Gianantonio Sozzi. Anche a queste bimbe auguriamo ogni bene, visto che anche il loro paese è duramente provato dal Covid-19.

Vogliamo anche ringraziare degli incoraggiamenti, particolarmente graditi in questi tempi difficili in cui continuare a pubblicare una rivista come Missioni
Consolata è decisamente impegnativo. Grazie per il vostro supporto. Felici se possiamo contribuire a creare un mondo più fraterno e giusto.

Grazie a chi sostiene e diffonde la nostra rivista. Abbiamo certamente bisogno di nuovi lettori, di gente che non si accontenti di notizie flash, di slogan pubblicitari, di notizie usate a scopo di campagna elettorale. Abbiamo bisogno di giovani con cui condividere il sogno di un mondo di fratelli e sorelle che vivono in pace e giustizia, che hanno cura del creato, che promuovono la vita e sognano insieme. Allora i sogni diventeranno realtà.

Pur usando e apprezzando tutti i mezzi moderni di comunicazione, restiamo convinti che la carta mantenga il suo fascino e sia lo strumento privilegiato per chi davvero vuole conoscere e approfondire. Grazie.