Quei santi sconosciuti: i martiri di Guiúa

Il processo di Beatificazione


Testo di Osório Citora Afonso


Era il 22 marzo 1992, ventitré catechisti furono assassinati da un gruppo di uomini armati. Si trovavano nel centro catechistico di Guiúa per formarsi al loro ministero. Qualche anno prima, nel 1987, un altro catechista aveva subito la stessa sorte nello stesso luogo. Oggi si è conclusa la prima parte del processo di beatificazione che li riguarda.

Il 22 marzo scorso, in un momento nel quale il centro del Mozambico è stato devastato dal ciclone Idai che ha colpito in modo indiscriminato le persone, le città e i loro beni, si è celebrato il 27° anniversario del martirio dei catechisti laici di Guiúa.

Inoltre, si è chiuso in maniera positiva il processo diocesano per la loro beatificazione e si è quindi aperta la fase romana con il trasferimento alla Congregazione per le cause dei santi di tutto il materiale istruttorio raccolto in diocesi.

Vogliamo dunque ricordare i catechisti martirizzati a Guiúa nel 1992 (cfr MC, dossier, 3/2002) e, inoltre, offrire un omaggio ai laici catechisti e missionari del Mozambico che anche oggi spendono la loro vita, spesso in condizioni difficili e pericolose, perché Cristo sia annunciato e tutti gli uomini ricevano la salvezza.

I catechisti in tempo di prova

Dobbiamo sottolineare due caratteristiche importanti della Chiesa mozambicana durante il periodo che va dal 1975, data dell’indipendenza nazionale, al 1992, data dell’accordo di pace.

Da una parte abbiamo una chiesa sotto un regime marxista, una chiesa spogliata dei suoi averi e del suo essere. Dall’altra una chiesa nella guerra civile, una chiesa martirizzata.

Ambedue vivono sotto il segno dell’emergenza e della riscoperta del ruolo fondamentale dei catechisti laici.

Poco dopo la dichiarazione d’indipendenza del Mozambico nel 1975, con l’ascesa al potere del Fronte per la liberazione del Mozambico (Frelimo) e la sua dichiarata posizione marxista leninista, ostile alla Chiesa, inizia un periodo di vera persecuzione, con espropriazioni, restrizioni di ogni genere all’attività pastorale, negazione dei visti d’entrata nel paese ai missionari stranieri. Molte missioni si vedono svuotate dei loro missionari e sacerdoti. Nascono allora piccole comunità cristiane che si radunano non più attorno ai sacerdoti, ma a quelli che vengono chiamati «missionari laici», cioè i catechisti che svolgono un’attività di custodi, di testimoni e di animatori delle comunità cristiane.

Una lunga guerra civile

Negli anni immediatamente successivi all’indipendenza, il Mozambico è teatro di una lunga e sanguinosa guerra civile, durata ben 17 anni, tra il Frelimo al potere, e il movimento di guerriglia anticomunista Resistenza nazionale del Mozambico (Renamo).

Durante la guerra civile varie missioni si trovano coinvolte nel conflitto: molti sacerdoti, religiosi, religiose e laici vengono sequestrati. Alcuni testimoniano l’adesione a Cristo con il martirio.

La «Chiesa ministeriale»

L’Assemblea pastorale nazionale di Beira del 1977 costituisce un avvenimento centrale per la chiesa mozambicana sotto il marxismo e colpita dalla guerra civile. Con una nutrita rappresentanza di laici delle piccole comunità cristiane, la chiesa legge i segni dei tempi e traccia coraggiosamente il progetto di trasformarsi da «chiesa del popolo» in «Igreja ministerial» (chiesa ministeriale), mediante la valorizzazione dei ministri laici.

Le comunità sono chiamate a strutturarsi secondo ministeri, servizi che il Signore va suscitando. Così viene riformulata la formazione da offrire ai catechisti per rendere più facile ed efficiente la presenza viva della chiesa in tutte le comunità diffuse nei vasti territori delle missioni. In queste missioni i catechisti diventano davvero «custodi, testimoni e animatori delle comunità cristiane».

Questa chiesa mozambicana, nel tempo della prova, è in grado di produrre martiri.

Pensiamo anzitutto a quelli che saranno formati nel Centro catechistico di Anchilo per svolgere la loro attività missionaria nella zona di Nampula e che saranno uccisi sul campo di missione e, in secondo luogo, a quelli di Guiúa di cui parliamo qui, che saranno uccisi durante la loro preparazione proprio nelle vicinanze del centro.

I 24 martiri di Guiúa

È il 21 marzo del 1992, il Centro catechistico di Guiúa accoglie quindici famiglie provenienti delle missioni di Maimelane, Mapinhane, Vilankulo, Muvamba, Funhalouro, Morrumbene, Mocodoene, Jangamo, Guiúa e Inhambane, tutte già provate duramente dalla guerra. Si trovano nel Centro formativo di Guiúa per essere preparate al loro ministero.

Già durante il giorno si sentono colpi di arma da fuoco echeggiare da lontano, ma sembra che non ci siano pericoli immediati. Verso le 23, invece, le famiglie, le religiose francescane e i due missionari della Consolata, Andrea Brevi e John Njoroge, presenti nel centro, si rendono conto di essere stati accerchiati da un nutrito gruppo di giovani uomini (alcuni paiono avere tra 10 e 15 anni), forse allo scopo di saccheggiare la struttura.

Visto il pericolo, ogni famiglia si chiude ciascuna nella casetta che gli è stata assegnata per il soggiorno, ma ben presto i guerriglieri iniziano a sparare e a tirare fuori con violenza le famiglie dalle abitazioni. Due catechisti che provano a fuggire venogno uccisi, gli altri vengono radunati. Ad un certo punto si sentono due colpi di mortaio sparati dall’esercito regolare che presidia il vicino acquedotto. Un gruppo di guerriglieri allora si dirige verso i soldati, ma non li trova e ritorna indietro.

Raggruppate le persone che sono riusciti a tirare fuori dalle abitazioni fino a quel momento, i guerriglieri le fanno camminare con loro per 500 metri e si fermano nei pressi di una capanna per interrogare gli ostaggi. Vogliono sapere da dove provengono e perché si trovano lì, poi chiedono informazioni sulla dislocazione dell’esercito e sulla strada libera dalle mine per poter entrare nell’area protetta, ma non ricevono le risposte che vorrebbero.

Dato che comincia ad albeggiare, gli assalitori decidono di inoltrarsi nel bosco con gli ostaggi per circa tre chilometri, poi si fermano, separano una decina di ragazzi dal resto del gruppo per portarli nelle loro basi, e uccidono a sangue freddo tutti gli altri.

Prima di essere uccisi, i catechisti chiedono di poter pregare e gli assassini glielo concedono.

Il bilancio finale dell’assalto e del massacro è di 23 persone uccise, tra cui sei bambini tra uno e 13 anni.

Il ventiquattresimo martire, il catechista Peres Manuel Chimganjo, venne ucciso invece il 13 settembre del 1987, cinque anni prima, sempre a Guiúa, in circostanze simili.

Custodi, animatori, testimoni

I catechisti sono custodi, animatori e testimoni delle loro comunità cristiane. I ventiquattro martiri di Guiúa lo sono stati in modo speciale.

Sono stati custodi, ossia «missionari laici», come già erano definiti i catechisti mozambicani nel 1977, ossia «padri di famiglia trasformati in apostoli» che hanno saputo conservare con cura, difendere e proteggere non soltanto la fede dei loro fratelli, ma anche il patrimonio della Chiesa nel tempo in cui essa era sotto il marxismo e colpita dalla guerra civile.

Padre Cornelio Prandina, comboniano morto nel 1992, descrivendo le attività dei catechisti diceva: «Sono incaricati di dirigere e coordinare la vita di decine di comunità, specialmente dove non c’è il sacerdote. Alcuni arrivano ad avere la responsabilità di più di 50 comunità».

Sono stati testimoni, cioè non hanno avuto paura di testimoniare la loro fede di fronte al pericolo. Uno degli scampati del 21 marzo 1992 ha raccontato l’interrogatorio subito dai guerriglieri:

«Da dove venite?».
«Veniamo da diverse missioni della provincia».

«Per fare che cosa?».
«Noi siamo catechisti: impariamo la Bibbia e i diversi lavori dei cristiani nelle comunità cristiane».

«Dov’è il vostro cibo?».
«Siamo poveri, non abbiamo magazzino e viviamo alla giornata».

«Dove sono i militari che vi difendono?».
«Non lo sappiamo. Non siamo di qui, veniamo da lontano perché qui c’è una chiesa e un Centro che forma i catechisti».

«Voi siete sacerdoti?».
«No. Siamo catechisti».

«Che abbiate risposto bene o male, giusto o sbagliato, per voi la fine sarà la stessa: cioè la morte».

Sono stati animatori di comunità: durante quegli anni alcuni di loro, reagendo alla paura, riunivano piccoli gruppi di cristiani, anche di due o tre persone soltanto. Poco importava se all’ombra di una capanna o sotto una pianta di caju (anacardio). In tutto il Mozambico, scomparsi i quadri organizzativi della chiesa, le piccole comunità cominciavano discretamente a riaggregarsi per pregare e leggere la Bibbia, grazie al lavoro dei catechisti. Progressivamente, si sono formate e rafforzate tante piccole comunità, organizzate attorno alla Parola e alla preghiera al fine di garantire il servizio della fede e l’aiuto ai fratelli in necessità: il catechista svolgeva un ruolo fondamentale. L’essere e l’agire della comunità radunata attorno al catechista o all’animatore, che si trattasse dell’azione semplice di ogni giorno o dell’estremo dono di sé, esprimevano la concezione di una vita messa a disposizione della Parola e della legge del Signore. Era questa la loro prima e radicale espressione. Si trattava di una vera e propria spiritualità del martirio.

Joaquim, Isabel e Carlos

Sul catechista cinquantatreenne Joaquim Marrumula Nyakutoe si dice che fosse uomo coraggioso e pieno d’amore verso la sua gente, e che seppe, con il suo zelo apostolico, formare e animare la sua comunità cristiana di Guissembe. Aveva dieci figli, dei quali tre furono rapiti e tornarono a casa dopo sei mesi.

Sulla catechista quarantacinquenne Isabel Foloco si dice che fu una donna sempre disponibile ad animare la comunità e a collaborare nei diversi impegni. I più bisognosi della comunità trovavano sempre in lei un aiuto. Aveva cinque figli e fu uccisa davanti a loro.

Su Carlos Mukuanane trentaduenne si dice che aveva una buona capacità di leader. Fu scelto per essere catechista e animatore della comunità di Funhalouro che si trovava senza sacerdote. Seppe animare la sua comunità cristiana nella preghiera e lettura della Bibbia. Aveva quattro figli.

Sono tre esempi di custodi, testimoni e di animatori di comunità che hanno dato la loro vita mentre si preparavano per il loro ministero. Il sacrificio delle famiglie di Guiúa non è stato inutile, perché quel luogo oggi è il fulcro della diocesi di Inhambane, dove si può toccare e vedere l’impronta della presenza di Dio nella terra dei Tonga, dei Twas, degli Xopes e degli Ndaus. Voglia Dio aprire gli occhi e la mente di tutti perché possiamo percepire, ricordare e valorizzare debitamente quest’apertura del cuore di Dio per Inhambane.

Osório Citora Afonso

Sui martiri di Guiúa nell’Archivio MC:


È morto monsignor Francisco Lerma  MartÍnez

Missionario, vescovo, amico dei mozambicani

 

Mons. Francisco Lerma Martínez, missionario della Consolata, vescovo di Gurué, è andato alla casa del Padre il 25 aprile scorso. Era ricoverato all’ospedale Istituto del Cuore a Maputo, Mozambico.

Nato a Murcia, in Spagna, il 4 maggio del 1944, mons. Francisco Lerma ha passato quasi tutta la sua vita missionaria in Mozambico, paese che ha raggiunto nel 1971, dopo l’ordinazione sacerdotale.

Dal 1971 al 1974 è stato prima viceparroco e poi parroco a Maúa, quindi dal 1974, per due anni, direttore della scuola per catechisti di Correia. Passati gli anni dell’indipendenza del Mozambico, dal 1976 al 1979 è stato parroco a Cuamba dove ha chiuso il suo primo decennio di missione nella Provincia del Niassa, Nord Ovest del Mozambico, la più povera del paese.

Nel 1979 è stato inviato più a Sud e gli è stato affidato il ruolo di segretario della pastorale nella diocesi di Inhambane, ruolo che ha dovuto interrompere dopo due anni per recarsi in Spagna a causa di una malattia che lo ha fermato per più di un anno.

Nel 1982 è ritornato in Mozambico e ha ripreso il servizio di coordinamento pastorale. Dopo quattro anni gli è stata assegnata la cura pastorale della parrocchia di Massinga dove è rimasto per altri quattro anni.

All’inizio del 1992 è stato mandato a guidare la formazione dei seminaristi al seminario filosofico di Matola, ruolo che ha ricoperto per quattro anni.

issione. Ha saputo stare dalla parte dei poveri, facendo sentire il loro grido, e ha richiamato con coraggio alla pace e riconciliazione dopo i tanti fatti di violenza e ingiustizia

Passati alcuni mesi dall’inizio del 1996, alla parrocchia di Nova Mambone, a giugno è nominato direttore del Centro catechistico di Guiúa, dove quattro anni prima 24 catechisti avevano testimoniato col loro martirio l’amore a Cristo e al Vangelo. È rimasto a Guiúa fino al 2002, ricoprendo allo stesso tempo il servizio di consigliere della Regione Mozambico dei missionari della Consolata.  Dopo un periodo a Roma, dove si è occupato del Segretariato generale per la missione per l’Istituto, nel 2007 è ritornato in Mozambico dove è stato eletto superiore regionale l’anno seguente. Ruolo che ha svolto per due anni fino al 24 marzo 2010, quando Papa Benedetto XVI lo ha nominato vescovo di Gurué.

Mons. Francisco era una persona semplice e amabile, vicina a coloro che il Signore gli affidava nel corso della sua attività missionaria. Nel periodo prima dell’indipendenza del Mozambico, ha condiviso i dolori e le gioie di un popolo che gridava e lottava per la libertà. Poi, nel periodo post indipendenza, ha condiviso la fatica dello stesso popolo di trovare intesa e riconciliazione. Si è interessato profondamente della cultura e all’espressione religiosa di coloro che serviva, scrivendo anche libri e divulgandone la conoscenza.

Persona comunicativa, ha cercato, soprattutto negli ultimi anni come pastore della chiesa di Gurué, di fare conoscere la situazione dei suoi cristiani e anche di coinvolgere tanti amici e conoscenti nella sua stessa m accaduti nella diocesi a lui affidata.

Pedro Louro

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