Indagine sulla maternità surrogata


Le attuali conoscenze scientifiche dicono che il rischio di conseguenze psichiatriche sulla madre surrogata e sul bambino è elevato. È difficile sostenere la tesi che avere dei figli sia un diritto. È altrettanto difficile non considerare la maternità surrogata come una particolare forma di sfruttamento della povertà. Per ora la sola e indiscussa certezza è che la pratica si è trasformata in un enorme affare.


Testo di Rosanna Novara Topino


In Italia le tecniche di Procreazione medicalmente assistita (Pma) restano precluse alle coppie omosessuali, ai single e alle mamme-nonne. Sono inoltre vietate la fecondazione post-mortem, cioè l’utilizzazione dei gameti del marito o compagno deceduto e l’utilizzazione degli embrioni a scopo di ricerca (permessa invece dal 2016 in Gran Bretagna). Peraltro il Tribunale di Milano, con una sentenza del 15 ottobre 2013 che riguardava un caso di surrogazione di maternità richiesta da una coppia italiana in Ucraina, stabilì che doveva escludersi la consumazione del delitto, da parte della coppia italiana, di falsa dichiarazione di maternità poiché l’atto di nascita del figlio era conforme alla lex loci, che in Ucraina impone il riconoscimento dello status di madre alla madre sociale (la committente) e non alla madre surrogata (cioè della gestante) o alla madre biologica (cioè della donatrice degli ovuli). Per quanto riguarda le coppie omosessuali, che hanno avuto un figlio mediante maternità surrogata all’estero, attualmente in Italia il figlio viene registrato a nome di un unico genitore, come genitore single. Non è infatti passata la proposta di legge della stepchild adoption, che prevede il riconoscimento, come genitore adottivo, del compagno di un genitore biologico. Va detto che il Tribunale di Roma, la Corte d’Appello di Torino e la Corte di Cassazione hanno più volte concesso la stepchild adoption ai partner dei genitori biologici, nell’ambito di coppie omosessuali, sottolineando la preminenza dell’interesse del minore rispetto a qualsiasi altro interesse dello stato.

(Arizona reproductive institute / iStock)

Affari e turismo riproduttivo

Nei paesi in cui è consentita la surrogazione della maternità, essa si è ben presto trasformata in un enorme giro d’affari. Negli Stati Uniti esistono oltre 400 cliniche dedicate. Le donne single o le coppie lesbiche possono scegliere su internet gli spermatozoi in base alle caratteristiche genetiche, al quoziente intellettivo e al carattere del donatore. L’acquisto viene recapitato dai corrieri in una notte, per cui si parla di overnight-male, cioè di «uomo di una notte». Gli ovociti di donne belle e intelligenti (spesso vengono messi annunci per cercarne sui giornali studenteschi universitari) arrivano a costare 50mila dollari. Naturalmente sono nate numerosissime agenzie specializzate nel far incontrare la domanda e l’offerta: forniscono le madri in affitto (che spesso possono essere scelte su catalogo), si occupano eventualmente della ricerca dei gameti se la coppia richiedente è sterile, delle visite mediche della futura gestante e della clinica in cui avverrà il parto e infine delle pratiche legali. Con un piccolo sovrapprezzo, di circa 250 dollari, è inoltre possibile scegliere il sesso del nascituro.

Naturalmente l’acquisto di gameti, il pagamento delle madri in affitto e tutte le spese mediche, assicurative, legali, di sostegno psicologico per la gestante che dovrà poi cedere il neonato alla coppia committente, sono a carico di chi richiede la Gestazione per altri (Gpa), quindi è evidente che il presunto «diritto alla procreazione», sbandierato da chi sostiene questa pratica, è senza alcun dubbio un privilegio per persone o coppie facoltose, che molto spesso alimentano il turismo riproduttivo per recarsi dai paesi come il nostro, dove la Gpa è vietata, in quelli dove tutto è permesso. In California nel 2010 sono nati 1.400 bambini con maternità surrogata, metà dei quali richiesti da coppie straniere, mentre in India, dove sono attive oltre 3.000 cliniche, nascono oltre 1.500 bambini l’anno con Gpa, un terzo dei quali per coppie straniere. In Ucraina nel 2011 sono state portate a termine con Gpa 120 gravidanze, ma il numero reale potrebbe essere più elevato.

Sfruttamento della povertà

(laboratorio_Instituto Ingenes, Mexico)

Non c’è dubbio che la maternità surrogata sia una particolare forma di sfruttamento della povertà da parte di persone facoltose. Basti pensare a cosa prevedono i contratti di maternità surrogata: la donna che si presta per la gravidanza deve rinunciare a ogni diritto sul bambino, deve acconsentire all’aborto in caso di malformazione, deve essere disponibile a fornire il proprio latte dopo il parto e deve pagare delle penali se non rispetta gli standard sanitari richiesti. In alcuni stati, come la Thailandia, i committenti possono rifiutare il figlio con una malattia o un handicap, come capitato nel 2014: una coppia australiana committente di due gemelli ne rifiutò uno, nato Down e con una grave patologia cardiaca.

In realtà, secondo i risultati di alcune ricerche scientifiche, la maternità surrogata è un’autentica violenza perpetrata sia alle madri surrogate che ai figli.

Le madri surrogate, infatti, per favorire l’impianto degli embrioni, devono essere sottoposte a ingenti dosi di ormoni, che ne possono pregiudicare la salute. Oltre a questo bisogna considerare che, secondo una ricerca condotta da neuroscienziati dell’Università autonoma di Barcellona e pubblicata su Nature Neuroscience, i cambiamenti ormonali che avvengono in gravidanza modificano la struttura cerebrale della madre, riducendo per un lungo periodo di tempo il volume di alcune specifiche regioni cerebrali deputate alla cognizione sociale e funzionali alla focalizzazione della madre sul figlio. Si tratta della rete neurale associata alla teoria della mente, cioè la capacità di attribuire stati mentali (pensieri, sentimenti, intenzioni, desideri) a sé stessi e agli altri. In alcune di queste regioni si verificherebbe, durante la gravidanza, un aumento dell’attività neuronale, che rende le madri particolarmente sensibili alle immagini dei propri neonati, molto più che a quelle di altri bambini. Nel cervello dei futuri padri, secondo questa ricerca, non si verifica niente di analogo. Questi risultati ci fanno intuire quale violenza ci sia nella richiesta a una donna di cedere il proprio neonato alla coppia committente e, nel contempo, fanno pensare che una coppia di omosessuali maschi oppure un uomo single siano forse meno adeguati ad allevare il proprio figlio, senza la presenza materna.

Un’altra ricerca, condotta da studiosi della Stanford University e pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha rivelato che per tutti i bambini, la voce della madre rappresenta una fonte importante di comfort emotivo, grazie alla complessa interazione tra diverse regioni cerebrali. Il feto sente la voce della madre mentre si trova in utero e, dopo la nascita, rappresenterà una costante nell’ambiente uditivo del bambino per tutta la fase del suo sviluppo. Essa inoltre accompagnerà molte delle informazioni fondamentali per il comportamento e l’apprendimento del piccolo. Durante l’ascolto della voce della propria madre, nel cervello dei bambini si attivano regioni che elaborano le informazioni uditive e le emozioni, le regioni che rilevano gli stimoli di ricompensa e li elaborano, le regioni che elaborano le informazioni sul sé e le aree che sono coinvolte nella percezione ed elaborazione dei visi. È chiaro che privare un bimbo della propria madre, sia pure surrogata, per farlo crescere con un single o una coppia di gay equivale a renderlo di fatto orfano di madre.

Conseguenze psichiatriche

Secondo le attuali conoscenze in campo psicanalitico e psichiatrico, la maternità surrogata è una pratica ad altissimo rischio di gravi patologie sia per la madre surrogata che per il bambino. L’osservazione del comportamento dei lattanti separati dalla madre che li ha portati in grembo e dei loro vissuti da adulti ha evidenziato la presenza di un grave trauma infantile. Il dialogo sensoriale ed emotivo fra madre e feto infatti si instaura durante la gravidanza, per cui, anche nel caso di maternità surrogata, si forma un vero e proprio legame madre-figlio. Inoltre, secondo le moderne teorie sull’epigenetica, l’espressività genetica viene modulata dall’ambiente che per il feto è rappresentato dalla madre che lo porta in grembo. Esperimenti condotti su animali hanno dimostrato che le madri e i cuccioli si riconoscono immediatamente dall’odore e dai suoni emessi, in linea con le ricerche sopra citate ed effettuate in campo umano. Cambiare la figura di riferimento, che per il neonato è soltanto la propria madre, può risultare pericoloso per la sua integrità psichica. Oltre a questo bisogna considerare le ripercussioni psichiche sulle donne, che hanno ceduto i figli portati in grembo. Spesso si verificano patologie psichiatriche di natura depressiva, che possono portare al suicidio. Un figlio ottenuto mediante maternità surrogata, una volta diventato adulto e venuto a conoscenza della sua reale origine, potrebbe vedere nei genitori sociali o biologici quasi degli aguzzini, nei confronti della propria madre surrogata.

L’assenza di una figura paterna, nel caso di figli di donne single o di coppie lesbiche, può avere ripercussioni altrettanto gravi, perché, secondo gli psichiatri, la figura paterna aiuta il bambino a comprendere le abilità sociali necessarie a vivere nel mondo esterno, nonché il senso del limite e del controllo. Inoltre la figura paterna aiuta a sostenere la frustrazione e a costruire l’autostima. L’assenza del padre determina un notevole senso di vulnerabilità, che può dare luogo a pensieri catastrofici riguardanti determinati accadimenti o la propria salute (con il rischio di cadere nell’ipocondria).

I sostenitori della gestazione per altri, della stepchild adoption o della genitorialità dei single dovrebbero seriamente prendere in considerazione i risultati di studi come quelli appena citati e ricordare che avere dei genitori è un diritto, mentre avere dei figli non lo è mai stato. In realtà al loro figlio mancherà per sempre un genitore.

Rosanna Novara Topino
(seconda puntata – fine)

 




I Perdenti 39.

Le beate Carmelitane di Compiègne


Testo di Don Mario Bandera


Con la rivoluzione francese del 1789, e con i principi a essa connessi di «Libertà, uguaglianza, fraternità», si affermarono quei valori che, secondo i «lumi» della ragione, avrebbero dovuto cambiare la realtà delle cose non solo in Francia, ma nel mondo intero.

L’incidenza di questi valori, nella considerazione generale del popolo francese era fuori discussione ed era recepita con molta simpatia. Peccato che questi valori fossero affermati senza Dio e contro Dio, come se l’uomo fosse dio di se stesso. La «Dichiarazione dei diritti dell’uomo», promulgata a Parigi il 26 agosto 1789, si sarebbe rapidamente imposta nel mondo, ed ebbe come tragica conseguenza – fin dal suo inizio – la soppressione di tutti gli Ordini monastici e contemplativi (13 febbraio 1790) e la proibizione su tutto il territorio nazionale di ogni forma di vita consacrata. Infatti, secondo i rivoluzionari, non poteva essere un libero cittadino chi si consacrava a Dio con dei voti religiosi, perché sicuramente vi era stato costretto. Compito della nazione era quindi quello di liberarlo, e se, per caso, non voleva essere liberato, doveva essere eliminato. La nuova società doveva essere formata da uomini e donne liberi e uguali non soggetti a vincoli di nessun genere, a quelli religiosi in modo particolare. Come risposta, le priore di tre monasteri carmelitani francesi, a nome di tutti gli altri, inviarono all’Assemblea Nazionale il loro proclama: «Alla base dei nostri voti religiosi c’è la libertà più grande; nelle nostre case regna la più perfetta uguaglianza; noi confessiamo davanti a Dio che siamo davvero felici». Le autorità reagirono mandando nei loro conventi uno stuolo di ufficiali come liberatori.

Gli ufficiali della rivoluzione giunsero nel 1790 anche al Carmelo dell’Annunciazione di Compiègne, un paese a circa novanta km da Parigi, dove vivevano sedici monache guidate dalla priora Madre Teresa di Sant’Agostino, nata Madeleine-Claudine Ledoine. Messe con la forza nella condizione di non poter comunicare tra loro, furono convocate una a una per dichiarare liberamente di voler uscire dal monastero.

Un segretario verbalizzò le loro risposte, per cui la loro singolare avventura venne documentata con scrupolo dagli stessi persecutori. Ed è proprio in questo frangente che inizia il nostro colloquio con la superiora del Carmelo di Compiègne.

Madre Teresa, dopo il decreto di soppressione degli ordini contemplativi del 13 febbraio 1790 gli emissari della Rivoluzione arrivarono anche al Carmelo di Compiègne, dove la vostra comunità contava 16 monache…

Già, ci isolarono rinchiudendoci nelle nostre celle davanti alle quali posero delle guardie e ci misero nella condizione di non poter comunicare tra noi, poi fummo convocate una a una davanti a un ufficiale per farci dichiarare che volevamo lasciare il monastero di nostra spontanea volontà. Nessuna di noi, ovviamente, accettò una proposta simile.

È vero che le risposte che voi davate agli emissari della Rivoluzione lasciavano stupiti e allibiti i vostri interlocutori?

Io stessa dichiarai di «voler morire e morire in quella santa casa». La più anziana delle mie consorelle disse: «Sono suora da 56 anni e vorrei averne ancora altrettanti per consacrarli tutti al Signore». Un’altra con più determinazione spiegò loro: «Mi sono fatta religiosa con mio pieno gradimento e conserverò il mio abito anche a costo del sangue». Così, con parole simili, ripeterono tutte, fino alla più giovane, suora professa da pochi mesi: «Nulla mi indurrà ad abbandonare il mio sposo Gesù».

Allora vi lasciarono nel vostro monastero, ma la situazione era tesa e piena di incognite. Eravate preparate al peggio?

Certo. A Pasqua del 1792 ci siamo radunate e insieme abbiamo deciso di offrirci in «olocausto» al Signore per chiedere la pace per la Chiesa e per lo stato. L’offerta era rinovata ogni giorno durante la celebrazione della santa Messa.

Nel settembre 1792, dopo tre giorni di massacri che fecero 1.600 vittime, tra cui 250 preti massacrati solo a Parigi, il 12 arrivò per voi l’ordine di lasciare il monastero, che venne subito requisito.

Andammo a vivere in piccoli gruppi, in quattro case nello stesso quartiere. Rriuscivamo a comunicare tra noi per mezzo del cortile interno e osservavamo il più possibile la nostra «Santa Regola» di preghiera e di lavoro, in intimità con il Signore Gesù, pronte a ogni evenienza. La gente del quartiere sapeva della nostra presenza e spesso si univa a noi pregando per ciò che si stava vivendo nella Chiesa e in Francia.

Madre Teresa, la Rivoluzione francese, che era incominciata contando su un grande appoggio popolare – anche cattolico – per le istanze che portava avanti, in poco tempo dilapidò tutta la sua carica innovativa per mostrare un volto brutale e violento come pochi nella storia delle nazioni. Com’è potuto avvenire questo cambiamento?

Mano a mano che fra i dirigenti della rivoluzione guadagnavano posizioni di comando esponenti dell’ala più radicale e oltranzista, si affermava sempre più il concetto che se si vuole abbattere l’Ancièn Regime è necessario annichilire l’avversario, visto come un nemico da sconfiggere e abbattere ad ogni costo.

Tra il luglio 1793 e l’estate 1794, i sanculotti giacobini (i rivoluzionari più estremisti) scatenarono il periodo così detto del «grande Terrore», che nelle loro intenzioni doveva portare alla scristianizzazione totale della Francia. La ghigliottina funzionava a pieno regime, le vittime più numerose furono, sacerdoti, religiosi, suore e semplici credenti, accusati di «fanatismo».

Proprio di fanatismo fummo accusate noi Carmelitane di Compiègne, le nostre abitazioni furono perquisite, tutte noi arrestate, i nostri arredi sacri profanati e infranti. Guardando in faccia la realtà di quei mesi, ci stavamo preparando da tempo con la preghiera incessante al nostro martirio, proprio secondo quanto aveva profetizzato la nostra Fondatrice, Santa Teresa d’Avila, la quale aveva detto: «In avvenire quest’Ordine fiorirà e avrà molti martiri».

E così avvenne anche per voi…

Il 13 luglio 1794, io e le mie consorelle fummo tradotte a Parigi e gettate nella Conciergerie, il carcere della morte. In quei giorni, il tribunale rivoluzionario comminava decine di condanne alla ghigliottina. Il 16 luglio 1794, festa della Madonna del Carmelo, componemmo un nuovo canto, come eravamo abituate a fare nel nostro monastero per la nostra Patrona. In quell’ambiente riscrivemmo la Marsigliese, mantenendo identico il testo musicale ma cambiando le parole dell’inno della rivoluzione in un inno di totale dedizione a Cristo:

«È arrivato il giorno della gloria
Or che la spada sanguinante è già levata
prepariamoci alla vittoria.

Sotto il vessillo del Cristo agonizzante
avanzi ognuno come vincitore.

Corriamo, voliamo alla gloria,
che noi tutte siamo del Signore!».

Il 17 luglio fummo processate e condannate per «fanatismo», l’attaccamento cioè a quelle che il nostro accusatore definiva «credenze puerili» e «sciocche pratiche di religione».

Andammo al patibolo il pomeriggio dello stesso giorno con il nostro canto sulle labbra, tenendoci per mano, con la convinzione che il nostro sacrificio fosse la migliore testimonianza che potevamo offrire a Cristo Signore per la nostra patria.

 

Dopo essere state ghigliottinate, i corpi delle sedici martiri furono gettati in una fossa comune, insieme ad altri corpi di condannati, in un posto che divenne poi l’attuale cimitero di Picpus, dove ancora oggi una lapide ricorda il loro martirio. Di esse rimasero alcuni indumenti che le Carmelitane scalze stavano lavando alla Conciergerie quando furono portate in giudizio e che, due o tre giorni dopo, vennero dati alle benedettine inglesi di Cambrai, pure incarcerate, ma poi rimesse in libertà. Tali indumenti preziosi sono oggi all’abbazia delle benedettine di Staribrook, in Inghilterra.

Reliquie preziose sono inoltre gli scritti delle martiri: lettere, poesie, biglietti, giunte sino a noi perché furono conservati da persone pie molto toccate dal loro sacrificio. Le martiri furono beatificate da San Pio X il 13 maggio 1906, mentre già il 10 dicembre precedente era stato pubblicato il decreto per procedere alla dichiarazione del martirio delle sedici carmelitane scalze.

La loro festa è celebrata il 17 luglio dall’Ordine dei Carmelitani Scalzi e dall’arcidiocesi di Parigi.

La vicenda delle carmelitane francesi ha avuto una risonanza mondiale inaspettata grazie a opere letterarie di valore indiscutibile. Nel 1931 Geltrude von Le Fort ricavò dal racconto storico della vita e del martirio delle suore di Compiègne, il romanzo «Die letzte am Schafott» dal quale il padre R. Bruckberger ebbe l’ispirazione di realizzare un film, dei cui dialoghi affidò la redazione nel 1937 a Georges Bernanos. Questi, dieci anni dopo, scrisse un lavoro che la morte gli impedì di condurre a termine. Pubblicato nel 1949 come opera letteraria a sé stante, «Les dialogues des Carmélites» ebbe un successo enorme in tutta Europa, e subito fu ridotto per il teatro e, portato sulle scene, ebbe grande fortuna. Nel gennaio del 1957 «Les dialogues des Carmélites», musicato da Francis Poulenc, presentato alla Scala di Milano, estese la fama dell’opera di Bernanos. Finalmente, nel 1959, con regia di Philippe Agostini, il padre Bruckberger riuscì ad attuare il suo sogno portando sullo schermo «Les dialogues des Carmélites». Grazie a queste opere la vicenda storica delle sedici martiri discepole di Santa Teresa d’Avila, uscì dall’anonimato per essere fatta conoscere a tutto il mondo.

Don Mario Bandera




Donna, dono e solidarietà

 


Dedichiamo la campagna di Natale alle donne: bambine, adolescenti, adulte, anziane spesso costrette a portare i pesi maggiori nelle loro comunità. Per questo vanno protette, valorizzate e messe in condizione di generare il cambiamento verso società più eque.


Testo di Chiara Giovetti, foto AfMC


Mi chiamo Oyun,
ho dieci anni e vivo alla periferia di Ulan Bataar, la capitale della Mongolia. Sono arrivata qui insieme alla mia famiglia dopo l’ultimo dzud, l’inverno più freddo che c’è. Lo dzud fa diventare tutto bianco e gelido e fa morire moltissime bestie, a volte anche le persone@.

Strage di animali durante lo dzud

Noi, ad esempio, siamo dovuti venire in città perché avevamo perso tutto. Le nostre pecore, i nostri cavalli e i nostri yak. Erano tanti, io non so quanti, papà li conosceva tutti per nome. Papà è stato triste per tanti giorni, stava sempre in silenzio ed era strano, perché papà di solito è un tipo allegro. Una volta l’ho visto davanti a una pecora stesa a terra, anche lui stava immobile e piangeva. Lui dice di no, ma io l’ho visto che gli scendevano le lacrime.

Alla fine, una sera ha parlato a me, a mamma e ai miei tre fratelli. Ha detto che non si poteva più fare niente, che dovevamo prendere la nostra gher (la casa tenda tipica della Mongolia) e andare in città. I miei fratelli avevano delle facce tristi, io no, in città c’ero stata pochissime volte ed ero curiosa di vedere bene com’era. Ma adesso che sono qui da quasi due anni mi manca andare a cavallo nella steppa, aiutare papà e i miei fratelli a far guadare il fiume agli animali, vedere le volpi o le marmotte che sbucano all’improvviso e poi scappano via.

Dove abitiamo ora, le case sono troppo vicine, si sentono i rumori, a volte si sentono anche le persone litigare e dire cose brutte. E poi c’è un odore cattivissimo, tanta polvere e a volte vedo anche del fumo grigio che, quando lo respiri, ti fa bruciare il naso. Dove abitavo prima c’era solo l’odore dell’erba, delle pecore e del latte e quando respiravi non ti bruciava niente@.

Qui in città vado a scuola e, dopo la scuola, vado dai missionari. Anche loro hanno una gher e al pomeriggio noi bambini possiamo andare lì a giocare, disegnare, fare i compiti. Facciamo anche merenda. La mia amica Sarnai l’altro giorno mi ha detto che era contenta di fare merenda perché la sera, a casa, a volte non mangia niente. La sua famiglia era una delle quattro che teneva il proprio gregge insieme al nostro. Anche loro sono dovuti venire in città dopo lo dzud. Il papà della mia amica non ha un lavoro e certi giorni non può comprare da mangiare. Lui è molto arrabbiato per questo e una volta l’ho visto fuori dalla sua gher che urlava e faceva piangere la mamma di Sarnai. Altre volte l’ho visto che camminava in un modo strano, non riusciva a tenere dritte le gambe, sembrava che gli facessero male. Forse è malato.

Io sono più fortunata, perché mio papà ha trovato un lavoro. Un suo amico che viveva già in città gli ha insegnato ad aggiustare le macchine e adesso lavora nell’officina. Così noi abbiamo sempre da mangiare. Solo una volta che mio fratello si era ammalato la mamma ha dovuto comprargli delle medicine e per un po’ di giorni abbiamo mangiato solo pane e latte perché non c’erano abbastanza soldi. Questa è un’altra cosa che ho notato della città: i grandi parlano sempre di soldi. Quando eravamo nella steppa, invece, papà dei soldi non parlava quasi mai e parlava sempre di pecore. Forse i soldi sono le pecore della città.

Donne in festa durante cerimonie di iniziazione nel Samburu, Kenya

Mi chiamo Naisula
e oggi si sposa mia sorella Regina. Sono tornata alla mia manyatta (recinto per gli animali di una famiglia nel quale ci sono una o più capanne secondo il numero delle mogli di un uomo, ndr) vicino a Maralal per un po’ di giorni. Perderò un po’ di lezioni all’università, ma ne vale la pena.

Prima di venire al villaggio sono passata a Wamba per far visita a sister Grace, la missionaria preside della scuola secondaria che ho frequentato: era commossa quando mi ha salutato. Lei sa bene che sono venuta a festeggiare qualcosa di più di un matrimonio ed è anche grazie alla sister se le cose sono andate così.

Era con lei che a scuola parlammo del cut (più esattamente Mgf, mutilazione genitale femminile, ndr), il taglio che le ragazze della nostra «tribù» devono farsi fare per poter essere considerate donne e sposarsi. In quei giorni la nostra preside era molto triste: una delle ragazze della scuola era morta da poco in conseguenza di un’infezione causata proprio dalla Mgf praticata durante le vacanze tra un anno scolastico e l’altro. E pensare che era stata lei a volere il taglio, per non essere trattata con disprezzo – da inferiore – dalle sue compagne di scuola già iniziate.

Noi eravamo spaventate, perché sapevamo che presto la cerimonia poteva toccare anche a noi, o alle nostre sorelle più piccole, come Regina. Allora sister Grace ci parlò della cosa con calma e delicatezza, ma anche con molta determinazione: «Non sono arrabbiata con nessuno – disse -, ma non voglio che questo succeda a un’altra di voi».

Insieme a lei c’era Catherine, una signora di un villaggio non lontano dal mio, anche lei aveva frequentato la stessa scuola anni prima e aveva poi iniziato a lavorare in un centro per la promozione delle donne.

La signora ci parlò a lungo; ci disse di non avere paura, che ci avrebbe aiutate e che sarebbe venuta nei nostri villaggi. Era necessario venire di persona per parlare con i nostri genitori, perché aveva visto che non bastava affrontare la questione solo con noi. Prima che la nostra amica morisse, alcune organizzazioni avevano iniziato a fare delle cerimonie di iniziazione alternative, senza il taglio. Ma le facevano lontane dai villaggi e senza la famiglia, senza il coinvolgimento degli anziani, perciò per la gente del villaggio non valeva niente. E alla fine le ragazze venivano «tagliate» comunque.

Noi sapevamo bene il perché. Nei rituali dell’iniziazione il taglio è solo il culmine più evidente di tanti altri gesti che preparano e celebrano la «nascita di una persona nuova» nella famiglia, nel villaggio, nel clan. E il padre, in tutto questo, ha un ruolo speciale, unico. Ogni padre ci tiene moltissimo, anche il mio. Le famiglie vogliono che sia fatta nella casa dove le ragazze sono cresciute e che la gente del villaggio partecipi alla festa. Anzi, questo è talmente importante che ogni quattordici anni circa, tutte le famiglie di un clan si spostano per mesi in un villaggio speciale, detto lorora, proprio per celebrare l’iniziazione e l’inizio di una nuova generazione.

Catherine venne al villaggio, parlò con la comunità e poi con le singole persone. Parlò anche con i miei tre fratelli e con i loro amici. Spiegò a tutti perché era morta la nostra amica e anche che cosa era successo ad altre ragazze che erano ancora vive ma avevano enormi problemi di salute: erano finite all’ospedale per un’infezione, avevano dolori continui e a causa di questo spesso non potevano lavorare o studiare. La sua proposta era semplice: la cerimonia sarebbe rimasta identica in tutto, tranne che nella parte in cui si faceva il taglio.

Ci volle un po’ perché la gente del villaggio smettesse di rifiutare l’idea. Molti padri e anche diverse madri all’inizio dicevano che, senza taglio, nessuno avrebbe più voluto le loro figlie come mogli. Qualcuno pensava anche che le ragazze avrebbero più facilmente preso malattie come l’Hiv o che sarebbero diventate prostitute.

Catherine rispose a tutte queste obiezioni, con pazienza, tornando al villaggio parecchie volte, anche con gli infermieri dell’ospedale e altre donne che lavoravano con lei al centro. Mio padre a poco a poco si convinse. Disse che non era d’accordo con tutti questi cambiamenti e non li capiva, ma che mia madre aveva ragione su una cosa: le sue figlie non potevano morire come la loro amica. Io e mia sorella ricevemmo il permesso di fare la cerimonia senza il taglio.

Anche gli animali domesitci sono parte delel cerimonie di iniziazione.

Tre anni dopo nostro padre annunciò che stava negoziando la dote con la famiglia di un ragazzo che voleva mia sorella in moglie, una famiglia importante che aveva molto più bestiame di noi. Regina era spaventata. Adesso era entrata anche lei alla secondaria e non voleva lasciarla. E non aveva idea di chi fosse il ragazzo che l’aveva chiesta in sposa. Raccontai tutto a Catherine che tornò al villaggio per parlare con mio padre e mia madre, spiegò loro che Regina era troppo giovane e che per il suo bene era meglio aspettare ancora qualche anno e lasciare che finisse la secondaria. Mio padre si arrabbiò moltissimo: «Ho già accettato la cerimonia come la volete voi», disse, «ora basta. A sposarsi non si muore. Se io non do mia figlia a una famiglia che me la chiede, qualcun altro rifiuterà la propria figlia a un membro della mia famiglia. I miei parenti soffriranno a causa mia e non mi vorranno più fra loro».

Papà sembrava inamovibile e Regina, che si era rassegnata, lasciò la scuola; dimagrì tanto, mangiava a stento e cominciò a non parlare quasi più.

Ma in quei giorni la figlia di un nostro parente perse il bambino che portava in grembo, finì all’ospedale e rimase in vita per un soffio. Aveva sedici anni e il suo corpo, semplicemente, non era pronto per una gravidanza. Mio padre fu molto colpito, credo abbia pensato che quello che era successo era un segno, un messaggio per lui. Non volle vedere nessuno per due giorni, poi chiese lui di vedere Catherine.

Rimasero tanto tempo seduti a parlare su un tronco al limitare della manyatta e quando ebbero finito, mio padre chiamò mia madre, Regina e i miei fratelli e disse a mia sorella che poteva tornare a scuola. Mia madre non mosse un muscolo del viso mentre mio padre parlava, ma Regina dice che appena lui girò le spalle per rientrare in casa lei fece un sorriso come non le aveva mai visto fare.

Regina ha continuato e finito la secondaria e mentre era a Wamba a studiare ha conosciuto Daniel, il giovane uomo smilzo diplomato in elettrotecnica che sta per diventare mio cognato. A dire la verità lo è già: lui e Regina si sono sposati la settimana scorsa in chiesa a Wamba ma hanno voluto fare anche il matrimonio tradizionale qui al villaggio, per rendere omaggio ai loro genitori e alla cultura dalla quale veniamo. La famiglia di Daniel ha anche pagato la dote, come vuole la tradizione.

Guardo il bel viso di mia sorella decorato con ocra rossa, il suo collo ornato di collari colorati, cerco di immaginare la sua gioia quando fra poco indosserà il mporro engorio, la collana delle donne sposate, e ringrazio Dio perché siamo qui.

Donne Warao a Pacaraima, Roraima, Brasile

Mi chiamo Milagros,
ma a scrivere questa lettera è mia nipote, Noellys. Io so leggere ma ho difficoltà a scrivere. Alle donne indigene della mia età non è stato insegnato bene.

Domani partiamo. Lasciamo la nostra terra e andiamo in Brasile. Qui a Tucupita non si può più stare. Il Venezuela ormai è troppo povero. Io ho il diabete e qui non riesco più a comprare le medicine. Mio figlio Raphael ha un lavoro, ma il suo salario di un mese basta appena per mangiare una settimana e niente altro.

Andremo prima in un posto che si chiama Pacaraima. Hanno fatto tutti così. Tutti quelli che sono partiti prima di noi. Sono tantissimi. Poi andremo a Boa Vista oppure a Manaus, così ha detto Raphael. Lui cercherà un lavoro e speriamo di poter stare meglio.

Sono preoccupata, molto preoccupata. Il viaggio è lungo e io sono vecchia. Farò molta fatica. Poi bisogna sperare che tutto vada bene. Che facciamo se i brasiliani non ci vogliono? Se ci cacciano? Se ci attaccano? A qualcuno partito prima di noi è successo@.

E quando saremo di là che cosa succederà? Mio figlio e mia nuora troveranno lavoro? Io potrò aiutarli? Certamente terrò i miei nipoti mentre i loro saranno al lavoro. Io so anche fare le amache e i cesti di moriche. Io e mia sorella Maria lo abbiamo insegnato a tante donne, eravamo le più esperte. Troverò la palma di moriche là dove andiamo? E qualcuno vorrà le mie ceste?

Chiara Giovetti

Queste storie, raccontate da donne immaginarie, non sono inventate, piuttosto le abbiamo messe insieme. Sia le donne che le storie. Le abbiamo ascoltate nella periferia della capitale della Mongolia, dove vivono le bambine come Oyun alle prese con il difficile adattamento alla città. Un’impresa per chi ha vissuto sempre all’aria aperta con le greggi e si trova ora a dover affrontare povertà, alcolismo, violenza ed emarginazione. E un inquinamento mostruoso, con quantità di polveri sottili 133 volte più alte di quelle che l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) considera accettabili e una funzionalità polmonare dei bambini del 40% più bassa rispetto ai coetanei che vivono in aree rurali.

Le abbiamo incontrate in Kenya, dove organizzazioni locali – nelle quali spesso lavorano donne formate nelle nostre scuole – cercano di accompagnare le comunità a comprendere i danni causati dalla Mgf e trovare vie alternative all’iniziazione alla vita adulta e al matrimonio.

Le abbiamo intuite nelle parole delle anziane indigene come Milagros, che si trovano a vivere in un mondo capovolto dove nessuno le può più proteggere e accudire perché possano riposare dopo una vita passata a lavorare e prendersi cura della famiglia ma, al contrario, devono rimettersi in gioco e migrare – come a oggi stanno facendo centinaia di migliaia di venezuelani – o, bene che vada, cavarsela da sole@.

Chiara Giovetti


A tutte queste donne è dedicato il nostro Natale. Perché siamo convinti che prima dei doni da scambiarsi e da aprire venga il dono delle persone. E chi dice donna, dice dono.

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Vento antieuropeista?

Un’altra Europa è possibile


Per poter proseguire il suo cammino, l’Europa deve cambiare. Smettendo di proteggere gli interessi privati e la speculazione per porsi al servizio delle persone e del bene comune.


Testo di Francesco Gesualdi


Un vento antieuropeista soffia per l’Europa, dal Danubio all’Atlantico, dal Mediterraneo al Polo Nord. I partiti nazionalisti l’hanno intercettato e lo amplificano in funzione anti straniero, convogliando le ansie e le paure provocate dall’iniquità. Il fondamento ideologico di questi movimenti è l’identità nazionale, in nome della quale viene fatto accettare ai cittadini qualsiasi abuso, ingiustizia, privazione di libertà.

L’immigrazione e l’appartenenza all’Ue dunque sono le circostanze utilizzate dai nazionalisti per fomentare lo spirito xenofobo.

Gli immigrati vengono strumentalizzati dipingendoli come coloro che ci rubano i posti di lavoro e si appropriano indebitamente del nostro stato sociale.

L’Europa viene strumentalizzata dipingendola come una camicia di forza che vuole limitare la nostra sovranità. Ma colpevolizzare l’Europa perché limita la sovranità degli stati aderenti è come colpevolizzare il cane perché abbaia di notte quando vede un pericolo.

Perché i nazionalisti hanno successo

Il compito del cane è quello di fare la guardia. Allo stesso modo, il compito degli organismi sovranazionali è quello scrivere regole che condizionino la sovranità degli stati in nome di un interesse comune. Del resto agli stati rimane sempre la libertà di decidere se aderirvi o rimanerne fuori.

I nazionalisti si oppongono agli organismi sovranazionali per principio, tutti gli altri decidono se aderirvi o meno in base agli obiettivi che l’organismo si prefigge e ai principi che lo animano. Da questo punto di vista, anche i non nazionalisti hanno la necessità di ripensare l’Europa. Se non lo faranno loro, la consegneranno definitivamente nelle mani dei nazionalisti, i quali non la elimineranno, ma la trasformeranno in una nuova entità di cui è difficile prevedere la connotazione economica, ma che di certo avrà le sembianze di una fortezza con i confini ben difesi.

Verosimilmente il nuovo patto europeo a quel punto potrebbe fondarsi su due obiettivi: il mantenimento di un mercato comune interno e la chiusura militarizzata dei confini esterni. Il primo per compiacere le imprese, il secondo per le frustrazioni dei cittadini.

Europa, da madre a matrigna

Oggi i nazionalisti hanno buon gioco ad alimentare lo spirito anti europeo, perché l’Europa è macchiata da un peccato originale che la fa essere più matrigna che madre. Stiamo parlando della scelta mercantilista: finché ha avuto come applicazione pratica la creazione di un mercato comune, non ha provocato molti contraccolpi, ma quando si è realizzata nella moneta unica, ha orientato la predilezione dei governanti europei verso i forti e gli interessi privati, in spregio a quelli comuni.

L’Europa, ignorando che l’euro, senza meccanismi di compensazione, poteva trasformarsi in uno tzunami per i paesi e le imprese più deboli, e ignorando che chi gestisce la moneta, di fatto, gestisce il potere, si è dotata di un’architettura monetaria che favorisce le imprese ad alta capacità concorrenziale contro quelle meno competitive e le banche contro i governi.

Se esaminiamo le statistiche commerciali stilate dopo l’introduzione dell’euro, notiamo che Olanda, Belgio e Germania hanno avuto un costante ed elevato saldo commerciale positivo nei confronti degli altri paesi dell’Unione europea. Al contrario Francia, Austria, Portogallo, Grecia hanno avuto un costante saldo negativo. Quanto all’Italia, notiamo un andamento altalenante: in pareggio fino al 2009, poi negativo fino al 2012, infine di nuovo positivo ai giorni nostri. È proprio durante gli anni della crisi – quando il Pil e le esportazioni scendevano e la disoccupazione saliva al 13% -, che anche in Italia si è cominciato ad avere dubbi sulla convenienza a rimanere nell’euro. Qualcuno ha iniziato a proporre addirittura di uscirne per rimettersi in piedi. Quest’idea poggia sulla convinzione che l’Italia vada male perché non è abbastanza competitiva rispetto agli altri paesi, sia quelli interni che esterni all’Unione europea, e che le servirebbe una propria moneta da svalutare, cosa che l’appartenenza all’euro però non permette. Quest’analisi, per la verità, è condivisa anche dal pensiero dominante, il quale però individua nel modello tedesco la strada da seguire per tornare a correre: la Germania, infatti, dicono i suoi estimatori, è in testa alle esportazioni europee perché ha impegnato risorse importanti in investimenti tecnologici che hanno aumentato la produttività e la qualità dei prodotti, e anche perché ha saputo varare riforme occupazionali, salariali, fiscali che hanno ridotto i costi delle aziende. Detto fatto: in tutta Europa si è puntato a ridurre il costo del lavoro tramite l’esasperazione del precariato, il ridimensionamento del sindacato, la riduzione salariale e dei contributi sociali. Una strada, però, che da una parte approfondisce il divario fra profitti e salari, portando all’aumento dell’iniquità, dall’altra crea le premesse di una futura instabilità. Meno soldi in tasca alle famiglie, infatti, significano meno consumi e quindi rallentamento della produzione, con nuove possibilità di crisi economica.

Ma allora perché tutti seguono questa strada? I fautori dell’uscita dall’euro sostengono che ci sia una sola ragione: perché l’unica alternativa sarebbe quella della svalutazione, cosa impossibile a causa della moneta unica. Di qui la proposta di tornare a una moneta propria che ci consenta di recuperare competitività non attraverso la svalutazione salariale bensì tramite quella valutaria.

Da quando l’Italia è tornata a crescere, la disoccupazione si è ridotta e il saldo commerciale con l’estero è tornato di segno positivo, il dibattito attorno all’uscita dall’euro si è smorzato. Ma altre ragioni, dalle conseguenze sociali ancor più gravi, ci impongono di mantenere acceso il dibattito sull’euro, non tanto per stabilire se mantenerlo o lasciarlo, ma per discutere come governarlo.

Nella sua impostazione attuale, l’euro è una moneta a pagamento, affidata al sistema bancario privato. Un’impostazione ultraliberista che nega sovranità alla sfera pubblica in favore dei mercati. Essa va messa in discussione non per spirito nazionalista, ma per una questione di democrazia e giustizia sociale.

Prima l’interesse dei creditori

Ce ne siamo accorti quando l’attenzione dei mercati, dopo avere devastato banche e imprese, si è concentrata sui debiti pubblici, ultimi ambiti rimasti da saccheggiare. La speculazione ha affondato i suoi denti nei polpacci dei paesi più deboli e non ha mollato la presa finché i governi non hanno adottato politiche di finanza pubblica che mettessero l’interesse dei creditori prima di quello dei cittadini.

Nessuno condanna la speculazione, neanche le istituzioni europee che appaiono come amministratori di un condominio i cui condomini, al di là delle scale e dell’ingresso, non condividono neppure il buongiorno. Per le regole di Maastricht, del resto, ogni paese è solo di fronte ai propri debiti e, non potendo sperare nell’aiuto della Banca centrale europea (Bce), l’unica cosa che deve fare è ingraziarsi i mercati assicurando di servire loro il primo pezzo di carne disponibile sulla tavola. A costo di sacrifici, recessione, disoccupazione.

Uscire dal guado

Il dibattito sui debiti pubblici è lungo e articolato, ma per non ritrovarci di fronte ad altre crisi come quella che abbiamo attraversato e che ancora ci morde, dobbiamo ripensare l’Europa e il governo della moneta.

Abbiamo due strade di fronte a noi: andare avanti o tornare indietro. L’unica cosa certa è che non possiamo rimanere in mezzo al guado senza sapere se siamo in compagnia di amici o nemici e con il rischio essere mangiati dal primo rapace che passa.

Fuori di metafora non possiamo restare in un’Europa a mezz’aria: mercato comune, ma condizioni di lavoro agli antipodi tra un paese e l’altro; moneta unica, ma nemici finanziari; libera circolazione dei capitali, ma regimi fiscali concorrenziali. Non ci si può buttare in acqua con lo stesso salvagente e poi nuotare in direzioni opposte. O ci uniamo o ci lasciamo. O ci tuteliamo a vicenda dal pericolo che l’alleato si trasformi in carceriere o ci salutiamo. Anche se, certo, non a cuor leggero e solo come ultima ratio.

Costruire un’Europa solidale

L’auspicio è di poter andare avanti, ossia di costruire un’Europa federale e solidale al servizio delle persone e del bene comune. Un’Europa che non si fondi su trattati amministrati da tecnici nominati, ma su una Costituzione che si esprima in leggi emanate da un Parlamento eletto dal popolo. Un’Europa della sussidiarietà che, senza rinunciare alla solidarietà, sappia organizzarsi su più livelli per facilitare partecipazione, sostenibilità, presa in carico dei beni comuni. Un’Europa a sovranità monetaria socialmente orientata che, pur disponendo di una moneta comune, lasci spazio allo spontaneismo monetario territoriale per favorire l’autodeterminazione dei cittadini e lo sviluppo delle economie locali. Un’Europa dell’omologazione salariale e sociale affinché esista un’unica Europa sociale e del lavoro. Un’Europa a fiscalità condivisa che gestisca il debito pubblico europeo come un tutt’uno e redistribuisca le risorse in base ai bisogni dei singoli territori.

Il primo passo in questa direzione dovrebbe essere l’elezione di un’Assemblea costituente che scriva la nuova Costituzione europea contenente principi, diritti, doveri, assetti organizzativi e istituzionali. Ma, nell’attesa, sarebbe già un grande passo avanti se si cominciasse a riformare la Banca centrale europea per democratizzare l’euro e gestirlo in chiave sociale a partire dall’obiettivo di aiutare gli stati a liberarsi dai loro debiti pubblici. Sarebbe il segnale che ci stanno a cuore più le persone dei mercati, condizione senza la quale nessun’altra Europa è possibile.

Francesco Gesualdi