In un mondo di debiti, tra crescita e austerità


Non è soltanto l’Italia a essere indebitata. Lo è tutto il mondo. Si stima un debito di 30mila dollari a testa, neonati inclusi. Le ricette proposte sono sempre le stesse: per ripagare il debito occorre tagliare sanità, scuola, pensioni. E poi bisogna crescere. Quanto? In che modo? E a che prezzo?

Il debito è motivo di preoccupazione per tutti, ma ciascuno per ragioni diverse: l’Unione europea (Ue) è preoccupata per le ricadute sull’euro, le imprese per le ripercussioni sull’andamento economico, le famiglie per i contraccolpi sociali. E, a seconda del tipo di preoccupazione, cambiano ricette e rimedi.

Il debito secondo l’Ue

L’obiettivo principale dell’Unione europea è rassicurare i mercati, dimostrare agli investitori internazionali che non hanno niente da temere perché i governi europei sono debitori affidabili. Perciò i suoi occhi sono puntati solo sui conti per mantenerli entro parametri rassicuranti per gli investitori: debito complessivo non oltre il 60% del Pil e deficit annuale al di sotto del 3%, meglio se uguale a zero. È il famoso «pareggio di bilancio» in base al quale tutte le spese, compresa quella per interessi, devono essere coperte dalle entrate ordinarie.

L’Europa si è autornimposta un giro di vite a partire dal 2011, quando la situazione debitoria di tutti i paesi europei peggiorò a causa dei salvataggi bancari. E l’Italia, pur non avendo una situazione bancaria così disastrosa, divenne subito un vigilato più sorvegliato degli altri perché aveva un debito pubblico cronicamente elevato. Del resto in quel periodo i titoli di stato italiano continuavano a perdere valore, un chiaro messaggio che, se l’Italia non si fosse attrezzata per dimostrare di essere un debitore fedele, sarebbe stata messa sotto attacco da parte dei mercati. La politica non tardò a battere un colpo: nel novembre 2011 destituì Berlusconi, considerato troppo debole, e lo sostituì con Monti che adottò subito politiche di austerità particolarmente pesanti. L’allora primo ministro aumentò le tasse, fino a portare la pressione fiscale al 44,1% del Pil nel 2013, mentre tagliò pensioni, istruzione, sanità, trasferimenti ai comuni. L’inevitabile conseguenza furono povertà, disuguaglianze e disoccupazione, una decadenza mal sopportata dal popolo italiano che non ha tardato a punire le forze politiche che l’avevano sostenuta.

Il debito secondo le imprese

Se veniamo alle imprese, la loro posizione sul debito non è omogenea, come del resto non lo è su molte altre questioni. Di solito su principi e obiettivi le imprese convergono, ma sulle strategie possono esprimere posizioni diverse a seconda dell’attività svolta, delle dimensioni raggiunte, dei mercati occupati. In tema di debito, le imprese sono tutte concordi nell’affermare che gli impegni vanno onorati, ma sono divise sul tipo di logica da far prevalere. Grosso modo si fronteggiano due schieramenti: il partito dell’estrazione e il partito della produzione. Partigiani del partito dell’estrazione sono le imprese della finanza (banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimento) che, vivendo di parassitismo, sognano un sistema economico altamente indebitato totalmente asservito alle esigenze di guadagno dei creditori. Partigiani del partito della produzione sono le imprese dell’economia reale che, vivendo di produzione e commercio, sentono il bisogno di operatori economici sani ad alta capacità di acquisto. Dunque, non troppo dilapidati dai loro creditori. La storia del capitalismo è piena di crisi provocate da un eccesso di debito: l’inceppamento dell’intero sistema dovuto ai fallimenti di imprese, famiglie e governi, sopraffatti da un eccesso di risorse da trasferire ai creditori. Che è esattamente il rischio che corriamo oggi, considerato che il mondo galleggia su 237mila miliardi di dollari di debiti, circa tre volte il prodotto lordo mondiale (Iif, maggio 2018).

Una buona dose di regole, per tenere contemporaneamente a bada gli appetiti degli avvoltorni finanziari e la propensione all’azzardo da parte degli operatori economici, sarebbe il modo migliore per prevenire l’eccesso di debito. Ma poiché le imprese vivono le regole come dita negli occhi, si ostinano a rifiutarle, sostenendo che esiste una ricetta capace di salvare capra e cavoli: l’interesse di chi è parassita a garantirsi alti incassi e l’interesse di chi è parassitato a garantirsi un’alta solidità finanziaria. La ricetta si chiama crescita e si basa sul principio che, se la ricchezza si fa più grande, diventa più facile pagare i debiti con ampia soddisfazione per tutti, sia dei creditori che dei debitori. Applicata ai debiti sovrani, la tesi è che, se cresce la ricchezza prodotta nella nazione, cresce anche il gettito fiscale e quindi la capacità di spesa dei governi che, al tempo stesso, avranno abbastanza risorse per garantire servizi ai cittadini e onorare i propri debiti. In effetti, questa è la sola ricetta che in Europa si va facendo strada in alternativa all’austerità: la propugnava il governo Pd di Renzi e la propugna il governo giallo verde di Di Maio e Salvini. Potrà funzionare?

La favola della crescita

In teoria sì, in pratica presenta molte perplessità. Per cominciare c’è un problema di misura: quanta crescita servirebbe per tirarci fuori dal pantano senza sacrifici? Proviamo a fare due conti. Solo di interessi ci servono una settantina di miliardi l’anno; ma se ci aggiungiamo anche il traguardo di sbarazzarci in venti anni di metà del debito accumulato, che ormai ha oltrepassato i 2.300 miliardi, dovremmo mettere in conto altri 57 miliardi l’anno. Ad oggi farebbero 125 miliardi. Se è vero che andrebbero a scalare via via che passano gli anni, non sbaglieremmo di molto se dicessimo che per i prossimi 10 anni lo stato dovrebbe avere un aumento di gettito di un centinaio di miliardi all’anno. Considerato che oggi la pressione fiscale è al 40%, per ottenere un simile risultato, il primo anno dovremmo avere un aumento di Pil di 250 miliardi. Tradotto in termini percentuali farebbe una crescita del 15%, che è il doppio della crescita media ottenuta dalla Cina nell’ultimo quinquennio. Quella italiana è un’economia matura e, per bene che vada, non può attendersi una crescita del Pil oltre il 2%, 34 miliardi l’anno, un ammontare che – secondo la pressione odierna – potrebbe produrre un gettito aggiuntivo di 13 miliardi: appena l’11% di ciò che servirebbe. Insomma, i numeri ci dicono che quella della crescita è una bella favola che serve a poco per tirarci fuori dai problemi. Ciò nonostante è usata come pretesto per imporci una serie di altre riforme che peggiorano le nostre condizioni di lavoro e attentano al bene comune. Il punto è che la crescita a cui tutti pensano è quella trainata dalle imprese private, che oggi però sono libere di andare a produrre dove vogliono. Il che ha messo tutte le nazioni del mondo in gara fra loro percreare le condizioni più allettanti per gli investimenti. E poiché le imprese prestano attenzione prioritaria al costo del lavoro e alle tasse, tutti i governi si stanno organizzando per ridurle. Tant’è che anche in Italia le parole d’ordine sono flessibilità, libertà di licenziamento e riduzione delle tasse come mostrano il Job’s Act e il fatto che l’imposta sui redditi d’impresa è passata dal 37% nel 1994, al 24% di oggi. E, detto per inciso, a che serve impegnarsi per fare aumentare il Pil, se poi si abbassano le tasse su chi potrebbe pagarle? Ma la fede nella crescita è così radicata che c’è chi chiede di poter fare altro debito per permettere allo stato di investire in opere pubbliche, nella convinzione che la costruzione di strade, ponti e ferrovie stimolerà l’avvio di molte altre attività economiche. In questa direzione sembra voler andare anche l’attuale governo giallo verde che, pur di riuscirci, si dice pronto a superare i paletti fissati in sede europea. È cronaca di questi mesi.

Altri parametri, altre strade da percorrere

È fuor di dubbio che in Italia ci sono molti bisogni insoddisfatti che necessitano di interventi pubblici, ma l’obiettivo non può essere la crescita tout court, bensì il miglioramento della qualità della vita dei cittadini, tenendo ben presente che c’è anche un’altra condizione fondamentale da rispettare: la salvaguardia ambientale. In questa ottica non sono le grandi opere a dover prevalere, ma il recupero del patrimonio edilizio esistente e la valorizzazione delle tratte stradali e ferroviarie locali. Una scelta che (forse) non farebbe crescere il Pil come auspicato, ma che migliorerebbe la vita dei cittadini senza consumare altro suolo e limita al minimo il consumo di nuove risorse. Dobbiamo avere il coraggio di dire che il tempo della crescita è finito, mentre deve iniziare quello della riconversione economica: una totale rivisitazione del «cosa, come e per chi» produrre con l’obiettivo di espandere le attività ad alto impatto qualitativo sul piano dei diritti, della serenità personale, dell’inclusione occupazionale, della difesa ambientale, mentre vanno chiuse le attività energivore, insalubri, dissipative, utili solo a creare bisogni artificiali che ci ingolfano di rifiuti e ci condannano a una vita in corsa perenne per guadagnare sempre di più.

Gestire il debito attraverso la crescita è come volersi ingraziare la dea Khali con sacrifici umani: il rimedio peggiore del male.

Progressività, patrimoniale, prestito forzoso

Vanno cercate altre strade. Una soluzione è quella della redistribuzione, che vuol dire fare pagare i più forti. Fino ad ora si sono cercate le risorse a favore del debito tagliando sanità, scuola, assegni sociali, che è come se una famiglia decidesse di pagare le banche riducendo la razione di latte del neonato invece che togliere la bistecca agli adulti. In Italia la ricchezza c’è, ma – per un tacito accordo fra tutte le forze politiche – i potenti nessuno li tocca. Questa ingiustizia deve finire: se il paese è in difficoltà lo sforzo del risanamento va richiesto prima di tutto a chi sguazza nell’opulenza. Un obiettivo che si raggiunge non solo riformando il sistema fiscale in senso fortemente progressivo (come avevamo nel 1974), ma anche imponendo una seria imposta patrimoniale e magari un prestito forzoso sugli alti redditi e patrimoni, ad esempio oltre i 500mila euro. In contemporanea andrebbe attuata una seria lotta all’evasione e all’elusione fiscale, che ogni anno procurano allo stato una perdita di oltre 100 miliardi. E poiché questi provvedimenti hanno bisogno di tempi lunghi, come misura d’urgenza si dovrebbe pensare di chiedere anche ai creditori di fare la propria parte. I creditori chiedono un tasso di interesse perché corrono un rischio, ma se sono sempre protetti, il rischio dov’è? Una strategia di uscita dal debito potrebbe cominciare proprio dalla decisione di raggiungere il pareggio di bilancio tagliando la spesa per interessi, invece che le spese a vantaggio della collettività. Nel 2017 la quota di interessi che le imposte non sono riuscite a coprire è stata pari a 40 miliardi, lo stato avrebbe potuto congelarli raggiungendo di fatto il pareggio di bilancio. Ma chi sarebbe stato penalizzato da una simile decisione? Non certo le famiglie che detengono appena il 5% dei titoli del debito pubblico italiano. In ordine decrescente ci avrebbero rimesso le banche italiane che ne detengono il 27%, la Banca centrale europea (Bce) che ne possiede il 20%, altre istituzioni finanziarie italiane anch’esse al 20%, la Banca d’Italia al 15%, altri investitori stranieri al 13%. In altre parole, a subire i contraccolpi non sarebbero solo istituzioni private, da cui potremmo aspettarci un atteggiamento ostile, ma anche la Banca centrale europea e la Banca d’Italia dalle quali ci potremmo attendere quanto meno un atteggiamento di non belligeranza dal momento che sono istituzioni private con funzioni pubbliche. Ed è proprio la Banca centrale europea, la grande struttura che, alla fine, dobbiamo riformare perché, se avesse un’altra impostazione, potrebbe liberare tutti i governi dell’eurozona dal fardello dei loro debiti senza troppi scossoni.

Chi ragiona diversamente c’è

Charles Wyplosz, uno dei più noti economisti europei, ha avanzato una proposta in tal senso con un progetto denominato Padre (Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone). In pratica l’istituto di Francoforte diventerebbe il nuovo titolare dell’intera massa debitoria degli stati dell’Eurozona e, mentre potrebbe dotarsi di un piano pluriennale per estinguere gradatamente il capitale con denaro di nuova emissione, potrebbe pagare gli interessi in scadenza con i proventi del «signoraggio», ossia con i guadagni ottenuti dal servizio di emissione monetaria. Tutto questo per dire che, da un punto di vista tecnico, le soluzioni ci sarebbero. L’ostacolo è tutto politico ed è rappresentato dal predominio dell’ideologia liberista che vuole gli stati succubi dei mercati. Solo una nuova volontà popolare può aprire la strada a un’altra visione,  ma un nuovo popolo si affermerà solo se capirà che i responsabili dei suoi mali non si annidano fra gli ultimi bensì fra i primi.

Francesco Gesualdi




Comunità simpatiche … secondo l’Allamano


Il mese di novembre si apre con la solennità di «Tutti i Santi» e, quest’anno, si apre subito dopo il Sinodo dei giovani che ha avuto tra le sue parole chiave «santità», non certo politically correct (parlando di giovani). Tra i vari documenti del Sinodo, appare anche questa annotazione: «Convinti che la santità “è il volto più bello della chiesa”, prima di proporla ai giovani, siamo chiamati tutti a viverla da testimoni, divenendo così una comunità “simpatica”. Solo a partire da questa coerenza, diventa importante accompagnare i giovani sulla via della santità. Se sant’Ambrogio affermava che “ogni età è matura per la santità”, senza dubbio lo è anche la giovinezza».

Tutti noi adulti, dunque, siamo invitati a diventare «simpatici», ossia attraenti e capaci di accompagnare i nostri giovani sulle strade della santità. In questo, per noi missionari della Consolata, è stato maestro e testimone esemplare il beato Allamano che, con autorevolezza e sapienza, ha saputo esercitare con i giovani aspiranti missionari una vera «pedagogia della santità»; come appare, ad esempio, nelle poche lettere da lui scritte a fratel Benedetto Falda, missionario poco più che ventenne e appena arrivato in Africa.

Ricordandolo con nostalgia e trepidando un poco per lui, l’Allamano gli scrive: «Ciò che ti raccomando particolarmente è di non mai scoraggiarti dei tuoi difetti, sia di umiltà, di ubbidienza, di carità o d’altro. Non sei ancora santo e di questa roba ne avrai sempre, finché vivrai, frutto in gran parte del tuo carattere vivace. Basta che abbia davanti a Dio il desiderio di emendarti… e poi, allegro come prima!». E ancora: «Comprenderai come il mio cuore paterno abbia esultato nel sapere della tua professione perpetua. Il caro p. Morino me ne scrisse una minuta relazione, riferendomi i punti principali del bel discorso del p. Cagliero. Metti in pratica tale predica e sarai il modello di quanti fratelli verranno dopo di te… Felice te! Sarai capo di una grande schiera di santi fratelli in cielo e dovrai lassù anche ringraziare me, che non ti risparmiai le correzioni».

Questi cenni brevissimi, ma luminosi, ci aiutano a scoprire, una volta di più, la volontà del Signore «che ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» (Gaudete et exsultate, 1). Non solo, ma che questa «meta alta» a cui tutti siamo chiamati deve essere proposta ai giovani con l’accompagnamento, l’affetto e la guida sapiente… proprio come il beato Giuseppe Allamano ci ha mostrato e insegnato.

Giacomo Mazzotti

 

Suore per la Missione

I primi missionari della Consolata intravidero subito che il loro apostolato sarebbe rimasto penalizzato senza l’apporto delle suore. Il contatto con l’ambiente femminile e con i bambini, tutto l’apparato infermieristico e, parzialmente, anche quello scolastico, la cura degli ambienti delle missioni, erano situazioni nelle quali le suore si sarebbero mosse molto meglio.

Padre Filippo Perlo, procuratore del primo gruppo, appena quattro mesi dopo l’arrivo in Kenya, inviò un messaggio allo zio, il canonico Giacomo Camisassa, da trasmettere all’Allamano: «Per ora dica al Sig. Rettore che se vuole mandare 100-200 missionari, non vi è che l’imbarazzo della scelta del posto. Ad ogni passo si presentano splendide popolazioni. Se vi sono pochi preti mandi suore. Convertiremo il Kenya con le suore».

Sia l’Allamano che il Camisassa, conoscendo l’esperienza di altri istituti missionari, erano più che convinti della necessità di personale femminile in missione. Così, ben presto, l’Allamano si accordò con il canonico Giuseppe Ferrero, padre della Piccola Casa della Divina Provvidenza, il Cottolengo, ed ottenne che alcune suore Vincenzine partissero per collaborare con i suoi missionari in Kenya.

1903 le prime suore Vincenzine in Kenya

Le missionarie Vincenzine del Cottolengo

Le suore del Cottolengo rimasero in Kenya dal 1903 al 1925, e subito pagarono un alto prezzo in vite umane. La loro santa avventura missionaria si aprì con la morte di sr. Editta e di sr. Giordana già nel 1903, e si concluse con la morte di sr. Maria Carola nel 1925, mentre stava rientrando a Torino in nave. Per lei il mare divenne il suo sepolcro.

In occasione della beatificazione del Cottolengo, nel 1917, prima che tutte le missionarie Vincenzine lasciassero il Kenya, l’Allamano espresse pubblicamente la riconoscenza sua e dei missionari scrivendo: «Mirabile fu la fortezza con cui queste cooperatrici dei miei missionari li coadiuvarono nelle difficoltà degli inizi straordinariamente ardui e duri. Alcune di esse ne meritarono già il premio, volate in Cielo; ma altre ne presero il posto; e anche oggidì, in numero di 36, compatte e sempre molto agguerrite contro il clima, istruite da lunga pratica, compiono un’opera apostolica di cui la loro modestia vieta di dire il valore e il merito, precedendo, come anziane, le già numerose missionarie della Consolata, divenute loro compagne di apostolato».

Le missionarie della Consolata

Quando i responsabili del Cottolengo non furono più in grado di rispondere alle esigenze delle missioni che chiedevano suore sempre più numerose, l’Allamano si vide costretto a prendere in esame l’eventualità di iniziare un istituto femminile per conto suo. A spingerlo in questa direzione erano pure le insistenze dei missionari.

Per iniziare l’istituto delle missionarie, l’Allamano seguì il suo metodo di discernimento che usava per ogni attività importante e consisteva in questo trinomio: pregare, consigliarsi e ubbidire.

Certo pregò molto. Non disse mai quanto, ma in occasione della memoria liturgica del beato Cottolengo si lasciò sfuggire questa confidenza con le suore: «Oggi è la festa del beato Cottolengo. Prima d’incominciare il vostro istituto io sono andato a pregare sulla sua tomba. Naturalmente ho dovuto pregare e poi consigliarmi e ciò ho fatto non solo coi galantuomini di questo mondo, ma anche coi Santi. Gli ho detto: “Ho da fare questo istituto o no? Veramente avrei più caro di non farlo; la mia pigrizia vorrebbe quello. Anche voi avreste fatto tanto volentieri il canonico, eppure avete realizzato questo complesso di carità. Dunque, devo farlo o non farlo?“». Poi quasi scherzando: «Quel che mi abbia detto non lo dico a voi. Però, se non si faceva l‘istituto per i missionari, non si faceva per voi sicuro». E le suore capirono.

La prima foto della Suore della Consolata in Kenya

Si consigliò, come disse, anche con i «galantuomini di questo mondo». Sicuramente con il suo arcivescovo, il card. Richelmy, e con il prefetto di Propaganda Fide, il card. Girolamo Gotti. Tutti lo spingevano per quella direzione, incoraggiandolo ad iniziare presto. Chi, però, diede la spinta decisiva fu il papa san Pio X. L’Allamano stesso raccontò come si svolsero le cose durante un’udienza privata con il papa. Mentre ricordava alle suore la fondazione dei missionari, fece questa precisazione: «Poi, ma molto più tardi, siete venute voi, ma voi siete del papa Pio X. Una volta che gli parlavo di questa nuova fondazione, mi disse: “Bisogna farla”. E avendo io aggiunto che credevo di non avere la vocazione per questo, egli mi rispose: “Se non l’hai te la do io”. Ed ecco le suore».

Su questo particolare l’Allamano ritornò altre volte, perché per lui non era solo un dettaglio insignificante, ma la più esplicita espressione della volontà di Dio. Alle missionarie disse ancora: «L’idea della fondazione venne dal papa Pio X, che è il rappresentante di Gesù Cristo in terra, quindi non c’è stato neppure un momento che questa istituzione non sia stata di Nostro Signore». E in altra occasione: «È il papa Pio X che vi ha volute; è lui che mi ha dato la vocazione di fare delle missionarie». L’obbedienza al papa fu il fondamento della sua serenità di fondatore e di educatore delle missionarie.

C’è una testimonianza che aggiunge un aspetto originale e forse determinante. Secondo quanto scrisse padre Giuseppe Gallea, sembra che sia stato addirittura Pio X a suggerire la vera motivazione della fondazione: «Le opere in missione – avrebbe detto il pontefice all’Allamano -, procederanno meglio se le suore saranno formate con lo stesso spirito che avete dato ai missionari».

Missionarie della Consolata in Etiopia si adattano ai mezzi di trasporto locale.

Molte suore, poche missionarie

Raccomandando alle loro preghiere il card. G. Gotti morente, l’Allamano così si espresse con le missionarie: «Era un uomo di fede; fu anche lui che mi incoraggiò a fondare le suore; egli stesso mi disse: è volontà di Dio che ci siano le suore. “Ma, risposi io, suore ce ne sono già tante”. E lui: “Molte suore, poche missionarie”».

Ben presto si passò alla realizzazione pratica, dando vita alla prima comunità delle missionarie della Consolata, ufficialmente il 29 gennaio 1910. L’annuncio al pubblico fu senza rumore. Sul periodico «La Consolata» del mese di febbraio 1910, figurano poche righe, che non accennano ad una “fondazione” ma la lasciano supporre: «La Direzione del periodico riceve spesso domande di informazioni da persone che vorrebbero prendere parte come suore nelle missioni della Consolata. Avvertiamo che per questo si rivolgano alla “Direzione Istituto Missionarie”, corso Duca di Genova, 49 – Torino». Tutto qui, secondo lo stile dell’Allamano: operare con ardore, ma senza apparire!

Francesco Pavese

 


Il valore dell’interculturalità

Crescere vivendo nell’interculturalità

L’interculturalità non è semplicemente un modello nuovo e più efficiente, magari per impostare la nostra attuale internazionalità o almeno mantenerla il più possibile libera da conflitti. Interculturalità, nella spiritualità del nostro Istituto, significa molto di più, cioè è invito a una visione più profonda dell’attuale mondo plurale e in continua evoluzione, e delle persone che lo abitano, indipendentemente da lingua, cultura e religione.

Una visione che è in sintonia con la «contemplazione cristiana a occhi aperti» e che  va considerata anche nelle relazioni interpersonali all’interno delle nostre comunità formative.

Voi, cari giovani, siete privilegiati su questo punto, perché le vostre comunità sono di fatto internazionali e, conseguentemente, interculturali. Voi potete formarvi e crescere nell’esperienza vissuta dell’interculturalità.

La vostra generazione, fatta adulta, non potrà non essere interculturale. Nei nostri noviziati e case di formazione i segni dell’interculturalità sono già numerosi ed evidenti. Vi invito a continuare a percorrere il cammino intrapreso dando il meglio di voi. In un mondo caratterizzato dal pluralismo culturale, è compito profetico della Chiesa e nostro, come Istituto, offrire al mondo nuovi modelli esemplari della vita comunitaria.

Ci potrebbe essere il rischio che, impegnandosi ad aderire alle varie culture, gradatamente si sottovaluti o si trascurino l’origine e la tradizione. Ricordiamoci che tutto possiede il suo valore. L’albero si mantiene vivo e produce frutto, se conserva le sue radici vive e sane. I futuri missionari della Consolata saranno necessariamente una famiglia interculturale, ma con tutti i valori e con lo spirito immutato proprio dell’Allamano. Questo ideale è stimolante e merita perseguirlo.

Il beato Allamano

Cari giovani, vi propongo un esercizio interessante, che consiste nel confrontare  voi stessi con il fondatore vivo e perenne. Perché sia efficace, questo confronto deve essere realizzato spesso, non una volta sola, e in modo concreto, vitale e adatto al particolare momento che uno sta vivendo.

«Confrontarsi» con il fondatore significa compiere un gesto formativo di prim’ordine, purché sappiate porvi di fronte a lui, così come siete, lasciandovi conoscere e interrogandolo, magari discutendo, per poi rispondergli. Le risposte, però, non ve le dovete dare per conto vostro, con l’ausilio della vostra fantasia. Esse devono essere oggettive, cioè contenere la verità dello spirito del fondatore. Dire: «Oggi, il fondatore mi direbbe o farebbe così…», può essere comodo. Perché sia anche vero, si richiedono genuine disposizioni interiori, che impediscano di «barare».

Oltre alla conoscenza, è indispensabile la «Sapienza», e questa virtù ce la dona lo Spirito. Per cui, prima di confrontarvi con il fondatore, oltre alla coscienza di conoscere lui, la sua storicità, il suo pensiero, dovete «pregare», per avere luce e forza: luce per non sbagliarvi, forza per non voltarvi da un’altra parte e fingere di non aver capito. Il fondatore, anche oggi, non chiede l’impossibile, ma la coerenza, nel clima di fervore che ha sempre proposto ai suoi missionari.

Quando l’Allamano era con noi su questa terra, assicurava personalmente questo confronto con la comunità e con i singoli, mediante la sua opera formativa. Conosceva ognuno personalmente. Ora, continua a garantire questo confronto con l’ispirazione.

Come allora, anche oggi, a quanti sono suoi discepoli, è richiesto di essere attivi, accogliendo il suo insegnamento, seguendo le sue proposte, confrontando con lui la propria vita e la propria attività. Chi non realizza questo contatto esistenziale di conoscenza, sequela e confronto perché è negligente o perché non gli interessa, si pone al di fuori del suo influsso. Lo possiamo paragonare a quanti, durante la sua vita terrena, erano svogliati, distratti o freddi e non lo seguivano. Senza dubbio, nessuno di loro è diventato missionario della Consolata o, se lo è diventato, lo era solo giuridicamente, ma non nell’identità vocazionale.

Perché il contatto con colui che sentite «padre» della vostra vocazione si realizzi pienamente per tutti voi, vi assicuro la mia preghiera presso la Consolata e il fondatore, ai quali chiedo una speciale benedizione sui nostri noviziati e case di formazione, che sono il futuro della nostra famiglia missionaria.

Signore, ti ringraziamo per il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Padre e maestro, ci ha insegnato ad essere missionari in spirito di famiglia e santità di vita. Aiutaci a vivere con fedeltà e ardore la nostra consacrazione missionaria nella condivisione dello stesso carisma, nell’amore fraterno e nello zelo apostolico. Insegnaci ad annunciare a tutti che Tu sei Padre e chiami ogni persona, popolo e cultura a fare parte del tuo progetto universale di salvezza. Amen.

Aquiléo Fiorentini

Padre Aquiléo Fiorentini, brasiliano di nascita, è stato il primo superiore generale non italiano dell’Istituto missioni Consolata. Era pertanto logico che sentisse particolarmente importante il tema dell’interculturalità, verso cui l’Istituto sta camminando a passi veloci. Cogliamo da una sua lettera, del 20 maggio 2010, rivolta ai missionari giovani, una riflessione sul tema dell’interculturalità e della fedeltà al fondatore.

 

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