Insegnaci a pregare 13:

La preghiera crea e rinnova

Di Paolo Farinella |


Perché preghiamo? Perché Paolo supplica i Tessalonicesi di «pregare ininterrottamente» (1Ts 5,17), definendo così espressamente la preghiera come «stato permanente» e non come una serie di «momenti» collezionati uno dopo l’altro, magari separati dalla vita? Perché nei racconti della passione di Gesù, tutti e tre gli evangelisti sinottici (Marco, Matteo e Luca) riportano l’invito di Gesù a vegliare e a pregare? (Mt 26,41; Mc 14,38; Lc 21,36). La veglia esige la massima attenzione e dunque la preghiera è un atto responsabile come di chi veglia sulla sicurezza degli altri. Genitori, insegnanti, vescovi, preti, religiosi, monaci e monache hanno coscienza che per loro pregare è stare sugli spalti a garantire la sicurezza dei figli, dei discepoli, dei piccoli, del mondo?

La risposta è in Gv 8,31-32: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». La traduzione della Cei-2008 è più abbondante del testo greco che testualmente dice: «Se voi restate/dimorate/aspettate nella parola, quella mia, veramente discepoli miei siete». Il verbo «mèn?» indica lo stare stabilmente, cioè il dimorare che comporta e comprende anche l’attesa, cioè un sentimento di relazione tra chi è «nella dimora» e chi non c’è ancora, ma sia l’uno che l’altro, pur assenti fisicamente, sono presenti nel desiderio, nella tensione. Lo sanno gli innamorati che sperimentano l’attesa con un’intensità maggiore di quella dell’incontro stesso. Per vivere però la preghiera come stato di vita, è necessario esercitarsi, cioè fare esercizi per imparare, educarsi, verificare e sapere sempre «dove» ci si trova. Proviamo a vedere se riusciamo a impostare la preghiera non «come viene viene», ma con metodo e disciplina.

Metodo:

a. Scegliere un tempo delimitato per la preghiera (un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora) e osservarlo scrupolosamente, orologio alla mano. Può sembrare una banalità, ma è una questione di disciplina seria.

b. Scegliere una posizione corporale adeguata, escludendo tassativamente solo il camminare, perché per sua natura è distrattivo, dispersivo. Si può stare seduti, coricati, in piedi, semi-inginocchiati, ecc.

c. Spegnere (non silenziare!) cellulare o altri aggeggi che, senza accorgercene, possono diventare i nostri «idoli».

d. Invocare lo Spirito Santo che venga in aiuto alla nostra fragilità (cf Rm 8,26). In una prima fase, propedeutica, si può utilizzare l’inno dei Primi Vespri di Pentecoste: «Veni, Creator Spiritus – Vieni Spirito Creatore».

e. Poi seguire ogni volta i seguenti passi:

  • 1° Passo: scegliere un testo biblico. Se si ha un criterio personale, si segua quello, oppure si prenda un libro dell’AT o del NT (non i Salmi).
  • 2° Passo: leggere il testo scelto di seguito fino in fondo, cercando di capirne il senso generale, l’insieme.
  • 3° Passo: rileggere il testo, più lentamente e fermarsi sulle parole che sembrano più significative.
  • 4° Passo: rileggere per la 3a volta, ma questa volta soffermarsi sulle azioni, espresse dai verbi, sottolineandoli.
  • 5° Passo: con quale persona o protagonista o azione m’identifico? Nel testo «dove» mi colloco?
  • 6° Passo: la Parola di Dio parla a me, adesso e qui: cosa dicono a me le parole? Dove sto io «nella» Parola?
  • 7° Passo: rileggo il testo in modo che le singole parole scorrano dentro il cuore come un rivo d’acqua e scruto quale senso acquistano «per me». Scegliere la parola «chiave» che rivela me a me stesso.
  • 8° Passo: ringraziamento allo Spirito Santo per aver concesso il tempo di «stare sulla Parola» (Gv 8,31-32).
  • 9° Passo: andare nella vita portando il sapore e la «parola chiave» che abbiamo pregato, ripetendola come ritornello.

Un esercizio su Genesi 1

Propongo, come esercizio il testo di Gen 1, il racconto sacerdotale (sec. VI-IV a.C.) che la liturgia propone come 1a lettura nella Veglia di Pasqua di ogni anno. Molti lo considerano arido, monotono, ripetitivo e non sanno cosa si perdono.

Leggiamo il testo una volta in modo continuo per avere un’idea del senso generale in sé. Usiamo il testo della Bibbia-Cei (2008), anche se non ci piace, perché stiamo pregando e non facendo esegesi.

Dal libro della Gènesi 1,1-2,2

1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
3DISSE Dio: «Sia la luce!». E la luce fu.
4Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. 5Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte.
E fu sera e fu mattina: giorno primo.

6DISSE Dio: «Sia un firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». 7Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. 8Dio chiamò il firmamento cielo.
E fu sera e fu mattina: giorno secondo.

9DISSE Dio: «Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l’asciutto». E così avvenne. 10Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona. 11DISSE Dio: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne. 12E la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.
13E fu sera e fu mattina: giorno terzo.

14DISSE Dio: «Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni 15e siano fonti di luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra». E così avvenne. 16E Dio fece le due fonti di luce grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per governare la notte, e le stelle. 17Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra 18e per governare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Dio vide che era cosa buona.
9
E fu sera e fu mattina: giorno quarto.

20DISSE Dio: «Le acque brùlichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo». 21Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brùlicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona. 22Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra».
23E fu sera e fu mattina: giorno quinto.

24DISSE Dio: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali selvatici, secondo la loro specie». E così avvenne. 25Dio fece gli animali selvatici, secondo la loro specie, il bestiame, secondo la propria specie, e tutti i rettili del suolo, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona.

26DISSE Dio: «Facciamo Àdam a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».

27E creò Dio Àdam a sua immagine; / a immagine di Dio lo creò: / pungente e forata li creò.

28Dio li benedisse e Dio DISSE loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra».

29DISSE Dio: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. 30A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. 31Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.
E fu sera e fu mattina: giorno sesto.

2,1Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2Dio, nel giorno settimo, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel giorno settimo da ogni suo lavoro che aveva fatto.

Entrare nel testo

Rileggiamo il testo più lentamente e sottolineiamo le parole che riteniamo importanti, specialmente verbi, comandi, protagonisti, avverbi. Gesù ha detto che «non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18). È quanto accade adesso e qui per me che prego: si compie in me la Parola perché io diventi «Parola di Dio», Parola di carne. In questo esercizio facciamo una scelta, che è indicativa, ben sapendo che «ogni singola parola» racchiude in sé «settanta significati»: spetta a noi scoprirli e farne il contenuto della nostra vita. Nello spazio di un articolo non possiamo dilungarci troppo.

Il senso generale che emerge dal testo è un cantiere animato. Dio ordina, comanda e le cose ubbidiscono e si realizzano. In questo brano troviamo queste ricorrenze: disse (10 volte) separò (5 volte), avvenne (4 volte), benedisse-siate fecondi (2 volte), portare a compimento (2 volte), e fu sera e fu mattino (6 volte), secondo la propria specie (5 volte).

Osservazioni oranti

Notiamo l’ostinazione del verbo «disse» (10 volte) cui corrisponde il «ritmo del tempo», declamato come un ritornello responsoriale: «e fu sera e fu mattina: giorno primo, secondo, ecc.» (6 volte). Verbo e ritmo emergono da un contesto negativo che è la non-forma della terra, la quale per giunta è deserta, aggravata dall’oppressione dell’abisso. Un senso di oppressione avvolge tutto, stemperato da uno spiraglio lontano perché in questo vuoto, dominato dal buio totale, aleggia (alla lettera: cova) il «soffio-ruàch» in attesa dello scoppio del primo «Disse». È la Parola che rompe il vuoto abissale e s’impone.

Non solo, ma a ogni «disse» corrispondono un ordine e una esecuzione: Dio crea parlando e parla creando. L’azione più importante che segue è una costante opera di «separazione/distinzione»: la luce dalle tenebre, il firmamento dal mare, la terra ferma dal mare, il giorno dalla notte. Poi segue un processo di fecondità «secondo la propria specie» (per 5 volte).

Ci fermiamo qui, per motivi di spazio per riprendere nella prossima puntata lo stesso testo. Ora tiriamo qualche conclusione.

  1. Se provo un senso di vuoto o d’inutilità, penso che sono nella condizione per una «ricreazione» della mia vita? Mi rendo conto che «il soffio-ruàch di Dio» alleggia su di me, «mi sta covando»?
  2. Cosa impedisce in me l’esplosione del «Disse» di Dio?
  3. Per chiamare le cose che crea con il proprio nome, Dio prima deve fare opera di separazione. Ogni separazione comporta sempre tagli e distinzione. So che per mettere ordine nella mia vita devo «buttare tutto all’aria» e poi cominciare «con disciplina e ordine» a catalogare scelte, azioni, sentimenti, progetti, decisioni «secondo la propria specie»?
  4. La mia vita è simile a una biblioteca, dove i libri non possono stare alla rinfusa, ma secondo uno schedario ordinato e praticabile. Posso contare le volte che ho messo «ordine» nella mia vita? Con quale risultato? Coloro con i quali mi rapporto, possono trovare in me con facilità «il volume» che interessa loro o si trovano disorientati? In che modo posso essere strumento del «disse Dio» se io non ne ho coscienza?
  5. Posso vivere alla rinfusa, o devo avere un ritmo costante e rigoroso? (1° – 2° – 3°… giorno… e fu sera e fu mattino?). So distinguere la sera dal mattino? Cosa vuol dire per me: «Separare la luce dalle tenebre»?
  6. Chiamo tutto ciò che riguarda la mia vita «per nome»? Oppure vivo alla giornata per forza d’inerzia?
  7. Se vivo per forza d’inerzia o per abitudine, come posso essere fecondo/a «secondo la mia specie»? Mi sono mai chiesto quale sia «la mia specie»?
  8. Mi sperimento come «immagine» di Dio e capisco cosa significa? Se sono «immagine», penso mai che la credibilità di Chi rappresento passa attraverso la mia vita, le mie scelte, il mio comportamento?

Si può proseguire così, ritornando sul testo, rimuginandolo, ruminandolo, senza prendere alcuna decisione, ma facendo danzare nel proprio cuore i sentimenti e le intuizioni che la Parola di Dio ha suscitato. Scegliere un verbo del testo o una espressione che più si è insinuata «dentro» e ripeterla nella giornata, cercando di capire dove si colloca nel proprio intimo: è la «chiave» tra un tempo di preghiera e l’altro. Così tutta la vita si prepara a sentire risuonare la Parola in modo perenne: «Disse Dio» e ora «Dice a me», qui.

Un accorgimento: trascrivere le parole o i versetti che si sono percepiti come più importanti e portarseli dietro, leggendoli durante la giornata in modo veloce, senza ansia, come il respiro di un Amen. Ciò che importa è sorseggiare lentamente tutta la Parola di Dio, parola per parola, mangiandola fino a gustarne la dolcezza, come fece il profeta Ezechiele che mangiò il libro e sperimentò il gusto del miele (Ez 3,1-3).

Paolo Farinella, prete
 [La Preghiera, 13 – continua]




Ucraina: La Missione chiama a Est

Testo e foto di Luca Bovio |


Dal 25 al 27 gennaio ho fatto una breve visita nella città di Leopoli in Ucraina, paese confinante a Est con la Polonia. Ho viaggiato con un sacerdote polacco della diocesi di Cracovia, don Dario, che una volta al mese si reca nel seminario di quella città per insegnare teologia. Il servizio che presto da qualche anno per le Pontificie opere missionarie in Polonia, mi porta a incontrare i seminaristi nelle diverse diocesi per parlare loro della missione come dimensione naturale della vita sacerdotale.

Luca Bovio

Partiamo da Cracovia al mattino presto di una giornata che, per essere nel cuore dell’inverno, si presenta assai mite. Dopo tre ore di viaggio a Est, ci troviamo sul confine con l’Ucraina, presso Medyca. Lasciamo la macchina in un parcheggio in territorio polacco e attraversiamo a piedi il confine. Questo è infatti il metodo più veloce per evitare i lunghi controlli alle autovetture, perché lasciando la Polonia si lascia anche l’Unione europea e l’area Shengen e quindi i controlli sono minuziosi e lunghi.

Prima di presentare i passaporti entriamo in un bar e la signora ci chiede dove siamo diretti e cosa andiamo a fare. Le spieghiamo che andiamo a Leopoli per motivi di lavoro. Lei ride dicendoci che «tutti escono dall’Ucraina per venire in Polonia e cercare lavoro e voi fate esattamente il contrario». Il controllo è veloce e dopo pochi minuti siamo in territorio ucraino. Ad attenderci c’è un autista mandato dal seminario. Dopo un’ora di viaggio arriviamo nel seminario dell’arcidiocesi di Leopoli. Il tempo di lasciare le borse e fare colazione e andiamo a visitare la città.

«Turisti» a Leopoli

Il monumento dedicato al poeta e pittore Taras Hryhorovy? Šev?enko a Leopoli

Non abbiamo alcun piano prestabilito, lasciamo che gli incontri stessi con le persone e la Provvidenza ci guidino. Iniziamo a visitare il palazzo vescovile in centro città. Appena apriamo la porta troviamo davanti a noi inaspettatamente l’arcivescovo che sta salutando alcuni ospiti. Appena ci vede ci dà il benvenuto e ci invita nel suo ufficio. Si chiama Mieczyslaw Mokrzycki, ed è di origine polacca. Prima di essere pastore di questa diocesi fu segretario di Giovanni Paolo II e per due anni di Papa Benedetto XVI, poi ricevette la nomina di arcivescovo di Leopoli. Con lui abbiamo un breve dialogo interessante. Dopo esserci presentati ci racconta della sua diocesi e dell’Ucraina in generale. Ci spiega che la situazione non è facile. Il paese cerca ancora degli equilibri che portino sviluppo. La mancanza in questo momento di personalità politiche autorevoli e la persistente guerra sul confine con la Russia, sono alcuni tra i motivi che rallentano la crescita del paese. La geografia delle chiese cristiane si presenta molto ricca e variegata. Qui infatti ortodossi, greco cattolici, armeni e protestanti vivono gli uni a fianco degli altri. A Leopoli ci sono ben tre cattedrali di tre chiese cristiane diverse.

Una Chiesa «polacca»

Nella cattedrale di Leopoli, ai piedi dell’ icone ci sono proiettili e pezzi di razzi dalla guerra combattuta ad est sul confine con le Russia.

È il 25 gennaio, festa della Conversione di san Paolo, ultimo giorno della settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani, e nel pomeriggio si tiene una preghiera ecumenica nella cattedrale cattolica. Vi partecipiamo. Per moltissimo tempo la presenza cattolica in questa parte dell’Ucraina è stata assicurata solo dai polacchi, perché queste terre di Leopoli facevano parte della Polonia (dal 1340 al 1772, quando la città fu conquistata dagli Asburgo, ndr). Per questo la lingua polacca è qui capita e parlata da molti. Un esempio: pur trovandoci in Ucraina, in cattedrale, delle 8 messe domenicali celebrate, ben 5 sono in polacco, 1 in latino, 1 in inglese e 1 in ucraino. La lingua ucraina come il polacco è una lingua slava che si scrive però con l’alfabeto cirillico. Un sacerdote ci spiega che la gente locale per indicare la cattedrale cattolica la chiama la «chiesa polacca», a motivo della forte identificazione costruitasi nel tempo tra il cattolicesimo e i polacchi. Ascoltando queste parole mi convinco sempre di più di quanto sto maturando in questi anni di lavoro missionario in Polonia: l’importanza di dare una testimonianza a questi popoli che la chiesa cattolica, per sua stessa definizione universale, è più grande della identità polacca. Riconosco con gratitudine i meriti, e sono anche debitore, della ricchezza che questa espressione «polacca» del cristianesimo riesce a dare. Tuttavia, il cattolicesimo è molto di più. Ed è un dovere per me essere testimone della sua universalità ogni volta che è possibile.

La città, anche se trasandata, conserva ancora il fascino di un tempo. Molto rinomate sono le università dalle quali nei secoli sono usciti intellettuali prestigiosi.

In una chiesa greco cattolica troviamo testimonianze della guerra che ancora oggi, in modo meno mediatico, si combatte a Est del paese vicino alla Crimea sul confine con la Russia. Vi sono residui di bombe e di cartucce vicino a fotografie di molti soldati uccisi. Su tutti una grande icona di Gesù benedicente.

Con i seminaristi

La seconda giornata la trascorro interamente nel seminario che si trova a circa 10 km dalla città. È una struttura accogliente e moderna di recente costruzione. Qui vivono poco più di 20 seminaristi che, secondo il programma, incontrerò domani. Con loro partecipo solo alla messa al mattino. All’interno del seminario si trova anche l’Istituto di teologia per laici. Conosco il direttore don Jacek, polacco che parla bene anche italiano poiché ha studiato a Roma. Mi propone nel pomeriggio di tenere una lezione di missiologia («la disciplina teologica cristiana che studia l’Evangelizzazione e riflette sul compito missionario della Chiesa universale», da Wikipedia) a tutte le classi riunite. Accetto volentieri, poiché qui questa materia non è insegnata e il termine «missione» rimane alquanto astratto. Lo scopo che mi propongo, senza sapere se riuscirò a raggiungerlo, è quello di destare interesse e curiosità intorno all’argomento con l’aiuto dei documenti della Chiesa. Spiego brevemente anche cosa sono le Pontificie opere missionarie che io rappresento e spendo anche qualche parola sul nostro Istituto e sulla nostra comunità in Polonia. Lascio a tutti un abbondante materiale informativo.

Terzo giorno

Nella cattedrale di Leopoli, foto dei soldati uccisi nel conflitto del Donbass.

L’ultima giornata inizia con l’Eucarestia celebrata per gli studenti dell’Istituto di teologia. Dopo una veloce colazione incontro tutti i seminaristi, con il loro padre spirituale. Ho così l’occasione di presentare alcuni temi missionari ed esperienze personali. Ho l’impressione che mi ascoltino con interesse e curiosità, perché il tema è per loro nuovo. Ripresento la struttura delle Pontificie opere missionarie che non sono presenti in Ucraina, così come le origini del nostro Istituto missionario e la realtà in cui oggi opera. Il tempo passa veloce.

Ricevo anche domande sulla storia della mia vocazione e della mia esperienza in questi anni in Polonia. Uno dei punti che più colpisce è la natura internazionale della nostra comunità in Polonia: siamo infatti 4 missionari provenienti da 3 continenti e 4 paesi diversi, e questo è un vero inedito per queste chiese.

Terminato l’incontro mi raggiunge un sacerdote giornalista della società di San Paolo, padre Mario, polacco, che da alcuni anni vive a Leopoli e lavora per la Radio vaticana. Desidera farmi un’intervista sul tema delle missioni nel contesto del mio viaggio. Dopo l’intervista mi accompagna in città per mostrarmi la sua comunità. Ne approfitto per fare qualche foto al centro e comprare alcuni ricordi. Ho poco tempo perché già nel primo pomeriggio ritorniamo in Polonia per lo stesso tragitto per il quale siamo entrati.

Viaggio con don Jacek, direttore dell’Istituto di teologia della diocesi di Sandomierz. Ci scambiamo i contatti per organizzare in futuro altre visite e collaborazioni con l’Istituto di teologia che guida. Al termine di questo breve e intenso viaggio, dopo aver visitato negli anni precedenti altri paesi confinanti come Bielorussia, Lituania, Lettonia e Estonia, nasce in me la convinzione che l’Ucraina è il paese che offre più opportunità per approfondire meglio la conoscenza dell’Est del nostro continente e allacciare nuovi contatti.

Luca Bovio
missionario della Consolata a Cracovia, Polonia.




Cooperazione: Da volontari a manager del bene

Testi di Antonio Benci |


Tutto nasce nei primi anni ’60. Un movimento, nei paesi del Nord, che vuole porre fine a fame e sottosviluppo. Il momento storico è propizio. Sembra possibile rendere il mondo migliore. La motivazione di chi parte è alta e, di seguito, arriva la formazione. Poi le prime leggi e le Ong. Ma i cooperanti «professionisti» di oggi sono i discendenti dei primi volontari?

In ogni dizionario che si rispetti la figura del cooperante è definita come quella di «chi nei paesi in via di sviluppo si occupa di un programma di cooperazione». A inquadrare meglio questa figura singolare ci aiuta Diego Battistessa, cooperante e coordinatore accademico presso l’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’università Carlos III di Madrid, che in un’intervista del 2014 risponde alla domanda su cosa ci si aspetti da un cooperante, quale sia il suo profilo ideale. Al riguardo Diego non ha dubbi: «Alta professionalizzazione». Poi ci spiega meglio: «Il nuovo mondo della cooperazione è un contesto che si sta specializzando e sta diventando sempre più competitivo. Una volta era difficile trovare qualcuno che volesse partire e quindi spesso chi decideva di fare il cooperante acquisiva la maggior parte delle competenze più tecniche in loco, ora non è più possibile. Anzitutto, ci troviamo in un contesto in cui non ci si può più semplicemente arrangiare. A partire dalle lingue, la cui conoscenza professionale è oggi data per scontata, per finire con specifiche competenze tecniche, come ad esempio il Pcm (Project cycle management, gestione del «ciclo del progetto»). Un buon esempio sono anche le Ict (Information and communication technologies), le tecnologie della comunicazione e dell’informazione applicate allo sviluppo, ormai fondamentali, di cui si richiede una conoscenza professionale e trasversale».

Haiti (© Marco Bello)

Manager del bene?

È la chiara definizione di un manager in cui la competenza fa premio sullo spirito volontaristico.

In questo articolo vorrei approfondire il legame, se esiste, tra il primo volontario internazionale provvisto spesso di fede, ottimismo e buona volontà e l’ultimo cooperante, professionista formato e, non di rado, con precise e legittime ambizioni di carriera.

L’impressione è che questa figura, chiamata a cimentarsi con la dimensione progettuale di un programma di cooperazione (un tempo si sarebbe definito di aiuto allo sviluppo), è molto debitrice alla svolta attuata in Italia alla fine degli anni ’60 che ha trasformato i gruppi di appoggio alle missioni in organismi di volontariato.

In questo senso, si può tracciare una linea che unisce la figura di cooperante con quella dei primi volontari internazionali? C’è qualcosa in comune tra chi si occupa di Project cycle management e chi negli anni ’60 andava a «costruire la scuoletta» in qualche sperduta missione africana? O invece è qualcosa di completamente diverso tale da segnare una discontinuità o cesura determinata da altri fattori, non ultimo la globalizzazione che ha forzatamente delimitato la cooperazione a livello intellettuale?

Per provare a fronteggiare queste domande e temi, credo sia utile partire proprio da loro, i volontari.

(© Marco Bello)

Contro l’ingiustizia

Siamo nel momento, negli anni ‘60, in cui nasce in molti la richiesta ed esigenza di «fare qualcosa» per contrastare la fame nel mondo, permettere standard di vita decenti, assicurare i bisogni di base a una umanità sofferente e lontana eppure così vicina. Parlo della nascita di quel movimento all’interno dei paesi del Nord del mondo che si sente partecipe e responsabile dello sviluppo del Sud. Un’introduzione a questo immaginario la offre uno dei più noti volontari (non cooperante) del panorama italiano di quegli anni, Gino Filippini, in un’intervista a Famiglia Cristiana del 1969: «L’esperienza di Kiremba ha cambiato la mia vita. Per un europeo andare laggiù significa trovarsi faccia a faccia con problemi insospettati: miseria, fame, dolore. Ci si accorge, allora, di quanto ognuno di noi si sia chiuso nel suo guscio, nel proprio angusto cerchio di egoismo, tutti presi come siamo dal desiderio di guadagnare, di primeggiare, di avere sempre più soldi, più cose materiali. A Kiremba ho imparato ad amare davvero il mio prossimo, a dimenticarmi di me stesso. Ho avuto la soddisfazione di vedere gli indigeni migliorare le loro condizioni di vita grazie anche ai miei modesti insegnamenti. E anche loro mi hanno insegnato tante cose: il senso della dignità umana, per esempio, e la vera, disinteressata amicizia. Se tu scendi dal tuo piedistallo di bianco, se ti mescoli a loro, elimini tutte le barriere, tutti i pregiudizi che per tanto tempo ci hanno diviso, trovi in loro dei veri, fedelissimi e leali amici, capaci di fare chilometri a piedi, capaci di sacrificarsi per darti una mano».

Filippini è in un certo senso una figura estrema. Un suo vecchio amico, Aldo Ungari, lo definisce come un uomo delle due culture. Una caratterizzazione che si percepisce dalla sua testimonianzanella quale narra la sua «iniziazione» all’esperienza di volontario nell’ospedale burundese di Kiremba costruito dalla diocesi di Brescia in omaggio al Papa bresciano Montini e che vide l’attiva partecipazione dei fedeli in termini di sensibilizzazione e mobilitazione. La gente partecipò non solo alla raccolta fondi ma anche alla progettazione e realizzazione in loco, tramite tecnici e volontari chiamati a supplire alle deficienze organizzative e di conoscenza dei «locali». Al teorema accettato quasi aprioristicamente della cosiddetta «assistenza tecnica», ben presto si ribelleranno i volontari di lungo corso alla Filippini, per l’appunto in nome di una visione meno paternalistica e assistenziale. Da loro, dal dibattito internazionale, dai limiti dell’aiuto allo sviluppo kennediano dei primi anni ’60 nasce l’impostazione più attenta alle dimensioni antropologiche, all’incontro con l’altro e a una cooperazione alla pari.

(© Tommaso Degli angeli)

Un momento propizio

Non si sarebbe potuta manifestare in nessun altro periodo storico se non in quello. La decolonizzazione, l’apparire del «Terzo Mondo», l’immaginario della nuova frontiera, il Concilio e tutte quelle suggestioni di allora che con il carburante dato da figure di grande carisma e livello culturale (Helder Camara, Raoul Follereau, l’Abbé Pierre, Josué De Castro, Léopold Senghor, Julius Nyerere) hanno fatto percepire come possibile e vicino l’approdo a un mondo migliore senza l’incubo della fame e del sottosviluppo.

In quel contesto socioculturale irripetibile nasce il movimento – perché di movimento si tratta – del volontariato internazionale, vero e proprio incunabolo di formazione per il mondo della solidarietà internazionale. Un humus che, con il supporto dei volontari e le sollecitazioni esterne date dal dibattito in materia, permette di avviare quel percorso che agevola una impostazione progettuale per mezzo dell’intermediazione occidentale impersonata dal volontario, sia essa in ambito educativa, agricola o sanitaria.

(Isiro – © Tommaso Degli Angeli)

Sviluppo come Pace

Inizia, con il passare del tempo, a farsi largo un’accezione diversa: non più organizzazione e pianificazione in toto qui in Italia, ma, con l’indispensabile intermediazione dei laici, studio e realizzazione del progetto lì, cercando di renderlo indipendente dalla presenza europea. Con ciò si rafforza un’impostazione più rispettosa – sulla carta – che cerca un minore impatto sulla cultura del luogo.

Una data cardine di questa evoluzione è il 1967. In un’Italia che, l’anno prima, ha visto una sorta di corsa alla solidarietà verso un paese in preda a una carestia, l’India, con una gigantesca e partecipata colletta diffusa, ha grandissima risonanza e impatto l’enciclica Populorum Progressio. In essa Paolo VI porta all’attenzione dei gruppi allora più attivi – quelli cattolici – lo «sviluppo» nella sua declinazione di «altro nome della pace» e come forma più lontana dall’idea di crescita e più vicina a quella di emancipazione sociale e di cambiamento. Il tutto con la richiesta dell’impegno di tutti, laici compresi.

Una chiamata alle armi dell’intervento individuale in favore dello sviluppo «integrale» dell’uomo e per l’uomo.

Non è un caso che la stragrande maggioranza di questi gruppi, quelli perlomeno più strutturati, passano, in quetli anni, oltre la fase spontanea della sensibilizzazione e mobilitazione per approdare a quella più professionale di formazione dei volontari e costituzione di reti, coordinamenti e federazioni allo scopo di irrobustire la loro capacità di produzione di una cultura della solidarietà internazionale. In quegli anni, proprio per tutelare quella massa di «gente che andava e veniva dal Terzo Mondo», nascono le prime forme di interscambio con la politica la quale capisce, perlomeno nei gruppi più accorti, che quello che sta germogliando non è qualcosa che riguarda un «fuori», ma interessa e coinvolge un mondo ampio, strutturato, esigente e molto attivo di cittadini.

( © Marco Bello)

La prima legge

Chi agevola questo cammino di interscambio reciproco è una «avanguardia» o, comunque, un gruppo della sinistra democristiana, che vede in Franco Salvi, Giovanni Bersani e Mario Pedini i propri cardini. Sono loro, insieme ad altri (Rampa, Pieraccini, Storchi), a ideare la legge 1222/71 (conosciuta come legge Pedini), entrata in vigore 10 giorni prima di Natale, che porta al riconoscimento del volontariato per il tramite della cooperazione tecnica.

Il nome della legge «Cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo» fa intravedere un’impostazione piuttosto ambigua già dal termine impiegato. Infatti da un lato l’idea di cooperazione è un deciso superamento dell’impostazione di aiuto. Mentre dall’altro il tornare (sottolineandolo) all’aspetto tecnico riduce l’ambito di intervento e marca ancora una volta la distanza tra «noi progrediti» e «loro arretrati». È comunque già molto, ove si consideri che si passa dal concetto di assistenza, utilizzato correntemente fin quasi alla fine del decennio, a quello di cooperazione tecnica. Un deciso arretramento rispetto al dibattito internazionale – oltre che delle organizzazioni e realtà italiane più impegnate ed evolute – che ruota, come si è visto, attorno all’idea di una partnership collaborativa finalizzata allo sviluppo come suggerito dalla commissione Pearson incaricata dalla Banca mondiale di redigere un testo «Partners in Development» che rimane una guida indispensabile per comprendere l’evoluzione del concetto di aiuto verso quello di supporto allo sviluppo endogeno per mezzo di un’azione di effettiva cooperazione.

Niger (© Marco Bello)

Origine delle Ong

La lettura comune della legge del 1971 la considera un provvedimento confuso di raccordo tra «impulsi solidaristici e pressioni commerciali», per di più limitato alla tutela dei volontari cattolici che non rappresentano l’Italia ma solo se stessi e la propria carica ideale. Ma questa considerazione va temperata con alcune considerazioni: innanzitutto, si ha finalmente una legge organica, pur con tutti i suoi limiti, dopo anni di leggi semiclandestine di qualche riga. Legge che porta alcune novità a livello di organizzazione dello stato sia dal punto di vista del riassetto burocratico sia nella disponibilità di fondi per la cooperazione. Non va poi sottaciuto il fatto che la 1222/71 è il precedente e lo spiraglio per l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza approvata esattamente un anno dopo. La grande discontinuità sta nel riconoscimento degli organismi di volontariato, le proto organizzazioni non governative (Ong). Da questa legge essi infatti, vedono riconosciuto quel decennale lavoro di informazione, sensibilizzazione fatto da parrocchie, oratori e scantinati. Ed è proprio nel pieno riconoscimento di questi organismi che l’Italia si presenta come un paese al passo degli altri, strutturando il volontariato civile in appoggio prevalentemente alle missioni cattoliche.

Giovanni Bersani annotava come nel 1969 fossero oltre 600 le persone in servizio nei paesi del Terzo Mondo e molti di loro senza paracadute legislativi. E come nella loro formazione, avessero concorso realtà che creavano la prima ossatura delle future Ong e che s’incaricavano di essere le capofila nella formazione di volontari, non più «ragazzi che vanno a dare una mano», in partenza.

Chi forma i volontari?

In questo senso non è possibile fare una cronaca dettagliata di tutti gli organismi di volontariato, poiché ognuno esprime delle dinamiche e delle filosofie d’intervento imperniate su due «territori»: quello d’appartenenza e quello di missione. In quegl’anni le realtà che formano i volontari sono poche e alcune finiscono per fare da capofila. Troviamo il Cuamm di Padova, il Mlal di Verona, la Lvia di Cuneo e le milanesi Cooperazione Internazionale e Tvc (Tecnici volontari cristiani). Sono questi i principali – dati alla mano – fornitori e formatori di volontari nel «Terzo Mondo» fino a tutti gli anni ’70. Persone che iniziano da qui il lungo e contraddittorio processo di professionalizzazione che trasformerà non pochi di loro in «cooperanti».

Possiamo dire che dalla legge Pedini nasce la lunga marcia che porta alla professionalizzazione della figura del volontario? La mia impressione è che lo possiamo sostenere. Del resto lo stesso Salvi già durante la conferenza stampa di presentazione della Pedini, parlò di una possibile professionalizzazione della figura del volontario chiamato non più e non solo a «dare una mano» ma essere lo strumento operativo di un «piano» di sviluppo o cooperazione.

Da quel 1971 il tema della solidarietà internazionale per mezzo della figura del volontario/cooperante è stato attraversato da un dibattito continuo e da un dilemma che ha oggettivamente portato a moltissime riflessioni, non ultima la terzietà del volontario/cooperante rispetto all’essere parte di programmi e progetti governativi. In questo senso anche in Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) ci fu un dibattito molto forte: accettare i «soldi dello stato» per progetti di cooperazione? Per alcuni (non pochi) equivaleva a vendere le proprie motivazioni ideali. Cosa che fa sorridere del resto i moderni «manager della solidarietà». Questi ultimi ripropongono il nostro essere lì in chiave certamente più efficiente rispetto a prima ma senza probabilmente il corredo ideale dei pionieri. Il che, a guardare bene, è piuttosto ricorrente nella storia dell’uomo.

Antonio Benci

(© Marco Bello)


I media e lo scandalo Oxfam

Tutti giù per terra

Stiamo per pubblicare l’articolo di Antonio Benci quando scoppia il caso dei cooperanti di Oxfam ad Haiti. Operatori dell’Ong, anche di alto livello, che frequentavano alcune case di prostituzione a Port-au-Prince, all’indomani del terribile terremoto del 12 gennaio 2010. La notizia «buca» tutti gli schermi.

Un fatto sicuramente ignobile, ancorché aggravato dal particolare contesto nel quale si è verificato. Detto questo l’effetto dello scandalo porterà probabilmente a un discredito globale del mondo del volontariato internazionale e delle Ong. Il grande circo mediatico funziona così: non si ferma a capire o a discernere. Fatta l’etichetta, tutti quelli a cui si può appiccicare subiscono le conseguenze del comportamento di pochi.

In tutta franchezza posso testimoniare come sul campo operino decine di cooperanti onesti e integri, che compiono un lavoro eccellente. Compresi quelli di Oxfam, la più grande Ong del mondo. Sarebbe un peccato se tutta la categoria fosse messa all’indice a causa di un comportamento che, sì, esiste (non solo ad Haiti), ma che è una devianza, non la normalità. Talvolta è più facile nascondere comportamenti moralmente inaccettabili, proteggendosi dietro al logo di un organismo umanitario. Almeno fino a ieri.

Marco Bello 




Colombia-Perù. La forma della felicità

Testo e foto di Paolo Moiola |


Non ci sono né acquedotto né acqua potabile. Non ci sono fognature e strade. L’elettricità arriva per quattro ore al giorno. La malaria è la norma. Eppure, a Soplín Vargas, piccolo villaggio di 700 persone (tra indigeni e meticci) sulla riva peruviana del rio Putumayo, si può essere felici. È il sumak kawsay, la forma indigena della felicità. Confermata dai missionari.

Verso Soplín Vargas. Ci imbarchiamo al porticciolo di Puerto Leguízamo. Qui non esiste un servizio di trasporto pubblico. I passaggi sul rio Putumayo dipendono dall’intraprendenza dei singoli. Come fa la signora Teresa, una donna imprenditrice che ha coinvolto nell’attività anche i propri figli. Due volte a settimana la sua vecchia lancia in legno percorre il tragitto tra Puerto Leguízamo e Soplín Vargas, in terra peruviana. Ci accomodiamo tra sacchi di cemento marca San Marcos, scatole e borse della spesa. È stato imbarcato pure un mobile di medie dimensioni. I passeggeri – uomini e donne con bambini – sono tutti peruviani che vengono a fare acquisti sul lato colombiano del fiume, dove i prodotti si trovano più facilmente e più a buon mercato. «Teresa, come va il business?», chiedo mentre lei è ancora sul molo in attesa di altre persone. «Più o meno», risponde lei con una risata. Non esistono orari. L’unica regola è evitare di muoversi con il buio. Raggiunti i 14 passeggeri, Teresa molla la cima e Angelo, uno dei suoi figli, accende il motore. «Ci vorranno poco più di due ore», spiega padre Fernando Flórez, che a Soplín Vargas ha la sua missione.

A pochi minuti dalla partenza passiamo davanti alla base della «Forza navale del Sud» dell’Armada colombiana, che qui ha una presenza di rilievo vista la zona di confine (con Perú ed Ecuador) e la situazione di conflitto armato con le Farc che vigeva fino agli accordi di pace del novembre 2016.

La navigazione procede tranquilla. L’acqua del fiume ha un colore opaco, tra il verde e il marrone, come si notava dall’aereo. Sulle rive la vegetazione è continua ma quasi non ci sono alberi ad alto fusto. Ogni tanto, seminascosta dalla boscaglia, s’intravvede qualche abitazione su palafitte. Le rare imbarcazioni che s’incontrano sono soprattutto peke-peke (il nome deriva dal tipico rumore del motore) appartenenti a pescatori o a famiglie che si spostano lungo il fiume.

Dopo un paio di ore di viaggio, sulla riva peruviana compare un grande cartellone della Marina da guerra del Perú – sul Putumayo ha alcune guarnigioni stabili (come la controparte colombiana) – che annuncia l’arrivo a Soplín Vargas. «Sia Puerto Leguizamo che Soplín Vargas debbono i loro nomi a soldati caduti durante la guerra tra Colombia e Perú che ebbe luogo tra il 1932 e il 1933», mi spiega padre Fernando.

La lancia di Teresa riduce la velocità e si dirige verso un piccolo molo sul quale sono indaffarate parecchie persone. Man mano che ci avviciniamo capisco il motivo di tanto trambusto. Qualcuno sta squartando una vacca e vari dei presenti se ne portano via un pezzo, chi più grande, chi più piccolo. La maggior parte di loro se lo carica sulle spalle per fare più comodamente la ripida scalinata in legno che dal fiume conduce al promontorio dove sta Soplín Vargas. Per questa sua posizione il villaggio è considerato in «altura», che significa non inondabile dal Putumayo.

Noi scendiamo poco più avanti in un posto più scomodo e sconnesso. Gli stivali sono indispensabili per muoversi su un terreno reso fangoso e viscido dalle piogge.

Dopo una camminata in leggera salita su sentieri in terra battuta, arriviamo alla missione. Ad accoglierci è il volto sornione di padre Moonjoung Kim, missionario della Consolata coreano che con padre Fernando opera a Soplín Vargas.

La missione è una piccola casa in muratura posta su un unico piano.

L’entrata dà su un salone dove si svolgono tutte le attività (incontri, messe, feste, celebrazioni). Al fondo dello stesso ci sono quattro porte corrispondenti alle stanze da letto dei due padri, al cucinino e al piccolo bagno.

«Sumak kawsay»

Padre Fernando e padre Kim operano su tutto il distretto denominato Teniente Manuel Clavero, che si estende su un territorio amazzonico molto vasto (circa 9.107 km2). C’è Soplín Vargas, il capoluogo con circa 700 abitanti e una comunità mista di meticci e indigeni. Ci sono due altre comunità meticce e poi 28 comunità indigene: Kichwa soprattutto (21), ma anche Secoya (6) e Huitoto (1). La più piccola, Peneyta, conta soltanto 36 abitanti.

Vista l’ampiezza del territorio, i due missionari sono sempre in viaggio, muovendosi in barca e a piedi. Però, a dispetto di fatica e difficoltà, sembrano in totale armonia con l’ambiente naturale, umano e culturale in cui sono immersi. «La chiesa cattolica – spiega padre Fernando – dovrebbe evangelizzare e il vangelo – anche dal punto di vista etimologico – significa “buona notizia”. In questo pezzetto di Amazzonia noi dovremmo portare buone notizie. Ciò si traduce nel sumak kawsay, tradotto come buen vivir. Tutto ciò che sta a favore della vita è Vangelo, tutto ciò che sta contro la vita va denunciato. Anche per questo io e padre Kim stiamo percorrendo il Putumayo in lungo e in largo: per formare líderes e líderesas che possano essere gestori del buen vivir».

Il sumak kawsay-buen vivir è un concetto affascinante: vivere privilegiando la comunità in un contesto di rispetto dell’ambiente naturale. Affascinante ma difficile, soprattutto per un bianco che, per capirlo ed eventualmente attuarlo, deve spogliarsi di molti preconcetti, di strutture mentali sedimentate, di comodità date per acquisite. Ad esempio, vivere nella foresta amazzonica è un’esistenza unica in ogni aspetto della quotidianità.

«Di acqua ne abbiamo molta – racconta padre Fernando -. Il problema è che spesso non è potabile. È un paradosso, lo so. Siamo sulle sponde del fiume Putumayo, ma il fiume è inquinato. In primis, dall’immondizia: tutto ciò che le comunità producono come immondizia, viene buttato nel fiume. Va detto che l’indigeno è passato in poco tempo da uno scarto naturale (gusci, cortecce, legno) alla plastica. Con la differenza che il primo non inquina, il secondo sì. A Soplín Vargas parte dell’immondizia si raccoglie, ma si butta in un terreno senza alcun trattamento. Non esiste il concetto di riciclaggio. E poi ci sono i reflui umani che anch’essi vanno a finire nel fiume. Qui in pochissimi hanno un gabinetto con una fossa biologica».

Dunque, come ci si procura l’acqua?, chiedo da straniero abituato alle comodità dei bianchi. «Normalmente la gente raccoglie l’acqua piovana in un contenitore, ma altrettanta prende l’acqua da bere direttamente dal fiume. Noi portiamo l’acqua (trattata) in bottiglioni dalla Colombia e, quando la gente sulla barca ci vede, ride di noi. “Fernando, l’acqua del Putumayo non si prosciuga, perché vai a comprarla?”».

Domando della vita quotidiana. «Se non lavorano nella municipalità – spiega padre Fernando -, le persone al mattino vanno a collocare le loro reti nel rio Putumayo per pescare. Durante la notte possono andare a caccia per procurarsi la carne, che poi salano dato che qui non c’è possibilità di congelare i prodotti». Dunque, pesca, caccia, ma anche un’agricoltura di tipo familiare.

«Nelle chagras (o chacras, piccoli appezzamenti di terra) si coltivano – spiega padre Kim – riso, frutta amazzonica e yuca. Quest’ultima è molto usata dagli indigeni, anche per produrre bevande tipiche come la chicha e il masato». Chiedo della coca. «E tristemente si coltiva anche coca – conferma il missionario -. Però, la si coltiverebbe meno, se in altre parti del mondo non si consumasse. Senza dimenticare che gli indigeni la utilizzano anche in alcuni loro rituali tradizionali».

Dopo la cena, nel salone multiuso rimontiamo la tenda sotto la quale dormirò. Occorre approfittare della luce: a Soplín Vargas la corrente elettrica viene erogata per 4 ore giornaliere, dalle 18,00 alle 22,00. La missione non ha un generatore autonomo. Non c’è televisione né collegamento internet. «Però – dicono quasi all’unisono i due missionari – abbiamo vegetazione, tranquillità, persone con le quali si può parlare faccia a faccia senza un telefono che suoni».

Amazzonia, cuore del mondo

Ogni mattino mi alzo anchilosato, ma senza punture. Anche la scorsa notte le zanzare (zancudos o mosquitos) non sono passate dalla mia tenda. Esco subito per approfittare della temperatura sopportabile. Percorro il sentiero – sono poche centinaia di metri – che porta verso il centro del villaggio. Passo davanti alla scuola primaria e secondaria e a un piccolo campo da gioco in cemento. Ancora pochi passi e sono sulla Plaza de Armas di Soplín Vargas. È uno spazio erboso circondato da una stradina pavimentata con lastroni di cemento. Tutt’attorno ci sono il posto di polizia (una baracca in legno di colore verde pallido), il municipio e anche un ufficio del Banco de la Nación.

Incrocio il direttore del collegio. La scuola di Soplín Vargas – chiamata Teniente Luis García Ruiz – conta 108 alunni in primaria e 78 in secondaria. Secondo il direttore, i problemi principali sono quelli della mobilità (degli insegnanti e degli studenti) e i bassi salari. «Non stiamo tanto bene, però stiamo migliorando», conclude. In piazza incontro anche il medico, il dottor Francisco José Rosas Pro, che mi invita a casa sua. Sposato con Rina, infermiera, hanno una bambina. Sono qui dal 2012, ma in attesa di trasferimento.

«Manca molto – racconta il medico – l’appoggio dello stato, soprattutto per quanto concerne i medicinali. Non danno neppure quelli di base come amoxicillina e paracetamolo. Non rispondono alle nostre richieste. Oppure inviano medicinali non richiesti in quantità quando vedono che stanno per scadere».

Gli chiedo delle patologie più diffuse. «A parte la diarrea e problemi respiratori tipici, c’è la malaria, sempre presente. Ogni giorno ci sono pazienti. Spesso scelgo di dare loro i medicamenti anche se l’analisi del sangue è negativa, perché vengono da molto lontano. Qui a Soplín Vargas si tratta principalmente di malaria vivax, ma nei caserios (i villaggi più piccoli) c’è una prevalenza del falciparum» (sulla malaria vedi MC ottobre 2018 pag. 62).

Siamo interrotti per un’emergenza. Lo seguo al puesto de salud (consultorio medico) che dista un centinaio di metri. È una struttura in muratura relativamente grande ma triste e spoglia. Pare abbandonata. Le stanze non mancano, ma sono quasi tutte chiuse e vuote. L’unica aperta e attrezzata è quella sulla cui porta c’è il cartello «Tópico de emergencia». All’interno un paziente, sdraiato sul lettino, lamenta forti dolori al basso ventre. Francisco lo visita. Esce poco dopo. «Probabili calcoli renali. Ho dato dei medicinali e ordinato (all’unica addetta, ndr) una fleboclisi».

Al puesto de salud di Soplín Vargas l’umidità percorre muri e scalini, ma non c’è l’acqua per gli usi normali. «Una delle tante ragioni per cui ho chiesto di essere trasferito», chiosa il medico.

Alla sera racconto della mia visita all’ambulatorio. «Sì, è vero. Qui ci sono molte necessità – ammette padre Fernando -. I governi non si preoccupano della gente di questi territori. Sono interessati soltanto ad accaparrarsi le ricchezze della regione: per queste persone l’Amazzonia è sinonimo di denaro. Per me invece è il cuore del mondo».

Paolo Moiola


Nella comunità kichwa di Nueva Angusilla

«Sì, io sono il cacique»

Sul fiume Putumayo, come su tanti altri fiumi amazzonici, vivono varie comunità indigene. Spesso dimenticate dallo stato centrale.

Verso Nueva Angusilla. Da Soplín Vargas navighiamo lungo il rio Putumayo verso Sud per 140 chilometri. Quando il fiume incontra il rio Angusilla, suo affluente, siamo arrivati alla comunità kichwa di Nueva Angusilla.

L’avamposto militare – qualche casupola dipinta di verde e un’insegna posta sul terreno antistante – sta su un promontorio senza alberi. Ma la posizione è perfetta: all’intersezione tra i due fiumi. Poco più avanti, sul pontile un gruppo di adulti e bambini sono in attesa della nostra lancia. I cartelli di benvenuto tenuti dai piccoli sono per mons. José Javier Travieso Martín: è un’occasione unica perché il vescovo risiede a San Antonio del Estrecho, molto lontano da Nueva Angusilla.

Il villaggio è stato costruito con una struttura rettangolare: il lato libero guarda verso il fiume, sugli altri tre sono sorte le abitazioni. Le case – fatte di assi di legno e tetto di lamiera o di frasche – sono rialzate dal terreno di circa mezzo metro. Al centro, sproporzionata rispetto al resto, c’è la costruzione più moderna, chiamata Centro de Servicio de Apoyo al Hábitat Rural, ma da tutti conosciuta come «tambo». È un progetto del governo peruviano per ospitare – nei luoghi più disagiati – i principali servizi pubblici: registro civile, credito e appoggio tecnico ai contadini, consultorio medico, asilo nido per bambini, consulenza giuridica e altro ancora. Però, a Nueva Angusilla come altrove, c’è solo il contenitore fisico, mentre i servizi mancano o sono molto carenti.

«Qui ci sono circa 120 abitanti. Si vive di agricoltura e pesca. E poi lavoriamo con il legno con cui facciamo assi vendute in Colombia», mi dice gentile ma forse un po’ a disagio Eliseo, un abitante che si sta dirigendo verso il locale comunale – una struttura in legno aperta e con un tetto di frasche – dove il vescovo impartirà battesimi e comunioni.

Cerco il capo, il responsabile della comunità: il cacique, ma meglio sarebbe dire apu o curaca. Eccolo. Statura piccola e volto da giovanissimo, risponde volentieri alle domande anche se con visibile timidezza. «Sì, sono il cacique. Mi chiamo Jackson Kenide Mashacuri Andi e ho 24 anni. La popolazione mi ha eletto come autorità di qui. Mi piace molto stare con la gente per aiutarla a organizzarsi». E con orgoglio aggiunge: «Ho fatto il quinto grado della scuola secondaria e dunque sono capace di difendermi». Precisa che gli abitanti sono 117 che vivono coltivando yuca e platano (banane da cuocere, ndr) e pescando per il proprio consumo. Spiega che, come cacique, fa parte di una organizzazione chiamata Fikapir – Federación Indígena Kichwa Alto Putumayo Inti Runa -, la quale funge da intermediario con le autorità statali.

Chiedo dei problemi che ci sono. «Per la salute non c’è quasi appoggio. Per l’educazione stiamo cercando di avere professori bilingue. Adesso abbiamo soltanto insegnanti meticci che non parlano la nostra lingua. Qui la popolazione parla kichwa». Anche i giovani?, chiedo. «Sì, anche loro. Lo parlano in casa ma non a scuola».

Ci sono problemi di malaria? Fa una smorfia prima di rispondere: «Eh, sì. Soltanto un mese fa c’erano 20-25 persone contemporaneamente con la malaria. Malaria vivax». E c’è la posta medica?, intervengo. «Sì, ma non abbiamo il tecnico».

Oggi è una giornata di festa. Bisogna andare a mangiare. Pollo, riso, platano fritto. Prima di risalire sulla lancia, Jackson mi presenta la sua famiglia per un’ultima foto.

Paolo Moiola


Indigeni e bianchi

Una ciotola di «masato» (per un ipocondriaco)

Tra un indigeno e un bianco le diversità sono evidenti. Soprattutto quelle culturali. L’importante è accettarle, magari con un arricchimento reciproco. Racconto di un piccolo episodio di vita quotidiana.

Nueva Angusilla. Una semplicissima casa in legno rialzata da terra di circa un metro. Nessun mobile, un paio di secchielli (di plastica) con dell’acqua, qualche indumento appeso a fili volanti. Una famiglia numerosa e allargata (genitori, figli, nipoti) accoglie padre Fernando. In quanto amico del missionario, io sono un ospite da onorare come meglio si possa. E il meglio per una famiglia kichwa è offrire una ciotola colma di masato. È – lo confesso – un momento che temevo e che inevitabilmente si presenta. Tremo all’idea di dover ingerire quella bevanda tanto gradita dagli indigeni quanto indigesta per i non-indigeni, soprattutto se occidentali. Bere è un atto dovuto, segno di rispetto, riconoscenza, amicizia. Bere è però anche un rischio certo di avere conseguenze fisiche immediate e sicuramente poco piacevoli. Anni di esperienze negative mi vengono immediatamente alla memoria. Non c’è speranza di farla franca. È quasi matematico.

Il masato (aswa, in kichwa) è il nome di una bevanda molto comune in tutto il bacino amazzonico. È ottenuta a partire dalla yuca dolce (o manioca), una pianta con una radice a forma di tubero, commestibile e ricca di amidi. La sua preparazione è compito delle donne indigene. I tuberi vengono prima pestati e poi bolliti. La pasta ottenuta è quindi masticata dalle donne per provocarne la fermentazione. Da ultimo si diluisce la massa in acqua (quasi sempre di dubbia potabilità) e il masato è pronto per essere bevuto.

Prendo la ciotola di… plastica tra le mani. Appoggio le mie labbra incerte sul bordo. È come se quella bevanda biancastra e veramente poco attraente quasi mi guardasse e mi dicesse: «Bevimi!».

La decisione è repentina ed improvvisa. In un decimo di secondo passo la ciotola nelle mani compassionevoli di padre Fernando. Labbra appena inumidite, ma no, non ce l’ho fatta a bere. Però almeno sono arrivato lì, lì a pochissimo dalla temuta meta.

Cerco nella mia testa due paroline in lingua kichwa: «Yapa alli» (muy bueno, molto buono), dico con un sorriso tanto largo quanto bugiardo a tutti i presenti che sono lì davanti, con gli sguardi fissi su di me. E subito cerco di sviare l’attenzione. Una foto, una foto di tutti con padre Fernando. Sì, mi vergogno, ma il mio stomaco e probabilmente la mia salute sono salvi. Spero sia salva anche la mia reputazione presso quella famiglia kichwa di Nueva Angusilla. Sentendomi come colpevole di un reato, prometto loro che farò arrivare le foto cartacee di quella visita. Temo però che il masato tornerà ancora a materializzarsi davanti a me. Negli incubi notturni o nella realtà.

Paolo Moiola




Per un cromosoma in più: la sindrome di Down

Di Rosanna Novara Topino |


Un’anomalia cromosomica causa la sindrome di Down. Principale fattore di rischio è l’età della madre. Rispetto al passato le terapie e l’inserimento scolastico e lavorativo sono migliorati, ma molto rimane da fare. In particolare per non lasciare sole le famiglie. In Italia, le persone affette dalla sindrome di Down sono circa 38.000.

Nel nostro viaggio tra alcune delle più diffuse forme di disabilità, questa volta incontriamo quella che, più di tutte, associamo all’idea di diversità: la sindrome di Down. Il suo nome è dovuto al medico inglese John Langdon Down, che per primo ne descrisse le caratteristiche in una pubblicazione del 1866, in cui definì tale sindrome con il termine di «mongolismo», supponendo erroneamente un’affinità tra la forma degli occhi dei pazienti, dalle rime palpebrali oblique, e quella a mandorla tipica delle popolazioni asiatiche. Con una notevole approssimazione, dovuta sia al periodo storico, sia al fatto che osservò solo persone private delle cure familiari e mediche e isolate fin dalla nascita in istituti, egli definì questi pazienti come persone con grave ritardo mentale, ineducabili, insensibili e prive di personalità. Purtroppo, questo stereotipo spesso è ancora presente, nel comune modo di pensare. Fu del medico francese Jerome Lejeune la scoperta, nel 1958, della causa della sindrome di Down, cioè la presenza, nel corredo cromosomico cellulare dei pazienti, di un cromosoma 21 soprannumerario, per cui si parla di «trisomia 21». Le variazioni nel numero dei cromosomi*(46 nel normale corredo cromosomico umano, 47 nella sindrome di Down) sono di solito la conseguenza di una loro errata separazione alla meiosi* con la formazione di cariotipi* con cromosomi soprannumerari oppure mancanti di un cromosoma. La conseguenza di tutto ciò è uno sbilanciamento nelle dosi dei geni, che molto spesso è incompatibile con la vita e ha come esito un aborto spontaneo*. Solo nelle alterazioni del numero dei cromosomi sessuali e del cromosoma 21, c’è la possibilità di sopravvivenza dell’embrione e del raggiungimento dell’età adulta, ma non sempre. Si stima infatti che, nel caso della trisomia 21 o sindrome di Down, 3 feti su 4 vadano incontro ad aborto spontaneo specialmente nel primo trimestre della gravidanza. Nella letteratura scientifica è riportata una correlazione direttamente proporzionale tra età materna ed abortività spontanea di feti Down, con un aumento dell’incidenza degli aborti spontanei dal 23% per madri di 25 anni fino al 45% per madri di 45 anni. Si è osservato che la presenza del cromosoma 21 soprannumerario è per il 93% dei casi di origine materna e solo per il 7% dei casi paterna.

Le conseguenze

La trisomia 21 influisce notevolmente sullo sviluppo di diversi organi e tessuti, in particolare cervello e cuore e causa gradi diversi di ritardo mentale e molteplici rischi per quanto riguarda la salute. Basta pensare che i difetti cardiaci congeniti sono presenti in un individuo su due circa e, oltre a questi, possono essere presenti problemi dentari, di perdita dell’udito, della vista (strabismo), endocrini come l’ipotiroidismo, cutanei, gastrointestinali, obesità, anomalie ortopediche, un aumentato rischio di leucemia, la possibilità di attacchi epilettici. A tutto ciò si aggiunge l’invecchiamento precoce, con un aumento dei casi di demenza, causati spesso da morbo di Alzheimer, che in questi pazienti può insorgere prima, rispetto agli individui normodotati. La sindrome di Down inoltre comporta maggiore sterilità, rispetto alla popolazione generale, soprattutto tra i maschi. Il rischio di generare figli Down, per chi già presenta questa sindrome è più alto rispetto a quello dei normodotati, ma non superiore al 50%.

La diagnosi prenatale

Oltre al ritardo mentale, la trisomia 21 comporta la comparsa precoce delle manifestazioni neuropatologiche della malattia di Alzheimer e appaiono in generale più precoci tutti i processi di invecchiamento. Tra questi, oltre alla demenza, ci sono anche la produzione di autornanticorpi e lo sviluppo di patologie autornimmuni. Secondo recenti studi, alla base dell’invecchiamento precoce e dei fenomeni neurodegenerativi caratteristici della sindrome di Down ci sono lo stress ossidativo e le mutazioni del Dna mitocondriale. I mitocondri sono organuli presenti nel citoplasma cellulare e responsabili della respirazione cellulare, della produzione di energia sotto forma di molecole di Atp e dello smaltimento dei reagenti dell’ossigeno comunemente detti radicali liberi. Questi organuli sono gli unici, oltre al nucleo cellulare, a contenere Dna, che nei mitocondri è sempre di origine materna. Mutazioni di questo Dna portano ad un’alterazione delle funzioni mitocondriali, con declino in particolare della funzione respiratoria e apoptosi o morte cellulare. La riduzione del numero di cellule per apoptosi porta alla perdita di funzione di tessuti e di organi, evento cruciale del processo d’invecchiamento. Poiché l’alimentazione, il sistema ormonale, i fattori di crescita e l’esposizione a danni esterni influiscono sul metabolismo mitocondriale, sullo stress ossidativo e sull’espressione genica è di cruciale importanza la diagnosi prenatale della sindrome di Down, in modo che, qualora essa risulti presente, mamma e feto siano esposti il meno possibile a tutti quei fattori che possono accelerare il processo d’invecchiamento cellulare e che sia attuato un opportuno apporto di sostanze antiossidanti.

Amniocentesi e villocentesi

Il principale fattore di rischio per la sindrome di Down è l’età della madre, con errori di non disgiunzione cromosomica alla meiosi sempre crescenti a partire dai 35 anni (è però possibile che si verifichino anche prima di tale età, seppure con minore frequenza).

Fino a non molto tempo fa gli esami più attendibili, grazie allo studio del cariotipo, ma invasivi e pertanto a rischio di provocare aborto, erano solo l’amniocentesi e la villocentesi (con un rischio di aborto di 1:200 casi). Esse sono rispettivamente il prelievo del liquido amniotico e quello dei villi coriali della placenta, esami entrambi eseguiti con puntura addominale sotto controllo ecografico. La villocentesi permette una diagnosi più precoce, ma meno attendibile (perché il cariotipo di alcune cellule placentari potrebbe essere diverso da quello delle cellule embrionali), rispetto all’amniocentesi, che dà un risultato sicuro al 100%, ma più tardivamente. Prima di effettuare l’amniocentesi o la villocentesi, consigliate dai 35 anni in su, viene effettuato il tri-test, un esame del sangue per la valutazione dell’alfa-fetoproteina (Afp), della gonadotropina corionica (Hcg) e dell’estriolo non coniugato (E3 free), unitamente all’ecografia, per conoscere esattamente l’età del feto. La valutazione di questi tre parametri, sostanze prodotte dal feto o dalla placenta, permette di stabilire la probabilità che il feto possa presentare anomalie cromosomiche o difetti del tubo neurale (spina bifida), ma serve solo a segnalare una situazione di rischio, che, nel caso sia presente, va poi verificata con l’amniocentesi, essendo possibili dei falsi positivi. Da poco è disponibile un test innovativo, che permette lo studio del cariotipo fetale analizzando il Dna fetale libero (cfDna) circolante nel sangue materno, ottenuto quindi con un normale prelievo di sangue, senza alcun rischio per il feto.

L’aborto e la Danimarca

La sindrome di Down è ubiquitariamente diffusa in tutte le popolazioni e ad ogni latitudine. Attualmente la sua incidenza è di circa 1:1.000-1.100 nuovi nati. Si stimano circa 3-5.000 nuovi casi all’anno nel mondo. In Italia nasce un bambino Down su 1.200 e si stimano circa 500 nati Down all’anno. Attualmente i portatori di sindrome di Down in Italia sono circa 38.000. In assenza di aborto volontario*, l’incidenza dovrebbe essere circa di 1:650. Nei paesi del Nord Europa, il numero di nuovi nati con sindrome di Down è sceso drasticamente negli ultimi anni, tanto che la Danimarca mira a diventare il primo paese «Down free»: nel 2015, il 98% di donne con diagnosi di gravidanza Down ha scelto l’aborto volontario. Nel 2004 il governo danese lanciò un piano di accesso gratuito ai test prenatali per individuare la sindrome di Down. Nel 2014 lo scienziato Richard Dawkins, docente a Oxford, scrisse su Twitter, uno dei più diffusi social network, che partorire un figlio Down, avendo a disposizione gli attuali strumenti per la diagnosi prenatale, è secondo lui altamente immorale. Come abbiamo visto, però, la sindrome di Down ha un’ampia gamma di manifestazioni, per cui possiamo avere individui con gradi diversi di disabilità, che in ogni caso possono migliorare notevolmente, se si utilizzano fin dalla più tenera età tutti gli strumenti a disposizione in campo medico e pedagogico.

Inserimento scolastico

Grazie alle attuali terapie che permettono di eliminare o ridurre i difetti cardiaci congeniti, l’aspettativa di vita delle persone Down è passata, in meno di un secolo, da 10 a 60 anni circa e la probabilità di sopravvivenza fino a 12 mesi è passata dal 69%, negli anni ’50 del secolo scorso, al 93% per i nati dopo il 1990. Check up medici regolari, programmi di fisioterapia e di counseling personalizzati sono fondamentali per mantenere un buon livello di qualità della vita. Oltre a questo si è rivelata particolarmente importante la partecipazione delle persone Down a qualche forma di attività sportiva, dal momento che l’esercizio fisico è in grado di stimolare la neurogenesi e la plasticità sinaptica, quindi di migliorare le funzioni cerebrali e le capacità cognitive. Inoltre l’azione riabilitativa dello sport consente anche sia il miglioramento delle capacità motorie (di solito le persone Down tendono ad avere una vita sedentaria, pur non avendo difficoltà motorie particolari) che l’adattamento e l’integrazione nella società. A livello scolastico, grazie al fatto che in Italia i portatori di handicap sono stati inseriti in classi normali, dopo l’abolizione, con la legge 517 del 1977, delle classi differenziali e delle scuole speciali, pur con tempi di apprendimento diversi e più lunghi rispetto a quelli dei compagni normodotati, i bambini Down mostrano step di apprendimento sostanzialmente uguali. Grazie ai programmi di integrazione scolastica, oggi in Italia molti giovani Down riescono a raggiungere un buon grado di autonomia e ci sono già stati alcuni ragazzi che sono riusciti a intraprendere studi universitari e a laurearsi.

Inserimento lavorativo

Se da un lato, in Italia è stato raggiunto un buon livello di inserimento scolastico per i bambini e ragazzi Down, attualmente solo il 13% di persone Down adulte è assunto con un regolare contratto di lavoro, il che dimostra che il pregiudizio nei loro confronti e il rischio di scivolare nell’oblio sociale è ancora molto elevato. A questo si aggiunge il disagio per le loro famiglie, lasciate pressoché sole nel loro accudimento. Da alcuni anni sono stati avviati programmi di inserimento per ragazzi Down nel mondo del lavoro, come il progetto Omo («On my own… at work», «Da solo… al lavoro», 2014-2017), finanziato dalla Commissione europea nell’ambito del programma Erasmus plus e seguito dall’«Associazione italiana persone down» (Aipd), che prevedeva l’inserimento in strutture alberghiere, aziende di ristorazione e agenzie formative resesi disponibili per stage e assunzioni di persone Down in Italia, Spagna e Portogallo. A seguito di questo programma è nata una rete di imprese alberghiere e di ristorazione, che s’impegnano ad accogliere tirocinanti e lavoratori con disabilità intellettiva, ottenendo il marchio «Valuable». Nel mondo della moda, alcune importanti maison del gruppo Lvmh si sono impegnate a sostenere progetti d’inserimento lavorativo in Italia per giovani Down e a promuovere il volontariato tra i propri dipendenti, che sono stati invitati a mettere a disposizione di questi ragazzi un po’ del loro tempo e la loro professionalità. Anche i grandi marchi della moda hanno offerto delle possibilità: nel 2015 la prima modella al mondo con sindrome di Down ha potuto calcare le passerelle della New York Fashion Week.

La scelta

Portare avanti una gravidanza Down certamente non è una scelta facile, ma questi ragazzi stanno dimostrando di essere capaci di fare la loro parte nella società, se seguiti adeguatamente. Perché dunque non farli nascere? Perché non accettarli? È però fondamentale che vengano attuati adeguati programmi di sostegno alle famiglie delle persone Down, che non devono essere lasciate sole nel loro difficile compito.

Rosanna Novara Topino
(sesta puntata – continua)

* Termini essenziali:

  • Cariotipo: insieme dei cromosomi cellulari, come appaiono alla mitosi.
  • Cromosoma: unità funzionale di Dna e nucleoproteine, che si compatta durante la divisione cellulare e viene trasmessa alle cellule figlie, veicolando così parte del patrimonio genetico.
  • Gene: unità ereditaria fondamentale, che occupa una posizione fissa su un cromosoma e porta l’informazione per il corrispondente prodotto proteico.
  • Meiosi: processo di divisione delle cellule germinali progenitrici, che porta a ovociti e spermatozoi.
  • Mitosi: processo di divisione delle cellule somatiche.
  • Aborto spontaneo: interruzione spontanea della gravidanza prima della 22a settimana, per cause genetiche e non come diabete gestazionale, ipertensione, malformazioni uterine o fetali.
  • Aborto volontario: interruzione volontaria di gravidanza. Può essere chirurgica o farmacologica.


Approfondimento

Trisomia?21

Esistono diverse forme di trisomia 21, a cui corrispondono gradi diversi di disabilità. Nel 95% dei casi si ha la trisomia 21 piena o in forma libera, cioè il cromosoma soprannumerario fluttua libero nel nucleo cellulare ed è presente in tutte le cellule dell’organismo. Nel 2-3% dei casi si ha la forma a mosaico, in cui non tutte le cellule presentano il cromosoma 21 in più. Gli individui con questo tipo di trisomia 21 tendono ad avere prestazioni cognitive, linguistiche e sociali migliori di quelli con trisomia piena. In meno di un caso su 40.000 c’è una traslocazione del cromosoma 21 soprannumerario su un altro cromosoma e questo fenomeno è in alcuni casi di tipo ereditario, cioè è stato trasmesso da un genitore asintomatico, per cui è necessaria una consulenza genetica che informi del rischio di avere ulteriori figli Down. Vi sono poi forme rare con un cromosoma 21 soprannumerario ad anello o con solo una parte di esso. Il cromosoma 21 è il più piccolo dei cromosomi umani e rappresenta solo l’1,5% dell’intero genoma cellulare. Finora sono stati identificati poco più di 400 geni di questo cromosoma, di cui 20-50 localizzati in una regione terminale del braccio lungo del cromosoma detta Down Syndrome Critical Region (Dscr). Tali geni, presenti in triplice copia nella sindrome, hanno effetto sull’intero genoma, poiché condizionano l’espressione di moltissimi altri geni, attivandoli o inibendoli, a seconda della costituzione genetica individuale, il che spiega la variabilità di grado della malattia e la diversità individuale delle manifestazioni patologiche.

R.N.T.

La?mente

Recentemente si è scoperto che il cromosoma 21 contiene 5 micro-Rna regolatori dell’espressione genica, la cui sovraespressione nella trisomia 21, a livello dei tessuti nervoso e cardiaco fetali, determina una ridotta espressività delle proteine codificate, che si traduce nelle anomalie cerebrali e cardiache tipiche della sindrome di Down. La facies tipica dei soggetti Down sarebbe dovuta ad anomalie dello sviluppo embrionale, secondarie a difetti di migrazione e proliferazione delle cellule della cresta neurale. Nei neonati Down sono spesso presenti disordini mieloproliferativi transitori e nei bambini c’è un’elevata incidenza di leucemia acuta linfoblastica e megacarioblastica. Sicuramente la trisomia 21 è la principale causa di ritardo mentale presente in tutti i pazienti, in gradazioni da moderato a severo. I soggetti Down presentano spesso un deficit nella produzione del linguaggio, mentre sono migliori l’espressione non verbale e lo sviluppo sociale. In età pediatrica sono spesso presenti deficit di attenzione, iperattività, disturbo oppositivo della condotta o comportamenti aggressivi. L’8-13,6% dei soggetti sviluppa epilessia, il 7-11% autismo, mentre in età adulta il 6,1% presenta depressione maggiore o un comportamento aggressivo. Nei soggetti Down sono state riscontrate dimensioni cerebrali e cerebellari significativamente ridotte, in particolare per quanto riguarda l’ippocampo, la corteccia cerebrale e la sostanza bianca, con una significativa riduzione del numero dei neuroni e delle loro sinapsi, che comporta deficit di apprendimento e di memoria.

R.N.T.




Cooperazione e investimenti,

tout se tient?

Testo di Chiara Giovetti | Foto di Chiara Giovetti e Gigi Anataloni |


Il 2018 è iniziato con due appuntamenti importanti per la cooperazione, entrambi a Roma: il convegno «Il nuovo piano europeo per gli investimenti esteri. L’iniziativa imprenditoriale in Africa e nel Mediterraneo», il 16 gennaio, e la «Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo», il 24 e 25 gennaio. Vediamo come ciò che è emerso traccia un ritratto della cooperazione nei cui lineamenti il settore privato e gli investimenti hanno un ruolo sempre più ampio.

La cooperazione ha smesso di essere «qualcosa di gente dal cuore buono» che va «in ordine sparso nel mondo». Non è più un «lusso che l’Italia non può permettersi». Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, ha sottolineato con decisione questi passaggi alla Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo del 24 e 25 gennaio scorsi a Roma. Sono passaggi che riflettono un cambiamento di percorso che non è certo iniziato ieri. Tanto Riccardi, che da ministro della Cooperazione internazionale e dell’integrazione del governo Monti nel 2012 era stato fra i promotori del Forum di Milano, che Elisabetta Belloni, segretaria generale del ministero Affari esteri e della Cooperazione internazionale, non si sono fatti sfuggire l’opportunità di ribadirlo alla platea dell’auditorium Parco della musica a Roma.

La prima Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo, però non è la prima: pochi giorni prima della conferenza, sul blog info-cooperazione, Nino Sergi della rete di ong Link2007 aveva scritto: «Ritengo che sia un errore chiamarla “la prima conferenza”, come se la storia della cooperazione italiana iniziasse ogni volta da capo». Ed elencava cinque conferenze fra il 1981 e il 1991 che hanno fatto da antecedente sia a quella milanese del 2012 che a quella romana di quest’anno.

Perché insistere su questa continuità? Per dare valore e peso a un bagaglio di esperienze e conoscenze che è andato componendosi, con tutti i suoi successi ed errori, nel corso di almeno quarant’anni. Il passaggio evocato da Riccardi ovviamente non è solo negazione – ciò che la cooperazione ha smesso di essere – ma anche affermazione. E ciò che la cooperazione oggi è, o sta diventando, è il prodotto di fenomeni storici senza precedenti, come la globalizzazione e le sue derive di insostenibilità ed esclusione, e di dinamiche, come le migrazioni, che accompagnano l’umanità da sempre, ma che oggi hanno carattere e dimensioni inedite.

L’eradicazione della povertà, la sostenibilità economica e ambientale, l’eliminazione delle diseguaglianze – dicono con sempre maggior convinzione esponenti di governo e comparti economici – non sono solo imperativi morali bensì impegni non più rimandabili perché, nelle parole del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, «ne va della sicurezza e della tenuta in primo luogo dello stesso continente europeo e dell’Unione europea». Verissimo, rispondono gli operatori della cooperazione nella società civile o nelle istituzioni, noi lo sosteniamo da decenni, ora rispondiamo a queste sfide con strumenti nuovi. Forgiati, però, in quello definito da Riccardi il «grande laboratorio della cooperazione», che «permette di mettere insieme qualcosa che è stato troppo separato: l’interesse a far crescere il paese e la solidarietà».

2012 e 2018: da Milano a Roma

Se è vero che la genesi e il programma di un evento dicono molto dell’evento stesso, si può partire da questi per misurare la distanza fra il 2012 e il 2018.

Il Forum di Milano@ fu fortemente voluto da Riccardi stesso e accolto con un misto di speranza e incertezza dalla società civile – Ong in testa – impegnata da anni nel richiedere con insistenza la finalmente avviata riforma della legge 49/1987 che disciplinava la cooperazione, ma anche non completamente soddisfatta del processo di riforma in corso e contrariata dal taglio dei fondi gestiti dal ministero degli Esteri, taglio che fra il 2008 e il 2012 era stato dell’88%@.

Il Forum fu preceduto da un lavoro preparatorio di riflessione su dieci temi e da diverse polemiche sulla presenza dell’allora presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré, e dell’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni. La riforma della 49/1987 ipotizzava per la prima volta di riconoscere gli enti profit come attori della cooperazione, e le perplessità su quanto fosse opportuno farlo, e in che termini, erano uno dei principali nodi del dibattito. I partecipanti al Forum, inizialmente stimati fra cinquecento e mille, furono alla fine intorno ai duemila. Fra i temi affrontati i giovani e la migrazione erano trasversali ai diversi tavoli, mentre il rapporto cooperazione – settore privato aveva un suo tavolo di lavoro dedicato.

La Conferenza di Roma, invece, è avvenuta dopo l’approvazione della nuova legge sulla cooperazione, la 125/2014, in applicazione dell’articolo 16 comma 3 della legge stessa, che prevede appunto la convocazione ogni tre anni da parte del ministro degli Esteri di una «Conferenza pubblica nazionale per favorire la partecipazione dei cittadini nella definizione delle politiche di cooperazione allo sviluppo». I partecipanti sono stati circa tremila.

Un’attenzione e uno spazio maggiori rispetto a Milano hanno avuto i giovani e, in particolare, i numerosi studenti delle scuole superiori o delle università che hanno partecipato alla Conferenza, i giovani della diaspora, le seconde e terze generazioni. Coinvolgere questi ragazzi nella cooperazione, si legge nel manifesto conclusivo della Conferenza, «farà nascere nella società un ritrovato consenso attorno ai valori della solidarietà, della reciprocità, dei principi umanitari e un nuovo modo di appartenere ad un mondo globale».

Quanto al dibattito sul settore privato, è stato certamente uno dei punti nodali della due giorni romana come lo era stato a Milano, ma con modalità completamente differenti.

Per il cane a sei zampe, a Roma non c’era più l’amministratore delegato dell’azienda a fare da rappresentanza istituzionale, ma Alberto Piatti, vice presidente esecutivo del settore aziendale che si occupa di Impresa responsabile e sostenibile (ed ex presidente della Ong Fondazione Avsi – Associazione Volontari Servizio Internazionale), a raccontare l’impegno già in corso dell’Eni nello sviluppo.

Piatti ha animato la tavola rotonda sul settore privato assieme a Maria Cristina Papetti di Enel, Letizia Moratti di Fondazione E4Impact, Licia Mattioli di Confindustria e Caterina Bortolussi di Kinabuti, una casa di moda basata su principi etici, con sede in Nigeria. E la tavola rotonda sul settore privato è stata la prima a calcare il palco dell’Auditorium.

Se nel 2012 il riconoscimento del settore privato come attore della cooperazione era uno dei punti di una legge che sarebbe stata approvata solo due anni dopo, oggi è un dato assodato.

A confermarlo, oltre allo spazio che la Conferenza gli ha dedicato, è stato anche e soprattutto il bando@  dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) del luglio 2017, il primo rivolto agli enti profit, che ha messo a disposizione 4 milioni e ottocentomila euro suddivisi in tre lotti, per un contributo massimo a progetto fra i 50 mila e i 200 mila euro.

Gli investimenti esteri dell’Ue

Il viceministro degli esteri Mario Giro al convegno Il nuovo piano europeo per gli investimenti esteri svoltosi presso la Farnesina poco prima della Conferenza, ha  riportatocche al bando Aics hanno partecipato venticinque aziende fra start-up e imprese di prima internazionalizzazione intenzionate a investire in Africa.

«L’Africa deve poter produrre», ha affermato Giro, e si è detto convinto che, come l’Asia è entrata nella globalizzazione attraverso la manifattura industriale, l’Africa potrebbe entrarci a pieno titolo con l’agribusiness. Ciò che si sta facendo, ha sintetizzato il viceministro, è provare a indurre lo sviluppo a partire dalla sua unità fondamentale: l’impresa. Per far questo, l’Italia chiede alle proprie aziende di lavorare con le Ong e con le diaspore per usare gli strumenti che la Commissione europea e la cooperazione italiana mettono a disposizione. Tout se tient, tutto si lega, conclude il viceministro citando De Saussure (Ferdinand 1857-1913).

Lo strumento che la Commissione mette a disposizione è appunto il Piano europeo per gli investimenti esteri (Pie). A spiegarne la logica è stato Stefano Manservisi, direttore generale della Cooperazione e sviluppo della Commissione Europea. Il punto di partenza è «l’analisi di una globalizzazione che non è inclusiva e non è sostenibile» e che toglie efficacia ai trasferimenti di risorse, che erano lo strumento principale della cooperazione allo sviluppo. La Commissione, dunque, intende coinvolgere il settore privato in un piano di investimenti che metta insieme il profitto con la necessità di affrontare ed eliminare l’insostenibilità e l’esclusione. In questo modo, sottolinea Manservisi, si fa anche «più Europa nel mondo», perché si estende ai paesi dell’Africa e del Mediterraneo quell’insieme di principi di solidarietà su cui si è costruita l’Europa nel secondo dopoguerra.

Piantagione di tè nel Meru. Il tè è uno dei prodotti pregiati di esportazione dall’Africa e fa gola alle multinazionali. (foto Gigi Anataloni)

I tre pilastri del Pie e gli aspetti da chiarire

Il Pie ha tre pilastri, ha spiegato Roberto Ridolfi, direttore generale nella Commissione europea per la Crescita sostenibile e lo sviluppo ora distaccato alla Fao proprio per fare da raccordo fra le politiche europee e il settore che, a detta di Ridolfi, ha il maggior potenziale di creare posti di lavoro in Africa, cioè l’agribusiness.

Il primo dei tre pilastri del Pie è lo strumento finanziario, cioè 4,1 miliardi di euro messi a disposizione dalla Commissione per le imprese – attraverso le banche di sviluppo dei paesi membri e, in Italia, attraverso la Cassa depositi e prestiti – come garanzia per la riduzione del rischio negli investimenti. Il fatto che la Commissione si accolli una parte del rischio, in sostanza, dovrebbe incoraggiare le imprese europee a investire dove da sole non andrebbero proprio a causa del rischio troppo elevato. Il secondo pilastro è l’assistenza tecnica messa a disposizione di enti, piccole e medie imprese e cooperative locali per formulare progetti sostenibili; il terzo pilastro, infine, è il dialogo con i paesi partner destinatari degli interventi per rimuovere gli impedimenti – di tipo burocratico legislativo, le regole d’origine, eccetera – che ostacolano gli investimenti nel paese.

Sulla base di precedenti esperienze di blending – cioè di interventi che combinano sovvenzioni e prestiti – la Commissione ha quantificato in 44 miliardi entro il 2020 l’ammontare degli investimenti che potrebbero generarsi grazie al Pie, decuplicando così l’investimento iniziale. Se, poi, i paesi membri «rilanciassero», raddoppiando con fondi propri i 4,1 miliardi della Commissione, l’effetto di leva finanziaria raddoppierebbe a sua volta, generando investimenti per un valore di 88 miliardi.

Accanto a speranze e aspettative, il Pie sta suscitando anche alcune perplessità. Una l’ha manifestata il ministro Calenda dal palco dell’Auditorium, sottolineando che per l’accordo sui migranti con la Turchia l’Ue ha speso quasi la stessa cifra che ora si destina a un continente intero.

Inoltre, non è chiaro a quali imprese in Europa, e quindi in Italia, è rivolto il Piano e quanto spazio questo garantisca per promuovere gli investimenti delle piccole e medie imprese (Pmi). Il responsabile di Assoafrica e Mediterraneo di Confindustria, Pier Luigi d’Agata, ha affermato che se il Piano vuole rappresentare un’occasione di investimento per le Pmi italiane sarebbe opportuno che si orientasse a sostenere anche investimenti nell’ordine dei centomila euro, importo più vicino alle possibilità di questo tipo di imprese, e non soltanto interventi da milioni di euro. Il coinvolgimento delle Pmi, ha continuato d’Agata, permetterebbe di valorizzare quello che anche Calenda aveva identificato alla Conferenza come uno dei principali punti di forza del modello imprenditoriale italiano, cioè il settore manifatturiero. Rispetto a questo punto Manservisi ha risposto che non crede che il Pie sarà in grado di garantire progetti da centomila euro, mentre sarà possibile creare un sistema di fondi di garanzia che permetta l’accesso a prestiti anche inferiori a quella cifra «per avviare attività economiche e produttive legate a un sistema disegnato dalle nostre imprese».

Infine, a dimostrazione che le vecchie barriere ideologiche fra Ong e imprese sono state abbattute e che le regole da applicare nel nuovo campo da gioco comune sono in fase di definizione, Giampaolo Silvestri della Fondazione Avsi ha sottolineato che le Ong e la società civile non possono essere relegati al semplice ruolo di cani da guardia, ma devono essere coinvolte in ogni fase del processo anche nel caso della messa in opera del Pie.

Il valore aggiunto che una Ong può dare, ha detto Silvestri, deriva dal suo essere radicata in un contesto, dove ha una trama di relazioni con il territorio e con le autorità locali e conosce i beneficiari. Un «patrimonio di fiducia fondamentale» per una piccola o media impresa che vuole investire in Africa, perché permette di accelerare processi che altrimenti sarebbero molto più lunghi.

Chiara Giovetti


Diretta video

Vedi la diretta della Conferenza Nazionale della Cooperazione allo Sviluppo

Vedi la diretta del Convegno Il nuovo piano europeo per gli investimenti esteri. L’iniziativa imprenditoriale in Africa e nel Mediterraneo

Zucche e viti in un campo sperimentale a Liliaba nel Meru, Kenya. (foto Gigi Anataloni)




I Perdenti 33.

Lebensborn: la fabbrica dei superuomini

Testo di Mario Bandera |


Il progetto Lebensborn (sorgente di vita) fu l’aberrante strumento della politica razziale nazista che aveva lo scopo di favorire la nascita di bambini ariani ed elevare il grado di «purezza» del popolo tedesco: esso fornì alle mamme e ai bambini «razzialmente di valore» l’assistenza necessaria per ottenere individui scientificamente selezionati dal punto di vista razziale.

L’organizzazione Lebensborn è dunque l’altra faccia della medaglia del razzismo nazista: se con il «progetto eutanasia» e con la «soluzione finale» si volevano eliminare le persone «indegne di vivere», nei Lebensborn doveva crescere la perfetta razza ariana: questa era l’idea fissa di Heinrich Himmler, il braccio destro di Hitler. Nei centri Lebensborn – diverse decine in tutto il territorio del Reich – venivano fatti nascere e crescere i figli illegittimi di soldati tedeschi. Ma in quei luoghi venivano anche portati i ragazzi, ritenuti razzialmente «adeguati», strappati alle famiglie delle zone occupate dalle truppe di Hitler per essere germanizzati e poi dati in adozione a famiglie di provata fede nazista. Il 1° gennaio del 1938 il progetto Lebensborn passa sotto la tutela dello Stato Maggiore delle SS, quindi sotto la diretta autorità di Himmler: la sede centrale fu ubicata a Monaco di Baviera, nella cui sede sarà anche conservato l’archivio anagrafico del Lebensborn, così da avere dati sempre precisi, in quanto i bambini allontanati dalle madri diventavano di «proprietà» dell’istituzione.

Di questo progetto criminale parliamo con Ingrid (personaggio di fantasia), donna del popolo norvegese passata attraverso questo calvario.

(CC BY-SA 3.0 Bundesarchiv) 1 gennaio 1943

Com’è potuta accadere una cosa simile?

Dal punto di vista dei nazisti che avevano invaso la Norvegia, il mio paese, noi ragazze eravamo prede ambite per le SS: il nostro «tasso di nordicità e purezza razziale» era ritenuto perfino superiore rispetto a quello di molte zone della Germania. Pensarono perciò che ci fossero condizioni molto favorevoli per far nascere piccoli ariani germanici del Nord.

Come si comportarono con voi le truppe di occupazione tedesche?

Essi cercarono subito di instaurare rapporti cordiali con la popolazione norvegese, specialmente con le ragazze. Già nell’aprile 1940, fra i soldati occupanti fu lanciata un’enorme campagna a favore della procreazione della pura razza ariana. Si aprirono nove cliniche di maternità per bambini i cui padri erano tedeschi e in cinque anni ne nacquero almeno 8mila (di cui 6mila nei centri Lebensborn).

E quale era il destino riservato a quelle creature?

Dopo il parto erano per lo più abbandonati dalle madri (molte volte queste erano costrette a cederli) e dati in adozione a famiglie tedesche. Quelli che rimasero nei Lebensborn divennero invece, alla fine della Seconda guerra mondiale, con la sconfitta della Germania, capri espiatori a cui far pagare i crimini e le angherie dei tedeschi.

Che vuoi dire, spiegati meglio…

Il popolo norvegese vide nei bimbi Lebensborn soltanto caratteristiche ereditarie e li indicò come i figli delle SS, quindi potenzialmente pericolosi e disumani. Molte donne che vissero il mio stesso dramma raccontarono poi storie di trattamenti crudeli subiti senza capire le motivazioni di tanto odio.

Questo dramma non è molto conosciuto in Europa, come mai?

La Norvegia insabbiò il problema per tanti anni, costringendo i figli della guerra a sopportare una serie di ingiustizie e di maltrattamenti. Alcuni di essi furono rinchiusi in orfanotrofi e in istituti psichiatrici. Altri, pur essendo stati affidati alle madri o a parenti, furono ugualmente discriminati in vario modo a scuola o sul posto di lavoro e subirono violenze fisiche e psicologiche di ogni genere, tanto che di recente un gruppo di essi ha citato in giudizio il governo norvegese per la politica discriminatoria da esso attuata nel dopoguerra verso di loro.

Neanche al processo di Norimberga si sollevò la tragedia dei bambini Lebensborn.

È vero, a Norimberga non si tenne un processo distinto per il progetto Lebensborn. Invece il 10 ottobre 1947 si aprì un processo (che durò fino al marzo del 1948) contro il «RuSHA» (Rasse und Siedlungshauptamt –  Ufficio centrale della razza e del popolamento/colonizzazione), ma la stampa vi diede scarso rilievo e il Lebensborn non fu condannato in quanto istituzione. Solo i dirigenti finirono sul banco degli imputati, ma furono condannati a pene detentive abbastanza ridotte, esclusivamente perché appartenevano a un’organizzazione criminale, ovvero le SS, non per le attività che svolsero nel Lebensborn.

Ma dopo la guerra, il «clima» nei confronti di chi aveva in un certo modo collaborato con le truppe d’invasione nazista, mutò radicalmente.

Le guerre hanno effetti contraddittori sui rapporti tra le persone. Da una parte ci sono pregiudizi tradizionali che vengono ribaltati: le donne ad esempio, occupano posti di lavoro lasciati vacanti dagli uomini impegnati al fronte. Dall’altra si inaspriscono le differenze e ci si irrigidisce nei confronti della morale sessuale femminile: dalle donne ci si aspetta che si prendano cura del focolare domestico e che rimangano fedeli ai mariti e ai fidanzati assenti. Il corpo femminile diventa suo malgrado un altro «fronte di guerra», in quanto la sessualità femminile assume un significato prioritario: essa non è più solo una questione di decenza e virtù, ma anche di onore nazionale e di sopravvivenza.

Si può dire che in queste circostanze l’intera visione della sessualità femminile viene stravolta.

La possibilità di essere madre è considerata una risorsa nazionale e dunque le relazioni tra donne del luogo e soldati nemici costituiscono una minaccia per l’intera popolazione e la donna che intrattiene tali relazioni è ritenuta colpevole non solo verso il codice tradizionale di comportamento sessuale, ma anche nei confronti della nazione.

E questo l’avete vissuto in maniera acuta proprio in Norvegia, nella vostra terra, durante l’occupazione nazista.

Dalle relazioni fra donne norvegesi e militari tedeschi vennero al mondo i così detti «figli della guerra» i quali furono immediatamente stigmatizzati due volte: non solo in quanto «bastardi», ma anche e soprattutto perché «bastardi tedeschi». La dubbia reputazione delle madri si proiettò sui figli e in maniera aberrante sulle figlie, considerate fin dall’adolescenza «disponibili», tanto che a volte esse stesse finirono per essere vittime di abusi sessuali.

Purtroppo, le cose non andarono in maniera molto diversa nel resto dell’Europa.

Se le stime dei bambini nati nelle cliniche Lebensborn si aggirano intorno ai 10mila, molti di più furono i «figli della guerra», ossia i figli illegittimi di padri tedeschi e madri autoctone, tanto che – ad esempio – per la Francia si ipotizzano oltre centomila bambini figli di tedeschi, in Danimarca oltre 5.500, in Norvegia oltre 10mila, in Olanda almeno 8mila.

Finita la guerra, tramontata l’ideologia del Lebensborn, rimase solo l’onta subita dai più deboli, a cui seguirono la negazione e la rimozione del loro dramma in tutta Europa. I bambini nati da relazioni con soldati tedeschi furono dunque circondati da silenzio, imbarazzo, vergogna, senso di colpa e condanna sociale. Considerati «gli orfani del disonore», spesso subirono abusi, rifiuti, abbandono. Molti di loro ignorarono la propria origine e così furono per sempre privati della loro vera identità.

Tutti d’altronde avevano interesse a stendere un velo di omertà: le autorità dei vari paesi per escludere ogni forma di relazione con i nemici di un tempo, proteggere i bambini da vessazioni, nascondere una vergogna nazionale e così difendere la stabilità delle famiglie che cominciavano a riunirsi. Ma anche le madri stesse che avevano bisogno di tenere nascosta la vera «disonorevole» origine dei propri figli di fronte alla società. Solo nel 1985 il ministero della Giustizia tedesco ha affermato i diritti dei bambini che vogliono conoscere i genitori biologici e ha aperto l’accesso ai documenti rimasti negli archivi statali.

Ultimamente i bambini di Lebensborn (ormai persone di una certa età) hanno trovato la forza di parlare e di rivelare le loro origini e hanno fondato un’associazione con lo scopo di fare emergere la verità storica e tutelarli di fronte alla legge. Nell’ottobre 2001, oltre 150 «figli della guerra» hanno intentato una causa contro lo stato norvegese per discriminazione, tortura, trattamento inumano e degradante. Benché la loro istanza sia stata respinta, hanno comunque ottenuto che lo stato finanzi un progetto di ricerca per fare luce, dopo decenni di silenzio, sui traumi vissuti dai «bambini tedeschi». Hanno fatto anche ricorso contro il governo norvegese alla Corte europea per i diritti dell’uomo per violazione dei diritti dei bambini.

Don Mario Bandera

 




Imprese Unite d’Europa

Testo di Francesco Gesualdi |


La storia dell’integrazione economica europea inizia nel 1948 con la nascita del Benelux. Dopo vari passaggi, nel 1993 nasce l’Unione europea (Ue), il cui organismo principe è la Commissione. È questa che propone le leggi, gestisce le politiche e assegna i finanziamenti. È su di essa che le lobby lavorano.

La strategia utilizzata dalle imprese statunitensi per penetrare i mercati altrui in tempo di protezionismo fu – lo abbiamo visto nella precedente puntata – l’«invasione» dall’interno. Quelle europee, invece, preferirono seguire vie più istituzionali. La prima iniziativa in tal senso venne assunta, nel secondo dopoguerra, da parte di Belgio, Olanda e Lussemburgo, tre stati che, a causa delle loro piccole dimensioni, avvertivano più di altri il limite di mercati ristretti.

Avrebbero potuto seguire la strada dell’area di libero scambio, la forma più blanda di alleanza economica che si limita ad abbattere le barriere doganali e regolamentari per facilitare gli scambi fra stati. Invece optarono per l’unione doganale, una formula che oltre a impegnare gli stati aderenti ad abbattere gli ostacoli fra loro, li impegnava ad adottare le medesime tariffe doganali verso il resto del mondo.

L’unione doganale fra i tre stati europei divenne operativa nel 1948 ed assunse il nome di Benelux. Ma contemporaneamente si erano messi in moto altri processi che di lì a poco avrebbero reso quell’accordo obsoleto. La Francia che, al pari della Germania, disponeva di una forte industria del carbone e dell’acciaio, propose a quest’ultima un’alleanza specifica per questi prodotti, giustificata, più che da ragioni economiche, da quelle politiche.

Le proposte di Robert Schuman e Altiero Spinelli

La proposta venne ufficializzata il 9 maggio 1950 da Robert Schuman, ministro degli esteri francese, con un discorso che rimase famoso: «L’insieme delle nazioni europee esige che l’opposizione secolare fra Francia e Germania sia superata […]. Il governo francese propone di mettere la produzione franco-tedesca di carbone e acciaio sotto il controllo di un’Alta autorità comune, nell’ambito di un’organizzazione aperta alla partecipazione di altri paesi europei. Nell’immediato la gestione condivisa del carbone e dell’acciaio assicurerà le basi per uno sviluppo comune, prima tappa della Federazione europea che cambierà il futuro delle nostre regioni per troppo tempo votate alla produzione di armi di cui sono rimaste vittime. La solidarietà produttiva renderà non solo impensabile, ma materialmente impossibile che Francia e Germania tornino a farsi la guerra».

La proposta di Schuman si concretizzò il 18 aprile 1951 con la firma di un accordo denominato Ceca («Comunità economica del carbone e dell’acciaio») a cui aderirono non solo Francia e Germania, ma anche l’Italia e i tre paesi del Benelux. Intanto, Altiero Spinelli, un antifascista perseguitato da Mussolini, aveva messo a punto una proposta di integrazione europea che non si limitasse ai soli temi economici. Ma la proposta di costituire una federazione europea unita anche da un punto di vista politico e militare incontrò ampie resistenze e l’unica alleanza che venne perseguita fu quella economica.

Nel giugno 1955 nel corso di una riunione tenuta a Messina da parte dei sei paesi aderenti alla Ceca, Henri Spaak, ministro degli esteri belga, propose un rapporto di collaborazione non più limitato al carbone e all’acciaio, ma esteso a ogni altra attività produttiva e commerciale. Il suo progetto, tuttavia, non prevedeva un puro e semplice allargamento dell’unione doganale già formata fra Belgio, Olanda e Lussemburgo. La sua idea era di costituire un mercato comune europeo che, se per certi versi era una formula sovrapponibile all’unione doganale, per altri la superava perché avrebbe esteso la libera circolazione anche a capitali e persone. La proposta di Spaak incontrò il favore degli altri partner che vollero addirittura fondare una «Comunità economica europea» (Cee). Un’alleanza che si distingueva dal mercato comune perché, oltre ad istituire un’area di libera circolazione di merci, capitali e persone nella quale applicare una medesima politica doganale e commerciale nei confronti degli stati terzi, prevedeva anche l’impegno ad armonizzare le scelte dei 6 paesi in ambito agricolo, energetico, dei trasporti, della concorrenza.

Il Trattato di Roma (1957)

Il trattato che istituiva la Comunità economica europea passò alla storia come il Trattato di Roma, perché venne firmato in quella città il 25 marzo 1957. Un caposaldo dell’accordo era la gradualità del processo, e il tempo concesso per realizzare il mercato comune venne fissato in dodici anni. In realtà l’integrazione procedette a più velocità. Mentre il percorso che portò all’abolizione delle barriere doganali tra gli stati membri e a istituire una tariffa esterna comune si concluse addirittura con 18 mesi di anticipo, il processo di libera circolazione dei capitali e delle persone si completò invece nel 1993, anno in cui venne ufficialmente annunciata l’unificazione (economica) europea. Il 1993 fu un anno di svolta anche per l’entrata in vigore di un nuovo trattato, quello di Maastricht, che sanciva la nascita della moneta comune, di cui, però, ci occuperemo in altre puntate di questa rubrica.

Come vedremo, dal 1957 a oggi il Trattato di Roma è stato modificato a più riprese, ma l’impalcatura organizzativa dell’integrazione europea è rimasta pressoché immodificata. Purtroppo non ispirata a principi di democrazia parlamentare, come mostra il fatto che il Parlamento europeo verrà eletto a suffragio universale solo a partire dal 1979.

Nel condominio Europa

In effetti in Europa l’assetto organizzativo è più simile a un condominio che a uno stato. E come nei condomini le decisioni sono prese dai capifamiglia d’accordo con l’amministratore, allo stesso modo in Europa le decisioni sono prese dai governi (i capifamiglia) assieme alla Commissione europea (l’amministratore). Negli ultimi tempi sono state introdotte varie novità che danno più potere al Parlamento europeo. Ma nonostante le riforme, l’organo che continua a svolgere una funzione strategica è la Commissione europea, formata da 28 membri (uno per ogni paese dell’Unione), 27 commissari e un presidente. Quest’ultimo viene eletto dal Consiglio europeo, che è composto dai capi di stato o di governo dei paesi membri. La funzione della Commissione è del tutto paragonabile all’amministratore di condominio. Apparentemente l’amministratore svolge solo una funzione di supporto tecnico. Di fatto è il vero gestore degli affari condominiali perché suggerisce le decisioni da prendere e le trasforma in ordinanze. Analogamente, la Commissione mette a punto le «proposte» che il Consiglio dell’Unione europea (composto dai ministri di ciascun paese competenti per la materia in discussione) e il Parlamento europeo dovranno discutere. Una volta approvate, le trasforma in provvedimenti legislativi, di cui i «regolamenti» sono l’espressione massima in quanto vincolanti per tutti.

La Commissione europea

Proprio per questa sua funzione, al tempo stesso di proponente e gestore delle decisioni assunte, la Commissione europea è l’organismo che esercita più potere in Europa. Un potere che, senza troppi sotterfugi, condivide con le imprese in nome di un principio per certi versi lodevole: la Commissione ammette di non avere competenza su tutto, perciò ogni volta che deve affrontare un tema, istituisce una commissione consultiva denominata «Gruppo di esperti». Ad esempio, nel 2013 ha convocato 38 Gruppi di esperti sulle tematiche più disparate, dagli Ogm alle regole bancarie, dal doping sportivo, agli additivi alimentari. Talvolta piccole commissioni formate da non più di 10 persone. Talvolta gruppi affollatissimi, addirittura con 80 membri. Tuttavia, la domanda importante non è quanti sono, ma chi sono i componenti dei gruppi. Perché i loro pareri diventeranno proposte che, con buona probabilità, saranno trasformate in regolamenti validi per tutta l’Ue.

Un esercito di 25mila lobbisti

Le indagini condotte attraverso gli anni dall’organizzazione Ceo (Corporate Europe Observatory: corporateeurope.org) hanno sempre messo in evidenza una predilezione per i rappresentanti d’impresa. E il rapporto pubblicato il 9 aprile 2014 sui Gruppi di esperti istituiti per tematiche finanziarie, ne è un’ulteriore conferma. Il 70% dei loro componenti sono rappresentanti di banche, fondi di investimento, istituti assicurativi.

Si stima che a Bruxelles lavorino più di 25mila lobbisti per una spesa complessiva di un miliardo e mezzo di euro: rappresentanti di imprese e associazioni del mondo degli affari, con l’unico scopo di intrufolarsi negli uffici della Commissione europea ed ottenere decisioni favorevoli agli interessi della propria categoria. Il settore finanziario da solo tiene a libro paga 1.700 lobbisti. Gente pagata fra i 70 e i 100mila euro all’anno per una spesa complessiva di circa 123 milioni di euro.

Con tanta potenza di fuoco, la finanza si sta infiltrando anche nel Parlamento europeo. Centinaia di esponenti di istituzioni bancarie e finanziarie – fra cui JP Morgan, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Unicredit – hanno libero accesso al Parlamento europeo e quando sono in discussione provvedimenti di loro interesse, si danno da fare in tutti i modi possibili per convincere i parlamentari ad assumere posizioni a loro gradite. E i risultati si vedono. Ceo cita il caso di un provvedimento di regolamentazione finanziaria su cui vennero presentati 1.700 emendamenti, 900 dei quali scritti di sana pianta dai lobbisti della finanza.

Francesco Gesualdi


Politica e affari

Le porte girevoli

Per molti politici europei, chiusa la storia politica, inizia quella degli affari. Un fenomeno per nulla etico.

(© European Union 2013 – European Paliament)

Goldman Sachs da una parte, José Manuel Barroso (foto) dall’altra. La prima è una delle più grandi banche d’investimento del mondo, una banca cioè che non fa attività ordinaria di deposito e prestiti, ma finanza d’azzardo a vantaggio dei propri azionisti e clienti. Il secondo è un politico portoghese, presidente della Commissione europea dal 2004 al 2014. Nel luglio 2016 i loro destini si incrociano: Barroso diventa presidente non esecutivo e consigliere di Goldman Sachs. «La sua esperienza e capacità di giudizio saranno di grande aiuto per noi e i nostri azionisti», afferma Goldman Sachs a giustificazione della sua scelta. E c’è da starne certi: per i ruoli che ha ricoperto, Barroso saprà ben consigliare come arrivare a chi conta nell’Unione europea e come sfruttare le lacune della legislazione europea a tutto vantaggio della banca.

Quello di Barroso è un caso classico di porta girevole, di passaggio, cioè, dalla politica al mondo degli affari con chiare funzioni di lobby. Un fenomeno abbastanza diffuso che permette alle imprese di infiltrarsi sempre di più nelle istituzioni politiche e indirizzarne le scelte. Fra i casi più clamorosi: Gerhard Schröder che diventa presidente dell’azienda russa Gazprom dopo avere dismesso il ruolo di capo del governo in Germania e Viviane Reding che assume incarichi nella Fondazione Bertelsmann e Agfa-Gevaert dopo aver lasciato il posto di Commissaria alla giustizia della Commissione europea.

Fra.G.

 




Allamano:

Beata Leonella Sgorbati,

Morire per dono

Beato Giuseppe Allamano, dalla Chiesa al mondo | Testi di Giacomo Mazzotti, Francesco Pavese e Mario Bianchi |


Beata Leonella Sgorbati: Morire per dono

Missionarie e missionari della Consolata, ancora una volta stiamo vivendo giorni intensi di attesa e di grazia: la nostra suor Leonella Sgorbati sarà, infatti, proclamata Beata il prossimo 26 maggio, a Piacenza, come martire per la fede. Colpita a morte a Mogadiscio (Somalia – 17/09/2006) mentre prestava il suo servizio di carità tra i fratelli dell’islam, riusciva ancora a sussurrare, con l’ultimo soffio della vita: «Perdono, perdono, perdono». Una vita donata, una morte come quella di Gesù.

Le missionarie della Consolata fanno, dunque, il bis, con due sorelle entrate a pieno titolo nel calendario dei santi. E, a pennello, ritornano in mente le parole di papa Francesco ai partecipanti al Capitolo generale, il 5 giugno scorso: «La storia dei vostri Istituti, fatta – come in ogni famiglia – di gioie e di dolori, di luci e di ombre, è stata segnata e resa feconda anche in questi ultimi anni dalla Croce di Cristo. Come non ricordare i vostri confratelli e le vostre consorelle che hanno amato il Vangelo della carità più di sé stessi e hanno coronato il servizio missionario col sacrificio della vita? La loro scelta evangelica senza riserve illumini il vostro impegno missionario e sia d’incoraggiamento per tutti e tutte a proseguire con rinnovata generosità nella vostra peculiare missione nella Chiesa».

Funerale di sr Leonella Sgorbati (21 settembre 2006). Mons. Giorgio Bertin accoglie la bara nel Consolata Shrine di Nairobi.

Come non vivere, allora, questi giorni di «avvento» con l’emozione e la gioia del nostro Beato Allamano che, dopo suor Irene, vede un’altra missionaria salire «all’onore degli altari»? Si realizza infatti, uno dei sogni che il nostro fondatore, ancora vivente, portava nel cuore: «Tre cose desidero prima di morire: vedere il mio zio don Cafasso beatificato; vedere un sacerdote indigeno delle missioni e sapere che un missionario o missionaria è morto martire».

Assieme all’Allamano, che già in Paradiso avrà accolto con gioia di padre questa sua figlia martire, anche noi vogliamo ringraziare il Signore per il dono grande e prezioso, fatto alla nostra famiglia missionaria, di suor Leonella «che ha saputo ascoltare lo Spirito, cogliere il “dono pasquale” che le veniva offerto e viverlo con intensità e passione, personalmente e comunitariamente fino alla fine, per l’avvento del Regno di Dio, Regno di pace, giustizia e fraternità». La sua beatificazione diventa l’occasione per riscoprire la bellezza e la radicalità della nostra vocazione, che ci spinge a essere missionari con energia, zelo, gioia e coraggio, secondo l’insegnamento del Fondatore: senza sconti e con sconfinata generosità. Proprio come la nostra sorella Leonella, esempio luminoso per tutti noi, suoi fratelli e sorelle, figli e figlie di Giuseppe Allamano che speriamo di vedere presto nella gloria dei santi.

Giacomo Mazzotti

 



Scherzi della provvidenza

La vocazione missionaria dell’Allamano, come si sviluppò, sembra oggetto di qualche benevolo scherzo della Provvidenza. Per convincere i giovani che il suo ardore missionario non era qualcosa di improvvisato, ma era fortemente collegato con la sua vocazione di sacerdote, fece questa confidenza: «Ero chierico e già pensavo alle missioni». Non solo ci pensava, ma aveva già programmato come realizzare il suo sogno. Sarebbe andato al Collegio Missionario Brignole Sale di Genova che, dopo un’opportuna preparazione, lo avrebbe messo a disposizione di Propaganda Fide per essere inviato alle missioni. Sembrava che non ci fossero ostacoli. Anche la mamma, già ammalata, era dalla sua parte, rassicurandolo di non preoccuparsi di lei. Un ostacolo, però, e addirittura insormontabile, venne dal seminario stesso. I superiori, che lo conoscevano bene, lo convinsero che la sua fragile salute sarebbe stata un sicuro impedimento per una seria vita missionaria. Non sarebbe riuscito. Accettò, come era suo solito, il consiglio dei superiori, ma in cuor suo sentiva che il fuoco missionario era rimasto intatto. Si trattava solo di non lasciarlo spegnere. Il futuro, poi, non lo preoccupava, perché era nelle mani della Provvidenza.

La sua interpretazione

In concreto, l’Allamano intuì che il Signore non lo voleva missionario da solo, ma Padre di missionari, con tanti figli e figlie. Se accese quel fuoco nel suo cuore fin da giovane era perché lo coltivasse e, a suo tempo, lo trasmettesse a tanti altri giovani. Da lui stesso sappiamo come seppe interpretare e realizzare la propria vocazione missionaria. Più di una volta ritornò su questo argomento. Accennando alla fondazione dell’Istituto e al suo sogno giovanile non realizzato, disse semplicemente: «Il Signore nei suoi imperscrutabili disegni aspettò il giorno e l’ora. Io ho sempre raccomandato al grande missionario martire S. Fedele da Sigmaringa la mia vocazione, che era di partire, ma egli me l’ottenne in altro modo questa grazia. Vedete, non potendo essere io missionario, voglio che non siano impedite quelle anime che desiderano seguire tale via».

Riflettendo su questo cammino interiore dell’Allamano, si ha l’impressione che la Provvidenza abbia quasi scherzato con lui, prospettandogli un grande ideale, quello della missione, per poi inserirlo in un altro progetto più grande ancora, quello di diventare Fondatore di due istituti e Padre di missionari e missionarie. Così la sua vocazione si moltiplicò più di mille volte.

Lo scherzo continua

Ormai Rettore del Santuario della Consolata e del Convitto dei sacerdoti, l’Allamano maturò il progetto di un istituto missionario. In questo fu anche assecondato da alcuni di quei convittori che intendevano dedicare la loro vita sacerdotale alle missioni e si erano resi conto che l’Allamano stava progettando qualcosa di interessante. L’allora arcivescovo di Torino, il Card. Giacomo Alimonda, al quale l’Allamano prospettò il progetto, per diversi motivi, non si mostrò favorevole. L’Allamano, che preferiva seguire la volontà di Dio manifestatagli dall’obbedienza, accettò, senza scomporsi, di accantonare l’idea. La sospese, senza sapere per quanto tempo, ma non l’abbandonò. Purtroppo la sosta durò dieci anni. In seguito, quando il progetto stava prendendo forma concreta, assicurava al Card. Prefetto di Propaganda Fide di aver continuato a «coltivare nello spirito della loro vocazione quei sacerdoti che volevano dedicarsi alle missioni».

La Provvidenza volle che fosse nominato arcivescovo di Torino il Card. Agostino Richelmy, compagno di seminario e amico dell’Allamano. Spirito apostolico aperto, questo Pastore della Chiesa torinese comprese che il progetto dell’Allamano era valido e fattibile. Anzi, poteva diventare motivo di orgoglio per la diocesi. Fu subito d’accordo.

Ma ecco, il nuovo scherzo della Provvidenza. Quando tutto sembrava sul punto di partire, l’Allamano si ammalò improvvisamente di broncopolmonite doppia, tanto grave da portarlo sull’orlo della tomba. Aveva solo 49 anni.

Ricordando quella malattia, l’Allamano raccontava: «Il Cardinale veniva a trovarmi quasi tutte le sere, e siccome avevamo già parlato di questa istituzione, gli dissi: “Sicché all’Istituto ormai penserà un altro”, e lo dicevo contento, forse per pigrizia di non sobbarcarmi tale peso. Egli però mi rispose: “No, guarirai, e lo farai tu”. E sono guarito e fu decisa la fondazione». Era il 29 gennaio 1900.

Durante la convalescenza nella villa che un sacerdote gli aveva lasciato a Rivoli, in vista della fondazione scrisse una lunga lettera al Cardinale. La tenne sull’altare durante la Messa e poi la spedì. Di ritorno a Torino, si recò dall’arcivescovo che, al vederlo, «Eh – gli disse -, nella tua lettera hai messo più contro che in favore della fondazione. Tuttavia devi farla tu, perché Dio lo vuole». «Ebbene, Eminenza, nel tuo nome getterò le reti». S. Pietro aveva detto queste parole a Gesù, dopo una notte infruttuosa sul lago, e così fece una pesca miracolosa. L’Allamano ripeté le stesse parole, ben sapendo a quale precedente si ricollegava, e così iniziò l’Istituto dei missionari della Consolata.

Un curioso particolare

Il primo biografo dell’Allamano, così concluse la descrizione del fatto: «Il mattino seguente, mentre il giornale cattolico dava il laconico annunzio dell’imminente catastrofe, sì che alcuni sacerdoti celebrarono la Messa in suffragio dell’anima dell’amato rettore, questi invece era fuori pericolo. Non si può fare a meno di riconoscere una grazia speciale della Consolata». E continuava: «Raccontandoci il particolare delle Messe celebrate in suo suffragio, l’Allamano aggiungeva sorridendo di averli già ricompensati tutti quei sacerdoti, celebrando la Messa in suffragio delle loro anime, quando sono deceduti».

L’esatta realtà

È certo che l’Allamano non interpretò la sosta di dieci anni imposta dal poco interesse dell’arcivescovo al suo progetto missionario, né la malattia improvvisa come scherzi della Provvidenza. A noi, sì, oggi paiono quasi scherzi per provare la sua tenacia. Per lui, invece, che sapeva giudicare ogni evento sul piano della fede, erano espressioni di come Dio voleva che procedesse la fondazione del nuovo Istituto missionario. «Voglio che lo sappiate – chiarì un giorno durante una conferenza ai missionari -, è per colpa vostra che sono guarito e sono qui. Dovevo già essere in Paradiso. Avevo l’età del Cafasso, senza averne i meriti… ma il Signore non ha voluto. Ero proprio già spedito, ma il Signore mi ha conservato per voi».

Padre Francesco Pavese

 



Il nostro ideale di missionari della Consolata

Si era concluso da poco l’importante Capitolo Generale Speciale del 1969. Padre Mario Bianchi, Superiore Generale, avviò la visita a tutte le comunità d’Europa per studiarne la situazione e prospettare loro cammini di vita e di lavoro in consonanza con le linee conciliari e capitolari. La lettera da cui sono tratte le seguenti riflessioni porta la data del 9 novembre 1971.

I valori che formano il «religioso» e il «missionario» sono parte viva ed essenziale dell’Istituto e della nostra vocazione di «Missionari della Consolata». Tuttavia, ritengo opportuno invitare tutti a sviluppare in sé un più forte amore per la nostra Famiglia e un impegno reale e serio per formarsi al suo spirito.

Noi sappiamo quanto il Fondatore insistesse su questo: è una nota che traspare da tutto il suo insegnamento. Basti qualche richiamo: «L’Istituto non è un collegio od un seminario in cui possano avere il loro svolgimento varie vocazioni; ma solamente quella di missionario, e questi della Consolata». «Dall’amore alla propria vocazione scaturisce spontaneo ed ugualmente forte l’amore al proprio Istituto. Stimarlo e amarlo più d’ogni altro; sentirsi santamente orgogliosi di appartenervi, di essere non solo missionari, ma Missionari della Consolata». «La forma che dovete prendere nell’Istituto è quella che il Signore mi ispirò e mi ispira».

Secondo il Fondatore, vi è amore per l’Istituto quando c’è impegno a formarsi al suo spirito: «Dovete avere lo spirito dei Missionari della Consolata nei pensieri, nelle parole e nelle opere», diceva.

Il Capitolo, con sobrietà ha delineato il carisma del Fondatore e quello dell’Istituto: carisma missionario ecclesiale, carisma religioso in funzione della Missione, nonché le caratteristiche della nostra spiritualità, sintetizzate nella caratteristica eucaristica e in quella mariana. Si tratta di «uno stile di vita spirituale, robusta e lineare, ardente, aperta, straordinaria nell’ordinario».

Vorrei, ora, richiamare a tutti i confratelli alcune espressioni del nostro stile di Missionari della Consolata, secondo le attuali situazioni ed esigenze.

– La caratteristica eucaristica del Fondatore dà importanza alla preghiera di adorazione, privata o comunitaria, dell’Eucarestia: è un tratto, una finezza che merita di essere continuata, forse riscoperta da molti di noi.

– La caratteristica mariana, oltre la speciale devozione alla Santissima Vergine Consolata, nelle raccomandazioni del Fondatore e, secondo la sana tradizione dell’Istituto, confermata dal Capitolo, comporta l’amore e la recita quotidiana del S. Rosario.

– Il senso di dignità, educazione e decoro era amato dal Fondatore nella liturgia, nella chiesa, nella persona e nel comportamento. Su questo punto, il suo insegnamento era preciso ed esigente.

– Infine, desidero ricordare un tratto della personalità del Fondatore che egli ha desiderato trasmettere ai suoi figli. Egli fu uomo di azione, e questo appare anche dal suo insegnamento incentrato sempre sulla realtà, l’esperienza, l’autorità e l’esempio dei Santi.

Appartenne al gruppo di santi e zelanti sacerdoti torinesi che, alla fine del secolo scorso, contestarono la poco felice situazione religiosa e politica del tempo, non con discorsi ma con iniziative e opere di valore, di visione per il futuro della Chiesa e della società (così Don Bosco, Cottolengo, Cafasso, Murialdo, Albert, Faà di Bruno; così il nostro Fondatore).

Volle che i suoi missionari fossero decisi e costanti nell’azione, ma non amò il chiasso, la loquacità (la pubblicità, diciamo oggi, il sensazionale). Non è questa una contestazione valida e necessaria per l’Istituto anche oggi?

Termino con una frase del Fondatore che desidero applicare ai nostri morti del 1971: «Se un giorno lo spirito dell’Istituto avesse a venir meno, spero di farmi sentire dal Paradiso» (VS, p. 79).

Prendiamo questa affermazione, incoraggiante e nello stesso tempo grave, del Padre Fondatore come un invito alla vigilanza e all’impegno; ma, poiché parla di Paradiso, ritengo bene applicarla ai nostri Confratelli che ci hanno lasciato. Con dolore li abbiamo visti partire per l’eternità; con l’affetto e la preghiera, restiamo in comunione con loro che Dio ha chiamato, quasi in fretta, a ricevere il premio della loro fedeltà; il loro esempio ci sia d’ispirazione e incoraggiamento per perseverare nella vocazione e nella dedizione per la Missione.

Se da parte di tutti vi sarà l’impegno a riscoprire e realizzare questi valori, in cui si esprimono gli ideali della nostra vocazione, l’Istituto conoscerà un periodo di autentico rinnovamento. La vita delle nostre comunità creerà quella comunione di amicizia, di preghiera e di collaborazione fra i membri, che renderà possibile ai giovani e ai meno giovani o anziani comprendersi e completarsi nelle idee e nel lavoro.

Allora, la nostra Famiglia avrà la condizione e lo spazio spirituali perché possa aversi l’entusiasmo di cui essa ha oggi bisogno: l’entusiasmo dei giovani e l’entusiasmo per i giovani.

Mario Bianchi, Imc
(Superiore Generale /9/11/1971)